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MAGA vs neocons: la coalizione trumpiana si spacca sulla guerra all’Iran
di Infoaut
Qualcosa di interessante sta accadendo all’interno della coalizione che ha portato alla vittoria Donald Trump: la tentazione di entrare in guerra direttamente contro l’Iran al fianco di Israele sta creando scompiglio
Alcune importanti figure del movimento MAGA che interpretano gli umori della basa si stanno esponendo per criticare l’atteggiamento che ha tenuto l’amministrazione USA nei confronti dell’attacco israeliano all’Iran e si stanno muovendo per impedire un intervento più diretto nella guerra.
Personaggi come Tucker Carlson, Steve Bannon, Marjorie Taylor Greene, Rand Paul hanno criticato o espresso dubbi sulla scelta di Trump di celebrare l’attacco all’Iran come un risultato congiunto di Israele e Stati Uniti. Alcune testate conservatrici si sono spinte inaspettatamente a definire Israele uno “stato canaglia” e a condannare integralmente anche il massacro di Gaza.
Che il consenso unanime verso Israele si stesse indebolendo dentro la coalizione trumpiana lo si era già iniziato a notare da tempo. Durante i giorni precedenti all’operazione “Carri di Gedeone” persino Trump aveva fatto trapelare irritazione per l’atteggiamento dell’alleato. Ora che l’attacco contro l’Iran fosse una mossa concordata o che si sia trattato di un colpo di mano israeliano con Trump che ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco cambia poco.
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Bombardare Teheran, ovvero il suicidio dell’Occidente
di Sergio Labate
A Gaza si continua a morire. E mentre Gaza muore noi abbiamo altro per cui riempire le nostre pagine social: la bomba atomica dell’Iran, questa gigantesca “minaccia esistenziale” per Israele e per tutti noi. Che in effetti, come è a tutti noto, non esiste e si affianca – quanto a dispositivo di propaganda – alla “minaccia esistenziale” di Putin che sarebbe già pronto a invadere Lisbona. Un’arma di distruzione di massa trasformata in arma di distrazione di massa.
Ora anche qui conviene premettere ciò che è scontato: non ho alcuna simpatia per il regime iraniano e non ho alcuna intenzione di difenderlo. Però vorrei stare ai dati di fatto. Che sono molto semplici: l’Iran ha un programma nucleare che è in itinere, la cui fine – ammettendo le peggiori intenzioni – non solo è di là da venire ma è anche rallentata da controlli serrati da parte di organismi terzi e internazionali (ci torneremo). Israele ha un arsenale atomico esibito e accertato che però viene pubblicamente e sfrontatamente sottratto a ogni controllo eventuale.
Chi legge queste righe ed è indottrinato dai cani da guardia del potere (genitivo soggettivo) – i vari Bocchino, Mieli, Meloni, Crosetto, Picierno, Fassino – dirà che questo è un punto di vista ideologico. Ecco, è proprio questo il punto da rivendicare nell’epoca della post-verità. Questi dati di fatto non sono un punto di vista soggettivo delle cose, ma le cose per ciò che sono, niente di più o niente di meno.
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Dalle armi di distruzione di massa di Saddam a quelle iraniane
di Davide Malacaria
“La questione non è se il regime iracheno debba essere eliminato, ma quando; la questione non è se si desidera vedere un cambio di regime in Iran, ma come ottenerlo. Se eliminate Saddam, il regime di Saddam, vi garantisco che avrà enormi ripercussioni positive sulla regione. Penso che la gente che vive accanto a noi in Iran […] dirà che il tempo di tali regimi, di tali despoti, è finito”.
Era il 12 settembre del 2002 quando l’allora semplice deputato Benjamin Netanyahu faceva questo discorso al Congresso esortando gli Stati Uniti ad attaccare l’Iraq, cosa che avvenne nel 2003 dopo una intensa campagna propagandistica per convincere il mondo del pericolo delle armi di distruzione di massa di Saddam.
I guerrafondai consegnati al credo delle guerre infinite non hanno molta fantasia. Non serve: sanno che, come accadde allora, la politica e l’informazione si sarebbero prontamente adeguate, con eccezioni meritorie, creando un clima favorevole ai loro crimini nell’opinione pubblica.
Oggi non c’è stato neanche bisogno di inventare di sana pianta l’esistenza delle armi di distruzione di massa dell’Iran. È bastata la denuncia dell’Agenzia atomica internazionale (AIEA) su asserite violazioni di Teheran dell’accordo sul nucleare, che però non segnalavano la bomba in arrivo, per aprire il vaso di Pandora.
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Roman Rosdolsky, «un bolscevico dell'anno 1920»
di Circolo internazionalista «coalizione operaia» - Prospettiva Marxista
Nota editoriale a Roman Rosdolsky, Studi sulla tattica rivoluzionaria, Movimento Reale, Roma, 2025
In un quadro storico in cui il proletariato mondiale si ritrova pressoché privo di proprie, autonome organizzazioni di classe; privo di significative avanguardie politiche capaci di custodire e trasmettere l’esperienza delle guerre del capitale e la coscienza della loro radice sociale, si fa minacciosamente sempre più vicino il vortice di una vasta conflagrazione imperialistica nel quale masse enormi di proletari verranno trascinate dalle proprie borghesie come carne da cannone, come manodopera da sfruttare ancora più intensamente nello sforzo bellico, come “danni collaterali” nelle gigantesche operazioni di distruzione rese possibili dal livello di sviluppo delle forze produttive del capitalismo.
Le tensioni della spartizione mondiale tra potenze e blocchi dell’imperialismo stanno ribollendo con sempre maggiore virulenza, mentre prendono sempre più forma i meccanismi ideologici con cui rendere i proletari di tutto il mondo funzionali a questo scontro di interessi a essi estranei e ostili. Le narrazioni della guerra dell’imperialismo come scontro tra “democrazie” e “autocrazie”, come difesa del “diritto” e delle “nazioni oppresse”, come passaggio obbligato per l’affermazione di un “bene” variamente declinato ma sempre rigorosamente di matrice borghese, circolano indisturbate, infettando milioni e milioni di proletari.
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Israele attacca l’Iran, in Occidente prevale il partito della guerra
di Roberto Iannuzzi
Pressato da Israele e dal “partito interventista”, Trump potrebbe finire per scatenare in Medio Oriente una guerra regionale dai risvolti imprevedibili
La guerra mossa da Israele contro l’Iran nelle prime ore del 13 giugno era per molti versi annunciata. All’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il premier israeliano Benajmin Netanyahu aveva dichiarato che Tel Aviv avrebbe “cambiato il Medio Oriente”.
Il governo israeliano ha sfruttato quel sanguinoso evento per infliggere colpi durissimi ai propri avversari regionali riuniti nel cosiddetto “Asse della Resistenza” filo-iraniano.
Gaza, l’enclave palestinese controllata da Hamas, è stata rasa al suolo. Una violenta campagna di bombardamenti in Libano ha portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah in Libano, e all’uccisione del suo segretario generale Hassan Nasrallah.
Dopo la caduta del presidente siriano Bashar al-Assad in Siria, Israele ha smantellato le infrastrutture militari del paese con una serie di attacchi aerei. Dominando ormai i cieli siriani, e con lo spazio aereo iracheno controllato dall’alleato americano, per Israele la strada verso l’Iran era aperta.
A seguito di quegli eventi, nel dicembre 2024 avevo scritto che:
per il governo Netanyahu il trofeo finale resta l’Iran, rimasto più isolato a seguito dell’indebolimento dell’asse della resistenza.
Alla vigilia del cessate il fuoco in Libano, il premier israeliano aveva dichiarato che accettava l’accordo per tre ragioni: rifornire gli arsenali israeliani ormai svuotati, aumentare la pressione su Hamas, e concentrarsi sull’Iran.
Sulla stampa israeliana si sono moltiplicati gli articoli che parlano di una “finestra di opportunità” per colpire le installazioni nucleari iraniane alla luce dello stato di debolezza in cui si troverebbe Teheran.
La tesi è che l’Iran, isolato a livello regionale, potrebbe puntare a costruire l’arma atomica se i suoi impianti nucleari non verranno distrutti. Perciò l’aeronautica israeliana si starebbe preparando per un possibile attacco.
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True Promise 3: l’Iran risponde con la tanto attesa rappresaglia ipersonica
di Simplicius – Simplicius the Thinker
L’Iran ha lanciato la fase successiva dell’operazione True Promise 3.0, prendendo di mira diverse infrastrutture energetiche e militari israeliane. Questa volta ha utilizzato i più recenti missili ipersonici Fattah-1, che hanno avuto un impatto abbagliante su Tel Aviv e sul nord di Israele, uno spettacolo così spettacolare da rivaleggiare solo con gli attacchi [con i missili ] Oreshnik dell’anno scorso [in Ucraina]:
Fatttah-1 Hypersonic Missile hit the target and electricity gone. Look at the insane speed.pic.twitter.com/8B5Fq0Ezs8
— Sumon Kais (@sumonkais) June 14, 2025
Le scene erano quasi troppo irreali per essere credibili, come se si trattasse di un blockbuster eccessivamente spettacolare di Michael Bay. Tra gli obiettivi c’erano la raffineria di Haifa e il centro di ricerca israeliano del Weizmann Institute for Science di Rehovot, vicino a Tel Aviv:
Che ruolo ha la raffineria di Haifa, presa di mira dall’Iran? La raffineria di Haifa, nel nord della Palestina occupata, fornisce oltre il 60% del fabbisogno di carburante di Israele, dalla benzina al gasolio e fino al carburante avio. Con questi impianti danneggiati nell’attacco iraniano di questa notte, Israele dovrà affrontare un problema di approvvigionamento. Il successo dell’attacco alla raffineria di Haifa è un colpo strategico alla spina dorsale economica e militare di Israele. Il fatto che Israele taccia sull’attacco alla sua raffineria e non abbia ancora detto nulla ma si sia concentrato sui danni inflitti a Tamra – che credo siano stato causati dalla ricaduta di un missile intercettore di Israele (staremo a vedere) – dimostra che il colpo è stato doloroso. Ed è solo l’inizio…
Il New York Times, citando immagini condivise, riferisce che un centro di ricerca israeliano, il Weizmann Institute for Science, è stato danneggiato da un missile balistico iraniano nel corso degli ultimi attacchi al centro di Israele. L’edificio si trova a Rehovot, a sud di Tel Aviv e un incendio sarebbe scoppiato in uno degli edifici che contengono i laboratori.
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La gaza-izzazione dell’Occidente
di Christian Salmon
Mentre la narrativa occidentale presenta la politica genocida di Israele come semplici “operazioni militari”, a Gaza si sta in realtà sperimentando una tecnologia di dominio letale. L’Europa, più che spettatrice, è complice attiva di questa necropolitica; il suo silenzio rivela la vicinanza del suo immaginario a quello di uno Stato di Israele che non condanna, poiché entrambi condividono la stessa ossessione per il terrorismo islamista e il controllo biopolitico delle popolazioni immigrate.
Nel teatro mediatico contemporaneo, Gaza si è trasformata in un laboratorio di storytelling geopolitico. Ogni immagine, ogni testimonianza, ogni cifra diventa un elemento narrativo in una battaglia di racconti che va ben oltre i confini geografici del conflitto. Ci sono i morti di Gaza e c’è la loro scomparsa programmata nei racconti dei media occidentali. Tra i due, una macchina narrativa di formidabile efficacia trasforma un genocidio in un «conflitto complesso», i carnefici in vittime e i testimoni in «antisemiti». Come può una potenza militare genocida e i suoi alleati massacrare un popolo e vincere contemporaneamente la battaglia delle narrazioni?
Nei think tank di Washington e nelle agenzie di Hasbara, un esercito di narratori lavora giorno e notte per capovolgere la realtà. Ogni scuola bombardata diventa un «covo di terroristi», ogni ospedale distrutto nascondeva «tunnel di Hamas», ogni giornalista ucciso era un «combattente travestito». Gaza non è più solo un territorio di 365 chilometri quadrati dove sono ammassati due milioni di esseri umani. Gaza è diventata una storia, o meglio un campo di battaglia di storie… Nei corridoi ovattati dei ministeri e delle agenzie di comunicazione non si parla più di «guerra» ma di «operazione», non più di «bombardamenti» ma di «attacchi chirurgici», non più di «civili morti» ma di «danni collaterali». Il vocabolario militare si è trasformato in un linguaggio marketing, modellato dagli “spin doctor” che trasformano la realtà in una storia formattata per l’opinione pubblica occidentale.
Se c’è una cosa che viene occultata dalla ricorrente esposizione mediatica delle “narrazioni” israeliana e palestinese (autodifesa e resistenza) e dalla falsa simmetria delle forze in campo, è proprio la natura di questa guerra che, nella sua estrema razionalità, sconvolge tutto ciò che pensavamo di sapere sulla guerra totale, la guerra civile o la guerra coloniale.
È una guerra multidimensionale, combattuta in aria, sulla terra e persino nei sotterranei della Striscia di Gaza.
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Sul nucleare iraniano sterminati branchi di castronerie
di Massimo Zucchetti
Insegno al MIT un corso dal titolo: “Protect yourself at all times. Nuclear proliferation and control strategies through technology“.
Nonostante quello che mi hanno fatto, l’anno prossimo lo terrò anche al Politecnico di Torino, in un corso di dottorato.
La prima frase del titolo è quello che dicono gli arbitri ai due pugili prima dell’incontro.
Succede che il sottoscritto sia il maggior esperto italiano di disarmo nucleare. E’ un fatto, non una vanteria. C’è una classifichina internazionale piena di stranieri, perché in Italia – essendo un paese di servi asservito agli USA – pochi *tecnologi* se ne occupano. Sono, bontà loro, il primo italiano in codesto elenco, se si escludono colleghi che lavorano per la IAEA, ma quando sei lì rinunci naturalmente alla tua “nazionalità”.
Ho partecipato ai negoziati per l’accordo JPCOA con l’Iran nel 2015.
Leggo in questi giorni – da buoni e cattivi – castronerie a branchi. Sterminati branchi di castronerie.
Proviamo a smentirle, non si sa mai che uno su un milione capisca in quale oceano di bullshit lo stanno affogando.
1) L’Iran NON ha la bomba atomica. Non ci è neanche vicino, ad averla.
2) La IAEA ha ultimamente intensificato la frequenza delle sue ispezioni, dati i timori USA sulla non-adempienza dell’Iran ad alcune regolette, soprattutto sull’arricchimento dell’uranio.
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Israele ha aperto il vaso di pandora dell’atomica
di Pino Arlacchi*
Gli eventi della notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 rimarranno nella storia come il momento in cui l’irresponsabilità criminale di Tel Aviv, sostenuta dalla complicità di Washington e dall’impotenza dell’Europa, ha dato un colpo, forse mortale, al maggiore ostacolo verso la guerra atomica: il regime di non proliferazione nucleare stabilito dal Trattato del 1970 (Tnp) e costruito pazientemente nei decenni successivi alla Guerra fredda. Israele ha commesso un delitto di proporzioni storiche. Bombardando le installazioni nucleari civili di uno Stato parte del Tnp, posto sotto il controllo dell’Agenzia Atomica di Vienna (Aiea), Netanyahu ha violato simultaneamente il diritto internazionale, la Carta Onu e ogni principio di proporzionalità. Ma l’aspetto più grave è che questo atto ha fornito all’Iran la giustificazione giuridica perfetta per ritirarsi dal Tnp e sviluppare armi nucleari in piena legalità internazionale.
L’articolo 10 del Tnp permette il ritiro quando “eventi straordinari abbiano messo in pericolo gli interessi supremi” di uno Stato. È difficile immaginare evento più straordinario di un assalto militare. La Corea del Nord invocò lo stesso articolo nel 2003 per molto meno. E tre anni dopo aveva la bomba, in regime di legalità internazionale perché non si è mai riusciti a proibire l’atomica. L’Iran può ora citare un pesante attacco militare contro la sua sovranità territoriale e le sue installazioni militari legali. Netanyahu ha appena regalato all’Iran la strada legale verso l’arma nucleare. Gli Stati Uniti si sono resi complici di questa catastrofe diplomatica.
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I portuali, la città, il traffico delle armi del genocidio. A proposito di lotta di classe
di Stefano Rota*
Proponiamo un articolo di Stefano Rota estratto dal blog Transglobal: I portuali, la città, il traffico delle armi del genocidio. A proposito di lotta di classe vogliamo mettere anche noi l'accento "sulla crescente forza strategica della logistica e della finanza nei processi globali di creazione di valore. La logistica ha dei punti deboli nella catena di approvvigionamento su scala mondiale (ne ha anche la finanza, ma sono di altra natura). Sono quelli in cui una forza organizzata riesce a bloccare temporaneamente o rendere problematico il fluire di merci. Questo vale per i porti, per Amazon, per gli Steamers americani. Mettersi con i propri corpi in quegli snodi, con il blocco di un varco o il picchetto all’entrata di un magazzino, significa mettere in evidenza la (parziale) vulnerabilità della supply chain, costringere a cambiamenti di rotta marittima o autostradale le corporations che gestiscono quelle catene. Viene in mente una domanda che ha fatto Foucault nel corso di due interviste nella seconda metà degli anni Settanta: “Quando parliamo di lotta di classe, di che lotta stiamo parlando?” Di queste azioni, non c’è dubbio."
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Bombe sull'Iran: Israele apre il vaso di Pandora
di Davide Malacaria
Nessuna condanna dei leader occidentali per l’attacco del tutto illegittimo contro l’Iran. Un allineamento a Israele inquietante, non solo perché evidenzia la subordinazione a un Paese impegnato nel genocidio dei palestinesi, ma anche per le prospettive che apre: sia in politica estera, con il possibile ingaggio in una guerra aperta a fianco degli incendiari israeliani; sia all’interno, dove la democrazia viene erosa ogni giorno di più dalla connivenza con la follia israeliana.
Le connivenze dell’Occidente
Quanto scritto non si riferisce alla sola America che, pure informata, non ha partecipato ai raid per salvaguardare le sue basi nella regione (Trump non ha dato luce verde, anche se tanti tentano di accreditare tale placet, ma certo un supporto Usa c’è stato), ma all’Occidente collettivo, il cui più o meno tacito sostegno a questo atto di guerra insensata rappresenta un momento epifanico.
Quanto alla giustificazione del raid da parte del Cancelliere Friedrich Merz che ha invocato per Israele il diritto all’autodifesa, rimandiamo a un articolo di Pankaj Mishra sul Guardian che descrive come l’afflato filo-israeliano della Germania, che ha finito per abbracciare “l’etnonazionalismo omicida” di Gaza, non nasca dal senso di colpa per l’Olocausto, ma si nutra del razzismo nazista rimasto sottotraccia nella cultura e nella società teutonica e con il quale il Paese non ha mai fatto i conti (Macron è andato a ruota, ma per riflesso pavloviano).
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Significato e scopo dell’attacco israelo-americano all’Iran
di Eros Barone
«Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.» 1
Discorso di Calgàco, re dei Caledoni (Tacito, Agricola, XXX).
Torna di attualità la vignetta pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” diversi anni fa. In quella vignetta Francesco Tullio-Altan raggiungeva, come spesso gli accadeva, una precisione folgorante nel definire la connessione tra la crisi economico-finanziaria e l’imminente attacco che gli Stati Uniti d’America e altri paesi imperialisti dell’Unione Europea (Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia) si preparavano a sferrare contro l’Iran. Fra due ‘mutanti’ dal profilo di iguana, che sfoggiano giacche blu e cravatte a stelle e strisce, si svolge questo dialogo: replicando a quello che osserva preoccupato: “Borse in crisi”, l’altro avanza la seguente proposta: “Attacchiamo l’Iran?”. Sennonché, dopo le tre guerre del Golfo (1980-1988, 1991, 2003), dopo l’intervento nel Kossovo (1999) e dopo quelli in Afghanistan (2002), in Libia (2011) e in Ucraina (iniziato nel 2013 e tuttora in corso) dovrebbe essere chiaro che le cause per cui l’imperialismo scatena una guerra sono sempre più di una. Pesano, infatti, almeno tre fattori: l’economia, la geopolitica e la storia. Rispetto a due di questi fattori (storia ed economia), determinanti per la conquista e il mantenimento dell’egemonia, gli Stati Uniti stanno segnando il passo. E questa è la ragione per cui sono sempre più pericolosi. Consideriamo dunque il fattore geopolitico.
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Violati i segreti nucleari di Israele, inventati quelli iraniani
Il non detto dell'attacco israeliano all'Iran
di Fulvio Grimaldi
Attacco all’Iran. Just in time
Mentre scriviamo queste righe, ci troviamo in piena bagarre. Azioni, reazioni, risposte e controrisposte tra Israele e Iran, chiaramente sempre con Israele che, come da consuetudine, ha incominciato, hanno ormai assunto una loro cadenza quasi autonoma, sul cui andamento a fare previsioni si può essere certi solo di sbagliare.
Altra certezza è che per il futuro prevedibile ciò che ci capiterà sarà una caterva di bugie israeliane, con analoga improntitudine ripetute e rafforzate dallo schieramento dei gazzettieri ontologicamente embedded. I nostri. E una lunga consuetudine di manipolazioni, spesso solo molto più tardi rivelatesi tali, ci conforta sul fatto che tra versioni ucraino-occidentali e versioni russe, come tra le israelo-atlantiche e quelle dei nemici designati, hanno sistematicamente più rilevanti addentellati con la realtà i secondi.
Nel caso specifico a questo dato dà irreversibile consistenza il fatto che chi ha iniziato è colui che attribuisce alla controparte una colpa indimostrata per esso, ma assolutamente consolidata per se stesso: la disponibilità di armi atomiche e la facoltà di usarle. Facoltà agevolata dall’ulteriore dato che l’aggressore iniziale non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, la vittima iniziale, sì. E che l’aggressore iniziale non consente ispezioni dell’agenzia ONU a ciò deputata, mentre la vittima iniziale, sì. Da decenni. Con risultati che fin qui lo hanno confermato innocente di qualsiasi violazione di quanto sottoscritto. Violazione pur accanitamente sostenuta dall’aggressore bomba-dotato.
In particolare risulta smentita da documenti, immagini e da testimonianze spesso dal sen sfuggite, la pervicace minimizzazione che l’ufficialità israeliana compie rispetto a vittime e danni subiti, sia nel corso degli attuali bombardamenti iraniani, sia nei quasi venti mesi di confronto con i combattenti di Hamas. Il ministero della Difesa, cuore e mente dell’apparato militare israeliano a Tel Aviv, centrato in pieno, risulta solo “lievemente danneggiato da esplosioni nelle vicinanze”.
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Appunti sul 13 giugno. Israele e Iran
di Alessandro Visalli
Nella tragica vicenda in corso, tra il 13 e il 15 giugno di questo 2025. Il 13 Israele ha attaccato unilateralmente, l’operazione “Rising Lion”, attaccando brutalmente l'Iran mentre si stava negoziando sul programma nucleare, e questi ha risposto poco dopo con l’operazione “True Promise III” che al momento si è materializzata in attacchi ibridi da più direzioni con centinaia di missili balistici di varia natura e modernità e droni. Questi hanno perforato a decine la difesa a quattro strati israeliana, probabilmente supportata anche da aerei e mezzi navali Nato, colpendo bersagli civili (fabbriche, aeroporti, porti, raffinerie) e militari (centri di comando e controllo).
L’attacco israeliano, che si pone nella posizione oggettiva dell’aggressore, è stato condotto con aerei (circa 200, la metà di quelli teoricamente disponibili) F-35, F-16 e F-15, dei quali almeno 3 abbattuti (pare F-35), e droni con partenza da prossimità (occultati come da esempio ucraino di poche settimane prima) e sabotatori. I bersagli sono stati, da parte israeliana, i siti nucleari e di ricerca iraniani (a Natanz, Fordow, Esfahan e Arak), gli aeroporti militari, i radar e silo di missili, l’importantissimo South Park gas Field, alcuni edifici residenziali ad alta densità a Teheran (es. il Nobonyad Square), alcuni stabilimenti industriali, poi Israele ha ucciso con attacchi mirati nelle proprie case, alcuni comandanti del IRGC come Hossein Salami, Mohammad Bagheri, Gholam Ali Rashid, Amir Ali Hajizadeh, Ali Shamkhani, e scienziati nucleari come Fereydoon Abbasi e Mohammad Mehdi Tehranchi.
Il contrattacco iraniano, sempre alla data di oggi, ha colpito Tel Aviv, Bat Yam, Rehovot, Gerusalemme e Tamra nella prima ondata, e Haifa, Rishot LeZion, Kiryat Ekron e di nuovo Tel Aviv e altre nella seconda. Gli attacchi si sono concentrati su basi militari e aeroporti, ma anche sulle infrastrutture energetiche, colpendo la raffineria Bazan di Haifa nella quale le attività sono parzialmente sospese e ci sono danni agli oleodotti, e sulle strutture portuali.
Ritengo i fatti solo occasionalmente connessi con il 'casus belli' del programma nucleare (civile) iraniano, ma da inquadrare in primo luogo nella Grande Strategia Israeliana di liberarsi degli avversari sciiti e di coloro che potrebbero ostacolare il piano, vitale per le prospettive di lungo termine, del “Patto di Abramo” [1] un asse infrastrutturale ed energetico che parte dall'India per sboccare ai porti israeliani, passando per l'Arabia Saudita[2].
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«Vi spiego perché la Russia sta recuperando e gli Stati Uniti stanno perdendo terreno»
di Emmanuel Todd
In una conferenza che ha tenuto all’Accademia delle Scienze di Russia, a Mosca, l’antropologo francese ha illustrato come la Russia stia consolidando la propria posizione, in base a fattori demografici, sociali e culturali. Una visione che si distanzia nettamente dall’opinione dominante in Occidente, offrendo spunti di riflessione scientifica e geopolitica. Gli Stati Uniti stanno affrontando una crisi profonda e strutturale. Declino industriale, collasso educativo e nichilismo culturale ne sono i sintomi più evidenti. Il degrado, secondo Todd, si manifesta in molteplici ambiti: dall’erosione della base manifatturiera alla crisi del sistema scolastico, fino allo svuotamento dei riferimenti religiosi. Nella sua visione, la cosiddetta «rivoluzione Trump» rappresenta una reazione a questa sconfitta. Pur riconoscendo nel trumpismo alcune intuizioni valide – come il protezionismo, l’apertura al dialogo con la Russia e la critica al globalismo – Todd evidenzia anche aspetti distruttivi. La sua diagnosi finale è pessimista: senza coesione religiosa, con una struttura familiare iper-individualista e una classe dirigente indebolita, l’America rischia di andare a pezzi.
* * * *
Tenere questa conferenza mi intimorisce. Tengo spesso conferenze in Francia, in Italia, in Germania, in Giappone, nel mondo anglo-americano – quindi in Occidente. In quei casi, parlo dall’interno del mio mondo, con una prospettiva certamente critica, ma comunque interna. Qui invece è diverso: sono a Mosca, nella capitale del Paese che ha sfidato l’Occidente e che senza dubbio riuscirà in questa sfida. Sul piano psicologico, è un esercizio completamente diverso.
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Ricordate Zelensky?
di Andrea Zhok*
Tre giorni di conflitto tra Israele e Iran e il mondo si è dimenticato del povero Zelensky. Ricordate Zelensky? Quello che aveva vinto "Ballando con le stelle"? Quello che aveva la stessa simpatica maglietta verde da tre anni a questa parte? Ecco, quello che sta succedendo è che, non appena le telecamere si sono spostate, anche il flusso di armi e finanziamenti (in particolare americani) si sono interrotti di botto. Proprio istantaneamente. E le stesse attività di intelligence e di informazione satellitare americane ora devono essere almeno in parte riorientate sul Medio Oriente.
E nonostante il piglio bellicoso della von der Leyen e la minaccia di scatenare sul fronte russo una Kallas idrofoba, in verità, se si allenta il contributo americano, l'Ucraina ha letteralmente le ore contate.
Ora, grazie all'incontinenza suprematista di Israele, il gioco sulla scacchiera internazionale si è fatto improvvisamente terribilmente complesso e in parte caotico.
Gli USA, essendo una proxy israeliana (e non viceversa), difenderanno a qualunque costo Israele. Questa è l'unica ragione per cui Nethanyahu si è azzardato a un passo potenzialmente devastante per il proprio paese. Senza supporto logistico, rifornimenti, informazioni satellitari, e intercettazioni americane Israele non avrebbe nessuna speranza in una guerra convenzionale prolungata con l'Iran. Ma Nethanyahu sa che, quando la situazione dovesse farsi davvero grave, lo zio Sam entrerà in scena direttamente.
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La notte della cecità: Iran, Israele e il silenzio sui resti di Gaza
di Lavinia Marchetti
Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2025, il cielo del Medio Oriente si è incendiato, di nuovo, era previsto, prevedibile. Netanyahu, come ogni coraggioso terrorista dedito all’instaurazione dell’eterno assedio, si era nel frattempo rifugiato in un bunker statunitense a Cipro, insieme al primo ministro Benny Gantz, gesto che sarebbe grottesco, se non fosse perfettamente coerente con la drammaturgia bunkerocentrica della politica israeliana contemporanea, Le sirene a Tel Aviv e Gerusalemme, i razzi su Haifa, i bagliori sulle acque scure del Golfo Persico.
I titoli si sono rincorsi: “Missili iraniani su Israele“. “Raid israeliani su Teheran“. E ancora: “Il giacimento di South Pars in fiamme“. “Decine di morti tra i bambini“.
Ma su Gaza, nessun titolo.
Perché Gaza è rimasta cieca. Nella notte precedente, l’ultimo ripetitore radio della Striscia è stato colpito. Le voci si sono spente. Gli occhi elettronici che ancora scrutavano tra le macerie si sono oscurati. Mentre il mondo scrutava i cieli sopra Israele e l’Iran, i droni e gli F-16 hanno continuato il loro volo basso sopra Khan Younis, sopra Rafah, sopra i centri di distribuzione del pane. E sopra i corpi.
Gaza, oggi, è la nota stonata in una sinfonia di deterrenza e rappresaglia. Un frammento di mondo che si consuma al buio, nella più totale assenza di sguardi.
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Israele-Iran: la guerra atomica ora è più vicina
di Elena Basile
Scacco matto. Il criminale di guerra Benjamin Netanyahu resta in piedi. Lo credevamo finito, abbandonato dalle stesse lobby della guerra, delle armi, di Israele. Le invettive della maggioranza politica e dello spazio mediatico, inesistenti in precedenza, ci avevano fatto ben sperare. Invece ha di nuovo mischiato le carte con un’azione annunciata da anni: l’attacco all’Iran.
Israele, uno Stato di 9 milioni di abitanti che non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) e possiede illegalmente l’atomica, attacca senza alcuna giustificazione un Paese di 92 milioni di abitanti, firmatario del Tnp, che si è sottoposto alle ispezioni dell’Aiea e, sebbene ne abbia le capacità, ha fino a oggi rinunciato a fabbricare l’atomica, utilizzando l’arricchimento di uranio per scopi civili, come consentito dal trattato.
Tulsi Gabbard, attualmente dirigente dell’intelligence statunitense, ha dichiarato in numerose occasioni che non vi era alcuna prova dell’arricchimento di uranio a fini militari. Del resto, non era interesse dell’Iran sfidare non solo l’Occidente, ma anche la Russia e la Cina che hanno sempre chiesto il rispetto del Tnp.
Si tratta quindi, come per la guerra all’Iraq, di una menzogna condivisa dalle democrazie europee, facilitata da Rafael Grossi, direttore dell’Aiea, di stoffa diversa rispetto ad alcuni suoi predecessori come lo svedese Hans Blix che si oppose, difendendo la verità, alle pressioni statunitensi alla vigilia dell’attacco a Baghdad.
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Israele, la verità proibita. Le parole che non si possono dire e il coraggio di dirle
di Giuseppe Gagliano
Uno sguardo senza sconti su Gaza, la propaganda occidentale e la complicità dell’ipocrisia italiana
Ci sono parole che pesano come macigni, e nomi che funzionano come barriere semantiche: appena vengono pronunciati, si attiva un sistema immunitario che sterilizza ogni possibilità di dibattito. “Genocidio” è una di queste. “Israele” è l’altra. Quando le due si incontrano nello stesso discorso, il pensiero libero viene disinnescato, la logica si dissolve, e l’analisi viene ridotta a insinuazione. Chi osa criticare Israele è etichettato come antisemita, chi difende i palestinesi è sospettato di appoggiare il terrorismo, chi parla di crimini di guerra è accusato di odio razziale. In questa zona grigia del discorso pubblico, la voce di Piergiorgio Odifreddi irrompe con la forza di un’evidenza che non si può più eludere.
Nel corso di un’intervista lunga, complessa e senza sconti concessa alla piattaforma Ibex, Odifreddi smonta, con lucidità chirurgica e rigore logico, le fondamenta del consenso occidentale attorno a uno degli ultimi progetti coloniali del nostro tempo: lo Stato d’Israele nella sua configurazione attuale, governato da una destra ultra-nazionalista, sostenuto militarmente dalle potenze occidentali, e inchiodato a una strategia che da decenni fa della repressione e della disumanizzazione la sua grammatica politica.
Dall’utopia sionista al teocratico colonialismo armato
La prima frattura intellettuale che Odifreddi affronta è quella tra il progetto sionista originario e ciò che lo Stato israeliano è diventato. Il sogno di una “terra per un popolo senza terra” si è rapidamente trasformato, già nel dopoguerra, in un processo sistematico di espropriazione, sostituzione etnica e annessione.
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Il piano turco-russo in Libia a un passo
di Michelangelo Severgnini*
Quando il 3 giugno scorso il capo dell’intelligence turca Ibrahim Kalin è atterrato a Tripoli per una missione complicata ma necessaria (innanzi tutto per i Turchi), forse non si aspettava che il suo convoglio fosse preso di mira da colpi di Kalashnikov. Ma forse nemmeno è stato colto così di sorpresa.
A sparare sono stati gli uomini di Abdel Raouf Kareh, legato alle Forze di Deterrenza. Mentre il convoglio che scortava Ibrahim Kalin era composto dagli uomini di Abdullah Trabelsi, fratello di Imad Trabelsi, niente meno che ministro degli interni del governo illegale, criminale e ormai pericolante di Abdulhamid Dabaiba. I due fratelli, per altro, sono considerati criminali internazionali, ma fino a questo momento a Tripoli nessuna porta gli è stata preclusa.
La missione di Ibrahim Kalin era delicata. Il messaggio che doveva recapitare al governo di Tripoli era il seguente: “Il tempo sta per scadere, se dovete fare qualcosa, fatela adesso”. E forse avrà pure aggiunto: “Non siamo più disposti a proteggere le milizie e i loro capi”. Anche se non l’ha aggiunto, tutti hanno capito a Tripoli che il senso del suo viaggio fosse quello.
La Turchia ha ormai un altro piano, in Libia, risultato di un lungo e paziente lavoro diplomatico che dai giorni di fine 2019 (quando la Turchia decise di schierare i propri uomini a Tripoli a difesa della città dall’avanzata dell’Esercito Nazionale Libico di Haftar) a oggi ha praticamente rivoluzionato, non solo la politica turca in Libia, ma gli equilibri stessi nel Paese.
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Il volto nudo dell’occupazione
di Michele Agagliate
Il colonialismo sionista, l’ipocrisia occidentale e la verità negata: perché la Palestina oggi non ha futuro — e perché abbiamo il dovere morale di dirlo.
Non è (solo) Netanyahu. È Israele. È il suo sistema. È la sua ideologia fondativa. È l’impalcatura culturale, religiosa e militare che regge da decenni uno Stato costruito sulla rimozione sistematica del popolo palestinese e sulla trasformazione della propria identità da rifugio per un popolo perseguitato a potenza teocratica, fanatica e colonialista.
La narrazione dominante in Europa – e, in modo ancora più accentuato, negli Stati Uniti – racconta una favola rassicurante: che esisterebbe un “buon Israele” laico, democratico, pluralista, insidiato solo recentemente da un estremismo politico incarnato da Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati ultranazionalisti e ortodossi. Ma questa narrazione è falsa. O meglio: è consolatoria, perché serve a scindere ciò che invece è organicamente unito.
La verità è che Netanyahu non è un incidente. Non è un’eccezione. Non è neppure una degenerazione. È l’espressione più efficace – e oggi più trasparente – del sionismo contemporaneo. E il sionismo, nel 2025, non è più una dottrina di autodifesa ebraica. È diventato, nella sua forma concreta e statuale, una dottrina suprematista, segregazionista, esclusivista. È l’unica ideologia politico-religiosa del mondo occidentale a essere ancora al potere in uno Stato armato fino ai denti, che gode dell’impunità diplomatica delle democrazie occidentali e del sostegno economico-militare di Washington.
Il problema non è la destra. Il problema è la maggioranza. Perché anche oggi, mentre i carri armati devastano Gaza e gli F-16 colpiscono il nord dell’Iran, meno del 20% degli israeliani dichiara di opporsi in modo netto alla politica estera e militare del proprio governo. Un dato in calo, secondo le rilevazioni del Israel Democracy Institute. La maggioranza della popolazione sostiene le operazioni militari, la retorica dell’annientamento del nemico, la giustificazione preventiva dell’uso della forza come unica grammatica geopolitica.
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I volenterosi carnefici di Gaza
di Marcello Faletra
Bambini col cranio forato, intere famiglie cinicamente massacrate, ambulanze colpite da missili, un intero popolo ridotto alla fame fino a crepare, ospedali bombardati senza scrupolo, giornalisti deliberatamente uccisi (oltre 200), navi umanitarie sequestrate in acque internazionali...cos’altro ancora dopo quasi 60.000 morti accertati e 170.000 dispersi, di cui 21.000 bambini? Nonostante ciò, la mattanza continua con la volontaria complicità del civile Occidente, che invia armi e sostegno morale per concludere la mattanza (Stati Uniti, Germania e Italia in primis).
Nel 1996 lo storico Daniel J. Goldaghen pubblicò un corposo pamphlet il cui titolo provocò un forte dibattito tra gli storici: I volenterosi carnefici di Hitler. La tesi del libro consisteva nel fatto che per capire il passaggio all’atto dell’eliminazione degli ebrei non erano sufficienti teorie che si basavano sulla coercizione all’eccidio (i militari erano costretti a uccidere), ne tanto meno che la responsabilità cadesse ai soli organizzatori dello sterminio, “meschini burocrati”. Ciò che restava ancora da indagare in modo approfondito, era la partecipazione individuale di intere masse popolari, di singoli intellettuali, di figure appartenenti agli apparati propagandistici di stampa, e indotti a promuovere la necessaria eliminazione degli ebrei. Il libro indagava il passaggio dall’astratto al concreto: dietro una struttura burocratica vi sono eserciti costituiti da singole persone, le quali interiorizzano gli ordini, vestono le idee, praticano i pregiudizi e li mettono in opera. Un intero sistema votato alla violenza fino allo sterminio, che non potrebbe esistere senza questi volenterosi carnefici.
Per fare un genocidio occorre una complessa macchina non solo burocratica (statale) e militare, ma si rende necessaria la partecipazione attiva di tutti i singoli individui, che chiamiamo astrattamente “pubblico” o “masse”, oppure “popolo”. A ciò, naturalmente, si aggiunge il lavoro della macchina astratta, incarnata dal politico, dal lobbista, dal propagandista, dal giornalista.
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La strategia piena di contraddizioni di Trump per preservare l’egemonia degli Stati Uniti
Nima Alkhorshid intervista Michael Hudson e Richard Wolff
NIMA ALKHORSHID: Ciao a tutti. I nostri amici Richard Wolff e Michael Hudson sono di nuovo con noi. Benvenuti.
Cominciamo con Lindsey Graham e la sua ultima visita in Ucraina. Non solo Lindsey Graham, Blumenthal e Mike Pompeo sono andati in Ucraina. Ecco cosa ha detto Lindsey Graham: (Lindsey Olin Graham è un politico, militare e avvocato statunitense, attuale senatore per lo stato della Carolina del Sud, è il neocon guerrafondaio che piace a Zelensky e alla Regina Von der Leyen, NdR)
LINDSEY GRAHAM: La Russia ha detto che l’Ucraina non ha buone carte. Beh, la Russia è molto più grande e ha molta più popolazione. Lo capisco. Ma il mondo ha molte carte contro la Russia. E una di queste carte che abbiamo sta per essere giocata al Senato degli Stati Uniti. In America, ci sono più di una persona al tavolo delle trattative. Abbiamo tre rami del governo, e la Camera e il Senato sono pronti ad agire. Cosa ci farebbe cambiare idea? Se la Russia si sedesse al tavolo delle trattative, accettasse un cessate il fuoco, e con serietà.
* * * *
NIMA ALKHORSHID: Richard, una delle carte di cui parla sono i dazi secondari del 500% sull’energia russa, che sappiamo influenzerebbero Cina, India e, alla fine, l’Europa. La tua opinione?
RICHARD WOLFF: Beh, Lindsey Graham è stato un senatore sbruffone per tutta la sua carriera. Questo è tutto teatro. Lui è stato tutto teatro. Lui è tutto teatro.
Ha radunato i molti altri membri di entrambe le Camere che, come lui, sono attori nell’anima e politici solo in secondo luogo. Questa è spettacolarità. Tutto qui. È qualcosa che ha deciso migliorerà la sua reputazione laggiù nel Sud degli Stati Uniti, da dove proviene e dove viene eletto da persone che approvano quel tipo di teatralità, anche se la loro situazione reale sta peggiorando.
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Un metodo chiamato civiltà. Gaza, Iran e l’architettura coloniale dell’Occidente
di Pasquale Liguori
L’ordine occidentale contemporaneo si regge sulla capacità di neutralizzare il conflitto attraverso il discorso, di convertire la realtà storica in narrazione funzionale, di trasformare la guerra in umanitarismo. Giorgio Agamben ci ha mostrato come “lo stato d’eccezione tenda a imporsi come forma legale di ciò che, per definizione, non può avere forma legale”. Sicché è dentro questa logica che si inscrive la gestione occidentale della crisi mediorientale, in particolare dopo il 7 ottobre 2023: un evento che ha segnato il punto di emersione - ovviamente, non l’inizio - di un processo coloniale lungo un secolo. Ma ciò che conta per l’Occidente non è la storia reale, bensì la sua manipolazione selettiva, volta a legittimare ogni intervento, ogni silenzio, ogni alleanza.
La reazione immediata delle classi dirigenti euro-atlantiche all’attacco del 7 ottobre ha rivelato il riflesso condizionato di un dispositivo ideologico profondamente radicato. Si è parlato di pogrom, di ritorno dell’antisemitismo, di barbarie antioccidentale. Nessun riferimento alla resistenza, al contesto coloniale, alla storia consolidata di oppressione, occupazione, apartheid. La Palestina, come entità storica e politica, è stata rimossa dal discorso. L’Occidente ha identificato il nemico assoluto - il “terrorista” palestinese - delegittimandone qualsiasi azione in quanto eccezione umana e giuridica.
In linea con la genealogia foucaultiana del potere, che non reprime ma produce i discorsi legittimi, la cancellazione della Palestina come soggetto politico rientra pienamente nella strategia biopolitica dell’Occidente.
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Il nucleare non è un problema solo dell’Iran. Le atomiche israeliane un fattore di asimmetria inaccettabile
di Sergio Cararo
Le ripetute, ossessive e inaccettabili dichiarazioni dei governi occidentali sul fatto che l’Iran “non deve avere la bomba atomica” e che Israele ha quindi diritto “di bombardarlo per difendersi”, evitano accuratamente di soffermarsi su un convitato di pietra che è invece l’architrave della questione: l’arsenale nucleare israeliano, sul quale da Washington a Parigi e da Roma a Londra fanno tutti i finti tonti.
L‘Iran è infatti membro dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dal 1958. L’AIEA è un’organizzazione internazionale che promuove l’uso pacifico dell’energia nucleare e verifica il rispetto degli impegni di non proliferazione nucleare.
Tuttavia, il rapporto tra l’Iran e l’AIEA è stato spesso complesso, soprattutto a causa delle preoccupazioni riguardo al programma nucleare iraniano. L’Iran, diversamente da Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) ed è soggetto a controlli dell’AIEA, ma ci sono state tensioni per la mancata piena trasparenza su alcune attività.
Dopo l’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA), l’Iran ha accettato maggiori ispezioni, ma con il ritiro degli USA dall’accordo nel 2018 e le successive tensioni, la cooperazione si è ridotta. Negli ultimi anni, l’AIEA ha espresso preoccupazione per la mancata collaborazione su alcuni siti nucleari iraniani.
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