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Guinzaglio al Web
L’Europa e il copyright
di Giovanna Baer
Il 12 settembre è stata approvata la “Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sul diritto d’autore nel mercato unico digitale” (1), una proposta di legge pressoché sconosciuta al grande pubblico, ma che ha visto spaccarsi in due il fronte politico e gli attori della digital economy. Il testo, che era stato respinto il 5 luglio scorso, è stato riproposto con una serie di emendamenti dal relatore Axel Voss (eurodeputato tedesco cristiano-democratico), ed è passato con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni. Hanno votato a favore la maggioranza dei Popolari (Ppe) e dei Socialisti e Democratici (S&D), mentre gli eurodeputati della Lega e del M5s hanno votato contro, insieme alla maggioranza dei Verdi. Il gruppo dei liberali (Alde) si è spaccato, così come il gruppo delle destre (Enf). Ora l’iter legislativo prevede che vengano avviati i negoziati con il Consiglio e la Commissione Ue per arrivare alla definizione del testo finale e, in seguito, il voto del Parlamento europeo sulla versione definitiva.
Il presidente dell’europarlamento ed ex giornalista Antonio Tajani (Forza Italia) l’ha definita una vittoria di tutti i cittadini che, a suo dire, difenderà “la cultura e la creatività europea e italiana, mettendo fine al far west digitale” (2). Anche il Pd ha aderito al fronte degli estimatori (insieme alla FNSI, Federazione Nazionale Stampa Italiana, e alla FIEG, Federazione Italiana Editori di Giornali) e Silvia Costa, deputata e membro della Commissione cultura al Parlamento europeo, l’ha messa addirittura sul mitico: “Ha vinto l’Europa della cultura e della creatività contro l’oligopolio dei giganti del web” (3). Di segno opposto l’opinione di Isabella Adinolfi, eurodeputata M5s, che ha definito l’approvazione della proposta “una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini.
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Euro: dopo vent’anni, riforma cercasi disperatamente
Intervista a Riccardo Bellofiore*
Lo scorso primo gennaio sono trascorsi vent’anni dall’introduzione dell’euro come valuta: un anniversario che arriva in un anno cruciale per l’Unione europea, con le elezioni del prossimo maggio, e impone un bilancio complessivo di un processo di integrazione monetaria europea, delle sue contraddizioni e del suo futuro possibile. Punto di arrivo di un tortuoso processo di integrazione dei mercati nel Continente e, secondo i suoi fautori, primo passo di una sempre maggiore integrazione politica, la moneta unica dell’Europa dopo la crisi dei debiti sovrani si pone oggi come problema primario per la tenuta e legittimità dell’intero progetto europeo e degli stessi Stati membri. Le ferite ancora parte della crisi e l’erosione di una solidarietà europea sotto la scure dell’austerità e dei vincoli fiscali legano sempre di più il destino dell’euro a quello delle democrazie e dei diritti sociali, rendendo urgente e necessario interrogarsi sulle promesse tradite della moneta unica e su quelle irrealizzabili. Quali sono state le ragioni che hanno portato all’introduzione della moneta unica? Quali i suoi limiti e le prospettive di una riforma dell’eurozona? Ne abbiamo parlato con Riccardo Bellofiore, Professore di Economia Politica all’Università di Bergamo.
* * * *
A vent’anni dall’adozione dell’euro come valuta, quale l’origine e le ragioni storiche dell’adozione dell’euro?
Innanzitutto credo che si debba capire che unificazione monetaria ed euro non sono essenzialmente la stessa cosa. Noi ormai siamo abituati a chiamare l’euro “moneta unica” in opposizione alle monete nazionali dei Paesi che poi hanno fatto parte dell’eurozona. In realtà questa è a mio avviso una falsa alternativa.
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L’eredità di Marx per un economista laico1
di Salvatore Biasco
Premessa
Marx è stato il mio imprinting giovanile e, più che Marx, la produzione di vari autori marxisti (e non marxisti, che comunque a lui si riferivano). Il bagaglio si era confusamente già definito, quando la mia formazione si è indirizzata verso l’economia, consolidandosi soprattutto a Cambridge (negli anni d’oro della Faculty of Economics) e, in Italia, nell’Istituto (si chiamavano così i Dipartimenti) diretto da Sylos Labini, quindi in un universo intellettualmente laico. Avere alle spalle quel piccolo bagaglio marxiano è stato importante poiché da subito ha contributo a farmi guardare l’economia da un punto di vista sociologico, nella consapevolezza che dietro le relazioni stilizzate vi è la struttura della società. Oggi - dopo tanti anni (nei quali c’è in mezzo il confronto continuo sul tema negli ’70 con Salvati, Vianello, Ginzburg, Lippi e tanti altri in quella fucina di idee che era allora l’Università di Modena) e dopo tutte le maturazioni (accettatemi il termine) che ha avuto la mia riflessione intellettuale - cosa rimane di Marx? Qual’è il consuntivo di insegnamenti che il confronto con la realtà e con la disciplina è andato distillando dentro di me e che mi sentirei di proporre come guida a un giovane che si avvicini oggi a lui? Quali considerazioni ci stimola anche nelle parti della sua produzione che ci appaiono più lontane dall’evoluzione del mondo corrente?
Ovviamente, in ciò che segue, il Marx che presento è come io l’ho sistemato nella mia mente ed è un Marx riferito al bagaglio analitico che ci ha trasmesso. Il Marx che si proietta in un finalismo storico non l’ho mai considerato rilevante e, sotto sotto, è anche una forzatura interpretativa. Il filosofo, lo storico, l’economista, il sociologo, l’umanista che in ciascun campo dà il “là a un modo originale di vedere le cose è, invece, di grande rilievo.
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Un abito giallo che fa comunità
di "Temps critiques"
Il movimento dei Gilet Gialli sembra confermare una rottura del filo storico della lotta di classe. La cosa aveva già avuto inizio a livello mondiale durante le Primavere Arabe, poi con il movimento Occupy, e con i movimenti delle Piazze che erano tutti alla testa di quelle mobilitazioni che rivendicavano o domandavano libertà, uguaglianza, e condizioni di vita in generale; il posto di lavoro, piuttosto che le condizioni lavorative. È stato anche per questo motivo che questi movimenti si rivolgevano assai più allo Stato che ai Padroni, nella misura in cui il processo di globalizzazione/totalizzazione del capitale porta gli Stati a gestire la riproduzione dei rapporti sociali a livello territoriale, pur restando dipendente dalle esigenze della globalizzazione.
In Francia, la forza di resilienza del movimento operaio tradizionale aveva ancora mantenuto l'idea della lotta di classe del lavoro contro il capitale. Nella primavera del 2016, la lotta contro la riforma del diritto al lavoro aveva proseguito sulla strada della «classe operaia innanzitutto» senza ottenere dei risultati tangibili. Qualche anno prima, le mobilitazioni generate a partire dal movimento delle Piazze non avevano consentito un'effettiva ripresa, poiché avevano privilegiato il formalismo delle assemblee a scapito del contenuto della lotta. Una lotta che sembrava aver trovato un legame più promettente in seno al movimento spagnolo, che vedeva il movimento delle Piazze virare verso la solidarietà di quartiere, legandosi ai problemi dell'alloggio.
In tutte queste lotte, comprese quelle contro la loi-travail, la questione dello sciopero generale, o quella del blocco della produzione a partire dalle fabbriche, non è stata posta, così come non è stata posta in seno al movimento dei Gilet Gialli.
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A partire dal sottotitolo del Capitale: Critica e metodo della critica dell’economia politica
di Tommaso Redolfi Riva*
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Abstract: The aim of the paper is to explain the concept of «critique of political economy» (CPE) in Marx’s mature work. Starting from the different meanings CPE assumes, I will try to explain the peculiarities of such a critical project. In particular, I will focus the attention on CPE as a critique of capital as objective-subjective totality: on the one side, as a system of social production whose aim is the valorisation of capital, based on the appropriation of unpaid labour and generating a system of socialisation of production increasingly becoming autonomous from the social agents which establish it; on the other side, as the place of constitution of the categories of political economy, whose defect cannot only be brought back to the methodological lack of the economists because such categories, as a part of the capitalistic reality itself, are products of capitalistic social relationships. What emerges from this perspective is that CPE, as the presentation of the system of capitalistic relationships, is the critique of a specific science put forth by means of the critique of its own specific object
«Il metodo della dialettica,
che cerca di andare al di là della prospettiva specialistica
e circoscritta della logica e dell’epistemologia,
consisterebbe nel non accontentarsi della semplice individuazione
del punto che richiede di essere criticato e poi affermare:
‘Guarda, qui c’è un errore nel ragionamento, sei caduto in contraddizione –
quindi tutta la cosa non vale nulla’, bensì […]
nell’indicare perché, nella costellazione di questo pensiero,
certi errori e certe contraddizioni sono inevitabili,
che cosa li ha generati nel movimento di tale pensiero e
in che senso quindi essi si mostrano significativi,
nella loro falsità e contraddittorietà, nella totalità del pensiero».
(Adorno 2010, 222-3)
1. Introduzione
Le categorie dell’economia politica rappresentano per Marx il luogo di accesso privilegiato alla realtà del modo di produzione capitalistico, non soltanto in quanto momenti di una teoria che rappresenta «il tentativo di penetrare nell’intima fisiologia della società borghese», ma anche in quanto esse sono una prima «nomenclatura» dei fenomeni «economici» che sono così riprodotti nel «processo di pensiero» (Marx 1993b, 168-169). Se è vero che l’oggetto della teoria di Marx è il modo di produzione capitalistico, l’accesso a tale oggetto passa necessariamente attraverso la mediazione concettuale (cfr. Schmidt 2017 e Fineschi 2006, in particolare 131-136).
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Siria: élite mondialista e pacifisti sinistri contro Trump. Vaticano-Quirinale: Benedictio urbi et orbi atque PD
di Fulvio Grimaldi
(E’ lungo, forse prolisso, ma tratta due temi grossi, si può digerire in due puntate e, giuro, per un po’ non mi farò vedere. Per combinare il testo con le immagini andate su www.fulviogrimaldicontroblog.info. Almeno da lì nessuno può rimuovere)
Palloncino bucato
Una cosa si è confermata chiara e ha bucato il pallone gonfiato delle fake news dei grandi media e la loro forsennata passione per la globalizzazione di guerre, neoliberismo, totalitarismo. Una cosa ha definitivamente sancito la scomparsa, da noi, ma anche da molte altre parti, di quel settore della società politica che si definiva di sinistra e coltivava il paradosso di chiamare destra l’altro settore. Per la sedicente sinistra vale ormai al massimo il corrispettivo linguistico al maschile.
Questa cosa ha l’aspetto di Giano Bifronte: da un lato fulmina con occhiate di sdegno e riprovazione il trucidone della Casa Bianca che, sfidando una tradizione di guerre d’aggressione che risale alla fondazione del suo paese e ne costituisce l’essenza ontologica e, ahinoi, anche escatologica, annuncia il ritiro di truppe da Siria e Afghanistan (vedremo poi i perché e percome); dall’altro inneggia con passione smodata ai Supremi di casa nostra che, in occasione delle festività, ci hanno fatto volare sul capo aerostati gonfi di pace. Nella fattispecie aria calda.
Siamo il paese dei fessi che fanno i furbi, che tuffano il diavolo nell’acqua santa e se la cavano scegliendo la sudditanza a discapito della cittadinanza. Arlecchino servitore di due padroni. Don Abbondio, se di fronte c’è don Rodrigo, don Rodrigo, se si ha a che fare con don Abbondio. Dunque, don Abbondio prima con i tedeschi, poi con gli americani. Con tutti quelli che ci menano. E dunque con l’UE. Don Rodrigo con quelli che possiamo menare. Di solito noi stessi. E da questa caratteristica nazionale che nasce il prodigio di un paese, escluso il 32,7 % degli elettori che restano in stato d’attesa, che si diverte come un bambino sull’altalena nel parco giochi costruitogli dai potenti.
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Jeff Bezos mette le mani nella tua posta
di Marta Fana e Simone Fana
Amazon si rafforza nel nostro paese grazie all'accordo con Poste Italiane: un'intesa che non serve a lavoratori e consumatori. E che consolida due monopoli privati, uno globale l'altro nazionale
Il servizio postale nazionale nasce insieme allo stato unitario, nel 1862, quando fu istituito il monopolio delle Regie poste seguito vent’anni più tardi, nel 1889, dal Ministero per le poste e i telegrafi. La storia è quella dell’espansione del servizio pubblico e universale di accesso alla corrispondenza, ma anche al diritto all’inviolabilità delle lettere, e della tariffa unica, con l’istituzione del francobollo. Obiettivi diametralmente opposti alle regole che vigono oggi nel sistema privatizzato in cui la velocità delle spedizioni e la garanzia del servizio universale sono subordinati al potere d’acquisto: al censo, si sarebbe detto in quel lontano inizio del ventesimo secolo. Dall’interesse di garantire il servizio di corrispondenza a tutti i cittadini mediante il controllo della rete e dei prezzi si è giunti a porre l’interesse degli azionisti e del capitale privato come prioritari; fino a rendersi servizio non dei cittadini ma del capitale stesso, come mette in luce l’ingresso di Amazon nei servizi postali e l’accordo siglato con Poste Italiane.
Tra la fase del monopolio pubblico e la totale liberalizzazione, Poste Italiane ha vissuto da protagonista l’intera storia del capitalismo misto italiano, cadendo sotto i colpi del mantra della redditività e della libera concorrenza. A partire da fine anni Novanta le esigenze sovranazionali di completare la creazione del mercato unico investono il settore postale con quello dei trasporti e della logistica più in generale. In principio si provava a armonizzare il servizio postale e soprattutto a imporre i limiti ai diritti riservati ai fornitori del servizio universale. Come recita la pagina dedicata dell’Agcom Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, «il processo di liberalizzazione dei mercati dei servizi postali avviato dall’Unione europea con la direttiva 97/67/CE (da ultimo modificata con la direttiva 2008/6/CE) implica, per gli Stati membri, l’abolizione di qualsiasi forma di monopolio, di riserva e di diritti speciali nel settore». Il recepimento della direttiva del 2008, avvenne in Italia con il decreto legislativo n° 58 del 2011 che liberalizza il servizio postale e affida a Poste Italiane la copertura del servizio universale per un periodo di quindici anni, pro tempore e revocabile.
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Per una sovranità democratica e popolare. Cioè costituzionale
L’ultimo libro di Alessandro Somma: “Sovranismi”
di Vladimiro Giacché
Un'ottima recensione di Vladimiro Giacché all'ultimo libro di Alessandro Somma
Poche parole hanno conosciuto un improvviso boom negli ultimi anni come i termini “sovranismo” e “sovranisti”. Di queste parole, ormai onnipresenti nel nostro dibattito politico, chi compulsasse i quotidiani anche solo di due-tre anni non troverebbe quasi traccia. E francamente di un’altra parola-contenitore di incerto significato, oltretutto in genere adoperata come etichetta denigratoria e dispregiativa, proprio non si sentiva la mancanza.
Un motivo in più per apprezzare l’ultimo libro di Alessandro Somma, “Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale” (Roma, Derive/Approdi, 2018), dedicato precisamente al compito di risalire ai diversi significati che oggi assume il concetto di “sovranità”, al quale quello di “sovranismo” confusamente allude, e i limiti ai quali è sottoposto nel contesto dell’Unione Europea. Al termine di questa disamina, l’autore descrive nell’ultimo capitolo i compiti e gli obiettivi di un “sovranismo democratico” che voglia porsi all’altezza delle sfide del presente.
Prima di procedere a un esame sommario dei contenuti di questo testo, la cui facilità di lettura - un pregio ben noto ai lettori dei libri di Alessandro Somma - non deve trarre in inganno (i temi trattati infatti sono molti, importanti e molto ben approfonditi), devo premettere che mi occuperò qui della linea argomentativa che mi pare centrale, mentre per motivi di spazio dovrò lasciare ai lettori del libro il piacere di scoprire numerosi altri temi importanti.
Il testo parte da un assunto forte sulla fase che stiamo vivendo: “L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e del processo di denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione”. Un rigetto che non si verifica oggi per la prima volta: il rifiuto del mercato autoregolato quale fondamento della società si ebbe tra la prima e la seconda guerra mondiale, e diede luogo a esperienze sociali e politiche radicalmente diverse tra loro quali l’Unione Sovietica e i fascismi.
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Come rinasce un movimento di classe sotto i nostri occhi
di Dante Barontini
La misura della devastazione prodotta nella cultura della “sinistra” si è avuta con gli atteggiamenti riservati – non dappertutto, ma da molte parti – al movimento dei gilet gialli in Francia.
Molti si son fatti persuadere dal vade retro pronunciato dai disinformation maker di Repubblica, Corriere, e financo il manifesto, ormai maggioritariamente rivolto contro tutto ciò che odora di conflitto sociale, “disturbo della quiete pubblica”, esangue retorica umanitaria ben attenta a non intralciare il cammino del capitale globalizzato (che non lo è più tanto, ma è inutile dirglielo).
All’origine di questa operazione stanno le “fonti francesi”, quasi sempre ridotte all’ex entourage di François Hollande, da cui sono usciti sia l’orrido Emmanuel Macron, sia il neo-falangista Manuel Valls (ex primo ministro “socialista”, che si è ricordato delle sue lontane origini catalane solo per candidarsi a sindaco di Barcellona con l’appoggio della destra anti-indipendentista e anti-repubblicana; non va dimenticato che la Spagna conserva sia la monarchia che l’impianto della Costituzione franchista).
Ci si è insomma a tal punto dimenticati di come nascono i movimenti da non riconoscerli neppure quando nascono sotto i nostri occhi. La causa vera – quella che infetta la “cultura politica” e dunque le griglie di lettura del reale – è nella storia dei partiti di massa del secondo Novecento. Un lungo periodo durante il quale le contraddizioni tra le classi, in Europa, venivano gestite con la mediazione tra interessi sociali diversi e le politiche keynesiane. Il bastone del comando restava in mano al capitale, ci mancherebbe, ma gli interessi operai o in senso lato proletari e “popolari” venivano organizzati, incanalati, rappresentati e riconosciuti come legittimi fino a diventare proposte di legge, rivendicazioni di riforme (con qualche successo, dopo aspri conflitti, negli anni ‘70).
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Destra e Sinistra
di Alessandro Volpi
Marcello Gisondi ha dato avvio tempo fa, su questa rivista, alla riflessione sulle categorie di destra e sinistra, con un articolo dall’eloquente titolo: “A sinistra di cosa?” in cui si interrogava sulla validità di questa dicotomia nella lettura dell’attuale “momento populista”. Condivido l’impostazione del problema e nella sostanza anche la risposta, tuttavia credo ci siano alcuni punti che vale la pena approfondire; cercherò di portare un piccolo contributo alla discussione.
Già nel 1994, iniziando a scrivere l’ormai classico libro sul tema (Destra e sinistra, Roma: Donzelli, 1994), Norberto Bobbio notava che «non si è mai scritto tanto come oggi contro la tradizionale distinzione fra destra e sinistra […].» [BOBBIO, p. VII] Oggi è ormai senso comune l’idea che le categorie siano saltate, e in Italia questo è accentuato dal fatto che uno dei partiti di governo, il Movimento 5 Stelle, non si definisce né di destra né di sinistra, e rende oggettivamente difficile il lavoro di giornalisti e politologi che cerchino di farlo. Che la nostra percezione si accordi così con quella che aveva Bobbio nel ’94 risponde senza dubbio alla mancata riattivazione politica di queste categoria da parte di chicchessia; più precisamente, oggi, esattamente come allora, viviamo un momento di profonda crisi della fiducia nelle istituzioni e nei soggetti della rappresentanza politica. È stato infatti nel ’94, a due anni dallo scoppio di Mani Pulite, che Berlusconi chiuse la prima repubblica e diede i natali alla seconda, ed è con le elezioni del 4 marzo 2018 che il Movimento 5 Stelle ha aperto una nuova fase politica, appunto una terza repubblica.
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Sulla più recente traduzione italiana del Libro primo de Il capitale
di Alessandro Cardinale
Con un approfondimento sul termine “Arbeiter” e con la segnalazione di sviste e alternative di traduzione
Il lettore italiano che oggi avverta il bisogno di misurarsi con la lettura del testo principale di Karl Marx ha a disposizione, e già da molti anni, tre traduzioni integrali del Libro primo de Il capitale, in ordine cronologico, secondo la prima edizione di ciascuna, quelle di Delio Cantimori (Editori Riuniti, 1951), Ruth Meyer (Avanzini e Torraca, 1965), Bruno Maffi (UTET, 1974). A queste si è aggiunta nel 2011 una nuova traduzione, curata da Roberto Fineschi, pubblicata da La Città del Sole come volume XXXI delle Opere complete di Marx ed Engels. Questo volume, in due tomi, contiene oltre al testo principale, alle varianti e all’apparato, ulteriori materiali che rappresentano alcune tappe della storia editoriale del Libro primo: una porzione del Manoscritto 1863-1865 la quale consiste in gran parte nel cosiddetto Capitolo VI inedito; due porzioni di testo tratte dalla prima edizione (1867) del Libro primo, e cioè il primo capitolo e l’appendice su La forma di valore; un manoscritto preparatorio, utilizzato da Marx per approntare sia la seconda edizione tedesca che la traduzione francese, tradotto qui per la prima volta in italiano con il nome di Manoscritto 1871-1872. Questi materiali, che occupano metà del secondo tomo, non saranno oggetto delle considerazioni che seguono, nelle quali prendo in esame solo il testo principale, comprese le varianti e l’apparato.
Cominciamo con il testo principale e con il problema di partenza che si pone al traduttore del Libro primo de Il capitale, cioè quello di scegliere il testo su cui condurre la traduzione: la II edizione tedesca (1873), la III (1883), la IV (1890), o l’edizione francese (1875). Come due dei precedenti traduttori italiani la scelta del curatore e traduttore Roberto Fineschi è ricaduta sulla IV edizione tedesca (1890)1, vale a dire sul testo di Marx revisionato da Engels in base a indicazioni di Marx2.
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La funzione del pensiero complesso nell'era della complessità
di Pierluigi Fagan
Credo che il prossimo sarà il secolo della complessità.
S. Hawking, 2000
L’intero è qualcosa di più delle parti.
Aristotele, Metafisica, IV secolo a.e.v.
Il semplice è sempre falso, ciò che non lo è, è inutilizzabile.
P. Valery
La cultura della complessità si è sviluppata in Occidente a più ondate a partire dal dopoguerra e piano piano, si è ampliata a praticamente tutti i campi di studio nei quali di declina la nostra conoscenza, dalla fisica alla metafisica, passando invariabilmente, seppur con adattamenti specifici, dalle scienze dure a quelle umane ai saperi umanistici. Per questo la chiamiamo “cultura”, perché non è un paradigma specifico di una disciplina che vuole colonizzare le altre, ma una impostazione generale del pensiero umano qualsiasi sia l’oggetto che si dà. Ovviamente se il pensiero ha sentito questa esigenza riformista è perché i suoi oggetti hanno reclamato analisi e comprensioni adeguate alla loro natura, natura che si è disvelata nel tempo. Gli stessi oggetti (atomi, molecole, cellule, organi ed organismi, individui e loro relazioni sociali, economiche, culturali e politiche, financo stati o forme di civilizzazione, ecologie, linguaggio, storie e narrazioni e molto altro), dopo esser stati trattati per molto tempo secondo certe forme standard del pensiero moderno, ci hanno mostrato lati del loro essere statico e viepiù dinamico, che chiamavano forme più ampie di analisi ed interpretazione.
Ad esempio, non sempre è possibile o utile ridurre una cosa o un fenomeno al sottostante, le cose o i fenomeni sono il risultato di tutte le parti tra loro in relazione che le compongono così che, come già aveva intuito Aristotele “L’intero è qualcosa di più delle parti”.
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Un movimento di resistenza per il pianeta
Juan Cruz Ferre intervista John Bellamy Foster
Il cambiamento climatico è fuori controllo. È già troppo tardi per evitare le alte temperature, la scarsità d'acqua e le condizioni climatiche estreme. Ma la struttura finanziaria del capitalismo è legata ai combustibili fossili. Le soluzioni basate sul mercato sono inefficaci.
John Bellamy Foster, professore di sociologia presso l'Università dell'Oregon e direttore di Monthly Review, parla circa il tipo di programma necessario per fermare questa catastrofe. È stato intervistato da Juan Cruz Ferre per Left Voice dove il testo fu pubblicato per primo.
* * * *
Juan Cruz Ferre (JCF): C'è una schiacciante evidenza che dimostra come il clima antropico è fuori controllo e porterà alla catastrofe ambientale globale – senza un radicale miglioramento della produzione di energia. Nel numero di febbraio 2017 della Monthly Review, vi segnalo che, sebbene ci sia stata presentata con valutazioni precise e indiscutibili, la scienza e le istituzioni di scienze sociali non sono riuscite a venire con soluzioni efficaci. Perché pensi che questo è il caso?
John Bellamy Foster (JBF): Siamo in una situazione di emergenza nell' epoca Antropocene in cui la rottura del sistema terra, particolarmente il clima, sta minacciando il pianeta come luogo di abitazione umana. E tuttavia, il nostro sistema politico-economico, il capitalismo, è orientato principalmente all'accumulo di capitale, che ci impedisce di affrontare questa enorme sfida e accelera la distruzione. Gli scienziati naturalisti hanno fatto un lavoro eccellente e coraggioso nel lanciare l'allarme sui pericoli enormi della continuazione di affari come al solito per quanto riguarda le emissioni di carbonio e altri limiti del pianeta. Ma il mainstream delle scienze sociali come esiste oggi ha interiorizzato quasi completamente l’ideologia capitalista; tanto che gli scienziati sociali convenzionali sono completamente incapaci di affrontare il problema alla scala e nei termini storici che sono necessari. Sono abituati alla visione che la società molto tempo fa "conquistò" la natura e che la scienza sociale riguarda solo persone – relazioni personali, mai persone-natura.
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C’è vita su Marx? Il Capitale nel bicentenario
di Riccardo Bellofiore*
Abstract: The article suggests a reconstruction of Marx’s Critique of Political Economy as a macro-monetary theory of capitalist production. The first part of what follows will provide a sort of methodological introduction to Das Kapital. I am questioning the meaning of critique versus criticism, the distinction between fetish-character and fetishism, the role of dialectics, and the difference between reading, interpretation and reconstruction. I will focus especially on Volume I. At the centre of the discussion are: the multiple meanings of abstract labour and socialization, the role of money as a commodity for the labour theory of value, the “method of comparison” in grounding valorisation (the emergence of gross profits) as the constitution of capital from class struggle in production, the unity of absolute and relative surplus value extraction, the key notion of «Technologie» in the real subsumption of labour to capital, the law of the tendential fall in relative wage, Marx’s two notions of «competition», and the macro-monetary class perspective in capitalist reproduction crucial to Capital, Volume I. Some considerations are devoted to the transformation problem, the so-called New Interpretation, and crisis theory
Marx pubblicò la prima edizione del Capitale nel 1867, circa 150 anni fa, e quest’anno cade il bicentenario della sua nascita[1]. Sembra dunque essere questo un momento opportuno per tracciare un bilancio di quanto vi è di vitale e illuminante nell’eredità marxiana. Propongo qui una ricostruzione della critica dell’economia politica di Marx come teoria macro-monetaria della produzione capitalistica. La prima parte di quanto segue fornirà una sorta di introduzione metodologica al Capitale. In seguito, mi concentrerò soprattutto sul primo libro, toccando tuttavia anche alcuni temi trattati nel secondo e nel terzo: in particolare, discuterò alcuni punti rilevanti per il problema della trasformazione ed esporrò la mia prospettiva riguardo la teoria della crisi.
La mia generazione – ho iniziato il mio studio delle teorie economiche nel 1973, ma avevo in qualche maniera familiarizzato con la teoria marxiana già sul finire degli anni ’60 – si è formata sulla grande tradizione di Maurice Dobb e Paul M. Sweezy.
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L’algoritmo sovrano
Identità digitale, sorveglianza totale, sistema politico
di Renato Curcio
Incontro-dibattito sul libro L’algoritmo sovrano. Metamorfosi identita- rie e rischi totalitari nella società artificiale, di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2018), presso il Csa Vittoria, Milano, 27 settembre 2018
Questo ultimo libro, L’algoritmo sovrano, riflette sui cambiamenti delle relazioni di potere che stiamo vivendo, in quella che è una grande trasformazione antropologica che riguarda non solo la rete, in quanto dimensione tecnologica, ma anche la formazione del sociale in cui siamo inseriti. Ci hanno abituati a immaginare le relazioni di potere, almeno nella loro forma più organizzata, con le analisi di Weber o Foucault, per non fare citazioni classiche del marxismo; questo significa che in epoca moderna abbiamo guardato il potere all’interno di un mondo che non c’è più, perché negli ultimi trent’anni, dal 1990/91, in questo mondo è entrato un nuovo continente: internet. È questo il primo punto su cui voglio suggerirvi uno sguardo. Dobbiamo cominciare a guardare internet in questo modo perché è un territorio che prima non c’era, e all’interno del quale si giocano ormai i destini dell’economia, della comunicazione, della politica, di fatto tutti i destini della vita delle persone che vivono nei continenti storici. Le relazioni faccia a faccia sono diventate paradossalmente secondarie rispetto alle relazioni alias-alias che caratterizzano la presenza nel continente di internet.
***
Internet nasce negli Stati Uniti per concorso di due forze, quella militare e quella scientifica, studi legati a università americane che avevano iniziato a immaginare una comunicazione tra computer, quindi la costruzione di una rete. Quando parliamo di ‘rete’ stiamo entrando progressivamente in un territorio molto materiale, perché la rete è una cosa materiale, che esiste, dentro la quale succedono delle cose, ma è un territorio molto diverso dalla rete delle relazioni: è una rete di connessioni, sono computer, macchine, che entrano in relazione.
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Il capitalismo entra nella sua fase senile
L’inizio d’anno distrae sempre un po’, anche sul piano delle “percezioni”. La visione si distorce nella comunque fiduciosa attesa che “il nuovo” porti novità, sperabilmente positive. E’ un momento che, paradossalmente, accorcia la capacità di visione, facendo passare in secondo piano sia la durezza delle cose che, soprattutto, “il lungo periodo”. Quello che determina entità e direzione dei processi storici, anche economici, e che ben poco risente di quanto avviene nel breve arco di 365 giorni.
Pensiamo perciò sia utile riproporvi questa intervista a Samir Amin, rilasciata a Ruben Ramboer nel 2012, che non ha perso un grammo della sua attualità. Del resto, il vecchio saggio ricorda lui stesso che – in fondo – la crisi attuale (segnalata da tutti a partire dal 2007-2008) si colloca al di qua di un crinale storico ben più fondamentale. Visto da lui e pochi altri già nella svolta degli anni ‘70.
Dedicato a chi ha sempre così fretta di “vedere i risultati” da rinunciare per sempre a capire in che direzione stiamo andando. Sono tanti, se ci pensate un attimo… Sicuramente quanti quelli che, con la scusante dei “tempi lunghi”, non muovono mai un passo perché non è mai “il momento giusto”.
* * * *
“Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale”. Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E lo è ancor meno con la politica dei governi. “Economizzare per ridurre il debito? Menzogne deliberate”; “Regolazione del settore finanziario? Frasi vuote”. Egli ci consegna la sua analisi al bisturi della crisi economica.
Dimenticate Nouriel Roubini, alias dott. Doom, l’economista americano diventato famoso per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all’inizio degli anni 1970.
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Materialismo e rivoluzione: limiti di un paradigma
di Roberto Finelli
Soviet Diamat and historical materialism are based on an anthropology of scarcity, according to which the real nature of human beings is primarily a physical-corporeal one, fundamentally generic and aimed at taking possession of the natural world through human work, in order to satisfy our primary needs. Communism is consequently understood in theory and practice as a social organization in which the criterion of equality constitutes the primary and supreme value, while the criterion of difference and inequality constitutes the negative value par excellence. This led to a radical contraposition between a new humanity, characterized by the practice of the "common", and the old bourgeois-liberal humanity, characterized by the exaltation of the "private" and individual subjectivity. Writing The German Ideology and the Parisian Manuscripts of 1844, Marx and Engels removed the dialectical anthropology of Hegel but fell into a new anthropological deficit whose consequences still reach us today. On the other hand, thanks to this removal, the mature Marx will give us a non- anthropomorphic and non-abstract conception of capital, as a merely quantitative factor of systemic integration in a society in which people are worth masks, personifications of economic categories and incarnation of certain relationships and class interests
1. Antropologia della penuria e memoria del futuro
La memoria che vogliamo attivare è, per utilizzare il titolo di un libro di un celebre psicoanalista, una “memoria del futuro”. Una memoria del futuro vuole significare una memoria che non è volta al passato, che cioè non è volta a ricordare, approfondire e chiarire, i nessi esplicativi dell’accaduto. Bensì è una memoria che, paradossalmente, vuole guardare principalmente ed essenzialmente al futuro, nel senso specifico che vuole provarsi a costruire i possibili del futuro guardando agli impossibili del passato. Guardando dunque non, come pensava Walter Benjamin, ai possibili del passato, che non sono giunti a vita e che, negati o repressi, non sono potuti giungere a realizzarsi, ma proprio agli impossibili del passato. Ovvero alle ragioni intrinseche, costituzionali, originali della loro impossibilità: affinchè dalla loro comprensione, dallo studio dell’impossibilità del passato, si possa provare a pensare la possibilità del futuro.
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Il consumatore perfetto: l’operazione è riuscita, il paziente è morto
di Michele Berti
Francia 2018. Il fenomeno dei gilet gialli, ormai, sta facendo discutere mezzo mondo e lo farà dibattere ancora per molto tempo. Si possono assumere numerosi punti di vista su queste manifestazioni popolari, intersecando inevitabilmente i più disparati livelli di elaborazione. Una prima considerazione da sottolineare è che il movimento dei gilet gialli conferma le potenzialità del momento populista, ovvero il momento in cui si forma realmente una catena equivalenziale, il momento in cui una rivendicazione vera e presente nella società, legata a una singola domanda inevasa, riesce a unire molte altre istanze in un fragoroso noi/voi che non è ancora politico, ma ha la potenza giusta per diventare un cantiere di trasformazione con sedimentazioni importanti e significative nella società.
Ogni grande risultato “populista” a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ha le proprie radici nella mobilitazione. Podemos, il Movimiento 15-M; la stessa France Insoumise deve alle Nuits Debout del 2016 il risultato elettorale sorprendente alle presidenziali. In linea con quanto affermato da Mélenchon, nella mobilitazione l’esperienza politica si fa pratica e genera nuove figure e nuovi modi per rivendicare ciò che una ricomposta coscienza collettiva desidera ottenere. Tutto questo funziona! Lo vediamo in Francia nuovamente in questi giorni.
La traduzione politica di questi slanci e la gestione poi del consenso e del potere, quando arriva, molte volte però porta a cocenti delusioni in chi aveva sperato in un rapido cambiamento radicale.
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Sovranisti e no. Tutti d’accordo
di Monica Di Sisto*
Qualcuno, tra i più creduloni, se ne potrà stupire, ma quando si tratta di spianare la strada alla “libera” circolazione delle merci, la difesa dei “nostri” interessi, dei prodotti del “suolo patrio”, della salute degli italiani e dei diritti di chi lavora, si piegano ancora come canne al vento. A metà dicembre, il Parlamento europeo – con i voti di M5S, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e di gran parte del Pd – ha dato il via libera allo Jefta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Giappone che ha la stessa struttura e gli stessi problemi di CETA e TTIP e che entrerà subito in vigore senza il vaglio dei parlamenti nazionali. Per puro amore di cronaca, c’è da ricordare che prima delle ultime elezioni il M5S, addirittura nella piattaforma on line, e la Lega si erano impegnati a non votare accordi non sottoposti al voto dei parlamenti nazionali e a favorire un’attenta valutazione di costi e benefici. A proposito dei quali, la strenua opposizione di associazioni, movimenti e sindacati si spiega con il rischio elevato di gravi problemi per la protezione dei servizi pubblici, del principio di precauzione, la custodia dei dati personali, i diritti sindacali e del lavoro, la contraffazione dei prodotti italiani e zero tutele contro i cambiamenti climatici. Senza contare che il Giappone è il paese con la maggior parte delle colture Ogm approvate, sia per alimenti che per mangimi animali, e che la soglia per la presenza accidentale di materiale OGM negli alimenti è del 5% contro lo 0,9 europeo. Il Giappone non ha ratificato, inoltre, nessuna delle Convenzioni internazionali sul Lavoro ILO, nemmeno quelle per l’abolizione del lavoro schiavo e della non discriminazione sul lavoro.
* * * *
L’Italia sovranista e in difesa del popolo, e quella strenuamente antisovranista e antipopulista, in pieno accordo cuore a cuore, hanno dato insieme l’ok a Strasburgo all’accordo di liberalizzazione commerciale tra Europa e Giappone JEFTA che, nelle previsioni migliori, pur valendo il 30% dell’intero mercato globale, porterà a un aumento del Pil europeo di un misero 0,14% entro il 2035, a nessun sensibile effetto sull’occupazione, con gravi problemi per i diritti di tutti noi, ma anche per le nostre taschei.
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I gilet gialli, Toni Negri... e Lenin
di Moreno Pasquinelli
Nella sua grandezza il moderno movimento rivoluzionario italiano ha conosciuto diverse iatture, prima tra tutte quella di essere sorto sotto la cattiva stella di un ribellismo anarcoide, tanto valoroso quanto impotente dal punto di vista politico —id est: incapace di costruire egemonia in vista della conquista del potere statale. Il bordighismo, sotto il cui stemma il partito comunista nacque nel 1921, si presentò come la cura per guarire il movimento dal suo congenito sovversivismo confusionario. Il suo dottrinarismo, dogmatico e paralizzante, come terapia, fu peggiore della malattia. Ed infatti, il bordighismo, miseramente fallì. Negli anni '60 del secolo scorso, dopo quattro lustri di indiscussa egemonia togliattiana, la originaria matrice ribellistica, ora impastata, e non a caso, col vecchio mito sindacalista dei "produttori", risorse sotto le eleganti fattezze dello "operaismo". Di lì venne, nel "decennio memorabile dei '70", la cosiddetta "autonomia operaia" che fu il principale vettore della sovversione sociale, una splendente supernova che quasi tutti travolse nel suo collasso destinale.
Cantonate strategiche
Ecco, Toni Negri, cultura grande e mente perspicace, è stato l'esponente di punta della "autonomia operaia" (per questo ingiustamente perseguitato dal potere), e dopo della "autonomia post-operaia" (per questo apprezzato dal potere). Non è qui il luogo per ripercorrere la sua, al contempo, pirotecnica ma, a ben vedere, invariante evoluzione teorico-politica.
Vale ricordare, proprio per capire cosa egli ha scritto del movimento francese dei Gilet Gialli, la sua pornografica infatuazione per l'euro e l'Unione europea ... come "terreno di lotta" — vedi QUI, QUI e QUI — per finire con la supercazzola pronunciata alle porte delle decisive elezioni del 4 marzo scorso:
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Il lungo viaggio degli uomini della moneta
Le radici del presente nell'analisi di Rita di Leo
di Damiano Palano
Il giorno di Ferragosto del 1971 l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò da Camp David la sospensione della convertibilità tra dollaro e oro. Molti lessero allora quella clamorosa decisione come il segnale dell’imminente declino dell’«impero americano», impantanato nella guerra del Vietnam e alle prese con le forti tensioni sociali interne, con un’inflazione galoppante, con l’aumento della spesa pubblica. La sospensione della convertibilità – confermata definitivamente nel 1973 – sembrava inoltre concludere la quasi trentennale vicenda del sistema delineato a Bretton Woods nel 1944, quando si fissarono i cardini del nuovo ordine internazionale liberale, fondato sul ruolo egemone degli Usa. Quello che parve allora un tramonto può invece oggi essere considerato come il momento di avvio della globalizzazione (o quantomeno della sua fase più recente), oltre che come il punto di partenza di quella rivoluzione ‘neo-liberale’ che si manifestò compiutamente con la presidenza di Ronald Reagan a partire dagli anni Ottanta. L’ordine internazionale liberale si rivelò infatti molto più vitale di quanto molti avessero previsto, anche se modificò almeno in parte la propria logica. E proprio allora la partita della Guerra fredda conobbe per molti versi una mossa decisiva, destinata a rivelare le proprie conseguenze solo più tardi.
È anche per questo che, nel corso degli ultimi anni, molti studiosi sono tornati alla svolta degli anni Settanta per ripercorrere la genesi del nuovo assetto ‘neo-liberale’ e per individuare le radici della crisi contemporanea. Nel suo nuovo libro, L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (Il Mulino, pp. 197, euro 19.00), Rita di Leo propone invece una rilettura più ambiziosa, che procede ben più indietro rispetto al 1971 e alla sospensione della convertibilità tra dollaro e oro.
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I saggi di interesse sono la variabile cruciale nell’economia italiana. Attenzione!
di Salvatore Biasco
Intervento di Salvatore Biasco Sabato 29 settembre 2018 a Lanciano. Convegno “Le Mani Visibili”: Le giornate di economia Marcello De Cecco 2018. Seconda giornata. Summary: L’intervento segue l’aumento dei tassi di interesse dopo l’accordo di governo. Fa vedere quanto fosse dannosa per vari settori dell’economia anche quella che sembrava essere una fiammata temporanea. Col varo della finanziaria non è più solo una fiammata. Lo scopo dell’analisi è di cogliere, su piccola scala, le sequenze che si potrebbero avere, su scala parossistica, se si uscisse dall’euro. Anche in quel caso, il livello cui si porterebbero i tassi di interesse è il perno su cui ruotano le conseguenze. Se ne fa una stima e si segue l’incontrollabile dinamica che farebbe seguito
Innanzitutto ringrazio gli organizzatori per questo invito e rivolgo un saluto commosso a Giulia.
Penso che il titolo di questo incontro non poteva essere più felice: Le Mani Visibili. Le vicende economiche per De Cecco non sono rapporti tra aggregati dell’economia, ma vicende dell’agire umano, degli interessi organizzati, dei rapporti di forza, delle volontà politiche ed anche dei retaggi e dei condizionamenti storici, e vanno studiate in quest' ottica. Nulla per lui è ovviamente predeterminato, perché poi si scontrano visioni e strategie differenti e perché non sempre si è in grado di dominare il mercato. Ma anche questo è parte dell’'analisi.
Accanto a queste categorie, una rientrava spesso nelle conversazioni private è quella dei “ciucci”, perché c’è anche un agire umano che esercita influenza perversa nella storia, per pura ignoranza o cecità. Una categoria, che usava spesso anche in riferimento alla vita quotidiana e a persone di comune conoscenza.
Ecco: questa categoria mi è ritornata in mente a proposito della salita di tassi di interesse, che si è determinata negli ultimi quattro mesi e mezzo dal momento della firma del contratto di governo. Pensavo di venire qui a raccontare le conseguenze di una fiammata inutile dei saggi di interesse (che anche Draghi aveva stigmatizzato affermando che “le parole possono far danni”). In realtà oggi, dopo il varo ieri della finanziaria, dobbiamo parlare di fatti, non di parole. Oggi forse quella che mi sembrava una fiammata dovuta a dichiarazioni incaute, diventa linea politica e mi costringe a integrare l’intervento che avevo preparato fino a due giorni fa.
Perché scegliere questo tema? Perché ritengo che seguendo le conseguenze di ciò che ha comportato l’aumento fin qui dei tassi di interesse troviamo una prefigurazione in sedicesimo di quello che potrebbe succedere se domani i tassi dovessero scalare a livelli ben più alti e noi uscissimo dall’euro.
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I Big Data e il nuovo mondo intelligente visto come palcoscenico supremo del positivismo
di Thomas Meyer
«Nel suo articolo, "I Big Data e il nuovo mondo intelligente visto come palcoscenico supremo del positivismo", Thomas Meyer affronta quella che nel panorama scientifico appare come una tendenza recente nei confronti dei Big Data, che vengono ormai applicati quasi ovunque. Gli apologeti delle "Scienze dei Big Data" e delle loro applicazioni si attendono da tali Big Data la soluzione di ogni tipo di problema. In ciò, questi apologeti mostrano un forte slancio tecnocratico, e una completa mancanza di comprensione di che cosa sia la società e la storia. Meyer, pertanto, mostra quali sono le pretese della Fisica Sociale, così come essa viene formulata dallo scienziato informatico Alex Pentland. Vediamo inventariate anche le diverse possibilità di applicazione dei Big Data, così come vengono implementate in diversi algoritmi. Ad esempio, nella lotta (preventiva) contro il crimine, e nel prevedere i "recidivi". Nella conclusione vengono riportate le diverse critiche di sinistra (liberali) nei confronti dei Big Data, come quella di Cathy O'Neil, che possiamo sentire ripetutamente citata nel dibattito pubblico. Grazie all'enorme abbassamento dei costi che hanno avuto i sensori, le videocamere, ecc., ora tutte le apparecchiature possono essere equipaggiate con questo genere di dispositivi ed essere collegati ad Internet. Ed ecco che così si può formare la "Internet delle cose". In questo modo, il mondo digitale arriva, per così dire, con innumerevoli promesse di salvezza: per esempio, con i "dispositivi intelligenti", si può economizzare elettricità e aiutare le persone a consumare in maniera "verde" e "sostenibile". Anche per ciò che riguarda l'Internet delle Cose, "del nuovo mondo intelligente", vengono riferite le critiche di sinistra (liberali), soprattutto quelle di Evgeny Morozov, e vengono mostrate quali sono le loro preoccupazioni. Di regola, l'individuo borghese si sente sotto pressione e minacciato, per quel che attiene alla sua maturità e alla sua libertà di scelta, dai Big Data e da un'infrastruttura sempre più "intelligente". Tuttavia, da queste critiche, la digitalizzazione non viene vista nel contesto della crisi, della repressione sociale e della dinamica della valorizzazione capitalista in generale.
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Marx, tra di noi. Dentro e contro l’antropomorfosi del capitale
di Cristina Morini
Lui accarezza lo sguardo tuo,
tu ti abbandoni al gioco suo.
E io, tra di voi, se non parlo mai,
ho visto già tutto quanto.
Ed io tra di voi, Charles Aznavour
Ci sono alcuni aspetti di Marx che costituiscono, per me, una fonte di ispirazione e di discussione, nel presente, tra noi, ora e qui. Ci ritroviamo sempre più numerose e numerosi a ragionare su come l’analisi delle forme assunte dal capitale necessiti di essere più strettamente congiunta a un’analisi delle forme delle interiorità o delle sfumature soggettive che il capitale va affermando (o meglio: prova ad affermare) come progresso della sua propria riproduzione.
“Vite, parole e corpi”: effettivamente è esattamente su questo crinale che interseco da un lato una lettura di Marx meno economicista e più attenta all’umano e ai corpi; dall’altro una radice che spinge ad approfondire la nuova/antica, eterna eppure cangiante, materia del lavoro, le sue forme (astratte e concrete) e le differenti prospettive da cui guardarle.
La mia lettura è debitrice al retroterra femminista e alle interpretazioni neo-operaiste del lavoro come fatto sociale. Incrocia inoltre il pensiero di alcuni autori marxisti “eretici”, come Luciano Parinetto in Corpo e rivoluzione (1976) e Giorgio Cesarano in Critica dell’utopia capitale (1979). Molti ulteriori preziosi spunti derivano dai due libri di Roberto Ciccarelli usciti quest’anno (Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, 2018 e Capitale Umano. La vita in alternanza scuola lavoro, 2018).
I nuovi paradigmi socio-economici hanno oggi più esplicite incidenze sugli esseri umani, al punto che essi introiettano modelli tipici dell’impresa (competizione intesa sempre più esplicitamente come concorrenza; efficienza intesa come produttività dell’uomo-donna impresa; reputazione intesa qui come brandizzazione dell’individuo medesimo, attraverso la sua vetrinizzazione).
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La RPC nel mar cinese meridionale II
Dalle battaglie tra Cina e Vietnam al 2008
di Michele Nobile
L'articolo di Michele Nobile continua la serie sulla politica estera della Repubblica popolare cinese, centrata sull’analisi della situazione nel Mar cinese meridionale. Di Nobile si veda anche «Sul “socialismo con caratteristiche cinesi”, ovvero del capitalismo realmente esistente in Cina», 10 settembre 2018, http://utopiarossa.blogspot.com/2018/09/sul-socialismo-con-caratteristiche.html e «La Cina e la questione dell’egemonia. Il Mar cinese meridionale come banco di prova: attori e scenario (Prima parte)», 10 dicembre 2018, http://utopiarossa.blogspot.com/2018/12/la-cina-e-la-questione-dellegemonia.html e https://sinistrainrete.info/geopolitica/13951-michele-nobile-la-cina-e-la-questione-dell-egemonia.html
1. Locale e globale: le battaglie tra Cina e Vietnam nel Mar cinese meridionale
La Repubblica popolare cinese (Rpc), Taiwan e il Vietnam rivendicano la sovranità sull’intero Mar cinese meridionale fin dal termine della Seconda guerra mondiale ma, per un lungo periodo, non furono in grado di concretizzare queste pretese, sia a causa delle loro limitate capacità operative locali che del contesto globale. Durante la conferenza di San Francisco del 1951 - che produsse il trattato di pace col Giappone - la delegazione vietnamita (allora non ancora diviso) rivendicò la sovranità sia sull’arcipelago delle Isole Paracelso che su quello delle Spratly.
Né la Rpc né la repubblica stabilita in Taiwan dalle sconfitte forze del Kuomintang vennero invitate alla Conferenza, ma la delegazione sovietica espresse per conto della Rpc le stesse rivendicazioni del Vietnam, con l’aggiunta delle isole Pratas - amministrate da Taiwan, in realtà si tratta di una piccola isola senza abitanti permanenti che è parte di un atollo corallino solo in parte è sopra il livello dell’alta marea - e di Macclesfield Bank, un grande atollo sommerso tra le Paracelso e le Pratas1.
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