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Armarsi per salvare il capitalismo finanziario!
La lezione di Rosa Luxemburg, Kalecki, Baran e Sweezy
di Maurizio Lazzarato
Dopo «Perché la guerra?», «Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale» e «I vicoli ciechi del pensiero critico occidentale» (I) e (II), un nuovo articolo di Maurizio Lazzarato per inquadrare i fenomeni politici contemporanei e capire la natura del riarmo europeo e della guerra.
Secondo l'autore, è in corso, dal punto di vista capitalistico, una lotta feroce tra Trump e le élite sconfitte nelle elezioni presidenziali statunitensi, che hanno ancora forti presenze nei centri di potere, soprattutto in Europa.
Così, la corsa agli armamenti non assume la forma di «keynesismo militare» perché ha una logica differente: garantire surplus finanziari ai fondi di investimento, non adeguatamente rappresentati dal governo del tycoon. Una guerra che è scontro politico, tra diversi fattori soggettivi capitalistici.
* * * *
Per quanto grande sia una Nazione, se ama la guerra perirà; per quanto pacifico sia il mondo, se dimentica la guerra sarà in pericolo.
dal Wu Zi, antico trattato militare cinese
Quando diciamo sistema di guerra intendiamo un sistema quale è appunto quello vigente che assume la guerra anche solo programmata e non combattuta come fondamento e culmine dell’ordine politico, cioè del rapporto tra i popoli e tra gli uomini. Un sistema dove la guerra non è un evento, ma una istituzione, non è una crisi ma una funzione, non è una rottura ma un cardine del sistema, una guerra sempre deprecata e esorcizzata, ma mai abbandonata come possibilità reale
Claudio Napoleoni, 1986
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Introduzione [a Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale]
di Nicolas Tertulian
I testi: Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale. Questioni di principio di un’ontologia oggi divenuta possibile, Guerini e Associati, Milano, 1990
I Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale possiedono il valore di un testamento, per il fatto di essere l’ultimo grande testo filosofico di Lukács. Vennero infatti redatti poco prima della sua morte.
Sapendolo impegnato nella redazione dell’Ontologia, opera molto attesa da tutti coloro che erano interessati al suo pensiero, in una lettera spedita da Parigi, dove ci trovavamo per tenere alcune conferenze sulla sua Estetica, gli avevamo chiesto notizie intorno al suo lavoro. Il 14 gennaio 1971 egli ci mandò questa breve risposta, che permette di datare la nascita dei Prolegomeni: «Con l’Ontologia procede assai lentamente. In autunno ho messo giù la prima stesura di un prolegomenon (circa 300-400 pagine). Ho ancora il problema della revisione e della eventuale rielaborazione. (Purtroppo ho avuto nel frattempo una [parola indecifrabile] leggera influenza; alla mia età però la capacità di lavorare ritorna assai lentamente)».
Quando poi, due mesi dopo, gli facemmo visita a Budapest, il filosofo non aveva ancora rivisto il testo: era in corso il lavoro di decifrazione e la battitura a macchina. La «leggera influenza» di cui aveva parlato nella lettera (probabilmente un sintomo del male che doveva portarselo via il 4 giugno seguente) gli lasciò il tempo di stendere qualche appunto autobiografico, pubblicato sotto il titolo di Gelebtes Denken, ma non quello di rivedere il testo dei Prolegomeni. La morte venne a interrompere la realizzazione di un grande progetto i cui lavori preparatori risalivano al maggio 1960 – vale a dire esattamente al momento in cui egli aveva messo il punto finale al voluminoso manoscritto dell’Estetica[1] – e nel quale l’Ontologia dell’essere sociale appariva come il preludio necessario di un’Etica. Fino agli ultimi momenti della propria vita il filosofo nutrì la speranza di realizzare questo progetto, di dare cioè un séguito logico alla sua Ontologia, séguito che doveva essere costituito dall’Etica, come testimonia una lettera del 30 dicembre 1970 indirizzata a Ernst Bloch.
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Rileggendo Marx. Appunti sui libri II e III del Capitale
di Carlo Formenti
1. Presentazione del percorso di ricerca
Studiare il Libro I del Capitale è impresa meno astrusa di quanto affermino i detrattori di Marx. Sia perché svela gli arcani dell’economia capitalistica in modo chiaro e comprensibile anche ai non addetti ai lavori, sia perché la riflessione teorica si alterna a incisi letterariamente godibili, nei quali analisi, racconto storico, battute e citazioni “classiche - non di rado bibliche, come evidenziato da un noto teologo della liberazione (1) – ravvivano la lettura. Lo stesso non vale per i Libri II e III che, al pari di certe parti dei Grundrisse, impongono al lettore uno sforzo di comprensione (e spesso di pazienza, soprattutto nelle pagine ricche di schemi e formule matematiche) assai maggiore.
Non a caso, quando un esponente di qualche partito o movimento che si proclama marxista (anche se appartiene alla cerchia dei più acculturati, o persino degli intellettuali di professione) dichiara di avere studiato il Capitale, è lecito sospettare che la sua affermazione si riferisca al Libro I e, nella migliore delle ipotesi, ad alcune parti del II e del III. Mentirei se non ammettessi che quanto appena detto vale anche per il sottoscritto: fino a non molto tempo fa, i miei propositi di esaurire nella sua interezza lo studio dell’opera fondamentale di Marx, si erano quasi sempre scontrati con la difficoltà di strappare ad altri impegni il tempo e le energie necessari.
Sono stato infine indotto a tamponare questa falla, da un lato, dalla necessità di comprendere meglio le dinamiche della crisi che il capitalismo mondiale sta vivendo dall’inizio del Duemila (in realtà dai Settanta del Novecento, ma con modalità meno chiare ed evidenti delle attuali) e i suoi effetti geopolitici (a partire dal rischio incombente di una Terza guerra mondiale), dall’altro lato, dalle critiche a certi dogmi incistati nel corredo ideologico della tradizione marxista (in primis occidentale). Mi riferisco, in particolare, a quelle avanzate dall'ultimo Lukacs che, come ho scritto più volte (2), considero il più grande filosofo marxista del Novecento, e da diversi altri autori, spesso esponenti di culture del Sud del mondo, ma non solo (nominarli tutti sarebbe dispersivo, per cui rinvio al sintetico elenco in nota) (3).
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Che fare di Palestina e Siria? Fratellanze e Discordanze Israelo-Musulmane
di Fulvio Grimaldi
Per la Palestina, Gaza e Cisgiordania, Trump ha annunciato l’inferno. Il governante che col capo di quella struttura potrebbe benissimo gareggiare per il primato delle atrocità, lo va praticando da 16 mesi. Se non da anni, se non da 8 decenni.
Negli ultimi 10 giorni di marzo, violato, come è suo costume storico, ogni accordo di tregua, di cessate il fuoco, di transazione, con stermini in Libano, Siria, Cisgiordania, 1000 assassinati nella sola Gaza, di cui 322 bambini, di cui si sa quanto siano privilegiati dai cecchini dello Stato infanticida. 15 medici, infermieri, operatori umanitari in manifesta attività di soccorso uccisi a freddo, gettati in una fossa comune. 209 giornalisti uccisi, spesso assieme a moglie, figli, tutta la famiglia.
Nel calcolo di “Lancet” 150.000 vittime, al 99% civili, in maggioranza donne e bambini, uccisi da missili, bombe, droni, fame, sete, epidemie, sepolti sotto macerie. 2 milioni e passa di sopravvissuti avviati all’esodo “volontario”, nell’agghiacciante ipocrisia dei genocidari volontari che prospettano la vivisezione di Gaza con sua progressiva frammentazione in campi di concentramento sotto totale controllo dell’IDF. Grandi manifestazioni in Israele, ma mai contro questo. I kapò dei lager d’antan si ritrovano superati in classifica.
Tutto questo sulla base di un suprematismo autoassegnatosi e sacralizzato da un manuale autoredatto, ma attribuito a un autocreato dio in esclusiva e corroborato da un vittimismo, affatto simile a quello che altre comunità potrebbero assegnarsi, ma che si pretende unico nello spazio e nel tempo. Vittimismo vantato per sé, quando semmai era quello che aveva investito generazioni precedenti e ormai lontane. Vittimismo, oggi oscenamente strumentale, di una comunità religiosa fattasi imperialista e giudice dell’umano e del non umano. Quest’ultimo, dunque, in eccesso sul pianeta Terra.
Tutto questo sotto gli occhi del mondo. Non del nostro, dove, al di là e contro l’ignavia di tanti, la passiva o attiva complicità di potentati politici, economici e culturali, vasti settori di società si sono sollevati contro gli abomini dello Stato storicamente e ontologicamente fuorilegge e a sostegno delle sue vittime.
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La nuova bolla finanziaria del riarmo
di Alessandro Volpi*
Polizze, conti deposito, cartolarizzazioni, riduzioni fiscali. Il riarmo europeo finanzia ben poco l'Ue, anche perché oltre la metà si traduce in acquisti di armi prodotte negli Usa. La nuova economia violenterà il Welfare e coltiverà odi nazionalistici destinati a distruggere il senso di convivenza collettiva
Nell’orizzonte di ReArm Europe, lo strumento concepito dalla Commissione von der Leyen per “difendere” il Vecchio Continente, compare, esplicito, l’invito a creare un mercato unico dei capitali e a favorire strategie di finanziarizzazione verso il settore delle armi, anche attraverso la Banca Europea degli Investimenti, così da facilitare la piena declinazione del capitalismo in termini bellici.
L’impennata dei titoli azionari delle armi
Il Piano, in tal senso, è l’indicazione per i grandi fondi Usa, BlackRock Vanguard e State Street, per quelli europei, da Amundi, per la grandi banche di comprare i titoli dell’industria delle armi – peraltro ben specificata dal documento “difesa aerea e missilistica, sistemi di artiglieria, missili e munizioni, droni e sistemi anti-drone”, una definizione solo parzialmente corretta dal Libro Bianco per la difesa – mettendo in secondo piano le altre forme di investimento, con la conseguenza di generare una vera e propria, colossale bolla speculativa. Così le manifestazioni pro Europa hanno ottenuto un risultato immediato, costituito dall’impennata dei titoli azionari delle principali imprese di armi europee in grado di registrare record e di riorganizzarsi rapidamente. Non è un caso che la Borsa tedesca sia stata trascinata da Rheinmetall, quella italiana da Leonardo, quella francese da Thales e quella inglese da Bae Systems. Se prendiamo l’elenco delle principali società di armamenti europee, vediamo che da inizio anno fino a metà marzo 2025 il titolo di Airbus Group è cresciuto del 12,6%, quello di Bae Systems del 41%, quello di Dassault del 45,5%, quello di Kongsberg del 27%, quello di Leonardo del 73,3%, quello di RheinMetall del 92,2%, quello di Rolls-Royce del 41%, quello di Saab del 58% e quello di Thales del 76%.
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Il funzionario del capitale e la signora nello specchio
di Gianmarco Oro
1. Introduzione
Durante la campagna elettorale del 2024, Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di porre al centro della propria agenda politica un’attenzione particolare al crescente deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, che nel 2022 ha raggiunto i 943 miliardi di dollari.
Già durante la sua prima amministrazione, Trump aveva adottato una serie di misure protezionistiche volte a ridurre il disavanzo commerciale con la Cina, imponendo nel gennaio 2018 dazi compresi tra il 30% e il 50% sui pannelli solari e, da marzo, del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. Tali misure – non revocate dall’amministrazione Biden – rappresentano il precedente su cui Trump ha inteso proseguire la guerra commerciale avviata con la Cina nel 2018, ma per estenderla ora a tutti i paesi con un surplus commerciale significativo nei confronti degli Stati Uniti, in particolare all’Unione Europea che nel 2024 ha registrato un saldo positivo verso gli USA pari a 48 miliardi di euro (Eurostat, cfr. Parlamento Europeo, 2025). Pertanto, dal 2 aprile 2025, gli Stati Uniti hanno imposto dazi del 20% sulle importazioni dall’UE di acciaio, alluminio e prodotti contenenti questi materiali, tra cui macchinari, automobili, attrezzature per il fitness, elettrodomestici, dispositivi elettronici e articoli per l’arredamento.
In risposta, l’UE prevede di reagire adottando una strategia articolata che comprenderà sia azioni diplomatiche, come ricorsi presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, sia misure ritorsive come l’introduzione di dazi su specifici prodotti statunitensi, quali acciaio, alluminio, prodotti tessili, elettrodomestici e utensili per la casa, plastiche, prodotti in legno e prodotti agricoli come pollame, bovini, pesce, latticini, zucchero e ortaggi (cfr. Commissione Europea, 2025). Ai dazi, contro-dazi: ritorsioni, ripicche. A che pro?
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Rossana Rossanda. Politica, memoria e rivoluzione
di Franco Cimei*
A vent’anni da La ragazza del secolo scorso, come recuperare nella sua complessità la storia del comunismo?
Un’epifania: Rossana ha appena scoperto che il suo professore di filosofia è un comunista. Lei ha 19 anni, è il 1943, Milano è occupata dai nazisti. Il professore, Antonio Banfi, non ha risposto alle sue domande ma le ha consegnato un fogliettino stropicciato su cui ha scritto i titoli di una serie di libri per capire, gli autori sono: Marx, Lenin, Harold Laski. Rossana corre in biblioteca, poi per tornare a casa prende il tram per Olmeda, su questo incontra tre operai:
Sfiniti di fatica e mi parve di vino, malmessi, le mani ruvide, le unghie nere, le teste penzolanti sul petto. Non li avevo mai guardati, il mio mondo era altrove, loro erano altro, che cosa? Erano la fatica senza luce, le cose del mondo che evitavo, sulle quali nulla si poteva. Come nulla potevo sui poveri, un’elemosina e via. Le teste ciondolavano, scosse a ogni svolta del tram, i visi non li vedevo. Era con loro che dovevo andare. A casa lessi tutta la notte, un giorno, due giorni.
In questa scoperta della sua vocazione politica c’è tutta Rossana Rossanda, tutta la sua idea di politica. È un episodio che ci racconta lei stessa nella sua autobiografia, La ragazza del secolo scorso, uscita vent’anni fa per Einaudi, in cui condensa tutto il suo percorso politico e intellettuale fino agli anni Settanta. Ma c’è anche una strana incongruenza. Francesco de Cristofaro, uno dei più attenti studiosi di Rossanda, in Aperte lettere (2022) fa notare quello “scandalo logico fra la penultima e l’ultima frase”. Rossanda empatizza con la condizione umana degli operai, sembra trascinata d’impulso verso la loro strada e quindi torna a casa e legge tutta la notte.
Questo movimento apparentemente incongruo è caratteristico di Rossanda, per cui l’azione politica ha sempre una genesi emotiva, strappata dalla vita, poi fatta propria attraverso la razionalità e lo studio. Un movimento centrifugo che va dalla vita ai libri e solo allora può diventare azione. Un modo di concepire l’azione politica che si avvicina molto a quello di Lenin, suo grande maestro.
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La conoscenza della storia, l’Occidente e il libero arbitrio
di Algamica*
Convinti con Marx che la coscienza degli uomini sia il risultato del processo determinato e impersonale del rapporto degli uomini con i mezzi della produzione e con la natura. Allo stesso riteniamo così sia per lo sviluppo di tutte le scienze, tra le quali vi è la storiografia e il ruolo dello storico che ne discende. Contestiamo, perciò, tutte quelle concezioni che ritengono che il motore della storia sia il risultato della volontà degli uomini e della capacità di far uso della ragione. Sarebbe, perciò, il libero arbitrio degli uomini a guidare la storia. Solo che anche la concezione del libero arbitrio altro non è che un costrutto materiale e il risultato di precisi processi storici. E’ chiaro che seguendo la forza storica di questa concezione – che si impone dal Rinascimento e raggiunge la piena maturazione nell’Illuminismo e nella formulazione del “sapere aude”, tutto quanto ne consegue è giustificato. Si rimane senza argomenti di fronte all’arringa finale dell’ex “comunista” Rampini: «[...] e va bene, noi Occidentali abbiamo insanguinato l’Africa, eppure ora la durata della vita media in Africa è superiore rispetto al passato grazie a noi. Grazie a noi in Africa quasi tutti posseggono un telefono cellulare e si connettono al mondo ».
Ci viene rinfacciato, che ci piaccia oppure no, che l’Occidente anche saccheggiando il mondo e passando di genocidio in genocidio, epperò ha consentito lo sviluppo o il progresso universale.
Parafrasando Immanuel Kant, i liberisti alla Rampini o alla Ernesto Galli della Loggia, sostengono che gli uomini europei e Occidentali seppero superare l’ignoranza e lo stato di minorità nei confronti delle relazioni con il mondo esterno. Seppero, cioè, far prevalere e precedere l’idea all’istinto dando impulso all’azione razionale, che a sua volta diviene intrapresa.
Lo storico del liberismo non può che sottolineare alla prova dei fatti che l’uomo europeo e Occidentale anche attraverso le sue nefandezze sia stato proprio lui a mettere in comunicazione il mondo.
Seguendo questo modo di indagare i fatti aggiunge che questa virtù di concepire una idea in sé e a priori è “sbocciata” in Occidente, e dunque, anche tutte le idee di progresso sociale sono nate qui in Occidente, ivi inclusa, come dice Ernesto Galli della Loggia, quella concezione particolare e “profetica” della «rivoluzione sociale da cui è nata la più variegata ideologia rivoluzionaria ».
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Armiamoci e partite. Sulla mediocre pedagogia della ⟪necessità storica di difendere l’Europa⟫
di Daniele Lo Vetere
Mettere l’elmetto alla “generazione fiocco di neve”
Il collega Marco Maurizi l’ha sintetizzato alla perfezione: «La borghesia liberale è passata da “un brutto voto potrebbe condurre alla morte dei nostri fragili figli” a “preparatevi a vivere in un bunker” nel giro di poche settimane». E davvero, ultimamente, con una intensità esplosiva dopo il fallito incontro nello Studio ovale tra Trump e Zelensky, non era possibile accendere la tv su un talk show politico, leggere un corsivo sui quotidiani, aprire Facebook, senza sentire o leggere una Gruber, un Giannini, un Mentana, un Augias, un Flores d’Arcais – sto facendo intenzionalmente solo nomi di opinionisti progressisti – farsi portavoce dell’ineluttabilità dell’ora presente e dell’unica strada tracciata davanti a noi: il riarmo.
Tutto ciò che poteva disturbare questa adesione all’ananke veniva o contestato con accanimento o intenzionalmente taciuto: Schlein è stata screditata come leader inaffidabile, semplicemente perché ha osato non allinearsi a un Partito socialista europeo che si è reso subito disponibile a sostenere le proposte di Ursula von Der Leyen; nessuno ha concesso il minimo spazio alla speranza che una qualche forma di opposizione interna a Trump saprà forse riorganizzarsi oltreoceano nei prossimi quattro anni e ci si è affrettati a dichiarare l’Europa orfana di papà Stati Uniti, esortandola a crescere e a imparare a fare a botte da sola; ovunque si è evocata la Conferenza di Monaco e hitlerizzato Putin, come se questi intenda entrare domani a Parigi coi panzer. Persino una rivista moderata (nei molti sensi del termine) come Il Mulino, ha sostenuto con perfetto tempismo l’idea di reintrodurre un esercito di leva.
Soprattutto, giorno dopo giorno, si è profilato davanti ai nostri occhi un soggetto – i valori europei – sovrastorico, metafisico, mitico, nel quale si confondevano Europa geografica e storica ed Unione dei trattati, Europa e umanesimo-illuminismo-libertà-democrazia-civiltà, Altiero Spinelli e Mario Draghi/Christine Lagarde, Europa e iniziative egemoniche di Macron e di Starmer (che dell’Unione non fa nemmeno parte).
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Il difficile e illusorio equilibrismo di Trump
di Andrea Fumagalli
Alle 16.00 del 2 aprile 2025, ora di Washington, Trump ha annunciato dal Rose Garden della Casa Bianca l’entrata in vigore immediata di dazi sui beni importati del 20% per l’Europa, del 34% per la Cina, del 10% per la Gran Bretagna e in modo differenziato per moltissimi altri paesi. A ciò si aggiunge il dazio del 25% sulle automobili prodotte all’estero. Ricordiamo che tali dazi si sommano a quelli già emessi sull’acciaio e sull’alluminio. Sono entrati in vigore alle 0:01 di sabato ora di Washington (le 6:01 in Italia) i dazi aggiuntivi del 10% imposti dall’amministrazione Trump su gran parte dei prodotti che gli Stati Uniti importano dal resto del mondo: questa soglia minima universale, da cui sono esenti determinati prodotti, si aggiunge ai dazi già esistenti. La Cina ha già adottato le proprie contromisure: verranno applicati dazi sulle merci Usa del 34% a partire dal 10 aprile.
Di fatto è la pietra tombale sulla globalizzazione degli anni ’90 e dei primi 2000, basata sul Washington Consensus a matrice Usa: una realtà che ora appare del tutto diversa se non rovesciata.
1. La possibile logica di Trump
Per cercare di capirne la logica (perché le decisioni di Trump non sono frutto di follia), occorre partire da due dati fondamentali per la sostenibilità dell’economia statunitense.
Il primo riguarda il saldo della bilancia commerciale americana, che nell’anno 2024 ha toccato il massimo storico, raggiungendo un valore 1.210 miliardi di dollari con un aumento di 148 miliardi [+14%] rispetto al 2023. La bilancia commerciale americana mostra un saldo negativo con tutti i maggiori partner commerciali degli Stati Uniti, ovvero Cina, Messico, Canada, Vietnam e il blocco dei paesi dell’Unione Europea, non a caso i paesi più colpiti dai dazi di Trump.
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La strategia negoziale di Trump è già sul punto di fallire?
di Roberto Iannuzzi
In un quadro di “diplomazia muscolare”, dichiarazioni impulsive e contraddittorie, e nebulosità dei reali obiettivi diplomatici, i negoziati sull’Ucraina potrebbero finire presto in un vicolo cieco
A poche settimane dall’avvio dei negoziati per la risoluzione del conflitto ucraino, lo sforzo diplomatico del presidente americano Donald Trump sta incontrando numerosi ostacoli.
Le ragioni sono molteplici.
Trump ha il merito di aver iniziato una trattativa impensabile fino a pochi mesi fa, alla luce dell’intransigenza di Kiev e dei suoi alleati occidentali riguardo alla prospettiva di aprire un dialogo con Mosca.
Ma le strategie negoziali della Casa Bianca sono state spesso incoerenti, talvolta dilettantesche, essenzialmente di natura transazionale e utilitaristica, oltre che poco attente alle posizioni dei suoi recalcitranti alleati.
A ciò bisogna aggiungere che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi sostenitori europei hanno fatto di tutto per boicottare il negoziato.
Accordi parziali e nebulosi
La strategia di Trump si è concentrata sul tentativo di giungere a un cessate il fuoco iniziale di trenta giorni finalizzato all’avvio di vere trattative di pace.
Ma, in assenza di una definizione chiara degli obiettivi finali del negoziato, una tregua di questo genere avvantaggia la parte perdente nel conflitto: Kiev avrebbe modo di riorganizzarsi, ricevere munizioni e armamenti, e mobilitare nuovi uomini.
Da qui la cautela di Mosca. Il 13 marzo, il presidente russo Vladimir Putin ha chiarito che “partiamo dalla posizione che questa cessazione debba portare a una pace a lungo termine ed eliminare le cause di questa crisi”.
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L’assurdo al potere in Europa
di Elena Basile
Mi capita di incontrare persone del ceto medio, anche molto cortesi e istruite, capaci per certi aspetti di esibire una certa umanità nei confronti dei consimili, che di improvviso mi fanno gelare il sangue nelle vene, pronunciando espressioni relative al genocidio di Gaza di chiara approvazione della carneficina in corso, anche dell’omicidio dei bambini. “Beh poi crescono e divengono terroristi”: questo affermano.
Mi sembra evidente che l’umanità sia destinata a ripetere i propri crimini. Gli ebrei venivano considerati ladri e persone infami, non potevano indurre a compassione. Ugualmente i bambini di pochi anni trucidati da Israele non possono ispirare alcuna pietà, appartenendo essi alla categoria subumana dei terroristi. La barbarie avanza. Il noi e il loro ritorna prepotente. Il cattivo di turno è cangiante, ora islamista, ora russo, ora palestinese. C’è sempre una buona ragione per escluderlo, demonizzarlo, massacrarlo.
E’ vero a Gaza i bambini sopravvissuti agli stermini israeliani hanno buone chances di combattere Israele con la lotta armata. Non vi sono canali politici. Difficile combattere una potenza occupante con altri metodi. Craxi, Andreotti e Barak avevano compreso come soltanto la fortuna permettesse ad alcuni di essere rispettabili cittadini e trasformasse altri in criminali. Essi non si stancavano di ammettere che se fossero nati in una prigione a cielo aperto, sarebbero divenuti anch’essi terroristi. La razionalità vorrebbe che al fine di eliminare il pericolo terrorista si cancellassero le sue cause profonde in Palestina. Sarebbe essenziale porre fine all’assedio di Gaza, all’occupazione illecita della Cisgiordania. La logica è tuttavia messa di lato, si preferisce puntare sugli istinti di appartenenza e la sempre viva tendenza a escludere chi è considerato straniero, diverso.
Con riferimento alla Russia il metodo non è differente. Si fotografa l’istantanea, spiace dirlo anche da parte degli analisti più seri. Mosca ha invaso la Crimea, ha invaso l’Ucraina. Quindi è uno Stato imperialista. Putin ha osato dire che non ci sono differenze tra nazione ucraina e nazione russa.
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Allarme dell’intelligence Usa: la Russia sta vincendo in Ucraina
di Giacomo Gabellini
Il rapporto 2025 dei servizi segreti statunitensi avverte che l'alleanza anti-Occidente si consolida. Ma l’Iran (per ora) rinuncia all'atomica
L’Annual Threat Assessment, redatto dall’ufficio diretto da Tulsi Gabbard, dipinge un mondo ad alta tensione. Russia, Cina, Iran e Corea del Nord si saldano in un’alleanza sempre più solida contro l’Occidente. Pechino resta la minaccia maggiore, con ambizioni militari, tecnologiche e globali. Mosca, nonostante le sanzioni, ha ribaltato le sorti della guerra in Ucraina e condivide il know-how militare con gli alleati. L’Iran rallenta (per ora) sul nucleare, ma investe su droni e missili. Pyongyang riduce la dipendenza da Pechino grazie al sostegno di Mosca. Mentre l’asse si consolida, Washington rischia di essere trascinata in una spirale di conflitti.
* * * *
«Un insieme eterogeneo di attori stranieri sta prendendo di mira la salute e la sicurezza degli Stati Uniti, le infrastrutture critiche, le industrie, la ricchezza e il governo». Con queste parole allarmanti esordisce l’Annual Threat Assessment, la valutazione annuale statunitense delle minacce nazionali per l’anno 2025 pubblicata a marzo. Redatto dall’Office of the Director of National Intelligence, diretto da Tulsi Gabbard, individua e valuta l’entità delle minacce ai cittadini, allo Stato e ai suoi interessi economici e di sicurezza. Il rapporto, realizzato con la collaborazione dell’intera comunità d’intelligence statunitense, sottolinea che «gli avversari statali e i movimenti non governativi a essi riconducibili stanno cercando di indebolire e sostituire il potere economico e militare degli Stati Uniti in tutto il mondo».
Per quanto concerne alle organizzazioni non statali, l’attenzione si concentra sui cartelli della droga messicani, colombiani e centroamericani, oltre che sui gruppi dell’integralismo islamico, sui pirati informatici e sugli organismi di intelligence para-statali.
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Tendenze autoritarie del neoliberalismo
di Donato Gervasio
Docente all’Università Bordeaux-Montaigne, specialista di Nietzsche e studiosa di Foucault, Barbara Stiegler è molto presente nel dibattito politico francese, in particolare per le sue riflessioni sul “macronisme”, il sistema di potere legato al presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. Ha scritto Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico e La democrazia in pandemia. È qui a Biennale Democrazia per parlare delle sue ricerche, che conduce da molti anni, sulla storia del neoliberalismo.
“Neoliberalismo e democrazia: la pace è la guerra e la guerra è la pace”: il titolo della lezione di Barbara Stiegler, che sostituisce quello annunciato (“Una lotta disperata, ma con molto fair play. Società e politica ai tempi del neoliberismo”) è un esplicito riferimento alle parole che, nel mondo creato da George Orwell in 1984, significano il contrario di quello che dicono.
“Il neoliberalismo fa un discorso di pace o di guerra?” Con questa domanda Stiegler comincia la sua riflessione. Prima di rispondere ci offre alcuni punti di riferimento storici: Il neoliberalismo, nato negli anni Trenta del Novecento, è una delle conseguenze della crisi economica del ‘29 e della crisi del liberalismo classico. I neoliberali ritengono necessario un più marcato intervento dello Stato nell’economia e in tutti gli ambiti della vita sociale, combattono i fascismi e si fanno promotori della pace mondiale, condizione necessaria per la creazione di un mercato globale.
“Ma oggi, e in modo davvero sorprendente – afferma Stiegler – i nuovi neoliberali sono i primi a volerci preparare mentalmente alla guerra.” E ci offre due esempi di questo “incredibile capovolgimento”: Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea: entrambi si fanno sempre più sostenitori di un “discours guerrier”.
Stiegler tiene a precisare che questo discorso di guerra non si è manifestato in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma ha cominciato ad affermarsi durante gli anni dell’emergenza Covid.
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«Perché, prima o poi, il capitalismo ha bisogno della guerra»
di Andrea Zhok
Il professor Zhok espone la sua tesi: per sopravvivere, il libero mercato deve crescere. E, quando si ferma, l’ultima risorsa è il conflitto.Il docente di Filosofia morale alla Statale di Milano si inserisce nel dibattito su guerra e riarmo con una lettura molto critica del capitalismo. Secondo l’analisi di Andrea Zhok, il libero mercato, per sopravvivere, richiede una continua crescita. Quando la crescita si arresta, il sistema entra in crisi. E le soluzioni tradizionali – innovazione tecnologica, sfruttamento della forza lavoro, espansione dei mercati – non bastano più. In questa prospettiva, sostiene Zhok, la guerra diventa l’extrema ratio, offrendo al sistema economico un meccanismo di distruzione, ricostruzione e controllo sociale.
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1. L’essenza del capitalismo
Il nesso tra capitalismo e guerra è non accidentale, ma strutturale, stringente. Nonostante la letteratura autopromozionale del liberalismo abbia sempre cercato di spiegare che il capitalismo, tradotto come «dolce commercio», era una via preferenziale verso la pacificazione internazionale, in realtà questo è sempre stata una conclamata falsità. E questo non perché il commercio non possa essere viatico di pace – può esserlo – ma perché l’essenza del capitalismo NON è il commercio, che ne è solo uno dei possibili aspetti.
L’essenza del capitalismo consiste in uno e un solo punto. Si tratta di un sistema sociale idealmente acefalo, cioè idealmente privo di guida politica, ma guidato da un unico imperativo categorico: l’incremento del capitale a ogni ciclo produttivo.
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La filosofia terapeutica e politica di Ludwig Wittgenstein
di Andrea Di Gesu
Una lettura originale della figura di Ludwid Wittgenstein, uno dei filosofi più originali ed enigmatici del Novecento. Andrea Di Gesu sottolinea gli aspetti «terapeutici» del suo pensiero, volti a liberarci dalla necessità metafisica di un fondamento trascendente per i nostri significati, e le riletture politiche che hanno accolto il fattore linguistico nei fondamenti dei loro quadri teorici. Per approfondire rimandiamo al testo dello stesso Andrea Di Gesu, Wittgenstein e il pensiero politico (DeriveApprodi, 2025).
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Ludwig Wittgenstein (1889-1951), unanimemente considerato tra i pensatori più importanti della filosofia del Novecento, ne è anche una delle figure più enigmatiche. Se la traiettoria accidentata della sua vita, nonché la sua personalità estremamente singolare, hanno senz’altro contribuito all’enigma, sarebbe un errore – o quantomeno, una semplificazione – ridurre quest’ultimo allo stereotipo del genio tormentato e sofferente. L’enigma Wittgenstein risiede piuttosto nella struttura stessa della sua filosofia: nella difficoltà persistente di coglierne il disegno complessivo, nell’apparente disorganicità dei suoi movimenti concettuali, nella peculiarità del suo stile letterario. Così come nella mole gigantesca di studi, interpretazioni e riletture che ha generato, e che, motivata da tale enigmaticità, ha contribuito a ispessirla almeno nella stessa misura in cui l’ha, talvolta, diradata.
Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889 da una famiglia dell’altissima borghesia asburgica, di origine ebraica ma convertita al protestantesimo: il padre, Karl, è uno dei più importanti capitani d’industria dell’Impero. Ultimo di otto fratelli, cresce in un ambiente d’eccezione: il palazzo di famiglia è uno dei fulcri della vita culturale viennese dell’epoca, frequentato da intellettuali e artisti del calibro di Klimt, Mahler, Brahms, Freud.
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Olocausto di Gaza, deriva autoritaria di Israele e crisi della civiltà occidentale
di Roberto Iannuzzi
USA ed Europa si trovano a proprio agio con un uso sproporzionato della forza in grado di provocare un numero incalcolabile di vittime civili. Anche laddove le finalità strategiche appaiono nebulose
Ciò che sta avvenendo a Gaza non resterà confinato a Gaza, si potrebbe dire, perché è il sintomo di un malessere più generale che sta erodendo la civiltà occidentale. Proviamo a spiegare.
La rottura del cessate il fuoco nella Striscia, da parte di Israele, coincide con un tentativo di accentramento del potere senza precedenti all’interno dello Stato ebraico, a opera del governo Netanyahu.
Che nessuna di queste notizie occupi le prime pagine dei giornali in Europa e negli USA è un dato rilevante, a sua volta indizio di una crisi non solo democratica, ma di civiltà, nella quale sta sprofondando (a prima vista senza accorgersene) l’intero Occidente.
Questo torpore è motivato dal fatto che tali eventi si inseriscono in un quadro globale nel quale è l’Occidente stesso a registrare una deriva illiberale e ad aver progressivamente scardinato ogni aspetto di quel diritto internazionale del quale fino a ieri si ergeva a difensore.
Così, oggi sono gli Stati Uniti a parlare apertamente della possibilità di annettersi territori o Stati sovrani come la Groenlandia e il Canada.
E, paradossalmente, gli alleati europei accusano Washington di tradimento e slealtà, non tanto per simili grottesche rivendicazioni, ma per il fatto di voler negoziare la fine di un conflitto come quello ucraino, che ha arrecato enormi danni all’Europa e ancor più gravi potrà provocarne qualora dovesse proseguire.
La notte del 18 marzo, Israele ha rotto il cessate il fuoco con un violentissimo bombardamento che ha ucciso in poche ore oltre 400 palestinesi. Il bilancio delle vittime è salito a oltre 700 il giorno successivo.
Queste cifre, tralasciate da gran parte della stampa occidentale, hanno lanciato un messaggio inequivocabile alla popolazione di Gaza.
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Scuola amore mio. Crepuscoli programmati
di Roberto Fineschi
1) “Classi” e scuole nel capitalismo crepuscolare
A che cosa serve la scuola in una società di massa? La premessa di questa domanda è che la massa è una soggettualità, qualcosa con cui le classi dirigenti devono fare i conti. L’altra premessa è che le società sono divise in classi e che in fasi determinate della riproduzione umana nella natura alcune di esse hanno una funzione di guida che esercitano con gli strumenti del dominio e della direzione, forza e consenso differentemente modulate a seconda delle fasi. Ciò non è necessariamente sempre negativo: classi progressiste nella storia hanno prodotto avanzamenti significativi egemonizzandone altre. Una volta la si chiamava col suo nome: lotta di classe ed egemonia di classe. Parlare della scuola al di fuori della fase attuale di sviluppo del modo di produzione capitalistico e senza tenere ben presente qual è la posta in gioco del conflitto di classe significa semplicemente non parlare del problema1.
Semplificando all’estremo, nella fase progressiva del modo di produzione capitalistico e della classe che ne esercita la soggettualità – la borghesia – l’emancipazione delle masse aveva una funzione, sia come alleato contro la feudalità, che come forza-lavoro necessaria e qualificata. L’ideologia democratica e radicale che accompagnava questo fenomeno sbandierava i diritti universali dell’uomo e del cittadino e quindi rivendicava la sua partecipazione alla vita politica, per la quale era necessaria non solo una formazione tecnica, ma anche umana in senso lato: cittadino e lavoratore. La scuola di massa doveva produrre questa figura. La domanda è: nella fase che chiamo crepuscolare del modo di produzione capitalistico c’è bisogno del cittadino-lavoratore di massa? La risposta è no. Le esigenze di produzione, a causa dell’automazione, e di controllo, per la complessità dei processi gestibili solo a livello apicale, richiedono un numero limitato di individui mentre il sistema ne produce una pletora infinitamente crescente che dunque resta strutturalmente esclusa e che non sarà mai integrata.
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Totalitarismo democratico
Il testamento politico di Mario Tronti
di Ida Dominijanni*
Si vive in tanti modi, si muore in tanti modi. Dare forma alla propria fine è un modo per ricomporre la forma della propria vita, e per consentire a chi resta di ereditarla senza sfigurarla. Non è da tutti: ci vuole del talento, e il dono del tempo necessario per poterlo fare. Mario Tronti, uno degli intellettuali comunisti più originali e influenti del Novecento italiano ed europeo, è morto il 7 agosto 2023 a novantadue anni, dopo una malattia abbastanza veloce da sottrarcelo senza che noi – le sue “amicizie politiche”, come gli piaceva chiamarci – ce ne rendessimo conto, ma abbastanza lunga da fargli licenziare il libro a cui stava lavorando. “Questo è pronto”, aveva detto consegnandolo a sua figlia Antonia pochi giorni prima di andarsene. Il testo è ora in libreria per il Saggiatore, a cura di Giulia Dettori, titolo (hegeliano) Il proprio tempo appreso col pensiero, sottotitolo (scarno) “libro politico postumo”. La copertina bianca con sopra il tronco di un albero rosso riproduce la ginestra essiccata che Tronti aveva fatto verniciare nel giardino della sua casa di Ferentillo dove si rifugiava a scrivere, ma funziona anche come citazione cromatica del quadro di El Lissitzky del 1920 sulla rivoluzione bolscevica, Spezza i Bianchi col cuneo rosso, di cui Tronti teneva sempre una copia bene in vista sulla scrivania e che ricorre anche in quest’ultimo scritto.
1.
Si tratta di un testo intenzionalmente, non accidentalmente, postumo, come prova un appunto dell’agosto 2021, risalente a ben prima della malattia, ritrovato per caso in uno dei tanti quaderni su cui Tronti annotava di tutto e posto ora in esergo al testo: “Un libro volutamente postumo, lasciato forse non finito. Scrivo non alcune pagine, ma alcune righe al giorno, e non tutti i giorni… un distillato di pensiero”. Un lascito ereditario dunque, affidato performativamente a un testo che (anche) sul tema dell’eredità ruota.
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Un’opera classica di straordinaria attualità: i Grundzüge di Johann Gottlieb Fichte
di Eros Barone
Come i pretendenti di Penelope, già avvolti dalla fine che era stata loro preparata, imperversavano nei palazzi oscuri e ridevano d’un riso inconsulto,1 così anche costoro [gli esponenti prototipici della “terza epoca”] ridono avventatamente, perché nel loro riso è l’arguzia eterna dello spirito universale che ride di loro stessi. Noi tutti vogliamo concedere loro questo piacere, e ci guardiamo dal togliere la benda dai loro occhi.
J. G. Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, Quinta lezione.
1. Il periodo storico
Quando pubblicò nel 1798 un suo saggio dove Dio veniva fatto coincidere con l’ordinamento morale del mondo, la reazione degli ambienti conservatori e reazionari tedeschi nei confronti di Fichte, considerato allora, insieme con Schelling, il massimo rappresentante dell’idealismo trascendentale, fu immediata e si tradusse in una serie di accuse di ateismo e in un’accesa polemica che, alla fine, costrinse il filosofo a dimettersi dall’università di Jena e a trasferirsi in quella di Berlino. Si chiuse così in modo burrascoso e sfortunato un periodo molto importante della vita di Fichte, caratterizzato tra l’altro dall’incontro, estremamente fecondo per il romanticismo allora in via di formazione, con alcuni dei suoi primi protagonisti, come Novalis e i fratelli Schlegel.
Recatosi quindi a Berlino nel 1799, Fichte entrò in contatto per breve tempo con l’ambiente massonico, mentre duraturo e intenso fu il suo rapporto con i circoli romantici. A questo periodo appartengono tre opere che costituiscono le trattazioni più limpide e accessibili della sua concezione della filosofia e dei suoi rapporti con la vita: La missione del dotto, Lo Stato commerciale chiuso e un’ampia esposizione divulgativa della sua “dottrina della scienza”, il cui titolo prometteva, per l’appunto, un Rapporto chiaro come il sole al gran pubblico sulla vera natura della filosofia più recente. Frutto di conferenze tenute a Berlino nei primi anni dell’Ottocento è l’opera di cui si cercherà di riassumere e commentare le linee portanti in questo articolo: Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, vale a dire I tratti fondamentali dell’epoca presente (1806). 2
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Difesa europea ed euro-demenza
di Alberto Bradanini
1. Pur nella cupezza dei tempi, non dovremmo sorprenderci della sorpresa con cui prendiamo atto dell’instabilità mentale delle nostre classi dirigenti. Del resto, queste, ahimè, non sgorgano dal vuoto cosmico (riflessione questa lecita e sconfortante!), essendo esse il riflesso di popolazioni frantumate da deficit etico, propaganda, intorpidimento televisivo e decadimento mentale da smartphones, che sta per telefoni intelligenti! Di tutta evidenza, quando non si ha la cosa, si ha il nome!
Il congelamento delle masse nella passività, obiettivo primario del ceto dominante, è oggi uno stato di fatto, la sua granitica immodificabilità un valore strategico.
Quanto sopra premesso, facendo leva sull’indulgenza del lettore per la sintesi eccessiva a ossimorico dispetto della lunghezza del testo, si tenterà di gettare uno sguardo sulla Risoluzione Rearm Europe, un testo[1] di profonda cultura strategica con cui il Parlamento europeo il 12 marzo scorso punta a dirottare verso il settore delle armi e la difesa europea quelle risorse pubbliche, di cui, come noto, i paesi europei abbondano, consentendoci di respingere (nel 2030!) quei milioni di cosacchi ammassati alle frontiere d’Europa, intenzionati a sottometterci.
Va detto che gli scenari enigmatici con cui siamo confrontati sono destinati a restare tali, se non si condivide almeno un aspetto preliminare: la specie umana dalla quale provengono le classi dominanti (di cui gli onorevoli che siedono sugli scranni di Strasburgo sono espressione diretta) si occupa forse di alta politica, ma non degli interessi e dei bisogni dei popoli.
Orbene, il Parlamento europeo – assai costoso (se nemmeno per quei parlamentari il denaro fa la felicità, figuriamoci la miseria!), ma in compenso pressoché inutile – dove la futilità riflessiva si coniuga con corruzione etica e materiale– approva solitamente risoluzioni che contano come il famigerato due di coppe.
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Il nichilismo di Trump
di Alfonso Gianni
Riprendiamo da Alternative per il socialismo n. 75 l’editoriale di Alfonso Gianni, ringraziando per la condivisione
Nel cercare di analizzare cosa significhi la netta vittoria elettorale di Trump sia per il suo paese che per il resto del mondo, come è necessario fare, bisognerebbe in primo luogo sbarazzarsi, o almeno mettere da parte, alcune caratterizzazioni che sono state appiccicate al personaggio e che non ci sono d’aiuto per comprendere a fondo la natura del fenomeno. Quale quella di essere un avventurista incline alla violenza in ogni campo; di interpretare il suo ruolo come messianico; di adottare atteggiamenti e dichiarazioni a dir poco sopra le righe; di ostentare il suo corpo ferito in un’immagine ricercata e diventata iconica; di brutalizzare il suo stesso agire politico; o addirittura di essere poco più di un “comico naturale”. In particolare dovremmo essere noi, nativi e abitanti dell’italico stivale, a essere sufficientemente vaccinati da simili devianti interpretazioni, avendo assistito increduli – senza necessariamente rammentare le posture mussoliniane, riportate all’attenzione da ricostruzioni romanzate e filmiche – al nascere e allo svilupparsi del fenomeno, pur ben diverso, del berlusconismo e sapendo quanto ci sia costata l’altera sottovalutazione della sua fondata pericolosità, almeno al suo primo manifestarsi. Ma scorrendo anche autorevoli commenti offerti dal mainstream nostrano sembra riconfermarsi l’acuto detto secondo cui la storia è una ottima maestra, ma non ha scolari.
Intendiamoci non si può negare che The Donald, rispetto alla sua prima apparizione come presidente sulla scena della storia statunitense e quindi mondiale, abbia accentuato aggressività e decisionismo nelle sue parole e nei suoi atti. Anzi si possono persino iscrivere questi suoi comportamenti in una nuova categoria, che forse aiuta a comprendere meglio con chi abbiamo a che fare. Si è fin qui e tuttora usato nei confronti dei protagonisti della destra sparsi per più continenti, compreso il nostro, il termine “populismo” per delineare un distorto, ma non meno reale, rapporto con il popolo, basato su promesse demagogiche e sulla esaltazione di un decisionismo governativo rafforzato da un presidenzialismo nelle sue varie forme e accezioni, che lo trasformavano in un populismo autoritario.
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La storia, gli storici ed Ernesto Galli della Loggia
di Algamica*
Non conosciamo gli storici o scrittori contro cui il famoso professore e storico Ernesto Galli della Loggia scaglia i suoi dardi a proposito di una definizione – sua e di suoi colleghi – sul modo di concepire la storia e, ovviamente, di raccontarla, in modo particolare quando si scrive per libri di insegnamento nelle scuole superiori.
La querelle riguarderebbe la definizione «Solo l’Occidente conosce la storia», usata dal Galli della Loggia e altri professori e storici, messi sotto accusa da altrettanti – a noi sconosciuti – critici che avrebbero criticato il gruppo di esperti, capeggiato dal noto editorialista del Corriere della Sera scrivendo «Ma come si può mai pensare, oibò, che esistano popoli o civiltà senza storia»?! « E allora la Cina ad esempio, anche la Cina non avrebbe avuto una storia »? dicono i critici mandando su tutte le furie il professore e il gruppo col quale starebbero stilando nuovi libri di testo di storia.
Ora l’arguto professor Ernesto Galli della Loggia, parte lancia in resta, definendo in malo modo quelli che criticano senza conoscere la differenza tra – attenzione bene! – l’espressione « Solo l’Occidente conosce la storia » e quella dei suoi critici che darebbero per supposta una frase diversa, ovvero « Solo l’Occidente ha » o « avrebbe avuto una storia ». Povero professore, con chi è costretto a confrontarsi. Ma, si sa che fra le umane genti albergano anche molti “ignorantelli” che non hanno lo stesso livello di conoscenza dello storico ed editorialista in questione. Passi se in buona fede, se poi in malafede, beh, peggio che andar di notte. E sia.
Noi non prendiamo – nel caso specifico – le difese dei suoi critici, lo faranno se ritengono di doverlo fare loro, mentre ci interessa molto più da vicino non trasfigurare il pensiero del Galli della Loggia, no, ma cercare di interpretarlo letteralmente, come lui cerca di chiarire nello scritto pubblicato martedì 25 marzo dove, riportiamo l’intero periodo, senza sintetizzarlo, e dunque letteralmente ci è dato leggere: « Il fatto è che, almeno per chi ha una qualche confidenza con la lingua italiana, l’espressione “solo l’Occidente conosce la storia” , “conosce” » arguisce il professore « non “ha” » tiene a precisare l’importanza del verbo « lungi dal significare “solo l’Occidente ha avuto una storia e tutti gli altri no”, significa » udite! udite! poveri ignorantelli da quattro soldi! « ciò che nelle frasi immediatamente successive del documento viene a lungo spiegato ».
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L’economia di guerra non salverà il capitalismo europeo
di Riccardo Barbero
Poco tempo fa Mario Draghi, rivolgendosi ai commissari dell’UE, ha lanciato un grido d’allarme – fate qualcosa! (https://volerelaluna.it/commenti/2025/02/28/draghi-noi-e-langoscia-quotidiana-che-ci-pervade/) – di fronte alle prospettive inquietanti dell’economia europea.
Il rapporto sulla competitività, che era stato redatto sotto il suo coordinamento, indicava tre prospettive di rilancio: provare a colmare il divario nella ricerca tecnologica nei confronti di USA e Cina, in particolare rispetto all’intelligenza artificiale; costruire un piano congiunto per la decarbonizzazione, da un lato, e la crescita della competitività, dall’altro, in modo che uno sviluppo troppo rapido e rigido della prima non andasse a impattare negativamente sulla seconda; e, infine, finanziare un imponente riarmo, definito diplomaticamente difesa, per attivare una forte domanda pubblica. La debolezza delle proposte era tutta nel fatto che i capitali privati europei da molti anni non vengono investiti nell’industria del continente, ma migrano, nella misura di 500 miliardi di euro nel solo 2024, oltre Atlantico nel paradiso valutario, finanziario e fiscale del dollaro.
La Commissione europea, stimolata a fare qualcosa purchessia, ha agito sull’unica leva che può in qualche misura controllare: togliere i vincoli sul debito pubblico – quelli fissati dal trattato di Maastricht – per permettere una forte spesa in campo militare ai diversi stati che formano l’Unione (150 miliardi di euro che possono essere attinti dai fondi comuni e altri 650 miliardi di possibile debito pubblico nazionale). Ora sorprendentemente tutti scoprono che le nazioni europee si muovono in ordine sparso per potenziare i loro eserciti senza costruire una improbabile difesa comune: in primo luogo la Germania ha ottenuto con un artificio istituzionale di far approvare dal Parlamento della scorsa legislatura, ormai sostanzialmente decaduto, una modifica costituzionale che ha rimosso il vincolo del debito pubblico e permetterà un gigantesco piano di riarmo (circa 400 miliardi di euro) e un forte investimento nelle infrastrutture (altri 500 miliardi di euro).
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"Una pace ingiusta e predatoria": il senso di Paolo Mieli per la guerra
“Carestia peste e carbonchio”: come a Bruxelles preparano la guerra contro la Russia
di Fabrizio Poggi*
Il raggiungimento di una prospettiva di pace che fermi il massacro in corso da almeno 11 anni in Donbass e da oltre tre nelle regioni sudorientali ucraine, dove va avanti il conflitto voluto dalla passata amministrazione yankee, insieme a UE e NATO, costituirebbe, per definizione, una «pace ingiusta... una pace predatoria, ostentatamente punitiva». Parola di qualcuno che, pur in età ormai matura, “continua” quella “lotta” iniziata in anni giovanili contro ogni percorso che partisse, a quei tempi, a est dell'Elba; una “lotta continua” rinnovata oggi, come sembra essere il caso del signor Paolo Mieli, contro ogni tragitto che inizi a est del Dnepr. Perché è un assioma: oltre quelle longitudini, socialismo o capitalismo che sia, non possono vivere che “aggressori”, i quali, nel caso odierno, non mirano ad altro che a imporre «un trattamento punitivo per l’Ucraina».
Anche se, a quanto è dato sapere, nel “complotto” russo-americano, non sembra si faccia cenno ad alcuna, doverosa, eliminazione della junta neonazista di Kiev, ma si tratti invece di portarla a un cessate il fuoco effettivo, ammesso che le elezioni chieste da Mosca, con la formazione di un governo temporaneo sotto egida ONU, possano determinare un vero mutamento del regime majdanista, con un qualsiasi “anti”-Zelenskij di facciata. Sono ancora nitide nella memoria le promesse elettorali del nazigolpista-capo, di metter fine alla guerra in Donbass, che gli avevano guadagnato la vittoria su Petro Porošenko.
E l'assioma di cui sopra, si estende oggi ai «prossimi colpi dei russi» che verranno, si dà per scontato, «contro l’insieme degli Stati europei»: cinquant'anni fa, si rideva al cinema con “Mamma li turchi”; oggi c'è ben poco da ridere, non foss'altro che per il tono “serioso” con cui si cerca di convincerci che, mutata la latitudine degli “aggressori”, il pericolo è altrettanto mortale, tanto da dover dotarsi del carosellistico “kit di sopravvivenza”, un bignami del Preparadeness Union Strategy per quei tre giorni che, ci si racconta, sarebbero sufficienti per difendersi dalle atomiche de “li nuovi turchi” iperborei.
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