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Il lavoro e le false astrazioni
di Francesco Coniglione
Da tempo e in diverse occasioni Massimo Fini ha fatto una efficace critica del mito produttivistico e della sua celebrazione del lavoro come accumulo oltre le necessità. In età premoderna, egli sostiene, il lavoro non è mai stato celebrato come un valore da coltivare, così come avviene anche in certe popolazioni che, ad es., coltivano la terra per quanto loro basta. Si potrebbe aggiungere che a essere lodato era piuttosto, presso gli antichi romani, l’otium, visto non come semplice e passivo adagiarsi sul non fare, ma come occasione per coltivare le più alte qualità dell’umano.
Ma in questa pur giusta e condivisibile critica si annida un equivoco di fondo, che si ripercuote in altri ambiti, contribuendo a una loro deformata interpretazione. Infatti nel criticare il lavoro si deve fare attenzione a non confondere l’astrazione con il portatore concreto di essa: non è il Lavoro in quanto tale che si deve esaltare e/o difendere, ma il lavoratore nel quale esso si incarna e che se ne fa interprete. Non a caso la Festa del Lavoro è stata istituita allo scopo di richiamare l’attenzione sulla necessità di tutelare i lavoratori dagli eccessi degli industriali, che praticavano anche lo sfruttamento del lavoro minorile. Non si celebrava quindi il lavoro in quanto tale, bensì i lavoratori soggetti a uno sfruttamento spesso inumano: nel celebrare il lavoro si difendeva la dignità umana di chi lo esercita, ed è quindi l’uomo l’oggetto della sua valorizzazione. Quella medesima umanità che oggi viene offesa e mortificata dai lavori precari e sottopagati, che arricchiscono sempre più la classe abbiente, contribuendo alla crescente diseguaglianza delle ricchezze.
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Globalizzazione: come la sicurezza informatica cambia la geografia della supply chain digitale
La catena delle forniture digitali nell’era post-globale.
di Giuseppe Sperti
L’intreccio tra tecnologia e geopolitica sta trasformando radicalmente la catena delle forniture digitali. Dalla rimozione dei componenti Huawei in Germania al ripristino della produzione di chip negli Stati Uniti, i governi stanno riscrivendo le regole della globalizzazione alla luce dei rischi cibernetici. Compromissioni, spionaggio e guerre ibride hanno fatto della fiducia tecnologica una nuova questione geopolitica. Perché in un mondo dove ogni microchip può diventare un’arma, la sicurezza impone filiere affidabili, trasparenti e strategicamente allineate
Entro il 2026, gli operatori di telecomunicazioni tedeschi dovranno rimuovere dalle loro reti i componenti 5G forniti da aziende cinesi, come Huawei e Zte. Questo piano, disposto nel luglio 2024, deriva dalla crescente consapevolezza che la tecnologia non può più essere considerata neutrale.
In tempi di crescente tensione geopolitica, i governi si stanno rendendo conto che i chip non sono solo dispositivi elettronici e progettazione avanzata: possono anche essere strumenti di controllo e spionaggio, talora perfino di guerra. Ogni passaggio della catena di fornitura può essere intercettato e compromesso.
Il caso tedesco simboleggia una profonda trasformazione della supply chain digitale. Le forniture di tecnologia, un tempo considerate solo sotto la prospettiva economica, si stanno riconfigurando in linea con le esigenze strategiche dei governi. E vengono valutate anche sotto un profilo geopolitico.
Per anni la globalizzazione ha prosperato sull’assunto che l’efficienza economica e l’interdipendenza avrebbero garantito stabilità e crescita. Ma, nel nuovo scenario geopolitico, questo modello si sta sgretolando. Sotto il peso di una minaccia, silenziosa ma sempre più centrale: la compromissione della supply chain tecnologica.
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Cosa significano gli attacchi dei droni occidentali per le relazioni tra Stati Uniti e Russia?
di Rob Urie
Il titolo accattivante di Urie introduce un’analisi sobria di quanto siano stati folli gli attacchi dell’Ucraina contro la Russia. Nella migliore delle ipotesi, rivela una valutazione rischio-rendimento gravemente errata, dovuta presumibilmente all’aver inalato molta propaganda e oppio sull’Ucraina.
Un punto che sembra sfuggire in termini di superamento delle linee rosse degli accordi nucleari della Guerra Fredda è che questo metterà almeno la Russia in stato di massima allerta, e potrebbe farlo anche con altre potenze nucleari. Maggiore allerta = maggiore propensione a [re]agire = probabilità di incidenti notevolmente maggiori.
Un nuovo video con Chas Freeman sugli studi sulla neutralità conferma che un attacco con armi convenzionali contro risorse di deterrenza nucleare, secondo gli accordi della Guerra Fredda, equivale a un attacco nucleare e pertanto, secondo le regole di ingaggio, legittima una risposta nucleare:
Tradizionalmente, gli elementi di una forza di deterrenza nucleare, sia da parte americana che russa, sono stati esentati dagli attacchi per la semplice ragione che entrambi i Paesi considerano un attacco con armi convenzionali alla loro capacità di deterrenza nucleare equivalente a un attacco nucleare e giustificante una risposta nucleare. Entrambe le parti prendono la cosa molto seriamente. Naturalmente, l’Ucraina non fa parte degli accordi di sicurezza, né il Regno Unito. Quindi, suppongo che siano liberi di contestare maliziosamente questa esenzione, e lo hanno fatto, ed è molto pericoloso.
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La teoria del valore-lavoro nel capitalismo e nel socialismo/comunismo
di Eros Barone
Di fatto, il venditore della forza-lavoro realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce. Non può ottenere l’uno senza cedere l’altro. Il valore d’uso della forza-lavoro, il lavoro stesso, non appartiene affatto al venditore di essa, come al negoziante d’olio non appartiene il valore d’uso dell’olio da lui venduto. Il possessore del denaro ha pagato il valore giornaliero della forza-lavoro; quindi a lui appartiene l’uso di essa durante la giornata, il lavoro di tutt’un giorno. La circostanza che il mantenimento giornaliero della forza-lavoro costa soltanto una mezza giornata lavorativa, benché la forza-lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta una giornata, e che quindi il valore creato durante una giornata dall’uso di essa superi del doppio il suo proprio valore giornaliero, è una fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto un’ingiustizia verso il venditore.
Karl Marx, Il Capitale, libro I.
Quanto più ci addentriamo nel processo di valorizzazione del capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà mistificato e tanto meno si scoprirà il segreto del suo intrinseco organismo.
K. Marx, Il Capitale, libro III.
1. Plusvalore e profitto: l’autoriflessione del capitale
«Nel primo Libro si sono analizzati i fenomeni che il processo di produzione capitalistico, preso in sé, presenta come processo di produzione immediato, astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze a esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il corso dell’esistenza del capitale. Esso, nel mondo della realtà, viene completato dal processo di circolazione, il quale ha costituito oggetto delle indagini del secondo Libro.
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L'austeriarmo
Dai conti in ordine ai carri armati: i 'frugali' UE scoprono il riarmo
di Pino Cabras
Dopo aver umiliato l’Europa del Sud in nome dell’austerità, i sedicenti Paesi “virtuosi” del Nord guidano oggi la corsa al militarismo. Senza dibattito, senza autocritica
Per anni, in nome della disciplina fiscale, i governi del Nord Europa hanno imposto all’Unione una linea rigida, a tratti spietata. Quando la Grecia bruciava tra tagli feroci imposti dalla Troika, quando l’Italia vedeva strangolate le sue possibilità di sviluppo, le capitali del rigore – da Berlino a Copenaghen, da L’Aia a Stoccolma, fino ai chihuahua baltici– invocavano l’austerità come religione civile. “Frugalità”, la chiamavano. Ma sarebbe più onesto dire “furbalità”.
Dietro la retorica del bilancio in ordine, i Paesi che dividevano l’Europa in “nordici” e “sudici” mascheravano i loro giganteschi debiti privati, scaricando le crisi bancarie interne sull’intero sistema europeo. Le loro banche erano esposte fino al collo con crediti tossici e bolle speculative, ma non ci fu alcun processo di autocritica o di riequilibrio. Anzi: approfittarono della tempesta per fare shopping di asset pubblici nel Sud Europa, per imporre modelli di welfare ultra-minimale, e per far pagare ai lavoratori italiani, greci, portoghesi e spagnoli la stabilità apparente del Nord.
Era già allora una forma sofisticata di guerra economica: si salvavano i loro capitali e si piegavano le nostre economie. Il debito pubblico veniva usato come clava morale, mentre il debito privato—molto più pericoloso—veniva ignorato, occultato o assorbito sotto silenzio. Anche allora facevano i propri interessi, a spese di altri.
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L’inquietante Germania di Friedrich Merz
di Franco Ferrari
Avevo deciso da qualche giorno di scrivere un articolo dedicato all’evoluzione della politica tedesca e alle implicazioni di ordine generale che essa pone, con il titolo che vedete, e nel frattempo, questa mattina, leggo nella nota politica di Andrea Colombo sul Manifesto che anche Macron e Meloni sono “preoccupati dalla Germania”.
“Nel giro di poche settimane – scrive Colombo – con scelte sempre più muscolari e bellicose, ha chiarito (ndr: Merz) che la sua visione della guida franco-tedesca dell’Europa sarà molto tedesca e poco francese. Nelle modalità indicate dalla presidente Von der Leyen e sulle quali il cancelliere tedesco è blindato, il piano di riarmo costringerebbe sia la Francia che l’Italia a svenarsi senza peraltro poter mai raggiungere la Germania, che dispone di spazio fiscale infinitamente più ampio”. Va detto che le mosse del Presidente francese non sembrano meno bellicose di quelle tedesche, al punto che Macron è andato anche in Asia per alzare il tono dello scontro con la Cina. La differenza consiste nel fatto che le posizioni, spesso superficiali e improvvisate, del francese sono decisamente più velleitarie di quelle del tedesco.
Quali sono i cambiamenti in atto nella direzione politica della Germania e quali implicazioni avrà per tutta l’Europa?
Innanzitutto, e su questo direi che tutti gli osservatori sono concordi, c’è una crisi del modello economico tedesco fondato su un consistente apparato industriale e su una notevole capacità di esportare beni dal discreto valore aggiunto.
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Il suicidio europeo... visto dalla Cina
di Pino Arlacchi - Il Fatto Quotidiano
Chongqing (sud-ovest cinese). Dall’alto di uno strambo edificio, costruito in orizzontale, a mo’ di ponte che unisce le cime di due grattacieli, osservo la vita che pulsa nelle arterie della più stramba, innovativa e gigantesca delle metropoli cinesi, Chongqing. Un posto dove i treni passano dentro gli edifici, le piazze stanno sospese nell’aria, e la notte i grattacieli si trasformano in una foresta incantata di luci e colori sfavillanti.
Sono al bar di uno stabile che l’illuminazione “smart” ha mutato in una smisurata tastiera di pianoforte, e sono assieme a Wang, brillante sociologo, reduci da un intenso dibattito sui rapporti tra Europa e Cina. Entrambi in vena di grandi discorsi, da sostenere con adeguato supporto alcolico. “Visto il disastro di un’Europa che tenta di nuovo il suicidio, caro Wang, mi viene in mente la famosa battuta sulla Scuola di Francoforte degli anni ’30 definita come ‘il Grand’Hotel sull’abisso’. Ma l’abisso non è quello che sta qui, sotto di noi, bensì il futuro del mio continente”.
La risposta di Wang mi colpisce per la sua acutezza anti-diplomatica. “Forse sei troppo pessimista e l’Europa non finirà col suicidarsi. Può darsi che dondoli a lungo sull’orlo dell’abisso, come la Cina dopo le guerre dell’oppio, e poi rinasca. Questo dicono le teorie sui cicli delle civiltà”.
Lo interrompo: “Lasciamo stare il Grand’Hotel, Wang, e parliamo del futuro. Secondo te, l’Europa potrebbe evitare l’abisso e proseguire dentro la stagnazione attuale. Nella quale si trova già, tra l’altro, da mezzo secolo. Possiamo dire, allora, che l’Europa ha i secoli contati. Ma cosa può succedere alla Cina nel frattempo?”.
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Per una nuova stagione dei rapporti con la Russia
di Giovanni Scanagatta* e Stefano Sylos Labini**
Recentemente, il Commissario europeo per l’Energia, Dan Jorgensen, ha affermato che l’Unione europea non intende riprendere le importazioni di gas russo dopo un potenziale accordo di pace tra Ucraina e Russia. Bruxelles impedirà ai Paesi membri di firmare nuovi contratti di fornitura con Gazprom, cercando al contempo un modo per farli uscire dai contratti esistenti senza dover pagare penali per la violazione degli stessi.
Nonostante i giudizi molto negativi dell’Unione europea, la Russia è ancora il secondo maggiore fornitore di gas dell’Unione, mentre l’Italia – secondo i dati forniti dall’osservatorio energetico britannico Ember – nel 2024 ha triplicato l’importazione di gas dalla Russia rispetto all’anno precedente, passando da 2,1 a 6,2 miliardi di metri cubi. È stato di gran lunga l’incremento più consistente all’interno dell’Unione europea, dove la crescita ha raggiunto il 18 per cento rispetto al 2023 (da 38 miliardi a 45 miliardi di metri cubi). Inoltre alcuni paesi europei come Ungheria e Slovacchia sono fortemente contrari all’interruzione delle importazioni di gas russo per motivi di costi e di sicurezza energetica.
L’idea di azzerare le importazioni di gas russo è sorprendente perché siamo convinti che il raggiungimento di un nuovo ordine politico ed economico mondiale non può prescindere da un ristabilimento dei rapporti economici tra l’Unione europea e la Russia. La storia conferma ampiamente questa visione perché quando l’Europa ha provato a isolare la Russia, la prima a rimetterci è stata l’Europa. Non dimentichiamo poi che l’Italia ha sempre avuto ottimi rapporti economici con la Russia.
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Le tre grandi rotture del Novecento
di Gianmarco Pisa
Il contributo offerto dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra mondiale: l’assalto al cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni, le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in via di sviluppo; la regressione del movimento comunista e la controffensiva capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate dalla supremazia del capitalismo), rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito specifico del movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con le soggettività del movimento che intendono sviluppare una riflessione, non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e ricomporre terreni unitari.
Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.
Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti e istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.
Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento?
La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.
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The Donald, O Guappo ‘e Cartone
di Salvatore Minolfi
Come nella proverbiale figura della commedia napoletana, Trump finge di avere un potere di cui non gode neanche all’interno della sua Amministrazione. La sua teatrale aggressività tradisce l'impotenza americana dinanzi ai nuovi equilibri del potere
A pochi mesi dall’esordio della seconda Amministrazione, i caratteri del trumpismo (la sua forza e i suoi limiti) emergono senza le sorprese che caratterizzarono la prima esperienza di governo tra il 2017 e il 2020. All’epoca, la mera esibizione di una “teoria del pazzo” (mutuata, peraltro, da Richard Nixon) poteva contare sull’effetto novità che, nelle intenzioni del Presidente, avrebbe spinto gli interlocutori a fare concessioni che altrimenti non avrebbero mai fatto[i]. Con ogni evidenza, il bluff oggi non basta più e i parametri per giudicare i successi o i fallimenti del trumpismo saranno inevitabilmente ancorati ai risultati reali effettivamente conseguiti per rimediare alla grave crisi dell’impero americano: crisi che proprio Trump sembra plasticamente riepilogare nella sua condotta erratica, nella sua ossessiva ricerca del clamore e in quella peculiare inconcludenza, che sgonfia un po’ l’immagine dei “massimalisti” che vedono nel Presidente americano l’agente o il tramite di un’improvvisa rottura storica “che si tratti della trasformazione del sistema partitico, della distruzione della democrazia americana o dell’implosione dell’ordine mondiale liberale”[ii]. E poiché di risultati veri, al momento, ancora non c’è traccia, il dibattito scatenatosi dalla fine di gennaio si è interamente modellato sui fuochi di artificio che hanno sostanziato le prime mosse della nuova Amministrazione. Tali, in effetti, devono essere considerate le sue principali iniziative internazionali: le contraddittorie posizioni assunte nel contesto della guerra russo-ucraina, nel quadro di una sostanziale continuità del supporto bellico a una guerra che Trump continua, nondimeno, a definire non sua; l’ininterrotto appoggio alla guerra di sterminio del Governo di Netanyau in Palestina (aggravato dalle sbalorditive visioni distopiche sulla “riviera” di Gaza); l’incapacità di emanciparsi seriamente dalle politiche neoconservatrici sull’Iran, nonostante la sua avversione alla prospettiva di una guerra; la parallela esibizione di una “dottrina Riyadh” basata su un “transazionalismo personalizzato e incentrato sul commercio, che rasenta il clientelismo”[iii], per la gioia delle ricche monarchie del Golfo; le minacce al Canada e alla Danimarca; l’attacco generalizzato alle pratiche del libero commercio, con la raffica di tariffe, in un’alternanza di provocazioni e ritirate tattiche; e tanto altro ancora.
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Liberarsi dal lavoro
Richiamando Rossana Rossanda, femminismo e lotte operaie negli anni ’70 e oggi
di Alisa Dal Re
Pubblichiamo il prezioso intervento che Alisa Dal Re ha svolto durante il seminario (organizzato dalla Cgil, Fondazione Di Vittorio, Comitato per il centenario della nascita di Rossana Rossanda): “Liberare il lavoro. Rossana Rossanda e le questioni del lavoro, ieri e oggi“. L’incontro si è volto all’Università Roma Tre, Scuola di Lettere Filosofia e Lingue, a Roma, il 29 gennaio 2025
Due furono secondo me gli elementi teorico-politici relativi al lavoro che caratterizzarono gli anni ’70 e seguenti in Italia: il rifiuto del lavoro e il riconoscimento della cura domestica gratuita delle donne come lavoro.
Il rifiuto del lavoro va interpretato all’interno delle rivendicazioni operaie di egualitarismo salariale, diffuse soprattutto all’inizio del decennio in questione, in contrapposizione alle posizioni di Lama e Trentin, sfavorevoli agli aumenti egualitari. Si trattava in buona sostanza del rifiuto di una data organizzazione del lavoro salariato a partire dalla forma di remunerazione e strutturazione del lavoro. Queste rivendicazioni infatti hanno segnalato la fine dell’adeguamento giuridico e politico al contratto, a una fantomatica misura del valore incarnato nella merce. Inoltre l’egualitarismo nelle rivendicazioni salariali ha svolto una funzione politica, costituendo un fronte operaio nelle lotte.
L’interpretazione di alcune forme di rifiuto del lavoro (assenteismo, allontanamento dalla disciplina contrattuale e dalla gerarchia di fabbrica, richiesta di aumenti salariali importanti ecc.) è derivata dalla scoperta di una classe operaia che si è posta contro sé stessa, mirando alla propria dissoluzione con il superamento dell’ideologia lavorista. Questa ideologia era stata costruita sulla professionalità e sul legame con il posto di lavoro, elementi resi fragili dalle trasformazioni produttive e dalla forza trasformativa delle lotte operaie. La negazione della primazia del lavoro sulla vita dava il senso al rifiuto dello sfruttamento e questo faceva emergere e valorizzare nuove soggettività.
Negli anni ’70 con il rifiuto del lavoro gli operai mettono in crisi il piano del capitale attraverso una richiesta salariale indipendente e impazzita rispetto al profitto, con la richiesta di servizi, con il rifiuto dell’orario imposto, con le autoriduzioni e la lotta contro la nocività di fabbrica (la nocività del lavoro?). Ricordate Vogliamo tutto, di Nanni Balestrini?[1] Nel territorio si diffondono le richieste di prezzi minimi e prezzi politici, di inserimento del tempo di trasporto nel tempo di lavoro, del costo del trasporto nel salario, creando una disconnessione tra salario e tempo di lavoro. Un inizio di visione del tempo di vita che diventerà il tema centrale, ad esempio, delle recenti lotte francesi contro l’aumento dell’età pensionabile.
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Europa: contro la guerra e i guerrafondai
di Paolo Ferrero
Mentre scrivo Israele ha ripreso il brutale genocidio che, da mesi e nella più totale indifferenza dell’Unione Europea, sta perpetrando ai danni del popolo palestinese. Questo massacro infinito viene ignorato mentre fa scandalo che gli USA abbiano aperto una trattativa per la pace in Ucraina senza coinvolgere l’Unione Europea (e della guerra). Addirittura, il 15 marzo è stata convocata da Michele Serra e dal quotidiano della famiglia Agnelli, “La Repubblica”, una manifestazione a favore dell’Unione Europea.
La situazione è nota: i media mainstream e i loro pennivendoli, che in questi anni hanno appoggiato senza se e senza ma la guerra tra NATO e Russia – quella combattuta utilizzando la popolazione ucraina come carne da cannone – scrivono che l’Europa è minacciata dalla Russia di Putin a causa del tradimento di Trump. Viene così diffuso un clima isterico, in cui l’apertura di una trattativa sulla fine della guerra in Ucraina viene presentata come un insopportabile gesto di arroganza nei confronti dell’UE.
Secondo questa narrazione, la minaccia Russa all’Europa e alla sua civiltà è quindi il pericolo concreto a cui occorre dare una risposta immediata. A tal fine la Von der Leyen ha sponsorizzato un gigantesco piano di riarmo dell’Europa di circa 800 miliardi di euro che il Parlamento Europeo ha prontamente approvato.
Questa campagna condotta a reti unificate dai media mainstream e dalla quasi totalità delle forze politiche di centro destra e di centro sinistra europee e nazionali costituisce in realtà la premessa ideologica per un salto di qualità nella costruzione di un’Unione Europea imperialista e guerrafondaia verso l’esterno, antidemocratica e antisociale verso l’interno. Una vera e propria proposta politica reazionaria attorno a cui il sistema di potere si sta riorganizzando. Ovviamente ogni forza e ogni schieramento interpretano il copione a partire dalla cura del proprio pubblico (più nazionalista o più europeista, più militarista o più in borghese, più progressista o più conservatore), ma la strategia di fondo non cambia: la Russia è il nostro nemico e costituisce una minaccia immediata a cui dobbiamo far fronte con un enorme programma di spese militari attorno a cui riorganizzare le relazioni sociali e il profilo complessivo dell’Europa.
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La strategia della fame nazista e quella di Gaza
di Davide Malacaria
“Cinquantotto anni di occupazione. Cinquantotto anni di una menzogna crudele e folle, i cui ideatori ci hanno preso tutto ciò che avevamo accettato di dare loro, e ora vogliono di più. Cinquantotto anni durante i quali ci siamo ripetuti che tenevamo i territori occupati perché ‘non c’è scelta’ e ‘per la sicurezza’. E di anno in anno la nostra sicurezza svaniva, diventando una barzelletta grottesca e spaventosamente gravosa”. Così su Haaretz Zehava Galon.
“In qualche modo, anche adesso, anche dopo l’orribile massacro del 7 ottobre, dopo quasi due anni di questa guerra persa a Gaza, con attacchi terroristici quotidiani in Cisgiordania [il riferimento è alle azioni dei coloni, vedi anche The Guardian ndr.], quei delinquenti ci stanno propinando la stessa menzogna. ‘È per la sicurezza!’ dichiarano Benjamin Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Netanyahu, in realtà, sta promuovendo la sicurezza del suo governo e i suoi partner stanno promuovendo la sicurezza dei futuri insediamenti a Gaza e negli avamposti dell’orrore che le loro camicie brune hanno creato in Cisgiordania“.
La condanna della Storia
No, continua la Galon, “non è questione di sicurezza né di ostaggi: si tratta dell’uccisione di decine di migliaia di civili, tra cui tanti bambini, per godere di proprietà immobiliari a Gaza e sulle colline del Libano.
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I russi incrementano la produzione di missili Iskander e Kinzhal
di Gianandrea Gaiani
La produzione russa di missili balistici Iskander e di missili ipersonici Kh-47M2 Kinzhal è aumentata in una percentuale compresa tra il 66,67% e l’88,89% nell’ultimo anno secondo i dati raccolti dall’intelligence militare ucraino (GUR) pubblicati ieri dal Kyiv Independent. La Russia produrrebbe attualmente secondo queste informazioni dai 60 ai 70 Iskander-M e dai 10 ai 15 Kinzhal ipersonici al mese.
Nel maggio del 2024 Mosca produceva 40 Iskander-M e nell’aprile dello stesso anno 4-5 Kinzhal al mese. I dati forniti dal GUR al Kyiv Independent mostrano che le scorte russe sono stimate oggi in “quasi 600 Iskander-M e oltre 100 Kinzhal”.
Alla fine del 2022, il capo dell’intelligence militare Kyrylo Budanov ha affermato che la Russia aveva quasi esaurito i missili balistici Iskander. Entro dicembre 2024, il portavoce del GUR Andriy Yusov aveva evidenziato che la Russia aveva aumentato la produzione a un numero compreso tra 40 e 50 missili Iskander al mese.
I dati forniti dal GUR allarmano l’Ucraina e l’Occidente anche perché evidenziano che la produzione russa di missili balistici supera oggi la produzione totale di missili PAC-3 MSE per i sistemi di difesa aerea Patriot, che Lockheed Martin spera di aumentare fino a 650 all’anno entro il 2027 e certo non tutte queste armi sarebbero destinate all’Ucraina.
Come sottolinea il rapporto dell’intelligence ucraina, altri sistemi occidentali come il SAMP/T e l’IRIS-T non si sono dimostrati efficaci contro i missili balistici.
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Governo e Confindustria: amici per la pelle
di coniarerivolta
Nei momenti di difficoltà, è sempre bello sapere di poter contare sugli amici. Deve avere pensato questo la presidente del Consiglio Meloni quando ha partecipato all’assemblea nazionale di Confindustria lo scorso 27 maggio.
Del resto, è dall’inizio della legislatura che le due parti vanno d’amore e d’accordo, specie dopo la crisi inflazionistica che ha visto una politica economica del governo tutta tesa a contenere il costo del lavoro e garantire un margine di profitto accettabile per le imprese.
E quando si va dagli amici, è buona educazione non presentarsi a mani vuote, e infatti anche stavolta la Meloni ha assicurato che lo Stato si farà ancora una volta carico di garantire un certo livello di profitti per le imprese: si va dalla promessa di dirottare in sussidi alle imprese parte dei fondi PNRR che (prevedibilmente) l’Italia non riuscirà a spendere nei tempi previsti, anche per addolcire l’impatto sulle imprese stesse dei possibili dazi provenienti da oltreoceano, fino all’impegno di allentare ancora quel poco di impegno verso una transizione energetica e ambientale (ormai passata nel dimenticatoio), passando per la possibilità (peraltro tutta da dimostrare) che l’incremento della spesa militare andrà a beneficio anche delle imprese italiane.
Per rendere un minimo realistico questo appuntamento era però essenziale che entrambe le parti in commedia presentassero anche un volto “responsabile” e si mostrassero consapevoli che qualcosa ancora non va, così da creare il pretesto per Confindustria per chiedere ulteriori impegni, identificando all’uopo qualche nuovo nemico.
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Costruire democrazia o aspettare Godot
A proposito della Festa della Repubblica
di Gaspare Nevola
Ho provato a chiedere su Google “che cosa è il 2 giugno”, al primo posto è comparsa un’AI Overview che inizia con: «Il 2 giugno è la Festa della Repubblica Italiana. Si celebra annualmente per ricordare il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in cui gli italiani, per la prima volta, si espressero in libertà sulla forma di governo dello Stato, scegliendo la Repubblica. In quell'occasione, per la prima volta, anche le donne poterono votare>>; segue una così detta ELABORAZIONE, che invero aggiunge poche altre e generiche informazioni. Insomma, niente di che. Sarei curioso di sapere quanti italiani siano appagati da questa risposta, e presi da ben altri interessi e dalle faccende della vita quotidiana si fermino qui nelle loro aspettative di informazione. Sia come sia, in chiusura dell’AI Overview leggo: «La Festa della Repubblica non è solo una ricorrenza storica, ma un momento per riflettere sui valori della Repubblica, sulla partecipazione democratica e sulla costruzione di una società più giusta e inclusiva>>. E allora, cominciamo da qui, e a fare qualche riflessione generale. In attesa che intorno al 2 giugno del 2025 prendano corpo le celebrazioni, il discorso pubblico, le voci dei professionisti della politica e il messaggio del Presidente della Repubblica.
1.Il 2 giugno è la Festa della Repubblica italiana: una festa della nazione, come detta il calendario ufficiale. Una nazione racconta se stessa e plasma i sui caratteri identitari anche attraverso la celebrazione di feste ufficiali e ritualizzate. È importante sottolineare che tali narrazioni identitarie, da un lato, evocano il passato; dall’altro, presentano uno stretto legame con il clima politico, culturale e sociale del presente di una società.
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Il pianeta Marx meticolosamente illustrato. 1. Farsi l’idea di un fatto
Cronache marXZiane n. 17
di Giorgio Gattei
«Perché? – Perché l’universo non è una favola».
(Cixin Liu, Nella quarta dimensione, 2018)
1. A questo punto devo dar conto del significato d’esistenza di quel “pianeta Marx” che sto lentamente esplorando e descrivendo in queste mie Cronache. Ho già detto altrove che, dopo Nietzsche, siamo consapevoli che ci sono i fatti ma pure le loro interpretazioni e che noi, che viviamo nei fatti, ci muoviamo secondo le interpretazioni che ce ne facciamo. Abitiamo così in due ambiti simultanei di esistenza: quello delle esperienze concrete (che rimangono personali e indicibili, dato che soltanto noi sappiamo quanto è veramente accaduto), ma pure dentro quei concreti di pensiero di cui ha detto Karl Marx nelle uniche pagine sul metodo che ha lasciato nella Introduzione alla critica della economia politica (1857) contrapponendo al “concreto fuori di noi”, che è «sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice», un “concreto dentro di noi” che altro non è se non «la riproduzione del concreto lungo il cammino del pensiero» come lo riflette il cervello, «come un tutto del pensiero che è un prodotto dal cervello che pensa e che si appropria del mondo nell’unico modo a lui possibile, almeno fino a quando il soggetto si comporta solo speculativamente, solo teoricamente». Certamente sono i fatti che inducono al pensiero (se nulla accade, nemmeno nulla si pensa), però su quei fatti noi ci facciamo dei penseri e sono questi che indirizzano il nostro comportamento nel confronto di quei fatti.
Ma ciascuno di noi si fa una rappresentazione di quanto gli accade non soltanto per sé, ma pure per comunicarla agli altri con la parola, lo scritto o con i gesti (che sono i “comportamenti non verbali”), ma per arrivare a questo bisogna inserire il “concreto di pensiero” dentro un ordine del discorso che possiede delle regole di costruzione proprie (mentre le regole della realtà restano fuori dalla porta), dovendosi scontare con gli altri una comunanza di linguaggio, di scrittura o di gestualità, perché altrimenti non ci si capirebbe.
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Dall’Eritrea al Senegal al Burkina Faso di Traorè, il riscatto del Sahel. L'Africa prende il largo
di Fulvio Grimaldi
Felice il continente riscattato da eroi che non muoiono mai, e a volte si reincarnano: Lumumba, Nyerere, Kenyatta, Samora Machel, Agostino Neto, Nkrumah, Senghor, Mandela, Sankara, con i loro popoli in lotta e, su tutti, anche per longevità rivoluzionaria, Muammar Gheddafi. Quali assassinati dal revanscismo colonialista, quali incarcerati quasi a vita, quali rovesciati da golpe diretti da fuori, quali sopravvissuti a incessanti assedi e sabotaggi.
ggi si chiamano Abdurahamane Tani (Niger), Assimi Goita Mali, Isaias Afeworki (Eritrea), Faye e Sonko (neoletti presidente e Primo Ministro del Senegal che hanno messo in discussione la manomorta di Parigi sul paese) e, su tutti per radicalità rivoluzionaria, Ibrahim Traoré in Burkina Faso. Forse la Storia ne narrerà come dei capitani che hanno fatto prendere il largo al continente, sottraendolo alla pirateria del colonialismo di ritorno.
Un vento nuovo percorre il continente dopo l’abbattimento di Muammar Gheddafi e la frantumazione della Libia, oggi divisa tra il parlamento e governo esiliatosi a Bengasi, prodotti dall’ultima elezione tenuta nel paese, e le bande golpiste islamiste di Tripoli, impegnate nel traffico di migranti e protette dall’esercito turco. Un regime, quello del premier Abdulhamid Dbeida, caro a Meloni e soci, fondato sul gangsterismo, arroccato a Tripoli e in poco più della Tripolitania, incredibilmente legittimato dall’ONU a dispetto di Bengasi, che invece controlla il resto del paese e la maggioranza delle sue risorse (il resto viene contrabbandato dalle bande di Tripoli con piena soddisfazione di alcuni paesi europei, in primis il nostro.
Della generazione dei grandi leader e ideologi della liberazione e dell’indipendenza, resta il presidente eritreo Isaias Afeworki. Dall’alba del decennio in corso, una parte cospicua del continente ha vissuto una scossa rivoluzionaria. Scossa che promette di contagiare il resto del continente, finora in buona parte assopito in una finta sovranità ed effettiva governance neocolonialista. Quest’ultima garantita dalla capillare e massiccia presenza militare di AFRICOM, comando delle Forze USA in Africa e delle sue basi.
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Massimo Bontempelli. La conoscenza del bene e del male
Prefazione di Fernanda Mazzoli
Massimo Bontempelli: La conoscenza del bene e del male, ed. Petite Plaisance, 2025
Un libro pensato innanzitutto per gli studenti e gli insegnanti si espone al rischio di appiattirsi su un taglio manualistico prettamente informativo – opzione d’altronde assolutamente legittima, dato il contesto – che abbina alla proliferazione dei dati di varia natura la loro semplificazione concettuale e l’oscuramento della tela di fondo su cui essi si dispongono.
La finalità pedagogica, non sempre correttamente intesa, può spingere poi in direzione di un’attualizzazione brutale, cioè non opportunamente mediata sul piano culturale e storico, dei temi e problemi passati in rassegna, nell’illusorio per quanto comprensibile tentativo di rendere accattivanti argomenti indiscutibilmente ardui.
Ne risulta troppo spesso una superficialità vanamente mascherata dalla quantità delle informazioni e dal sussiego della forma espositiva che cerca di coprire attraverso la profusione del lessico specialistico la mancanza di originalità. Sono libri destinati al consumo scolastico, numi tutelari per verifiche e punteggi per gli studenti, puntello alla memoria per i docenti. Strumenti sicuramente utili agli uni e agli altri, ma nulla di più.
Un libro insegna nella misura in cui segna, cioè lascia un segno nello spirito di chi lo legge e non semplicemente sul registro, a maggior ragione se si propone di affrontare questioni filosofiche, vale a dire questioni che investono la verità, il bene, il significato del nostro essere al mondo, la coraggiosa contemplazione delle cose al di là del loro apparire, per dirla con Eraclito cui non a caso Massimo Bontempelli ha dedicato uno studio, Eraclito e noi, di prossima ristampa.
Ora, questo suo testo si inscrive a pieno titolo nella categoria dei libri che incidono, che cadono con la lama affilata di una rigorosa riflessione e di un’inesausta passione intellettuale su una materia tanto primaria ed essenziale, quanto maltrattata e trascurata.
E squarciano il velo, o meglio il sudario, dentro il quale essa è stata occultata, ai fini di rimuoverla dal piano filosofico per lasciarla andare alla deriva del gusto individuale o di un’estemporanea esperienza privata.
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Strangers in the night, but no happy ending
di Romeo Orlandi
Torna la sezione «oriente, estremo» con un articolo del curatore, Romeo Orlandi che ci parla della politica internazionale di Trump e degli attuali rapporti con la Cina. Uno scontro strategico per gli Stati Uniti per poter sostenere il proprio debito e quindi l'American way of life, che si trova però di fronte un avversario tutt'altro che remissivo e debole come l'Europa. Cosa succederà, dunque? Trattativa infinita o l’estrema tentazione del grilletto?
Correre dietro ai numeri di Trump è un esercizio sterile, misurare l’incoerenza dei dazi è fuorviante, usare il sarcasmo per le sue espressioni è imbelle. Non che le esternazioni del Presidente non si prestino a critiche o che i suoi pensieri non si presentino incoerenti o improvvisati. L’errore ha invece radici nel volere trovare un filo che colleghi le decisioni, arrovellarsi per cercare una continuità nascosta, una strategia inafferrabile, un progetto impalpabile di lungo respiro. Insomma: scandagliare i segugi analitici per capire «cosa ha in mente Trump».
Certo: lui intende Make America Great Again; uno slogan chiaro e tuttavia di difficile declinazione. Per farlo bisogna mostrare i muscoli, costringere gli altri (non importa se nemici o ex amici, le differenze si annullano) alla trattativa da posizioni di forza. Imporre le proprie regole per strappare il miglior accordo, negoziare mettendo l’interlocutore nell’angolo. E se fosse proprio questa la strategia, coniugare cioè tattica e obiettivo, senza intermediazioni? Allora, l’importante non è misurare il valore del dazio, metterlo in relazione con improbabili tabelle al flusso di merci.
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Le tre vite del sionismo (e i suoi supporter italici)
di Paolo De Prai*
Non mi ha stupito che i partiti della pseudo “sinistra” abbiano indetto una manifestazione pro Palestina il 7 giugno, perché erano molti giorni che mass-media e parlamentari, quasi improvvisamente, sono caduti dall’albero del pero e hanno scoperto il massacro a Gaza (e in Cis-Giordania? Silenzio tombale!).
Quella del 7 giugno sarà la manifestazione degli ipocriti, ma su loro torno dopo.
La corsa affannosa che sto assistendo ora è nell’accusare Netanyahu e Likud di quanto avviene e di come il loro Stato sia altra cosa, anzi si riscoprono origini nobili e democratiche nello ‘Stato sionista’.
E’ perciò il caso di rimettere nella loro giusta luce le origini e cosa veramente erano.
Il primo sionismo è quello di Theodoro Herzl, promotore del ritorno degli ebrei in Palestina Mandataria, con l’idea di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, peccato che la Palestina era ed è abitata dai discendenti degli antichi ebrei, nel tempo diventati cristiani o mussulmani o rimasti samaritani insieme anche ad ebrei palestinesi.
Già questa idea (“una terra senza popolo“) rivela la natura razzista del sionismo ed è chiara inquadrandola con i fatti di quel tempo.
L’idea di Herzl e dei sionisti, in un tempo di pogrom e persecuzioni varie (il caso Dreyfus, ecc), era di ritagliarsi un pezzo di impero turco con la complicità occidentale, inglese in particolare (l’Italia se ne ritagliò un pezzo in Libia).
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I benefici di una moneta locale (nel Medioevo)
di Leo Essen
Attorno al IX secolo la maggior parte dell’Europa rinunciò alla monetazione ufficiale in oro. Ai tempi di Costantino, nell’Impero romano, circolava il Solidus, una moneta di oro massiccio (soldo). Il Soldo, con il nome di Nomisma e poi di Iperperon, sostenuto dall’impero bizantino, rimase in circolazione fino alla comparsa e all’affermazione del Fiorino, rappresentando la base monetaria del commercio Inter-regionale (estero). Dunque, l’Oriente mantenne una moneta d’oro, con un valore pressoché stabile per circa 700 anni, mentre l’Occidente, nella Gallia Franca, nella Gallia carolingia e a poco a poco dappertutto, adottò un sistema quasi esclusivamente argenteo. Tracce di questo fatto sono presenti oggi in Francia dove il nome del denaro è appunto Argent.
Nonostante la conversione all’argento, in Occidente il Soldo continuò a circolare. Il Soldo, scrive Marc Bloch (Lavoro e tecnica nel medioevo), esisteva come unità di conto. Si trattava ancora in soldi, ma il pagamento avveniva in denari, secondo un rapporto generale, non però valido in tutti i paesi, di un soldo per 12 denari. Allo stesso modo quando si prevedeva un pagamento in natura, si parlava di un soldo di grano o di un soldo di cacio.
La debole o nulla monetazione in oro, dice Bloch, era forse dovuta al fatto che l’oro circolava sotto forma di monete straniere. In Occidente circolavano il Bisante (o Bezant in Francia), la moneta Bizantina, appunto; il Mangon o Mancuso (Mancusus in latino), moneta in oro araba (il Dinar manqus); il Marabbottino, una moneta d’oro nordafricana (Almoravidi).
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"Elitarismo" vs democratizzazione del sapere?
di Il Chimico Scettico
* * * *
Egregio Signore,
mi è parso che, parlando di cose doverose e costruttive, nel suo caso una risposta pubblica fosse dovuta. Sorvolerò sulla "supposta aristocrazia intellettuale" (qualche citazione e qualche riflessione farebbero aristocratizia? Non credo). Ma con l'accusa di elitarismo tocca un nervo scoperto, perché qua sopra c'è sempre stata una feroce avversione per l'elitarismo politico e, per quanto a parole, ci si è sempre spesi per la difesa della democrazia.
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Italia: una società anziana, malata e sempre più diseguale
di Redazione
Due recenti rapporti ci offrono un affresco delle condizioni in cui versa la società italiana, disegnando uno scenario di forti diseguaglianze, frammentazione sociale e crisi demografica.
Lo stato dell’economia
Secondo il rapporto annuale dell’Istat “l’Italia ha mantenuto, per il secondo anno consecutivo, un ritmo di crescita dello 0,7 per cento, che riflette un debole contributo positivo della domanda estera netta e un rallentamento della spesa per consumi e, soprattutto, per investimenti. La crescita del Pil dell’Italia è risultata inferiore a Francia e Spagna, mentre la Germania ha sperimentato il secondo anno di contrazione”. Nello stesso periodo di tempo gli Stati Uniti sono cresciuti del 2,8%, la Cina del 5 e la media dei 27 paesi dell’Unione Europea è passata da una crescita del 0,4% del 2023 ad una dell’1% del 2024. Le cause di questa crescita moderata dell’economia italiana secondo l’Istat sono da rintracciare all’interno delle dinamiche internazionali incerte e in particolare rispetto alle esportazioni, ma anche nelle caratteristiche del sistema produttivo italiano “quali la dimensione delle imprese, la specializzazione in settori tradizionali e il limitato contenuto tecnologico/innovativo dei prodotti – a loro volta negativamente associate all’efficienza e all’incremento della produttività.”
Il rapporto sottolinea come la crescita sia piuttosto diversificata a seconda dei settori produttivi. Sull’onda lunga degli incentivi fiscali e del PNRR il settore dell’edilizia e delle costruzioni ha segnato un aumento del valore aggiunto in termini reali del 1,2% (anche se nel 2023 l’incremento era stato molto più consistente: +6,9%). In positivo anche l’agricoltura con un +2%, ma con performances ancora molto al di sotto dell’economia pre-pandemica (-5,2 per cento).
Nel settore industriale poi si nota con più chiarezza l’andamento estremamente frammentato a seconda dei diversi settori produttivi. Complessivamente si riscontra una riduzione del -0,1%, mentre nel 2023 la contrazione era stata dell’1,8%. A sollevare i destini del settore sono stati “la forte crescita nei comparti della fornitura di energia (+7,3 per cento, dopo -3,1 dell’anno precedente) e dell’industria estrattiva (+6,2 per cento, recuperando il -5,2 del 2023), mentre nell’industria manifatturiera si è avuta una diminuzione dello 0,7 per cento, che segue un calo dell’1,2 per cento nel 2023.”
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100 giorni di Trump 2.0: fascista ferito, fascista pericoloso
di Guillermo Kane (Partido obrero)
Iniziamo oggi, con questo articolo, la pubblicazione di testi delle organizzazioni politiche che prenderanno parte alla Conferenza internazionale di Napoli del 14-15 giugno.
Lo scritto di Guillermo Kane (del Partito Obrero di Argentina), che traduciamo da “En defensa del marxismo” di maggio, è un’analisi ricca e molto documentata della politica dell’amministrazione Trump. Le radici di questa politica di attacco a trecentosessanta gradi all’avversario strategico degli Stati Uniti (la Cina), agli alleati, al proletariato statunitense e a quello internazionale, sono individuate, giustamente, nel declino strutturale di lungo periodo, anzitutto sul piano della produzione industriale, dell’economia statunitense. Del resto lo spostamento dell’epicentro mondiale della produzione industriale dagli Stati Uniti e dall’Occidente all’Asia, con al centro la Cina, è un dato di fatto incontrovertibile, e non proprio recentissimo.
Tanto per la sua violenza propagandistica e ricattatoria, che genera ovunque resistenze (la “guerra commerciale” è una vera guerra), quanto per i suoi effetti-boomerang sugli stessi Stati Uniti, questo attacco rischia di indebolire ulteriormente la posizione internazionale dell’imperialismo nord-americano, anche perché ha innescato seri conflitti di potere all’interno delle stesse istituzioni statali statunitensi.
In modo puntuale Guillermo Kane mette in luce quello che definisce il “bonapartismo con tendenze fasciste” di Trump [una caratterizzazione di Trump che ci pare più appropriata di quella che lo ascrive direttamente al fascismo], che mira ad un enorme accentramento di potere alla Casa Bianca e alla brutale restrizione delle libertà politiche e di lotta, lungo la linea di un maccartismo estremizzato da esportare in tutto il mondo.
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