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La rivoluzione nella nostra vita
di Matteo Montaguti
Emiliana Armano e Raffaele Sciortino (a cura di), Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, Colibrì 2018, pp. 112, € 14,00.
«Il problema per me è sempre stato quello di usare la scrittura come arma»
Loren Goldner
Nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto, caduto nell’anno appena passato, sono state numerose le pubblicazioni, accademiche e non, che ne hanno tentato un bilancio, perlopiù di tipo storiografico, memorialistico o sociologico, oppure di basso taglio giornalistico. Ben poche, invece, quelle che hanno provato a farne un bilancio politico nitido, di lungo corso e soprattutto di parte. Tra queste va sicuramente segnalato, anche rispetto alla ricorrenza del mezzo secolo che ci separa dalla rivolta operaia del 1969, Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, curata da Emiliana Armano e Raffaele Sciortino per i tipi di Edizioni Colibrì.
Loren Goldner, settantenne militante marxista e atipico intellettuale statunitense, è una figura poco conosciuta in Italia ma di spessore internazionale: ha al suo attivo un’infaticabile attività teorica e di pubblicista, con numerosi saggi di critica dell’economia politica, filosofici, letterari (alcuni dei quali tradotti anche in italiano, come L’avanguardia della regressione. Pensiero dialettico e parodie post-moderne nell’era del capitale fittizio e, in concomitanza con la crisi dei subprime in America, il volume Capitale fittizio e crisi del capitalismo, entrambi delle edizioni PonSinMor) e conduce da diversi decenni un recupero critico della storia di classe e una rigorosa analisi sulle trasformazioni del capitale, in particolare per quanto riguarda la sua finanziarizzazione, rileggendo la nozione marxiana di “capitale fittizio” alla luce della lunga crisi del dollaro iniziata dopo la rottura degli accordi di Bretton Woods.
Il volume curato da Armano e Sciortino è un denso ma agile strumento utile per la difficile operazione di definire un punto di vista militante e un metodo di pensiero autonomo che sappiano confrontarsi, oggi, con i tempi, le espressioni e le forme globali della lotta di classe – e quindi di un agire politico di parte – senza cedere alla rassegnazione dello sguardo contingente, alla vana nostalgia per il passato («la nostalgia non è un’emozione da marxisti […] cerchiamo di guardare al futuro a partire da una valutazione lucida e realistica del presente», p.72), alle facili narrazioni egemoni e alle difficili impasse della propria fase.
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Quale Marx?
Lo scontro egemonico tra Gramsci e Gentile
di Emiliano Alessandroni
Premessa
Nel paragrafo 235 del Quaderno 8, dal titolo Introduzione allo studio della filosofia, Gramsci sostiene l'importanza di «rivedere» e «criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo», predisponendo, sull'esempio di Engels, le idee per la composizione di «un nuovo Antidühring, che», afferma, «potrebbe essere un AntiCroce, poiché in esso potrebbe riassumersi non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche, implicitamente, quella contro il positivismo e le teorie meccanicistiche, deteriorazione della filosofia della praxis»1. Più avanti, in Q 10b, 11, egli specifica che «un Anti-Croce deve essere anche un Anti-Gentile»2.
La lotta contro le teorie dei due filosofi idealisti costituisce per Gramsci una delle vie maestre per procedere ad una corretta esposizione di quella «filosofia della praxis» che individuava in Marx ed Engels i propri padri fondatori. Il primo oggetto del contendere è dunque il materialismo storico e vedremo come le riflessioni di Gramsci, tanto quelle dei Quaderni quanto quelle degli scritti precedenti, forniscano gli elementi fondamentali oltre che per la stesura di un Anti-Croce anche per quella di un Anti-Gentile3.
Nell'accostarsi a questo tema occorre tenere in considerazione due questioni fondamentali 1) Gentile non è mai stato marxista; 2) elementi del marxismo sono penetrati nella prospettiva di Gentile. Contrariamente a quanto da un primo sguardo possa apparire, di questi due punti è il secondo a costituire il dato meno sorprendente. Gramsci stesso ci induce invero a supporre che dopo Marx non esiste autore della storia della filosofia nel quale non si possano rintracciare testimonianze della sua lezione.
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Il lavoro ci interessa, ma pure il salario
di Teresa Battista*
In un editoriale del "Corriere della sera" Ferruccio De Bortoli sostiene che il lavoro c'è, a mancare sono i giovani talenti interessati a lavorare. Ma la realtà è un'altra e parla di precarietà, basse retribuzioni ed emigrazioni dall'Italia
Pare che i liberali del nostro paese non possano fare a meno di biasimare quotidianamente disoccupati e poveri, quali soggetti privi di ogni etica e intrinsecamente oziosi, scansafatiche. Proprio qualche giorno fa dalle pagine del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli si lancia in un’invettiva contro la classe lavoratrice precaria e disoccupata, usando come alibi il discusso e discutibile “reddito di cittadinanza” da poco approvato dal governo, quale meccanismo che disincentiverebbe i disoccupati a darsi da fare e accettare le centinaia di migliaia di posti di lavoro disponibili. Insomma, parafrasando il titolo dell’articolo citato, secondo lui il lavoro c’è ma non ci interessa. Figuriamoci con un po’ di reddito di sudditanza a disposizione.
Le argomentazioni adottate discendono direttamente dalla teoria neoclassica secondo cui un aumento dei sussidi ridurrebbe l’incentivo per i disoccupati a cercare lavoro perché potrebbero godere di un reddito seppur modesto, rifiutando la fatica del lavoro a cui sono costretti dalla propria condizione sociale. Tuttavia, la realtà e la ricerca scientifica smentiscono ormai da decenni questi argomenti. Il tentativo di riportare i fatti dentro il guscio ideologico del liberismo appare sempre più goffo e velleitario. Vale però la pena ricordare che il contrasto a una politica di sussidi in caso di disoccupazione e/o disagio sociale fa parte di quella corrente teorica che vede ogni protezione delle condizioni di vita dei lavoratori, e più in generale delle fasce subalterne della società, come uno spreco che inibisce il buon operare del mercato e la competitività delle imprese. Abbiamo già visto dove la pluridecennale liberalizzazione e flessibilizzazione del lavoro ci ha portati, con il mondo del lavoro come bersaglio privilegiato delle politiche di deflazione e austerità, di cui fanno parte il blocco del turnover nella pubblica amministrazione e l’esternalizzazione di ampi servizi pubblici.
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Le trecce di Derrida
Accedere al laboratorio filosofico di Derrida – come è il caso delle nove lezioni del corso Teoria e prassi tenuto nel 1975-1976 presso l’École Normale Supérieure di Parigi – è sempre un’esperienza che provoca sentimenti ambivalenti. Da un lato, l’innegabile gioia di rintracciare i nuclei incandescenti di formazioni di pensiero in magmatica evoluzione trasformativa e dall’altro – per riprendere le parole a cui, già nelle primissime righe del testo, lo stesso Derrida fa ricorso di fronte all’enormità del tema che si trova a dover fronteggiare – «l’immensa difficoltà» a districarsi tra la proliferante e sorprendente disseminazione di piste che, più o meno tracciate, si aprono, si perdono, si intrecciano, si cancellano, e si sovrappongono a ogni svolta della sua riflessione fino a far emettere, sia al lettore che al filosofo francese, «un sospiro di scoraggiamento».
Molteplici sono le linee di forza/frattura/fuga che, pagina dopo pagina, tracciano il testo di questo corso, pubblicato da Galilée nel 2017 e prontamente reso disponibile in italiano, nel novembre dello scorso anno, grazie alla cura di Gianfranco Dalmasso e Silvano Facioni e alla pregevole traduzione dello stesso Dalmasso e di Marco Maurizi. Quattro trecce, però, innervano l’incedere del corso in maniera più evidente di altre, costituendone una sorta di impalpabile e sfuggente architettura. Queste trecce – iper-tracce o infra-tracce in cui si annodano, forsennatamente e rizomaticamente, gli innumerevoli fili che le compongono, che le sfilano l’una nell’altra e che le fanno sfilare – sono tra loro difficilmente separabili, rendendo di fatto impossibile il compito di recensirle. Ma, nonostante tutto, «si deve fare», direbbe Derrida.
Ecco, allora, quasi d’incanto, venirci incontro la prima treccia – «faut le faire» –, che vede in Marx e Althusser i suoi aiutanti. «Si deve fare» è l’espressione che (ri)taglia il testo derridiano da cima a fondo. Prima treccia che risuona con tonalità differenti a seconda che l’enfasi, come accade molto spesso nell’idioma derridiano, cada sul fare o sul deve.
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L’unità della sinistra? E’ un falso problema
di Rete dei Comunisti
In questi anni più si è parlato di “unità dei comunisti” e più ci sono state scissioni e nascita di “partiti comunisti”, più si parla di “unità della sinistra” e più si sono prodotte divisioni nella sinistra. L’invocazione all’unità si è dimostrata inversamente proporzionale ai risultati che ha prodotto, sia tra i militanti comunisti che nel mondo della sinistra.
E’ evidente che qualcosa non funziona, che non può funzionare, che non funziona più! Appaiono poi ingannevoli e devastanti i tentativi di resuscitare l’unità della sinistra in occasione di appuntamenti elettorali nazionali, locali o europei che siano.
Con l’esaurimento della funzione di fiancheggiamento/subordinazione dei partiti comunisti o della sinistra radicale ai governi del centro-sinistra, alle loro politiche subalterne ai diktat europei e alla centralità degli interessi privati rispetto a quelli collettivi, sia i comunisti che la sinistra hanno via via condiviso con l’Ulivo prima e il Pd poi l’ostilità nel senso comune popolare. E oggi se ne pagano ancora tutti i prezzi. Sia le ipotesi fortemente identitarie e auto-centrate dei comunisti sia le ipotesi di cartelli larghi e inclusivi della sinistra, in tale contesto, non hanno prodotto risultati significativi né dignitosi. Non li hanno prodotti sul piano elettorale (per molti unica ragione di esistenza politica e metro di misura) né sul piano strategico attraverso la rimessa in campo di una ipotesi di trasformazione rivoluzionaria sufficientemente solida per affrontare le tappe di un programma di transizione di classe anche di tipo “riformista”.
Questa mancata rimessa a fuoco di una ipotesi rivoluzionaria in una fase controrivoluzionaria, non poteva che accentuare la crisi dei partiti comunisti residuali o dei residui della sinistra radicale.
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Una storia complessa. La teoria dell’accumulazione in Marx
di Roberto Fineschi*
Abstract: «Accumulation» is a crucial concept in Marx’ theory of capital. Next only to the value form, this is the part that underwent the most significant changes in the different drafts of his work, since it plays a crucial role in its general structure. Its function, more than the transformation of values into prices of production, is the key point to think the continuity/discontinuity between the different abstraction levels of the theory. In this essay, we shall try to show this development and explain its more general meaning
1. Introduzione
L’accumulazione nella struttura teorica del capitale costituisce uno snodo fondamentale, senza il quale l’intero sistema non starebbe in piedi. Non a caso è una delle parti che è stata soggetta ai rimaneggiamenti più consistenti man mano che l’intelaiatura andava definendosi, seconda in questo forse solo alla forma di valore. Rispetto a questa, tuttavia, sempre collocata all’inizio dell’opera, l’accumulazione ha via via cambiato posizione, si è articolata in più passaggi e sezioni nei tre libri, fino a diventare la vera cifra dello sviluppo della teoria di Marx e dei suoi cambiamenti tra le varie redazioni.
La ragione per cui questa parte della teoria è così importante è legata alla metodologia marxiana, in questo eminentemente dialettica. In tale prospettiva, nella propria articolazione interna essa deve produrre come propri risultati quelli che inizialmente erano dei presupposti da essa stessa non posti. Realizzare ciò significa produrre dei “presupposti-posti”: solo grazie a questo il capitale può effettivamente essere un processo, ovvero muovere da se stesso per porre se stesso. Questo modo di procedere per cui la teoria, come dire, ritorna su se stessa autofondandosi è, nell’ottica di Marx, connesso a un’altra tematica che potrebbe sembrare muovere in direzione opposta; vale a dire esso solleva il tema dei “limiti della dialettica” e, più in generale, della concezione materialistica della storia. Infatti, Marx intende mostrare come il modo di produzione capitalistico abbia un punto di partenza non posto da esso stesso, per sostenere come non sia possibile un corso storico universale a priori; le leggi della dialettica teorizzano i rapporti di produzione via via correnti in virtù della loro logica intrinseca che è storicamente determinata e non è generalizzabile in astratto: non la si può estendere come tale ad altri modi di produzione, i quali vanno invece ricostruiti sulla base della logica loro propria. Se questo pone in termini radicali la discontinuità, d’altra parte presenta il rischio teorico di avere una teoria sempre deficitaria in quanto dipendente da elementi esogeni per cui in ogni istante la sua coerenza potrebbe venir meno venendo a mancare tale elemento esogeno.
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L’impotenza della ridentificazione
di Salvatore Bravo
La scomparsa dell’identità in olocausto dello sviluppo economico è un dato palese; non si ha sufficiente consapevolezza del prezzo che quotidianamente ogni suddito del sistema capitale paga al capitalismo assoluto. Il nichilismo dell’identità è occultato da una serie di compensativi anestetici del dolore che procura la quotidiana lotta per ritagliare una momentanea forma-identità nel tumulto dello sviluppo economico: la merce che promette l’Eden in terra, il corpo liberato da ogni limite e confine, i viaggi del turismo acquisitivo e narcisistico svolgono la stessa funzione del Paradiso, per i mortali sofferenti nelle religioni monoteiste. Il capitalismo si rivolge alla pancia, per occultare la sofferenza di un’umanità senza volto e senza appartenenza. L’identità è divenuta una forma complementare alla volontà di onnipotenza: l’atomo-individuo in assenza del fondamento veritativo scolpisce la propria identità. L’inganno non è mai svelato, si spingono i sudditi liberati da ogni vincolo ontologico, alla perenne riqualificazione e rigenerazione delle identità, l’uomo modulare si compone e ricompone a seconda dei desideri. In verità è il mercato tecnocratico a soffiare verso alcune scelte piuttosto che altre in relazione alle necessità dello stesso e quindi dei prodotti da immettere. La merce-mercato decide le identità e nello stesso tempo le istituzioni affiancano il mercato elaborando l’illusione della scelta, difendendo, quale valore sacrale irrinunciabile, la scelta dell’identità plurale. La volontà di potenza si rovescia nella pratica dell’impotenza: nessuno è se stesso, ma ciascuno è come gli altri. Bauman nei suoi scritti definisce il tempo del capitalismo assoluto “puntiforme” non vi è continuità, non vi è progetto, i momenti temporali sono paragonati ad un punto, il quale è assenza di spazio e quindi di tempo, al soggetto non è concessa un’identità che consenta di scolpire il senso del proprio tempo, ma il tempo puntiforme è similare all’identità precaria, liquida pronta ad essere consumata, dopo averla utilizzata per vivere l’esperienza del momento.
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L'infinita Eurotragedia italiana
di Giuseppe Masala*
E dunque la tanto attesa e temuta recessione tecnica è arrivata tra noi, con tanto di bollinatura ufficiale dell'Istat. Immediatamente si è scatenata - soprattutto nell'agone politico nazionale - un assordante rumore di fondo dove ciascuna parte politica tenta di accusare gli avversari di quella che è la terza recessione in undici anni. Un vero unicum nella storia nazionale dall'avvento dello stato unitario.
Se è certamente vero che la scintilla che ha scatenato l'ennesimo psicodramma italiano è ascrivibile ad un chiaro rallentamento della congiuntura internazionale dovuta probabilmente anche alla guerra commerciale in corso tra USA e Cina e ai timori di una hard Brexit possiamo certamente dire che le cause profonde del male oscuro italiano sono altre. Proverò ad indagare in questo spazio quelle che mi paiono le più importanti.
Recessione tecnica o infinita depressione strategica?
Certamente se guardiamo all'andamento del Pil italiano dall'ottica dell'anno rispetto all'anno precedente o del trimestre rispetto al trimestre precedente ciò che appare è che nell'ultima decade abbiamo vissuto una tripla recessione. Ognuna delle quali variamente spiegabile. La prima causata dal grande crollo di Wall Street del 2008, la seconda causata dall'impellente necessità di riportare in pareggio la nostra bilancia commerciale e il saldo delle partite correnti. Operazione, sia detto per inciso, riuscita mirabimente (anche se a costi sociali altissimi) grazie al governo guidato dal Prof. Monti. E ora la terza, causata come detto sopra, dal rallentamento della domanda mondiale a causa della guerra commerciale in corso tra Cina e USA e dalle aspettative di una Hard Brexit che potrebbe gelare il sistema economico europeo. Tutto sembra chiaro, ma se cambiamo punto di osservazione le cose se possibile appaiono ancora peggiori.
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Cosa vive e cosa muore a Caracas
Il tramonto dell'Occidente
di Fulvio Grimaldi
“Già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell'Occidente” (Osvald Spengler, “Il Tramonto dell’Occidente”).
“Siamo invisi agli Stati Uniti perché abbiamo qualcosa di molto più importante delle ricchezze materiali che è lo spirito bolivariano che ci muove e che abbiamo risvegliato negli altri paesi. Siamo un esempio per il mondo intero, per tutti quei popoli che vogliono emanciparsi, che vogliono difendere la propria dignità e la pace. Questo è considerato per gli Stati Uniti una minaccia” (Olga Alvarez, costituzionalista venezuelana).
“Spero che quel regime comunista cada il più presto possibile” (Matteo Salvini).
Nancy e Roberto presidenti
Nancy Pelosi, speaker (presidente) della Camera bassa Usa, è apparsa a Baltimora da dove ha lanciato la sfida al presidente eletto, Donald Trump, proclamandosi nuovo presidente – ad interim – degli Stati Uniti in virtù del fatto che quello in carica è un usurpatore essendo stato eletto, sì ai termini della Costituzione e della legge elettorale vigente, ma contro la effettiva volontà del popolo, espressosi a maggioranza per Hillary Clinton. A parte qualche pigolìo contrario di rappresentanti di terzo e quarto livello, la Comunità Internazionale ha condiviso l’azione di Pelosi. Alcuni ne hanno riconosciuto subito la titolarità, altri hanno intimato all’usurpatore di indire nuove elezioni entro otto giorni e di ricordarsi che “tutte le opzioni sono sul tavolo” a sostegno dell’autonominata. Uno spiazzatissimo Trump, che aveva dato spago a un’analoga novità istituzionale in Venezuela, non ha potuto far altro che capovolgersi per l’ennesima volta e chiamare i suoi sostenitori della Rust Belt a unirsi ai bolivariani del presidente di quel paese nella resistenza agli infervorati presidenti golpisti delle Camere di tutto il mondo.
Accomodatasi nella posizione di usciere alla porta orientale del palazzo e guadagnatasi il sussidio di sussistenza per la riconferma del suo servizio – costi quel che costi – a Usa, Nato e UE, l’Italia si è immediatamente allineata all’impresa interamericana.
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Proletari di tutto il mondo, imprenditorializzatevi!
di Stefano Oricchio
Etnografia di una forza-lavoro nomade e intraprendente: “Entreprecariat” di Silvio Lorusso
Si è soliti pensare che la ricerca di un lavoro rappresenti un passaggio pressoché obbligato nella vita di ognuno. Da qualche tempo tuttavia, soprattutto tra le nuove generazioni, si fa largo l’idea che esso vada piuttosto inventato. In questo senso, lo sviluppo delle tecnologie digitali ha spalancato un mondo, creando nuovi mercati, ruoli professionali e opportunità di inserimento. Non si tratta, però, di un processo pacifico e lineare: anzi, le attuali possibilità si sono intrecciate ancora più a fondo con le solite necessità.
La nuova potenziale forza-lavoro è infatti impegnata in una una competizione fratricida, il cui livello si è innalzato parallelamente a quello di una scolarizzazione sempre crescente per far fronte alle esigenze del capitalismo cognitivo e immateriale. Per emergere, o per uscire quantomeno vivi dalla società dell’incertezza (cfr. Bauman, 1999), occorre allora inventarsi qualcosa, rischiare, sapersi pubblicizzare, essere creativi, multimediali, flessibili e possibilmente poliglotti: occorre, cioè, adottare uno spirito imprenditoriale sulla propria persona che tuttavia non è ascritto alla nascita e bisogna investire risorse che, allo stesso modo, non tutti posseggono. Il risultato è, come si diceva, un intreccio di possibilità e necessità affascinante per alcuni ma terrificante per molti altri.
I dettagli, le modalità, gli effetti e le contraddizioni di questo processo di precaria imprenditorializzazione del mondo sono l’oggetto di Entreprecariat – Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro, un prezioso lavoro firmato da Silvio Lorusso.
Una Divina Commedia attualizzata
Entreprecariat riunisce, completa e sistematizza diversi materiali con cui l’autore è già intervenuto a gamba tesa su alcune delle più recenti trasformazioni del lavoro, ben etichettate da questo fortunato neologismo anglofono in cui si fondono imprenditoria e precarietà.
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Il socialismo è morto. Viva il socialismo
di Carlo Formenti
Pubblichiamo la prefazione del nuovo libro di Carlo Formenti. Come lui stesso afferma, “se “La variante populista” aveva suscitato un vivace dibattito, questo non mancherà di provocarne uno ancora più feroce. Per rendervene conto vi basterà dare un’occhiata alla Prefazione”
Prefazione
Secondo gli storici, la formula rituale “il re è morto, viva il re” sarebbe stata recitata per la prima volta nelle corti francesi del tardo medioevo, per poi diffondersi in altre nazioni europee. Questa ricostruzione storica mi interessa relativamente; più importante – considerato il titolo che ho scelto di dare a questo libro – mi sembra invece ragionare sul senso e sulla funzione dell’atto linguistico in questione. Il significato più banale è rintracciabile nella versione popolare che ne è stata coniata con il detto “morto un papa se ne fa un altro”: questa volgarizzazione ha il merito di mettere l’accento sulla continuità di un’istituzione (la Chiesa) che sopravvive nel tempo, trascendendo i singoli individui (i papi) chiamati di volta in volta a incarnarne l’esistenza e l’unità (senza dimenticare la valenza ironica del proverbio: cambiano gli interpreti, ma non cambia lo spartito di un potere che opprime chi sta sotto). Il tema della continuità è ancora più pregnante nella versione originale: dal momento che la vita stessa dell’istituzione monarchica è indissolubilmente associata al corpo del re, occorre che non si dia cesura temporale fra dipartita del sovrano e ascesa al trono del successore. Di qui, da un lato, l’ossessione per le politiche familiari intese a garantire la nascita di uno o più eredi al trono, dall’altro lato – considerato il rischio di intrighi, conflitti dinastici, ecc. da cui possono derivare vuoti di potere e guerre di successione -, il tono imperativo che affiora dietro le parole: “il re è morto, viva il re” è una frase performativa che intende non solo asserire, ma creare una situazione di fatto: la successione è avvenuta, l’unità dello stato è garantita.
Dal momento che non è mai facile sbarazzarsi del peso della tradizione, voglio sgombrare il campo da possibili equivoci. In primo luogo, scegliendo di titolare questo lavoro “Il socialismo è morto, viva il socialismo” non avevo in testa alcun intento ironico (non riusciremo mai a liberarci di questo mito, o simili); ma soprattutto non avevo alcuna intenzione di rivendicare una continuità: questo perché è mia convinzione che il socialismo sia realmente morto nelle forme storiche che ha conosciuto dalle origini ottocentesche all’esaurirsi delle spinte egualitarie novecentesche, prolungatesi per pochi decenni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale.
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Quantitative easing: un bilancio fallimentare
di Enrico Grazzini
Quale è il bilancio finale del Quantitative Easing? Ha funzionato oppure no, nell'eurozona e in Italia? Il QE appena terminato è stato sufficiente per evitare una nuova crisi dell'eurozona? La risposta non può che essere negativa. Il programma di espansione monetaria lanciato dalla Banca Centrale Europea nel marzo 2015 e terminato alla fine di dicembre 2018 ha creato dal nulla moneta per ben 2600 miliardi di euro: una somma enorme, pari a circa il 20% del PIL dell'eurozona! Questa colossale liquidità è stata immessa a favore delle maggiori banche dell'area euro con l'obiettivo ufficiale di contrastare le tendenze deflazionistiche e produrre reflazione. Quale il risultato? Il QE ha temporaneamente salvato l'eurozona ma gli effetti del QE sono complessivamente molto deludenti. L'euro è sempre a rischio e l'eurozona potrebbe presto subire una nuova crisi. Nonostante il QE tutte le previsioni e tutti gli indici sono in netto peggioramento.
In effetti la BCE ha messo una enorme pezza solo per salvare le banche afflitte dal peso dei titoli tossici (comprati soprattutto dagli USA al tempo dei subprime e pari a 6800 miliardi, una somma astronomica concentrata per il 75% soprattutto negli istituti di Germania e Francia) e dei crediti deteriorati (900 miliardi); e per salvare gli stati in forte difficoltà di bilancio – Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia – o in via di fallimento, come la Grecia. Tuttavia la banca centrale europea non è riuscita a centrare né l'obiettivo ufficiale del QE – inflazione stabilmente sotto, ma vicino al 2% - né l'obiettivo strategico: l'eurozona infatti è sempre in crisi e gli indicatori dell'economia sono ancora pericolosamente declinanti.
Del resto probabilmente la BCE non poteva fare molto meglio di quanto è riuscita a fare. La BCE è infatti una banca centrale dimezzata: a differenza di tutte le altre banche centrali, in base al suo Statuto deciso a Maastricht non può aiutare gli stati in difficoltà stampando moneta per monetizzare il loro debito pubblico.
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L’anti-colonialismo di Karl Marx
di Thierry Drapeau
Dopo l'incontro con il movimento cartista e il poeta Ernest Jones, il filosofo tedesco maturò la convinzione dell'importanza delle caratteristiche multirazziali della classe e delle lotte contro la schiavitù, per combattere il capitalismo
Nel suo film Il giovane Marx, il regista Raoul Peck include una scena in cui un francese di discendenze africane fa un accorato intervento a uno dei discorsi parigini di Pierre-Joseph Proudhon. In contrasto con la folla di lavoratori radunata lì davanti, un elegante gentleman nero, vestito di tutto punto, interrompe il famoso oratore per incalzarlo a parlare anche della libertà di proletari e sottoproletari – “muratori, meccanici, fonditori!” – oltreché di quella degli artigiani, il cui lavoro era minacciato dalla crescita dell’industria. Marx e la sua partner di vita e militanza, Jenny, siedono proprio accanto al citoyen de couleur, e sembrano entrambi deliziati dalla critica che questi ha mosso al padre dell’anarchismo francese.
La scena è certamente significativa, poiché non è Marx ma un nero – probabilmente legato, direttamente o indirettamente, a un passato di colonialismo e schiavitù – che esorta Proudhon ad avere una visione della working class inclusiva del proletariato industriale. Nella scena la discussione non tocca mai direttamente la questione dei proletari schiavizzati e razzializzati del mondo coloniale. Implicitamente, tuttavia, lo fa. Attraverso questo personaggio nero Peck ci ricorda che Marx viveva e pensava dal cuore dell’impero coloniale, con possedimenti oltreoceano ancora dominati dalla schiavitù razziale, e che tale contesto più ampio plasmava inesorabilmente anche la composizione della working class metropolitana.
Eppure, nel film come nella storia, il Marx parigino non era ancora interessato, intellettualmente e politicamente, al colonialismo e alla schiavitù. È per questo che Peck non fa parlare il suo Marx con l’interlocutore nero, del quale condivide chiaramente la prospettiva, ma con Proudhon, con cui era fortemente critico. Questo punto cieco di natura colonialista che il regista haitiano sottolinea nel pensiero del giovane Marx non è una semplice idiosincrasia personale. Rispecchia la visione politica della working class che Marx stesso aveva avuto modo di scoprire e con cui era entrato in contatto nei caffè, nei salotti e nei banchetti della Ville Lumière tra il 1843 e il 1845.
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Lavoro e letteratura tra libertà e servitù
Un percorso
di Andrea Cavazzini
Il tema «Lavoro e letteratura» fa parte di una costellazione complessa fin dall’inizio. Nel sistema topico delle pratiche umane sviluppatosi nella modernità – diciamo tra il XVIII secolo e la fine del Novecento – entrambi questi termini sono portatori di una tensione, o forse di una contraddizione, che è quella tra libertà e necessità, tra autenticità e alienazione, tra autonomia e eteronomia. Impossibile qui ricostruire tale costellazione nel dettaglio e nel suo divenire, che comporterebbe lo studio approfondito di figure quali Adorno, Barthes, Bataille, Simone Weil (per restare al Novecento). Ci basterà delinearne le tensioni tematiche e concettuali.
Ricordiamo in ogni caso che un punto di arrivo, o comunque un vertice di intensità, di questa problematica è il testo di Franco Fortini, Opus servile, dei primi anni Novanta del ventesimo secolo, in cui l’attività letteraria è categorizzata attraverso l’assiomatica del lavoro fornita da Hegel nella “dialettica del servo e del padrone”. È chiaramente a partire da questa categorizzazione, che implica una discussione dei generi letterari e del loro rapporto con il tempo e il linguaggio, che sarebbe possibile ricostruire le figure del tema «Lavoro e letteratura» negli autori citati e in quanti ne sviluppano oggi la problematica (due tra tutti: Jacques Rancière e Giorgio Agamben).
1. Duplicità del lavoro
La parola “lavoro” fa parte del nostro discorso politico quotidiano. Ma parliamo veramente della stessa cosa, e della stessa nozione, nei discorsi dei teorici post-marxisti sul potenziale emancipatore del “lavoro immateriale”, nelle mobilitazioni contro la precarietà e misure quali l’infausto jobs act, nella constatazione che un numero crescente di persone sono escluse dal lavoro nei paesi “sviluppati”, nella rivendicazione da parte dei migranti di accedere a dei lavori regolari?
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Colin Crouch, “Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo”
di Alessandro Visalli
Leggeremo il recentissimo nuovo libro del famosissimo politologo inglese Colin Crouch, reso letteralmente una star dal suo libro del 2000, “Postdemocrazia” quando era direttore dell’Istituto di Governance e Public Management alla Business School dell’Università di Warwick. Il libro del 2000 ha avuto un indubbio merito, e per questo è inevitabilmente presente in ogni opera successiva: quello di aver sollevato la questione dell’erosione della democrazia ad opera dell’estremismo liberale quando ancora poche voci[1] si erano alzate ad avvertire del rischio. Successivamente sarà una valanga[2], e poi dal 2008 una eruzione[3]. Lo stesso Crouch fa peraltro seguire al suo primo libro di grande successo altri due libri significativi[4].
Ma se nel 2000 Crouch, che in fondo insegnava in scuole di economia, parla di cercare di ‘conservare il dinamismo e lo spirito intraprendente del capitalismo’[5] (scendendo a patti con il capitalismo finanziario), ma vede come “chiedere la luna” l’ipotesi di “porre tale richiesta a livello globale” oggi sembra aver cambiato completamente idea; allora le grandi organizzazioni sovranazionali[6] “sta[va]no andando nella direzione opposta”, per cui intravedeva ed indicava “spazio per contrattaccare a livello nazionale sul piano economico” (p.121), riducendo la confusione di funzioni e competenze tra governo ed imprese, adesso più o meno gli stessi fatti conducono a conclusioni opposte. Nella battaglia, cui ha deciso di partecipare da una parte specifica, tra globalismo e resistenze nazionali (preferirei dire, anche nei termini del libro del 2000 del nostro ‘tra globalismo e democrazia’) oggi Crouch ritiene che “possiamo avere un qualche controllo su un mondo caratterizzato da un’interdipendenza sempre maggiore solo attraverso lo sviluppo di identità e istituzioni democratiche e di governo in grado di spingersi oltre la dimensione dello Stato-nazione” (p.5).
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Il processo di liberazione dei popoli e delle classi
di Michele Basso
Marx ed Engels avevano come scopo principale la liberazione del proletariato dalle catene della schiavitù salariale, e, in conseguenza di ciò, la liberazione dell'umanità. Questo presupponeva uno studio delle cause storiche di questa schiavitù, analizzando gli sviluppi attraverso lo schiavismo, il feudalesimo,il capitalismo. Nozioni importanti sul processo di liberazione dei popoli si trovano negli scritti sulla questione irlandese. L'Irlanda del suo tempo, nonostante le mascherature istituzionali, era una colonia. Marx, dapprima, si attendeva la sua liberazione dall'avanzata del movimento operaio inglese, poi capì che proprio i rapporti di sudditanza dell'Irlanda erano il terreno su cui si sviluppavano le correnti più reazionarie, e che il dominio dei landlord in Irlanda permetteva loro di avere un peso determinante anche in Inghilterra, mentre l'emigrazione in Inghilterra degli irlandesi scacciati dalle terre dai landlord creava le condizioni per contrasti con gli autoctoni, per la divisione del movimento operaio.
Dopo essermi occupato per anni della questione irlandese, sono giunto al risultato che il colpo decisivo contro le classi dominanti in Inghilterra (ed esso sarà decisivo per il movimento operaio all over the world [in tutto il mondo n.d.t.]) può essere sferrato non in Inghilterra, bensí soltanto in Irlanda. «D'altro canto: se domani l'esercito e la polizia inglese si ritirano dall'Irlanda, voi avrete immediatamente an agrarian revolution [una rivoluzione agraria N.d.T.] in Irlanda. La caduta dell'aristocrazia inglese in Irlanda condiziona, a sua volta, e ha come conseguenza necessaria la sua caduta in Inghilterra. Ciò soddisfarrebbe la condizione preliminare per la rivoluzione proletaria in Inghilterra. Poiché in Irlanda, sino ad oggi, la questione agraria è stata la forma esclusiva della questione sociale, poiché essa è una questione di pura sopravvivenza, una questione di vita o di morte, per l'immensa maggioranza del popolo irlandese, poiché, al tempo stesso, essa è inscindibile dalla questione nazionale, l'annientamento dell'aristocrazia fondaria inglese in Irlanda è un'operazione infinitamente piú facile che non in Inghilterra. Tutto ciò a prescindere dal carattere, piú passionale e rivoluzionario degli irlandesi, rispetto agli inglesi."(1)
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Cottarelli, il signoraggio e la favola della scarsità delle banane
di coniarerivolta
L’Enciclopedia Treccani definisce tabu una “proibizione di carattere magico-religioso nei confronti di oggetti, persone, luoghi considerati di volta in volta sacri, oppure contaminanti, impuri e dunque potenzialmente pericolosi.” Sembra proprio che una simile proibizione copra il complesso tema del rapporto tra banca centrale e debito pubblico, un vero e proprio tabu che la RAI, in seconda serata, ha osato provare a scalfire con un brevissimo servizio del programma “Povera Patria”, il quale aveva ad oggetto il cosiddetto ‘signoraggio’, ossia il potere esclusivo di creare moneta a corso legale detenuto dalle banche centrali. In appena due minuti, il servizio afferma che in Italia questo potere, prima degli anni Ottanta, veniva sfruttato per finanziare la spesa pubblica in disavanzo a beneficio della collettività e senza particolari limitazioni; questo circolo virtuoso tra creazione di moneta e spesa in disavanzo sarebbe venuto meno in seguito a due passaggi fondamentali: prima con il ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Tesoro e poi con l’adesione alla moneta unica, con la definitiva perdita di sovranità monetaria connessa alla subordinazione della Banca d’Italia alla Banca Centrale Europea (BCE).
Più che il servizio in sé, troviamo davvero interessante il coro di reazioni isteriche che si è immediatamente levato da ogni dove: Davide Serra, Carlo Cottarelli, Luigi Marattin, Mario Seminerio, Riccardo Puglisi e tanti altri si sono gettati nella mischia nel disperato tentativo di screditare le tesi esposte sulla RAI. La tesi di fondo che ha mandato il tilt le tastiere dei liberisti del venerdì sera è l’idea che la monetizzazione del debito pubblico possa funzionare. Quando lo Stato spende risorse, mette in moto l’economia e genera crescita; se quelle risorse, però, sono prelevate dall’economia stessa attraverso tasse e imposte, in ossequio al pareggio di bilancio, allora l’impatto positivo della spesa pubblica sulla crescita ne risulta contenuto.
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Il Venezuela nel mirino
di Giacomo Gabellini
Lo scatenamento del caos in Venezuela non è spontaneo come si potrebbe credere dalle notizie che vengono diffuse. In una approfondita analisi di Giacomo Gabellini le similitudini con il caso Siria e le rivoluzioni colorate
La decisione di Trump – e dei suoi alleati nel continente latino-americano (Brasile, Argentina, Paraguay, Colombia), a cui si è aggiunto l’immancabile presidente canadese Justin Trudeau – di riconoscere come legittimo leader di Caracas il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Gaidò rischia di far scivolare la situazione venezuelana sul piano inclinato della guerra civile rendendola sempre più affine a quella delineatasi in Siria nel 2011. Un’analogia che emerge anche – e soprattutto – per quanto concerne il pesante coinvolgimento degli Stati Uniti nell’escalation.
Nei mesi scorsi, Washington ha infatti cercato accanitamente di privare il presidente Nicolas Maduro dell’appoggio interno istituendo il divieto per cittadini e imprese Usa di fare affari con lui e la sua cerchia, decretando il congelamento dei beni venezuelani che si trovavano sotto la giurisdizione statunitense e varando misure dirette contro il settore petrolifero – che a causa dell’impossibilità di accedere alle tecnologie straniere ha dimezzato la produzione – e le forze armate. Le agenzie di rating, dal canto loro, hanno collaborato all’offensiva decretando una serie di declassamenti del debito venezuelano rendendo alquanto difficile per le autorità di Caracas il compito di piazzare i titoli di Stato. Combinandosi con le misure di Trump, le quali hanno impedito l’acquisto di debito venezuelano, di titoli della società pubblica che controlla il petrolio, di ogni altra impresa venezuelana e di società a partecipazione pubblica, nonché bloccato ogni finanziamento in dollari al Paese, le bordate delle agenzie di rating hanno avuto l’effetto di estromettere il Venezuela dal mercato internazionale dominato dal dollaro. A risentirne, ha rilevato l’ambasciatore del Venezuela in Italia Juliàn Isaìas Rodrìguez Dìaz durante un convegno a Roma, sono state «le importazioni di cibo, medicinali, pezzi di ricambio e così via. Si tratta dei provvedimenti punitivi più gravosi che abbiano mai colpito un Paese latino-americano nell’intera storia del Sud America; peggiori rispetto a quelle comminate contro Cuba».
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Regionalismo differenziato: il ministro Grillo sta avallando la fine del Ssn
di Ivan Cavicchi
Sul regionalismo differenziato serve una mediazione intelligente ma serve anche qualcuno in grado di proporla. Il governo, quindi il presidente del consiglio dei ministri Conte, prenda in mano la questione perché se essa ci sfugge di mano sono dolori per tutti
Relativamente alle dichiarazioni fatte ieri dal ministro Grillo sul regionalismo differenziato (QS 23 gennaio 2019) rispondo: no, caro ministro Grillo tra “il rischio di una giungla normativa” e quello di “non erogare i servizi” ci dovrebbe essere un ministro della Salute capace di fare il suo mestiere con intelligenza, con onestà intellettuale, con spirito riformatore e soprattutto con coerenza nei confronti del mandato politico che ha ricevuto dai propri elettori, nell’interesse primario del suo governo e del suo paese.
Lei come ministro dovrebbe, prima di ogni cosa fare il suo dovere quindi proporci politiche adeguate per evitare sia la giungla normativa che la non erogazione dei servizi.
Se non è il governo a farlo mi dica ministro, chi dovrebbe farlo?
Che senso ha far fare alle regioni quello che dovrebbe fare lei come governo ma che non fa?
La mia impressione è che lei:
- non abbia ancora capito che il regionalismo differenziato è la modifica del riparto costituzionale delle competenze in materia di salute tra Stato e regioni cioè è la rinuncia da parte dello Stato centrale quindi del governo di potestà legislative, senza le quali questo sistema smette di essere universalistico
- non abbia ancora capito che l’autonomia differenziata consente l'attribuzione alle regioni di competenze statali relative ai principi fondamentali in materia di salute e ricerca scientifica e che grazie a questa attribuzione il SSN non ci sarà più
Lei ministro Grillo sta avallando la fine del SSN. Se ne rende conto o no?
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Signoraggio, "divorzio" e debito pubblico
Facciamo chiarezza una volta per tutte
di Thomas Fazi
Sta facendo molto discutere il servizio di Alessandro Giuli sulle origini del debito pubblico italiano andato in onda qualche giorno fa all’interno del nuovo programma di Rai 2, “Povera Patria”. Secondo i critici – tra cui luminari dell’economia come Riccardo Puglisi, Mario Seminerio e, ça va sans dire, l’immancabile Luigi Marattin -, le colpe del servizio sarebbe sostanzialmente tre: di aver “propagandato” sulla televisione pubblica la presunta madre di tutte le bufale economiche: il signoraggio (ussignor!); di aver individuato nel cosiddetto “divorzio” del 1981 tra Banca d’Italia (BdI) e Tesoro la causa principale della successiva esplosione del debito pubblico italiano; e di aver insinuato – seppur indirettamente – che la soluzione al problema del debito pubblico sarebbe di tornare ad un regime simile a quello pre-divorzio, cioè di monetizzazione (più o meno parziale) del deficit/debito pubblico da parte della banca centrale.
Tanto per cominciare, cosa dice il servizio? Esso sostiene che le cause del debito pubblico italiano sarebbero da sostanzialmente da rintracciarsi nel signoraggio, che viene descritto – in maniera a dir poco approssimativa – come «il guadagno del “signore” che stampa la nostra moneta, che si fa pagare il valore di quella moneta, da cui sottrae il costo per produrla». Il servizio sostiene che la storia del signoraggio in Italia si snoda in tre fasi: una prima fase in cui lo Stato italiano, «attraverso la banca centrale di sua proprietà stampa moneta e la presta a se stesso per offrire servizi e [finanziare le opere pubbliche]»; una seconda fase in cui – come conseguenza del divorzio – «la banca centrale diventa un istituto privato ma continua a stampare moneta prestandola allo Stato con tanto di interessi», facendo così lievitare il debito pubblico; e una terza fase in cui «la fine della lira, l’adozione dell’euro e la nascita della BCE completano l’espropriazione [della sovranità dell’Italia]».
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La giornata lavorativa
di Maria Grazia Meriggi*
Parlerò da storica soprattutto e quindi cercando di dare conto della pertinenza delle analogie ed esemplificazioni storiche che Marx fornisce intorno al tema della giornata lavorativa e ricordando inoltre, per semplificare, che la durata cronologica della giornata lavorativa, legale e poi anche contrattuale, è il frutto dei rapporti di forza prodotti nel conflitto di classe. Si inizia a definire che cos’è – al di sotto dell’evidenza empirica e contrattuale – la giornata lavorativa.
Una precisazione si rende però necessaria. Dei molti modi in cui sono presenti le narrazioni storiche nel Capitale ne sottolineo soprattutto due. Marx talvolta riassume e sintetizza comprimendo nel tempo in una narrazione in raccourci vicende che si sono sviluppate secondo le linee di tendenza da lui indicate in un lungo arco di tempo. Esempio caratteristico: l’accumulazione originaria in cui Marx comprime il passaggio secolare dall’agricoltura di villaggio con ampie aree comuni alla formazione di una eccedenza di popolazione che alimenta il proletariato industriale passando attraverso le enclosures. Agli inizi del Novecento Paul Mantoux (1906) ha ricostruito analiticamente i passaggi indicati da Marx, attraverso la formazione di un numeroso proletariato di salariati agricoli, attestandone anche la lucidità interpretativa. Altre volte invece – come nel caso di questo capitolo – Marx descrive processi in atto e ricorre a fonti di prima mano che sono le stesse cui ricorrono anche gli storici successivi dell’economia e della società inglesi ed europee del XIX secolo. Queste fonti sono gli atti ufficiali e i materiali statistici prodotti dagli ispettorati del lavoro che di mano in mano si formano presso i ministeri economici. In particolare i famosi blue books, i «libri azzurri» degli ispettori incaricati di verificare il rispetto della legislazione sulle fabbriche. In questo caso Marx è al tempo interprete e cronista appassionato dei processi che descrive con grande fedeltà.
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Nel segno del “Sessantotto”
di Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi*
Abstract. Questa introduzione apre il numero monografico tracciando un percorso che parte dal Sessantotto per arrivare al neoliberalismo come sua risposta più articolata, senza la pretesa di darne un quadro esaustivo bensì per illuminare la complessità e la radicalità di una cesura. In questa ricostruzione il Sessantotto comincia molto prima, tanto che non è possibile stabilirne una data e un luogo d’inizio precisi. La contestazione dell’autorità, la messa in discussione del patriarcato, l’attivazione di soggetti eterogenei e spesso “imprevisti”: la critica spietata dell’esistente produce una crisi di legittimità che investe lo Stato, la società, il capitalismo e la scienza. In questo senso il Sessantotto si è dato come rivoluzione incompleta e anche per questo mai terminata
1. Il “Sessantotto”, a cui è dedicata questa sezione di «Scienza & Politica», non può certo essere ridotto a un anno solare – e deve dunque necessariamente essere scritto tra virgolette. È cominciato molto prima di quell’anno e non è possibile stabilirne una data e un luogo d’inizio assoluti. Dien Bien Phu e la battaglia d’Algeri, l’avvio della decolonizzazione in Africa con l’indipendenza del Ghana, le poteste di Berkeley e i freedom riders nel sud degli Stati Uniti, il movimento del black power, la conferenza tricontinentale a L’Avana, le lotte operaie in Italia nei primi anni Sessanta, l’instaurazione della Comune di Shangai all’inizio del 1967, la manifestazione del 2 giugno di quello stesso anno contro lo Scià di Persia a Berlino, durante la quale la polizia uccise lo studente Benno Ohnesberg: sono solo alcune istantanee, utili per dare conto della complessità della genealogia del Sessantotto per quanto riguarda sia le sue geografie sia le sue determinazioni soggettive. La lista potrebbe continuare, e sarebbe altrettanto facile nominare alcuni momenti iconici dell’anno 1968 – dalla “battaglia di Valle Giulia” tra studenti e polizia a Roma alle barricate del Maggio parigino, dal massacro di Tlatelolco in Messico il 2 ottobre alle mobilitazioni studentesche in Polonia, Jugoslavia e Giappone, dai ghetti in fiamme dopo l’omicidio di Martin Luther King ai pugni guantati di nero alzati al cielo da Tommie Smith e John Carlos durante le Olimpiadi di Città del Messico, dall’assalto al grattacielo di Springer a Berlino alle rivolte studentesche, operaie e contadine a Calcutta e nel Bengala occidentale. E ancora: il Sessantotto è andato ben oltre la fine dell’anno solare, per esempio con il Cordobazo, la grande insurrezione di operai e studenti che destabilizzò la dittatura di Onganía in Argentina nel maggio del 1969, con la rivolta operaia in Corso Traiano a Torino, seguita dall’Autunno caldo nel 196970, con la tumultuosa crescita in tutto il mondo del femminismo, con il trionfo dei Vietcong nel 1975, con il movimento del ‘77 in Italia.
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Lenin visto da Marx
di Antonio Negri
Perché ho scelto quest’argomento, «Lenin visto da Marx», per rispondere alla domanda di discutere il “Lenin dei filosofi”? Perché quando guardavo a quei filosofi che conoscevo e amavo come Lukacs o Gramsci o Althusser, mi sono accorto che sovrapponevano Marx e Lenin quasi automaticamente – in maniera entusiasta e pragmatica. D’altro lato anch’io, quando considero l’altra parte di me stesso, il militante, rispetto al filosofo che umilmente sono, non riesco immediatamente a separare Lenin da Marx. Il “marxismo-leninismo” fu cosa indissolubile nella Bildung comunista del XX secolo. E allora mi sono chiesto: come avrebbe Marx guardato a Lenin? Se il “marxismo-leninismo” che abbiamo conosciuto nel secolo scorso, è divenuto un’atroce farsa dogmatica – gli stessi Marx e Lenin ce lo concederebbero – essi stavano comunque insieme nella testa di compagni che le rivoluzioni le hanno fatte: come ha potuto avvenire? Vorrei dunque guardare Lenin, colui che la rivoluzione l’ha fatta, dal punto di vista di Marx, di colui che la rivoluzione l’ha pensata, e lo farò dal mio punto di vista, convocando altri marxisti di tanto in tanto ad accompagnarmi.
Come procedere? Mi è sembrato utile seguire due vie. Nella prima farò il tentativo di svolgere il confronto Marx-Lenin in un quadro sincronico, guardando in un solo specchio come se essi affrontassero questi cinque problemi (è il massimo che mi sentivo di discutere in maniera sommaria nel tempo che mi è concesso): 1) come si confrontavano al materialismo ed alla dialettica? 2) ed alla fabbrica? Cioè al lavoro vivo ed all’organizzazione del lavoro? 3) ed al mercato mondiale e all’imperialismo? 4) ed allo Stato? 5) ed alla definizione del comunismo?
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La resistibile ascesa del secondo Matteo
di Leonardo Mazzei
Il 30 maggio 2014, cinque giorni dopo il suo grande successo alle europee, scrissi un articolo all'epoca controcorrente: «La resistibile ascesa di Matteo Renzi». Pare passata un'era geologica, ed invece non sono neppure cinque anni... Al tempo i più gli pronosticavano un ventennio al potere, oggi sappiamo tutti com'è andata.
Adesso c'è un altro Matteo. Non ha ancora i voti, ma solo sondaggi. Eppure son quasi tutti convinti che abbia anche lui un ventennio davanti. Non s'offendano costoro, ma chi scrive queste righe non lo crede neanche un po'.
Grandi le differenze tra il primo e il secondo Matteo. Il primo amato dalle èlite, il secondo no; il primo alla guida di un partito eurista, il secondo alla testa di una forza passata (pur contraddittoriamente) dal localismo al nazionalismo. Capo di un governo quasi monocolore il primo, ministro dell'Interno di un governo di coalizione il secondo. E potremmo continuare.
Assai diverso anche il contesto. Nel 2014 la riscossa delle èlite sembrava ancora possibile, ma solo con qualche invenzione simil-populista. Da qui il passaggio dal grigio pisano Letta al pirotecnico fiorentino Renzi. Oggi la partita si è spostata nel campo populista, nel quale il progressivo prevalere della sua ala destra sembra ai più inarrestabile. Ma è davvero così?
Non lo penso affatto. La crisi italiana è tutt'altro che risolta, ed il Salvini non ha proprio la stoffa del leader - dello "statista" neanche a parlarne - necessaria ad affrontare le prossime tempeste. Ha la forza ed il consenso dell'uomo odiato dalle èlite, ma non pare avere un briciolo di strategia che vada oltre il prossimo appuntamento elettorale.
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Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune
di Piergiorgio Donatelli
Qual è il significato filosofico del modernismo, come esperienza artistica e letteraria a cavallo fra Otto e Novecento? Se lo è chiesto, nel suo ultimo libro (Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune, il Mulino, 2018), Piergiorgio Donatelli, che ringraziamo, insieme all'editore, per averci concesso di pubblicare l'introduzione al volume
1. La crisi della ragione
Questo libro parte da Wittgenstein e dai fili teorici che è possibile tessere insieme alla luce della sua impostazione per mettere a fuoco una problematica che chiama modernista, dove il riferimento è da una parte al modernismo letterario e artistico austriaco tra i due secoli e dall’altra alla nozione di modernismo elaborata da Stanley Cavell e che egli riferisce specificamente alla sua concezione della filosofia.
Aldo Giorgio Gargani ha dato una descrizione esemplare di tale problematica in molti suoi lavori, anche se non con questo nome. Vorrei cominciare con la sua analisi per presentare l’impostazione modernista, tenendo presente in particolare il volume Crisi della ragione[1]. Gargani ricostruisce una prospettiva che riflette chiaramente la centralità di Wittgenstein e che lavora più estesamente sulla crisi e le svolte intraprese in molti campi del sapere tra i due secoli, principalmente da personalità intellettuali dell’impero asburgico nonché da autori che si collocano in altri contesti culturali europei. È il grande episodio – o, meglio, i molti episodi – di contestazione dei modelli dominanti che arrivano dalla modernità e che sono messi in discussione da nuovi modi di pensare alla filosofia, alla fisica, alla matematica, alla psicologia, alla musica, ma anche alla città, al mobilio, allo stile della conversazione e delle relazioni umane.
Gargani presenta una linea di ricostruzione storica che documenta la crisi di un modello di sapere classico formatosi nella prima modernità.
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