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Le radici di una disputa: ancora su antropocene e/o capitalocene
di Giuliano Spagnul
Antropocene o capitalocene è apparentemente una domanda che ricalca vecchie e classiche dispute sull’apoliticità o meno di determinate branche del sapere umano. È la scienza neutrale a qualsivoglia ideologia?[1] Appunto, vecchie dispute. Oggi sappiamo[2] che sapere e potere sono indissolubilmente legati. E allora sostituendo il termine antropocene con capitalocene possiamo, probabilmente, evitare lo spettro di un qualsivoglia risorgente ‘neutralismo’. Ma se capitalocene esprime, senza equivoci di sorta, una ben definita visione politica riguardo le motivazioni che certificano il passaggio da un’era geologica ad un’altra, per contro questa stessa visione ha il difetto di oscurare tutta una serie di punti di vista altrettanto politici ma di differente prospettiva.
Ecco così che, in questo contesto, abbiamo Isabelle Stengers come Donna Haraway, per fare qualche esempio, che si sottraggono sia “alla normativa dell’Antropocene che vede in Homo Sapiens (nozione su cui, peraltro, si iscrivono stratificazioni di genere e razziali)[3] la causa e, simultaneamente, il rimedio alla catastrofe ecologica” sia “all’idea sostenuta tra gli altri da Toni Negri, che la crisi climatica è questione subordinata alle politiche industriali, e affrontabile solo sulla base della critica ad esse”[4].
È così che chi si oppone alla logica che vuole l’odierna crisi come l’inevitabile prezzo da pagare per accedere a un superiore stadio dell’evoluzione umana, quell’inevitabile progresso di una natura umana costituitasi al di fuori del dato di natura, si ritrova in due differenti, e forse opposte, prospettive; radicalmente antagoniste entrambe al pensiero globalmente dominante ma da due punti affatto diversi.
L’abbattimento del sistema capitalistico e la costruzione di un nuovo soggetto rivoluzionario da una parte; l’urgenza del chiedersi ora ‘come vivere altrimenti’ e la conseguente produzione di una soggettività differente dall’altra.
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Emanuele Leonardi, “Lavoro, natura, valore”
di Alessandro Visalli
Questo libro di Emanuele Leonardi[1], il cui sottotitolo è “Andrè Gorz tra marxismo e decrescita”, individua dei temi sui quali è necessario prendere posizione per collocare correttamente il discorso ambientale. Nella sua intenzione compie il difficilissimo tentativo di mettere in comunicazione l’area culturale, frastagliata e non omogenea ma certamente anti-marxista, della “decrescita”[2] con gli esiti dell’evoluzione dell’operaismo[3], con riferimento alla versione trontiana. Lo snodo è il progressismo, esplicito o implicito, e quindi l’atteggiamento verso lo sviluppo tecnologico e la società industriale. Ciò che rende pensabile il ponte, malgrado la grande distanza delle rive, è la valorizzazione, nel post-marxismo del recente operaismo, del ‘cognitivismo’, dei ‘commons’, nella migrazione progressiva dal concetto originario di “operaio massa”[4], a quello di “operaio sociale”[5], ed infine, nella versione negriana di “moltitudine”.
Leggere un libro, l’autore mi perdonerà, significa sempre ri-collocarlo entro il proprio universo di discorso, e dunque io lo collocherò esattamente al punto in cui termina, prematuramente, l’ultimo post sul fenomeno mediatico e sociale di Greta Thunberg[6]. E, magari, al punto di intersezione con questo post di Andrea Zhok, con il quale sono in accordo. Bisogna prendere le distanze “dall’ecobuonismo” liberale, in ogni e qualsiasi travestimento (di cui alcune versioni della “decrescita”, interpreti dello spirito borghese, sono espressione) ed inquadrare il superamento della crisi ambientale come parte, importante, dello sforzo di mettere in questione radicalmente quella che Leonardi chiama “logica del valore”, ovvero lo “spirito del capitalismo”. Nel post “Greta Thunberg”, lo squilibrio essenziale che ha consentito agli spiriti animali del capitalismo, in primo luogo incarnati nelle grandi imprese monopoliste finanziarie e non, di superare la crisi di accumulazione degli anni settanta, prolungandola e facendola pagare alle classi lavoratrici di tutto il mondo, è stato descritto, seguendone l’esteriorità, come sfruttamento di ‘periferie interconnesse’[7] nel sistema mondo.
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Il comunismo è la sola possibilità di salvare il pianeta Terra
di Istituto Onorato Damen
Le vaste e significative manifestazioni studentesche che si sono tenute in oltre 120 Paesi contro i cambiamenti climatici spingono all’apertura di una riflessione e di un confronto che consentano di riannodare:
- l’approfondimento della critica alla distruzione ambientale connaturata al modo di produzione capitalistico;
- una critica delle ideologie ecologiste e ambientaliste, che non colgono il nesso di determinazione che vige tra capitalismo e devastazione del pianeta, e che sono inoltre agite come strumenti delle battaglie interimperialistiche e del Capitale contro il proletariato;
- la comprensione delle motivazioni che mettono in movimento migliaia di giovani, compositi dal punto di vista di classe, con grandi confusioni e con ideologie certo tutte borghesi; motivazioni che però in qualche misura rappresentano ed esprimono disagi profondi del giovane proletariato internazionale che bisogna saper collocare, con cui bisogna saper entrare in collegamento, rendendo possibile la produzione di una coscienza critica che sappia connettere, in minoranze più avanzate, la critica del capitalismo a quella dei suoi effetti disastrosi sull’ambiente;
- la lotta contro le micidiali illusioni nella democrazia borghese, nelle sue istituzioni di ogni livello, negli accordi tra briganti imperialisti su clima e ambiente;
- il rilancio della prospettiva del comunismo, una società finalmente umana che metta fine al dominio e allo sfruttamento, che riconcili umanità e natura, grazie a una prassi sociali trasparente, non mistificata, non finalizzata al profitto, ma che abbia come obiettivo e come caratteristica il muoversi in direzione degli interessi e del ben-essere degli uomini, in armonica relazione con il contesto ambientale.
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Dall’ecobuonismo all’ecosocialismo
di Andrea Zhok
I) Premessa
Recentemente, in coda alle presentazioni del Manifesto per la Sovranità Costituzionale a Milano e Roma, mi ha sorpreso notare come le note più critiche a quel documento si siano appuntate su qualcosa che non credevo controverso, ovvero il rilievo dato alla questione ecologica.
Alcuni hanno obiettato che parlare di riscaldamento globale e di come sarà il mondo tra cent’anni è qualcosa di astratto e lontano, che non tocca le tasche di nessuno; altri che attorno a tale tema interclassista non si può mobilitare alcun ceto preferenziale, alcuna ‘identità di classe’; altri ancora, che si tratterebbe di un modo con cui le élite distraggono l’opinione pubblica da temi di maggiore urgenza.
Questa reazione di diffidenza, di sospetto, a prescindere dalla sostenibilità delle specifiche obiezioni, mi pare degna di approfondimento.
II) Il dilemma ecobuonista
Negli ultimi anni, la tematica ecologista è stata integrata con successo all’interno di una visione liberale, che l’ha resa un tema di conversazione alto borghese, garbato quanto innocuo. Il tema infatti si presta a grandi campagne sentimentali, capaci di estrudere occasionali lacrime per le sorti di un orso polare o un panda gigante, salvo poi rientrare prontamente nella sezione ‘tonici e digestivi’: dove, insieme a qualche episodio di cronaca, conferisce quel pizzico di preoccupazione postprandiale che aiuta la digestione.
I temi ecologici, addomesticati dalla ragione liberale, sfociano così in due prospettive generali.
La prima consta di appelli all’iniziativa personale e al senso di responsabilità delle ‘persone di buona volontà’: ciascuno è chiamato a ‘fare la sua parte’, a ‘contribuire col suo granello di sabbia’. Si creano così gli spazi per ‘diete ambientalmente consapevoli’, ‘acquisti etici’, ‘consumi responsabili’, ‘prodotti biologici’, ‘raccolta differenziata’, ‘beni equi e solidali’, e una miriade di altre lodevoli iniziative in cui ci si sente cavalieri dell’ideale a colpi di tofu.
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Politica, ontologie, ecologia
di Luigi Pellizzoni
Prende avvio, con questo intervento, la rubrica Ecologie della trasformazione, a cura di Emanuele Leonardi, che affronterà diversi aspetti del rapporto tra ecologia, politica e società
Politica, ontologie, ecologia: perché unire assieme queste tre parole, ciascuna delle quali provvista di una lunga storia? O anche: perché mettere “ontologie” in mezzo a politica e ecologia? Si tratta di un’inutile complicazione, che tira in ballo (tra l’altro al plurale) un concetto tra i più sdrucciolevoli della filosofia, o di un passo necessario? Nel prosieguo provo a motivare la seconda opzione.
“Ecologia politica” è un’etichetta che identifica un filone di studi piuttosto variegato dal punto di vista disciplinare (antropologia, sociologia, storia, geografia, economia, filosofia, ma anche scienze agrarie e forestali ecc.) ma ben riconoscibile nel suo incentrarsi sulla “relazione tra fattori politici, economici e sociali e le questioni e i mutamenti ambientali” (così recita la definizione che troviamo su Wikipedia)1, contestando gli approcci apolitici a tali questioni e mutamenti. Secondo Paul Robbins, autore di un libro di testo di un certo successo sull’argomento, si tratta di “un filone di ricerca critica basato sull’assunto che ogni strappo nella trama della rete globale di connessioni tra esseri umani e ambiente si riverbera sul sistema nel suo complesso”, e sull’impegno a “interrogare la relazione tra economia, politica e natura” (Robbins 2012, p. 13).
La matrice dell’ecologia politica è fondamentalmente marxista. L’interrogazione quindi riguarda non la storia umana in generale ma i processi di accumulazione capitalista, in quanto basati sul contemporaneo sfruttamento del lavoro umano e non-umano; sfruttamento che è andato depauperando e distruggendo l’uno e l’altra. L’idea portante dell’ecologia politica è così che non vi possa essere transizione ecologica senza trasformazione sociale, o viceversa. Proprio le ascendenze marxiane lasciano tuttavia in una certa ambiguità l’esatto carattere del nesso.
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Un movimento di resistenza per il pianeta
Juan Cruz Ferre intervista John Bellamy Foster
Il cambiamento climatico è fuori controllo. È già troppo tardi per evitare le alte temperature, la scarsità d'acqua e le condizioni climatiche estreme. Ma la struttura finanziaria del capitalismo è legata ai combustibili fossili. Le soluzioni basate sul mercato sono inefficaci.
John Bellamy Foster, professore di sociologia presso l'Università dell'Oregon e direttore di Monthly Review, parla circa il tipo di programma necessario per fermare questa catastrofe. È stato intervistato da Juan Cruz Ferre per Left Voice dove il testo fu pubblicato per primo.
* * * *
Juan Cruz Ferre (JCF): C'è una schiacciante evidenza che dimostra come il clima antropico è fuori controllo e porterà alla catastrofe ambientale globale – senza un radicale miglioramento della produzione di energia. Nel numero di febbraio 2017 della Monthly Review, vi segnalo che, sebbene ci sia stata presentata con valutazioni precise e indiscutibili, la scienza e le istituzioni di scienze sociali non sono riuscite a venire con soluzioni efficaci. Perché pensi che questo è il caso?
John Bellamy Foster (JBF): Siamo in una situazione di emergenza nell' epoca Antropocene in cui la rottura del sistema terra, particolarmente il clima, sta minacciando il pianeta come luogo di abitazione umana. E tuttavia, il nostro sistema politico-economico, il capitalismo, è orientato principalmente all'accumulo di capitale, che ci impedisce di affrontare questa enorme sfida e accelera la distruzione. Gli scienziati naturalisti hanno fatto un lavoro eccellente e coraggioso nel lanciare l'allarme sui pericoli enormi della continuazione di affari come al solito per quanto riguarda le emissioni di carbonio e altri limiti del pianeta. Ma il mainstream delle scienze sociali come esiste oggi ha interiorizzato quasi completamente l’ideologia capitalista; tanto che gli scienziati sociali convenzionali sono completamente incapaci di affrontare il problema alla scala e nei termini storici che sono necessari. Sono abituati alla visione che la società molto tempo fa "conquistò" la natura e che la scienza sociale riguarda solo persone – relazioni personali, mai persone-natura.
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Cambiamento climatico: siamo l’ultima generazione che potrà combattere l’imminente crisi globale
di Angelo Romano
"Il cambiamento climatico è la sfida chiave del nostro tempo. La nostra generazione è la prima a sperimentare il rapido aumento delle temperature in tutto il mondo e probabilmente l'ultima che effettivamente possa combattere l'imminente crisi climatica globale". Inizia con queste parole la dichiarazione congiunta di 16 capi di Stato e di governi europei (firmata per l’Italia dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella) per chiedere che durante la conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico (COP 24), in programma dal 3 al 14 dicembre a Katowice, in Polonia, siano adottate “norme operative dettagliate e linee guida che rendano operativo l’accordo raggiunto a Parigi tre anni fa".
Il nostro pianeta, prosegue la lettera, è vicino a un punto di non ritorno, come testimoniato dalle sempre più intense e frequenti “ondate di calore, inondazioni, siccità e frane, lo scioglimento dei ghiacciai e l'innalzamento del livello dei mari”. Le carenze delle risorse idriche e la crisi dei raccolti sono solo alcuni dei risultati immediati di questa situazione, che “ha un impatto devastante sugli esseri umani riducendoli alla fame o obbligandoli a migrare”.
Per questo motivo, sottolineano i capi di Stato, “bisogna fare di più e l'azione deve essere rapida, decisiva e congiunta. Stiamo già osservando le ricadute negative dei cambiamenti climatici” e le misure adottate dalla comunità internazionale non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi a lungo stabiliti dall’accordo di Parigi. Oltre a definire le azioni delle singole nazioni per il 2025 e il 2030, a Katowice dovranno essere enunciati gli obiettivi a lungo termine per ridurre le emissioni di carbonio e passare da fonti energetiche fossili a energie rinnovabili e raggiungere entro il 2050 l’equilibrio tra emissioni e assorbimento del carbonio. “Abbiamo l'obbligo collettivo nei confronti delle generazioni future di fare tutto ciò che è umanamente possibile per fermare i cambiamenti climatici e per rispondere ai loro perniciosi effetti”.
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“La Grande accelerazione” di John R. McNeill e Peter Engelke
di Paolo Missiroli
Recensione a: John R. McNeill e Peter Engelke, La Grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, Einaudi, Torino 2018, pp. 270, 22 euro (scheda libro)
Proponiamo questa recensione come primo contributo all’interno di un breve ciclo sui problemi della crescita incontrollata per come si è data fino ad oggi. L’occasione di questo percorso è data dalla pubblicazione dell’ultimo rapporto dell’IPCC (International Panel for Climate Change), l’ente mondiale più qualificato per lo studio del cambiamento climatico. Si tratta senza dubbio del rapporto più catastrofico e disincantato di sempre. Tutti gli anni l’ente pubblica un rapporto, ma quello attuale è senza precedenti. Non solo si prospetta un maggiore tasso di distruzione ambientale a causa del cambiamento climatico già in atto (inevitabile, ormai, viene considerato un aumento medio delle temperature all’1,5%), ma si annuncia un anticipo del manifestarsi pieno (già molti sono i segnali in atto) di tale trasformazione ecosistemica. Il rapporto non lascia sperare altro che un contenimento minimo di tale crescita delle temperature (e per farlo bisognerebbe ridurre moltissimo le emissioni entro il 2030) in modo da non superare i due gradi. A titolo esemplificativo, le barriere coralline sarebbero perdute con un aumento di 2 gradi centigradi, mentre verrebbero distrutte al 70-90% con l’aumento (ormai inevitabile) di 1,5 gradi.
A fronte di dati tanto rilevanti, non si può non notare inesistenza di una discussione pubblica, almeno nel nostro paese, sul tema. Un rapporto dal tono apocalittico viene sostanzialmente ignorato. Da cosa deriva questo? Per dare qualche contributo per poter tentare una risposta a questa domanda fondamentale proveremo a illuminare, con l’aiuto di due libri da poco usciti, il contesto storico in cui la crisi ecologica assume potenza e i suoi effetti sulla dimensione globale e locale allo stesso tempo. Il primo elemento che emergerà sarà che la crisi ecologica non riguarda solo la crisi climatica, ma suscita tutta una serie di problematiche del tutto particolari, legate al fatto che l’essere umano vive effettivamente in un mondo e in un ambiente specifico, che è quantomeno quello terrestre tipico dell’Olocene (ed ora in trasformazione).
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Sull'ecologia del capitalismo
di Antithesis
«La crescita della produzione ha finora interamente confermato la sua natura come la realizzazione dell'economia politica: come la crescita della povertà, che ha invaso e devastato il tessuto stesso della vita. [...] Questa società è regolata da un'economia troppo sviluppata che trasforma tutto – l'acqua sorgiva e persino l'aria di città – in beni economici, vale a dire che tutto è diventato un'economia malata – che è la negazione completa dell'uomo (...).» ( Guy Debord - Il pianeta malato )
Nel secolo precedente, il processo di espansione su scala globale del modo di produzione capitalista, è stato allo stesso tempo anche un processo di trasformazione della biosfera nel suo complesso. Tale processo ha avuto come conseguenza il disturbo dell'equilibrio ecologico del pianeta, un equilibrio che si era conservato nei passati diecimila anni, in un periodo noto come l'Olocene. Secondo recenti studi scientifici [*1], i principali aspetti di una simile trasformazione ecologica sono i seguenti:
- 1 - Aumento della temperatura media del pianeta a causa dell'aumento della concentrazione atmosferica dell'anidride carbonica e di altri gas serra. Questo aumento é causato sia dalla combustione di combustibili fossili al fine di fornire energia alla produzione capitalistica e alla riproduzione, sia dalle emissioni che si originano dal modo di produzione agricolo capitalistico. [*2]
- 2 - Grande perdita di biodiversità, dovuta principalmente alla conversione dell'ecosistema forestale nelle zone di produzione agricola, o in parti del tessuto urbano. Si prevede che entro il 21° secolo, sarà minacciato di estinzione fino al 30% di tutte le specie di mammiferi, uccelli e anfibi.
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L’alternativa tra Antropocene e Capitalocene: chiamare il sistema con il suo nome
di Jason W. Moore
In vista del seminario tenutosi all’Istituto italiano per gli studi filosofici il 9 giugno a Napoli, Ecologie politiche del presente, pubblichiamo un primo testo come materiale preparatorio: si tratta della prefazione all’edizione italiana del libro Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, scritta dallo stesso Jason W. Moore (introduzione e cura di Emanuele Leonardi e Alessandro Barbero, Ombre Corte, Verona 2017)
Quello di Antropocene è diventato il concetto ambientalista più importante, ma anche più il pericoloso, del nostro tempo. La sua pericolosità sta nel fatto che proprio mentre mostra con chiarezza i “passaggi di stato” [state shifts] delle nature planetarie esso mistifica anche la loro storia (Barnosky et al. 2012). L’espressione che meglio cristallizza questo stato dell’arte è cambiamento climatico antropogenico. Naturalmente si tratta di una colossale falsificazione. Il cambiamento climatico non è il risultato dell’azione umana in astratto – l’Anthropos – bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale. Il cambiamento climatico è capitalogenico (Street 2016).
La popolarità dell’argomento-Antropocene non deriva soltanto dall’impressionante mole di ricerche su cui si basa. È piuttosto legata alla potenza della sua narrazione, alla sua capacità di unificare umanità e sistema-Terra all’interno di un unico orizzonte. Il modo con il quale si compie questa unificazione costituisce precisamente la debolezza dell’argomento-Antropocene, la fonte del suo potere falsificante. Perché si tratta di un’unità non dialettica; è l’unità del cibernetico – un insieme idealistico di frammenti che ignorano i rapporti storici costitutivi che hanno condotto il pianeta sul baratro dell’estinzione.
Nei tre anni che ci separano dalle mie prime riflessioni sul concetto di Capitalocene (Moore 2013a, 2013b, 2013c), quello di Antropocene è diventato virale[1]. Per me il Capitalocene è in parte un gioco di parole, una forma di geopoetica (Last 2015), una reazione alla straordinaria popolarità dell’Antropocene.
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Salviamo l'ambiente dall'ecocapitalismo
di Giovanni Di Benedetto
Come avviene la determinazione del valore in una società nella quale vige il modo di produzione capitalistico? In che modo si genera il valore di una merce e quale tipo di conseguenze economiche, sociali, ecologiche questo processo di produzione porta con sé? In particolare, come si ritiene possibile salvare l’ecosistema dal disastro ecologico senza tenere conto del problema della determinazione della struttura del valore? Si tratta di questioni che, nel drammatico crogiuolo della crisi economica, attraversano trasversalmente le dinamiche della ristrutturazione economica e quelle della crisi ambientale. Eppure, la quasi totalità delle analisi degli economisti di parte neoliberista che si confrontano col disastro ambientale eludono il problema relativo all’impossibilità di una razionalità economica che si faccia carico delle esternalità ambientali e, anzi, continuano a ritenere possibile non solo salvare il pianeta dalla catastrofe ecologica, cosa di per sé auspicabile, ma, per di più, trarre nuove occasioni per un’ulteriore accumulazione di profitto, coniugandolo magari, che ingenui, con il bene sociale.
Un approccio di questo tipo, per esempio, è rintracciabile in un recente contributo di Edmund S. Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, e direttore del Center on Capitalism and Society della Columbia University, pubblicato su «Il Sole 24 Ore» di domenica 14 gennaio 2018 e intitolato Salvare l’ambiente e salvare l’economia.
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L'antropocene* come Feticismo
Postfazione di Thomas Meyer
Leggere a proposito della catastrofe climatica a venire, nell'indifferente provoca uno sbadiglio dettato dalla noia: si è già sentito tutto ed è già successo tutto, ma di regola non si vede proprio niente. A partire dalle notizie, di certo già sentite molte volte, a proposito del fatto che abbiamo di nuovo a che fare con il mese più torrido che ci sia mai stato da quando esiste un registro metereologico, la vita ignorante continua nella sua falsità, come sempre apparentemente "normale". Ma questa normalità immaginaria si basa appunto solo sull'ignoranza del soggetto narcisista della postmodernità, che arriva senza dubbio ad immaginare diverse fini del mondo, ma, dall'altro lato, non riesce a pensare niente di più plausibile del fatto che il mondo deve essere finanziabile, costi quel che costi! Il denaro, come si sa, non manca.
Naturalmente, anche aprire il giornale e leggere del capitalismo e delle catastrofi che ha scatenato, nemmeno questa è una novità. Vale tuttavia la pena affrontare la questione in maniera più dettagliata. Il testo di Daniel Cuhna cerca di sviluppare, nei termini della critica del valore, il problema del dominio capitalista della natura, insieme alle questioni a tale dominio associate - in maniera diversa rispetto a come hanno fatto Adorno e Horkheimer ne La Dialettica dell'Illuminismo, in cui anche essi tendono alla mitologia, riferendosi sempre alla valorizzazione del valore realmente capitalista.
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Introduzione a “Lavoro, Natura, Valore”
di Emanuele Leonardi
Pubblichiamo l’introduzione del volume Lavoro, Natura, Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, di Emanuele Leonardi, appena uscito per i tipi di Orthotes
Ancora fino a pochi anni fa un libro dedicato al rapporto tra scienze sociali e crisi ecologica, nonché alle implicazioni politiche di tale rapporto, avrebbe richiesto un’introduzione finalizzata a mostrare la rilevanza della questione ambientale per il dibattito pubblico e/o per quello scientifico. Mi pare si possa tranquillamente affermare che le cose stiano oggi in modo ben diverso, come dimostra per esempio la vastissima eco mediatica destata dalla firma dell’Accordo di Parigi al termine delle ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (Dicembre 2015). Ce ne fosse bisogno, una prova ulteriore potrebbero essere i profondi investimenti economico-diplomatici legati al recentissimo G7 Ambiente – tenutosi a Bologna nel Giugno del 2017 – che ha rappresentato un primo momento di teso confronto tra l’amministrazione americana guidata dal negazionista Donald Trump e i restanti governi delle nazioni più industrializzate del pianeta, impegnatissimi (a parole) nella lotta al riscaldamento globale.
Mi soffermo brevemente su questi due ‘eventi-prova’ perché mi danno la possibilità di chiarire l’oggetto polemico della riflessione che segue e di inquadrare le domande di ricerca che l’hanno guidata. Partiamo dall’Accordo di Parigi, il trattato internazionale che sostituisce il Protocollo di Kyoto (siglato nel 1997 e ratificato nel 2005 – d’ora in poi PK) e su cui è destinata a basarsi nel prossimo futuro la politica climatica globale.
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La responsabilità politica del collasso del nostro pianeta
di Roberto Savio*
Ormai è chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto. Una personale opinione? No, fornirò tutti i dati perché sia concreta
Il 20 dicembre, I 28 ministri europei dell’Ambiente si sono incontrati a Bruxelles per discutere il piano per la riduzione delle emissioni di CO2 preparato dalla Commissione, in accordo con le decisioni della Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici. Bene, è ormai chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto.
Ora, sicuramente questa di seguito può essere considerata la mia personale opinione, priva di obiettività. Per questo fornirò molti dati, elementi storici e fatti, perchè sia concreta. I dati e i fatti hanno una buona qualità: concentrano l’attenzione su ogni dibattito, mentre le idee no. Quindi tutti voi che non amate i fatti, per favore smettete di leggere qui. Vi risparmierete un articolo noioso, come probabilmente sono tutti i miei articoli, perchè non sto cercando di intrattenere ma di sensibilizzare. Se smettete di leggere, perderete inoltre l’opportunità di conoscere il nostro triste destino.
Come è cosa comune in politica oggigiorno, gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori e sulla visione.
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Il nodo ecologico nel marxismo del XXI secolo
di Dante Lepore
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo di Dante Lepore sulla “questione ecologica”, una delle grandi questioni mondiali del nostro tempo, largamente dimenticata nel dibattito in corso.
Certo, non mancano le grida di allarme. Di recente, ad esempio, G. Monbiot ha richiamato l’attenzione sull’Insectageddon – la catastrofica diminuzione degli insetti; altri scienziati hanno messo in primo piano il surriscaldamento globale; altre denunce ancora si concentrano sulla penuria (e lo spreco crescente) di acqua. Ma anche gli ecologisti più seri restano imprigionati in visioni parziali, che non arrivano ad afferrare la causa profonda, sistemica, delle minacce alla stessa sopravvivenza della specie, che è costituita dal modo di produzione capitalistico, e dalle sue implacabili, immodificabili, cieche leggi di movimento.
Il contributo di Dante Lepore va, invece, proprio in questa direzione e mette capo alla necessità di dare una risposta di lotta radicale e globale ai poteri globali che esercitano la distruttiva dittatura del capitale sulle nostre vite e sulla vita della natura.
* * * *
1. Marxismo e rapporto capitalistico uomo-natura: gli effetti contro l’uomo
Una delle conseguenze più deleterie scatenate dal capitalismo a danno della natura nel suo insieme animale e vegetale e della sua parte più evoluta e cosciente, l’uomo, sta nell’aver accelerato al massimo, nei ritmi e nel livello quantitativo, la scissione e il saccheggio di entrambi, con riflessi, da alcuni decenni, sull’intero ecosistema (dal greco, oikos significa ambiente), seminando ovunque dove prima c’era unità, comunità, uguaglianza, ogni genere di opposizione, differenza, dominio di alcuni su altri, diseguaglianza economica.
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