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Si scrive sciopero, si pronuncia dignità
Guido Viale
Chi si batte per la difesa di beni comuni e cultura trova riscontri in un processo di riconoscimento collettivo figlio della «prepolitica» rivendicazione di rispetto dei no ai referendum Fiat. Un varco in cui la riluttante Cgil è dovuta entrare
Nel corso di numerosi incontri e dibattiti a cui mi è capitato di partecipare recentemente ho avuto questa impressione: che venga sottovalutata la rilevanza di temi prepolitici, che hanno avuto un enorme peso nelle mobilitazioni degli ultimi mesi e che possono averne uno ancora maggiore nella costruzione di un fronte di lotta unitario. Le manifestazioni delle donne del 13 febbraio sono state indette in nome della dignità del loro genere. Questo ha permesso a molti altri temi più politici di emergere e farsi strada dentro questo contenitore generale: la denuncia del precariato, della disoccupazione esplicita e implicita (il cosiddetto «lavoro scoraggiato»), della disparità retributiva, del «tetto di cristallo» nelle carriere, della mancanza di servizi sociali, della permanenza di un intollerabile squilibrio nella distribuzione dei carichi domestici, della coazione alla clausura domestica per evitare violenze e molestie per strada e nelle ore notturne (ne dimentico sicuramente molti altri). Nessuno di questi temi avrebbe avuto la forza - e infatti non l'ha avuta - d'imporsi all'attenzione pubblica e guadagnare la piazza da solo. La rivendicazione della dignità ha aperto a tutti un varco gigantesco.
I no nei referendum di Pomigliano e Mirafiori sono stati innanzitutto un'altra rivendicazione di dignità. Nessuno di coloro che hanno votato no si aspettava probabilmente di vincere e, tantomeno, di ottenere qualcosa di diverso da quello che era stato imposto se avessero vinto.
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La sindrome di Drew Barrymore
Militant
Nel 2004 uscì nella sale di mezzo mondo una commediola hollywodiana dal titolo: 50 volte il primo bacio. Nel film (se non l’avete visto non vi siete persi davvero niente) la protagonista Drew Barrymore ogni giorno dimenticava quello che era successo il giorno precedente ed era costretta a ricominciare da capo la relazione con l’altro protagonista, Adam Sandler. Magari sbaglieremo, però da tempo la sinistra italiana quando si tratta di questioni internazionali ci sembra afflitta in forma cronica da quella che potremmo ormai definire con accuratezza quasi scientifica la “sindrome di Drew Barrymore”, un disturbo mnemonico che si manifesta attraverso la perdita della memoria breve e che ha, fra i suoi sintomi, la coazione a ripetere sempre le stesse azioni senza acquisirne esperienza.
Pensiamo nello specifico a come è stata affrontata la crisi libica. Nonostante dovremmo essere ormai avvezzi ad alcune operazioni di “regime change”, si è voluto per forza leggere quanto stava avvenendo a Tripoli e Bengasi adoperando la chiave interpretativa utilizzata in Egitto e Tunisia, trascurando il fatto che ognuna di queste rivolte aveva (ed ha) una grammatica sociale e politica propria, indipendente e non sovrapponibile.
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Massimo Recalcati, L'uomo senza inconscio
Eleonora de Conciliis
1. Non è esagerato affermare che, con questo suo nuovo libro*, Massimo Recalcati (che abbiamo già avuto l’onore di ospitare nel settimo numero e poi nel terzo annuario della rivista Kainos dedicato al tema Fame/sazietà) tenti di formulare un’interpretazione complessiva, e filosoficamente assai interessante, del cosiddetto postmoderno o dell’ipermodernità – com’egli preferisce definire il nostro presente per indicarne il carattere convulso, “smarrito” e compulsivo verso il godimento d’oggetto. Si tratta di un testo in cui il riferimento, magistralmente esposto, alla pratica clinica, costituisce il pungolo imprescindibile e non solo il pretesto per un ripensamento radicale della teoria freudiana delle pulsioni e di quella lacaniana dell’inconscio come linguaggio e luogo del desiderio dell’Altro: lasciandosi inquietare dall’emergenza di inedite forme di disagio (non solo quelle che cura ormai da decenni, ovvero la bulimia e l’anoressia, ma anche altre sempre più epidemiche, come gli attacchi di panico, la depressione e gli stati-limite), ovvero dai nuovi sintomi psicotici che la società contemporanea produce in individui ormai disancorati – in termini lacaniani – da qualunque struttura significante in grado di tenere insieme Legge e desiderio, l’autore cerca di capire cosa stia diventando la psicoanalisi nell’epoca dell’evaporazione del Padre e nel vuoto lasciato dalla mancata soggettivazione compiuta in suo Nome (su ciò cfr. pp. 36 e sg.).
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Economisti tedeschi, i consigli tragici
di Sergio Cesaratto
Stop al sostegno alla periferia indebitata dell'Ue, lasciateli fallire. Teorie sbagliate e interessi forti dietro una linea che non porta l'Europa da nessuna parte
Un plenum di economisti tedeschi ha approvato alcuni giorni fa una dichiarazione rivolta al proprio governo contro il sostegno dell’Ue e della Bce ai paesi altamente indebitati della periferia europea, che dovrebbero di contro intraprendere una procedura di insolvenza gestita dal Fmi. Gli economisti tedeschi sono generalmente assai influenti sul loro governo, e questo documento conferma il loro tradizionale orientamento prevalentemente conservatore, politico ed economico. In tal senso la dichiarazione prova come poco ci si debba aspettare da un dibattito circa i modi in cui l’Europa potrebbe uscire dal vicolo cieco in cui s’è cacciata. La questione è di scontro fra interessi nazionali, e gli economisti tedeschi hanno mostrato da che lato batte il loro cuore (www.networkideas.org) (1).
In sintesi, la dichiarazione avverte Berlino circa il pericolo di una progressiva europeizzazione del debito della periferia che coinvolgerebbe il contribuente tedesco nella temuta “tax-transfer union”, e circa l’impatto inflazionistico di un perdurante sostegno a tale debito da parte della Bce. Di più, le garanzie europee indurrebbero un “moral hazard” (2) da parte dei paesi periferici dando loro “un potente incentivo a ripetere gli errori del passato e continuare una politica di indebitamento alle spese dei partner dell’Ue”.
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Per una politica di opposizione
(fra il tramonto di Berlusconi e la dissoluzione dell'Italia)
di Marino Badiale, Massimo Bontempelli
Il colpo di Stato di Berlusconi è già iniziato. Berlusconi si è trovato in questi mesi nella stessa situazione in cui si trovava Mussolini nel 1924, all'indomani dell'omicidio Matteotti, con lo scandalo e l'inizio di erosione del suo potere che ne seguì: nella situazione, cioè, di dover scegliere fra la rovina politica e personale e l'abbattimento delle regole della democrazia per l'instaurazione di un potere dispotico. Berlusconi, come Mussolini nel '24, ha scelto questa seconda strada.
Le analogie ovviamente finiscono qui. L'esito di un colpo di Stato di Berlusconi sarebbe molto diverso da quello di Mussolini.
Per capire questo punto, occorre riprendere ciò che abbiamo scritto in “Un tramonto pericoloso” sulla natura del blocco sociale che sostiene Berlusconi. Si tratta di un arcipelago di feudi di potere economico, politico e criminale: per dirla con una parola divenuta corrente, di cricche. Da un simile blocco sociale non può nascere un totalitarismo di Stato, ma soltanto un illegalismo dell'arbitrio, volta a volta condizionato e necessitato dai rapporti di potere tra le cricche (il totale arbitrio, infatti, non è affatto libertà, ma, come è dimostrato dalla logica hegeliana, coincide con la totale necessità). In questa situazione si manifestano due linee di forza, una a favore di Berlusconi e una contraria.
A favore di Berlusconi giocano elementi noti a tutti: il suo potere mediatico in un'epoca in cui modelli mentali e comportamentali sono sempre più di origine televisiva, e la sua capacità comunicativa nei confronti di una sempre più estesa opinione pubblica involgarita.
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Mutazioni del vocabolario politico
Luigi Cavallaro
Di che cosa parliamo quando parliamo di sinistra. Dai processi collettivi di liberazione all'inflazionata parola-chiave libertà, un percorso di lettura per decostruire vecchie e nuove «narrazioni»: Qualcosa di sinistra di Franco Cazzola e Il partito personale di Mauro Calise
È possibile un'uscita da sinistra dalla crisi italiana? Per quanto l'atmosfera da basso impero in cui siamo precipitati in queste settimane abbia ringalluzzito non pochi intellettuali e militanti, convinti che siamo ormai al redde rationem e che basti una spallata - giudiziaria, mediatica o di piazza che sia - per sgombrare il terreno politico da colui che viene additato come caput et finis dei nostri guai, è forse opportuno avanzare qualche dubbio. Cominciando dal principio: cioè da cosa significhi concretamente «sinistra» nel tempo presente, e da chi possa conseguentemente essere definito «di sinistra».
L'imperativo dei prezzi stabili
Ci sono effettivamente molti modi per definire la «sinistra» e altrettanti criteri per differenziarla dalla «destra». Ma ce n'è uno solo che non si presta a equivoci, e - come spiega Franco Cazzola nel suo breve quanto intelligente Qualcosa di sinistra (il Mulino) - concerne le scelte relative all'elaborazione del bilancio statale (e del bilancio complessivo del comparto pubblico). È in relazione a questo criterio che si manifestano le scelte in ordine al rapporto tra stato e mercato e si evidenzia come questioni apparentemente «tecniche» (come l'ammontare del deficit e/o del debito, la misura della pressione fiscale diretta e indiretta in rapporto al Pil e l'efficacia redistributiva della spesa pubblica) si rivelino in realtà cariche di significati politici.
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Il regime di verità del libero mercato
Giovanna Cracco
L'Europa, la Trilateral Commission e il Gruppo Bilderberg
Poche cose generano disinteresse negli italiani quanto l’Unione Europea, le sue regole, i vari trattati che l’hanno creata, le istituzioni. Un disinteresse radicato, nonostante la consapevolezza, o il sentore, che l’unione stia fagocitando pian piano l’autonomia decisionale di ogni Paese membro.
Le ultime elezioni europee del 2009 hanno visto un’affuenza del 65%, in calo rispetto alle votazioni precedenti dell’8%. una persona consapevole ma ottimista (quasi un ossimoro) potrebbe valutare il disinteresse come una presa di coscienza da parte degli italiani del fatto che la politica, in Europa, ha un peso talmente irrisorio, che esercitare il proprio diritto di voto per decidere da chi farsi rappresentare al Parlamento europeo è una farsa a cui si sottraggono volentieri. Ma proprio in virtù dell’ossimoro, risulta difficile dare questa interpretazione. Più probabile che la complessità delle strutture europee, e quindi l’impegno che richiede il conoscerle e farsi un’opinione, sia la ragione alla base del disinteresse.
Nel 1992, anno della firma del Trattato di Maastricht, l’Unione Europea era stata presentata agli italiani come la terra promessa, l’unica possibile salvezza da un sistema Paese in fallimento, in preda a Tangentopoli, falcidiato nella sua classe politica corrotta; come il solo modo per uscire dalla dinamica di un debito pubblico in perenne aumento e da una lira buttata fuori dal sistema monetario europeo (Sme).
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Uno “standard retributivo” per tenere unita l’Europa
Emiliano Brancaccio
La crisi europea non è finita: la divergenza tra i costi del lavoro per unità prodotta sta alimentando squilibri potenzialmente letali per l’Unione monetaria. Occorre uno “standard retributivo” per ridurre lo sbilanciamento tra paesi in surplus e paesi in deficit commerciale. L’interesse generale all’unità europea coincide con gli interessi dei lavoratori, siano essi tedeschi, italiani o greci.
Sembrano lontani i tempi in cui Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi (2002) consideravano l’ampliamento degli squilibri commerciali tra paesi europei un sintomo virtuoso della maggiore integrazione finanziaria della zona euro. Da qualche anno va infatti diffondendosi tra gli studiosi una chiave di lettura molto meno rassicurante degli sbilanciamenti nel commercio intra-europeo. Stando a questa interpretazione alternativa la crisi dell’unità europea non può banalmente derivare da finanze pubbliche fuori controllo ma sembra piuttosto dipendere da una ben più profonda asimmetria tra economie forti ed economie deboli dell’area, che determina crescenti surplus per la Germania a fronte di deficit commerciali sistematici per i paesi “periferici” dell’Unione. Numerosi analisti iniziano in questo senso a temere che lo squilibrio tra paesi in surplus e paesi in deficit con l’estero rappresenti un grave fattore di instabilità e una potenziale minaccia per la tenuta futura dell’Unione monetaria.[1] Persino il Consiglio e la Commissione europea, solitamente riluttanti sul tema, hanno iniziato a riconoscere che uno squilibrio eccessivo nei commerci intra-europei accresce l’instabilità e il rischio di nuove crisi.
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I conti con il passato e il futuro che verrà
Luciana Castellina
Ringrazio Paolo Franchi che, sul Corriere della Sera di lunedì, dà conto in modo intelligente del dibattito che, a proposito della Libia, si è animato sulle pagine del manifesto. Nel suo articolo non gli viene infatti neppure in mente di accusare Rossana, Valentino e me di connivenza con Gheddafi e, riferendosi alla nostra domanda di riflessione sulla parabola tragica dei regimi nati dalla lotta anticoloniale, riconosce che effettivamente «esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche».
Franchi ritiene che nell'accapigliarsi attorno a questo problema emerga fra lettori e scrittori del manifesto una divaricazione generazionale: i giovani che gridano boia sempre, i vecchi che chiedono di ricordare un passato che quaranta-cinquanta anni fa ha riscosso enormi consensi popolari. Credo abbia ragione: anche in questo caso scopro con smarrimento le dimensioni della rottura che fra anziani e giovani si è verificata, in che misura la storia del Novecento sia stata cancellata, l'intero secolo scorso solo un cumulo di orrori. Non è solo fenomeno italiano: anche i ragazzi egiziani che hanno affollato piazza Tahrir e sono tutti nati molto dopo la morte di Nasser sembra che di quel raìs non abbiano più memoria e a loro è presente solo l'immagine del suo orrendo successore.
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Le buone azioni dello scettico
Franco Marcoaldi intervista il linguista Raffaele Simone, marxista-leopardista, impegnato e disincantato: "Il nostro è un paese dove è diventato difficile distinguere il vero dal falso"
Per affrontare in profondità la questione delle credenze è bene prendere in esame anche l´aspetto linguistico. Perciò il nostro terzo interlocutore è Raffaele Simone, ordinario di Linguistica Generale all´Università di Roma Tre e autore di importanti studi che spaziano tra storia, politica e trasformazioni culturali.
«Cominciamo col dire che in italiano, a differenza di altre lingue, si può credere a qualcosa o a qualcuno, ma anche in qualcosa o in qualcuno. A, in – queste due diverse preposizioni aprono una crepa semantica interessante. 'Credere a' significa dare credito alle dichiarazioni verbali di qualcuno. 'Credere in' ha invece una doppia valenza. Se io credo in un mio alunno, è perché penso che nel futuro farà belle cose, avrà fortuna. Confido nella speranza di una sua affermazione positiva. L´altro senso del 'credere in' poggia invece con fiducia su ciò che qualcuno fa, asserisce o è. Se affermo di credere nella sinistra, per esempio, questo non implica che avrà fortuna o si imporrà, ma che i suoi valori e il suo progetto politico mi convincono».
Proviamo a calare queste distinzioni semantiche nell´Italia di oggi.
«Quanto al credere a qualcuno, gli italiani credono sin troppo.
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Maghreb e mercati finanziari: la logica del contagio
di Christian Marazzi
Chi segue quanto sta accadendo nel Nord Africa e nel Medio Oriente con un occhio sui mercati finanziari non può non essere colpito da alcune similitudini, ma anche da differenze fondamentali. Ad esempio la logica del contagio, ossia del mimetismo che travolge qualsivoglia aspettativa razionale. Sui mercati finanziari è il deficit d’informazione che porta i soggetti economici a imitare l’Altro per definire (scegliere/eleggere) il rappresentante universale della ricchezza storicamente dato (che può essere la moneta “equivalente generale”, oppure i titoli tecnologici, i titoli subprime, le commodities, ecc., insomma le “convenzioni collettive” di keynesiana memoria). Si innesca in tal modo un movimento contagioso all’interno della comunità degli investitori che, di volta in volta, produce la sua bolla finanziaria, destinata a esplodere quando il processo diventa talmente autoreferenziale da perdere ogni rapporto col reale. E’ la razionalità dell’irrazionalità, o “razionalità collettiva”, dei mercati. I processi rivoluzionari nell’epoca del capitalismo finanziario globale sembrano funzionare secondo la medesima logica, ma solo in superficie. In realtà, il contagio, la prassi mimetica che caratterizza le insurrezioni delle moltitudini nord africane e medio orientali, non sono originate da un deficit d’informazione, bensì dal suo contrario, da un eccesso d’informazione che dà il via a mobilitazioni in regioni contigue e non, tra loro differenti per composizione sociale, PIL pro capite, tasso di inflazione, percentuale di disoccupazione giovanile, ecc. (vedi Wealth Management Research, “Global financial markets”, UBS, 24 febbraio).
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Il rimedio della dialettica contro il culo flaccido
di Christian Raimo
Nella Metafisica Aristotele dice: inchiodali al loro linguaggio. Parla dei sofisti di basso livello, dei Megariti, di quella gente che non argomenta in modo preciso, che cerca di buttare tutto in caciara, il cui unico scopo è la delegittimazione dell’avversario. In questi ultimi tempi la battaglia delle truppe cammellate berlusconiane sta mandando in campo i riservisti: dopo la fanteria d’assalto degli yes-man, degli uomini-eco, i Bondi e i Quagliarello, c’è stato il tempo dei cecchini, i Feltri, i Lavitola, i Sallusti, quelli che sparavano ad altezza uomo ripetutamente, qualunque fosse il Boffo di turno da affondare. Ora la strategia sembra più raffinata: sono tornati da qualche settimana a questa parte a aver voce gli intellettuali sedicenti. Un Giuliano Ferrara che prende per il culo Umberto Eco su Kant, un Antonio Ricci che si riscopre debordiano e fa il verso alle femministe sul Corpo delle donne, detournando il documentario di Lorella Zanardo con un filmatino mandato in onda a Matrix, la cui tesi era: anche Repubblica usa le tette per vendere. Se è questo il livello, il conflitto viene da dire è finalmente culturale.
Dopo che l’opposizione parlamentare (il Pd in primis) ha fallito nell’arginare la sua deriva populista, dopo che quella istituzionale (la nuova destra di Fini, la morale comune) è stata miseramente azzoppata, ora tocca a noi, a chi crede che il berlusconismo sia soprattutto una malattia del capitalismo avanzato, un virus che avremmo inoculato comunque anche se Berlusconi ipse non fosse ancora al governo con una maggioranza di 320 parlamentari.
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Prove di quarta sponda
di Augusto Illuminati
Nella purtroppo vana attesa che una brigata internazionale africana venga a liberare il nostro Paese dal sottosviluppo e dalla dittatura di Ubu-papi, il ceto politico italiota sta elaborando il lutto della declinante intesa con Gheddafi e preparando una qualche mossa per tutelare le fonti energetiche e interdire la partenza dei migranti dalle sponde africane. Le probabili esagerazioni sul numero dei morti (stranamente mai mostrati in foto, neppure in zone da giorni ormai liberate) e le sparate allarmistiche sul numero dei migranti (anch’essi finora mai visti approdare) sembrano configurare un viluppo di pretesti con cui giustificare un’operazione “umanitaria”, in stile Haiti, se non Irak o Jugoslavia. Varianti più o meno dure di una shock doctrine, una politica dell’invenzione e gestione dei disastri, secondo la terminologia di Naomi Klein, delega alle ex-potenze coloniali per conto degli Usa, sempre più interessati a riprendere in mano direttamente (Egitto) o indirettamente il Nord Africa, sottraendolo ai cinesi e usandolo per riguadagnare influenza sull’intrattabile Israele. La ricattabilissima Italia di Berlusconi e Frattini sarebbe l’ideale per togliere la castagne dal fuoco, affamata com’è di gas e petrolio, compromessa con il trattato di amicizia, autostrada costiera e bunga bunga...
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Romania, Iraq, Kosovo... Libia: nelle fosse comuni si seppellisce la verità
di Marco Santopadre
Di che città e di che paese si parla nelle citazioni tratte da due importanti quotidiani italiani?
Semplice, risponderete voi. Della Libia! Negli ultimi giorni notizie di stragi, di bombardamenti aerei sui manifestanti e sui civili inermi, di possibile uso delle armi chimiche contro la popolazione che si oppone al regime di Gheddafi, di stragi di medici e di feriti negli ospedali, di colonne di migliaia di profughi in fuga dai combattimenti e dagli eccidi bombardano le opinioni pubbliche occidentali e, quindi, anche italiana.
Torniamo alle citazioni di cui sopra: non si riferiscono a quanto sta accadendo in Libia, bensì a quanto stava – secondo i media internazionali – accadendo a Timisoara e ad Arad ai tempi delle rivolte contro Ceaucescu, nel 1989.
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Lo stato sociale non solo redistribuisce, ma produce ricchezza
di Alfonso Gianni
Sono volati gli stracci fra il Quirinale e palazzo Chigi a proposito del Milleproroghe. Il presidente della Repubblica in una dura nota inviata al Parlamento ha stigmatizzato il contenuto eccessivamente miscellaneo (un decreto “salsiccia” diceva a suo tempo Pietro Ingrao) del decreto Milleproroghe, la sua dubbia costituzionalità e il ricorso continuo al voto di fiducia. Il governo, seppure con toni più smorzati del solito – tanto evidenti erano gli argomenti portati da Napolitano – ha aggirato l’ostacolo con un nuovo maxiemendamento e ulteriori voti di fiducia. Non varrebbe neppure la pena di citare questo ennesimo strappo alla democrazia parlamentare operata dalla maggioranza di governo, se non per tornare su alcune norme particolarmente significative in senso negativo contenute nel provvedimento governativo.
Mi riferisco in particolare alle norme relative alla reintroduzione della cosiddetta social card, spacciata per grande misura di contrasto alla povertà. Il punto di partenza del nostro paese è uno dei più bassi. Spendiamo, per misure esplicitamente volte alla lotta alla povertà, solo lo 0,1% del reddito nazionale, quasi 13 volte in meno degli altri paesi della Ue, new entry dell’Est compresi. Eppure di poveri ne abbiamo tanti.
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Una critica alla politica monetaria della BCE
di Miguel Carrión Álvarez*
La BCE considera il debito sovrano e il debito bancario con due pesi e due misure

Questo incidente può aver provocato molto rumore per nulla, ma ci dà l'occasione di dare uno sguardo più attento allo stato della liquidità nel mercato interbancario dell'Eurozona e non ne viene fuori un bel quadro. Nel suo zelo deflazionistico, la BCE sta drenando una quantità crescente di moneta - sotto forma di depositi settimanali - dai mercati monetari per compensare i suoi modesti acquisti di euro bonds sovrani.
Una conseguenza di questa politica è l'aumento costante nei tassi interbancari a un punto che l'Euribor a un anno ora sta toccando l'1.75 per cento, che è il tasso del prestito marginale presso la BCE (MLF). A questo tasso le banche possono assicurarsi fondi illimitati dalla BCE. L'Euribor a un anno potrà presto rompere questa barriera.
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Il Mediterraneo è l'avvenire dell'Europa
Dialogo fra Alain de Benoist e Danilo Zolo (*)
Alain de Benoist. Lei è stato l'architetto, insieme a Franco Cassano, di un libro collettivo di oltre 650 pagine intitolato L'alternativa mediterranea (1). Citando Peregrine Horden e Nicholas Purcell - che nella loro opera monumentale The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History (2000) scrivono: «l'unità e la coerenza dell'area mediterranea sono indiscutibili» - aggiungete: «"Unità" non significa uniformità culturale o monoteismo», ma al contrario «pluriverso». Nel corso della storia, dalle guerre di Atene contro Sparta o dal grande scisma d'Oriente alla divisione attuale dei paesi arabi, passando per le avventure coloniali francesi e britanniche, non è che il Mediterraneo sia sempre stato profondamente diviso? Aldilà dei conflitti di cui il Mediterraneo è stato testimone, secondo Lei, cosa crea questa unità mediterranea, sia a livello storico e geografico che a livello spirituale, ambientale o simbolico?
Danilo Zolo. Come è noto, un contributo di grande rilievo al dibattito sulla questione mediterranea, e quindi sull'unità del Mediterraneo, è stato offerto da Fernand Braudel. Ed è appunto al suo pensiero storiografico che si ispira il libro che Franco Cassano ed io abbiamo recentemente curato per l'Editore Feltrinelli. Mentre Henry Pirenne aveva elaborato lo schema della cesura dell'unità mediterranea a causa della conquista araba del Medio Oriente e dell'Africa del Nord, Braudel ha valorizzato il pluralismo delle fonti culturali che hanno dato vita alla civiltà mediterranea.
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Le vere cause delle rivolte in Nord Africa
di Domenico Moro
Le rivolte che, partite dalla Tunisia, si sono estese in tutto il Nord Africa sono state spiegate dai media nostrani, secondo l’ideologia democratica occidentale, come rivolte contro il dispotismo. Tale categoria, però, non spiega perché “despoti” al potere da quaranta anni siano stati messi fuori gioco in poco tempo, né la diffusione rapidissima del contagio in un’area molto vasta. Le cause di quanto sta avvenendo sono senza dubbio molteplici e complesse, ma certamente vi giocano un ruolo importante il modo in cui sono state gestite la crisi mondiale e la globalizzazione.
Il centro del sistema capitalistico mondiale, gli Usa, ha scelto di risolvere la crisi, di cui è stato epicentro nel 2007, mantenendo i tassi d’interesse sul denaro vicini allo zero e procedendo all’immissione di una massa enorme di denaro nel sistema economico mediante il cosiddetto “quantitative easing”. Questo consiste nell’acquisto di titoli del Tesoro per 600 miliardi di dollari da parte della Banca centrale Usa, cui è stata aggiunta la proroga, per 800 miliardi di dollari, degli sgravi fiscali dell’epoca Bush. In questo modo lo Stato Usa ha rilanciato il Pil (nel 4° trimestre 2010 al 3,2%) e i profitti delle imprese (+35%) e delle borse, specie di Wall street, che non chiudeva in rialzo per nove settimane di fila dal ’95.[1] Si tratta però, come accaduto a seguito della crisi del 2001, di una crescita drogata che non risolve la crisi, anzi la aggrava, aumentando il gigantesco debito pubblico, e lasciando inalterata la forte disoccupazione (10%).[2]
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Verso un'altra guerra «umanitaria»
di Tommaso Di Francesco
Siamo ai prodromi di un'altra guerra umanitaria. Che andrebbe ad aggiungersi a quella già sul campo. Stavolta in Libia. La Nato dichiara che «non è all'ordine del giorno, per ora», l'Unione europea che «nemmeno ci pensa», il ministro della difesa italiano La Russa che «non è nei nostri pensieri, però...». Ma ci stanno pensando, ci ragionano, e soprattutto si attivano forze e strumenti istituzionali di copertura. Sanzioni, no fly zone.
Diciamo questo perché, ben al di là del disfacimento evidente del regime di Gheddafi, delle sue drammatiche responsabilità e del suo delirio, emerge la disinformazione. Si rende cioè evidente un significativo livello di menzogne da parte dei media ancora una volta embedded: fosse comuni che appaiono, quando in realtà sono fosse individuali; un salto improbabile in 12 ore dalle mille alle diecimila vittime, secondo l'americanissima televisione Al Arabya; flash di foto di corpi senza vita; l'invenzione di un inesistente membro libico della Corte penale internazionale rigorosamente antiregime che moltiplica per 50mila il numero delle vittime e dei feriti.
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Occhio, la Libia è un'altra cosa
di Fulvio Grimaldi
(Senatore Usa Alfred Beveridge)
(Malcolm X, "Discorsi e dichiarazioni selezionati")
Fatta la tara al sistema mediatico occidentale e magari ascoltata l'emittente dell'America libera, Telesur, e anche la problematicità di Al Jazira, deprechiamo pure il bagno di sangue in Libia, con la repressione dei settori fedeli a Gheddafi, ma anche con l'ambiguità di un'informazione le cui contraddizioni tra commenti e immagini sfida la logica. E le cui motivazioni e i cui burattinai dovrebbero sollecitarci qualche riflessone. Non arrendiamoci al sanguinolento Grand Guignol che tutta la stampa, destra e "sionistra", in quell'unanimità che fa sempre gioco alla destra, spara sulla Libia e contro Gheddafi. Bombardamenti aerei sulla popolazione, mercenari stragisti, defezioni di militari, aviazione, ambasciatori, feriti sparati negli ospedali, testimoni rientrati che hanno "sentito colpi di fucile", migliaia di cadaveri per le strade, "esperti" tv fuorusciti da trent'anni dalla Libia che invocano la democrazia occidentale, mosche su quella patacca che passa per viva ed è già putrescente e ancora vorrebbe infettare i popoli che ne sono esenti... In Iraq cianciavano di fosse comuni di Saddam, mai trovate, mentre ne allestivano per migliaia, oggi un po' per volta scoperte con cadaveri datati dal 2003 in qua.
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Capitalismo 2010: un morto che cammina
Antonio Carlo
1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica; 2) Gli USA. Un’economia sulla sedia a rotelle che produce disoccupati e debiti; 3) L’Europa in panne. L’agonia di UE ed euro; 4) L’Italia: galleggiare in attesa di S. Gennaro; 5) La Cina. Il miracolo straccione appassisce; 6) Crisi dell’economia reale e follia dell’economia politica; 7) Crisi strutturale ed esplosioni sociali
1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica.
Nei libri di economia si legge che “ripresa c’è quando risale il PIL” e siccome il PIL è cresciuto nel 2010 del 4,8% dovremmo essere in piena ripresa, anche se si sprecano gli aggettivi per dequalificare la ripresa stessa, che sarebbe incerta, fragile, inadeguata, etc. etc.
In realtà la ripresa sembra essere una cosa da paesi sottosviluppati come si evince dalla tabella che segue1.
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Nord Africa in rivolta
Ben Ali e Mubarak si sono dimessi. Ciò che solo qualche mese fa sarebbe sembrato impossibile anche alla più fertile delle immaginazioni è avvenuto. E il terremoto non sembra essersi fermato. Una ventata di mobilitazione popolare sembra stia per realizzare quel passaggio alla democrazia cui i paesi arabo-islamici sembravano geneticamente negati.
Una soddisfazione neanche troppo celata si respira nell’entourage di Obama. Nelle cancellerie europee i toni sono più contenuti. In Cina c’è silenzio, evidentemente preoccupato. Anche negli ambienti della sinistra anti-capitalista le sollevazioni sono state accolte da un generale compiacimento.
A prescindere da quel che succederà all’immediato, queste mobilitazioni un’acquisizione positiva l’hanno già determinata facendo irrompere sul terreno dello scontro politico alcuni elementi che sembravano sepolti negli anfratti di una storia lontana: 1. la mobilitazione di massa è in grado di agire su un terreno rivoluzionario, superando il livello di semplice rivolta e non facendosi ingabbiare in processi democratico-elettorali; 2. La mobilitazione delle masse può diroccare anche un potere ferocemente armato e sostenuto dai peggiori briganti mondiali.
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Il lavoro cambia. E allora che si fa?
di Sergio Bologna
Non ricordo esattamente quando mi hanno invitato la prima volta a partecipare ad un dibattito dal titolo “il lavoro che cambia” ma può essere stato non meno di trent’anni fa. Del resto sono i documenti stessi a dirlo: sulla rivista “primo maggio” le analisi del decentramento produttivo, della scomposizione dell’unità aziendale in un sistema a rete, erano cominciate nel 1976/77. Negli stessi anni, i lavori del Dipartimento di Scienze del Territorio del Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, avevano parlato di “fabbrica diffusa”.
Probabilmente si parlava ancora troppo di disarticolazione del complesso aziendale, cioè di “nuovo modo di fare impresa” e troppo poco di “nuovo modo di lavorare”, ma l’idea che la classe operaia venisse frammentata sul territorio per indebolirla era chiara. Le grosse novità sembravano però concentrate ancora nella fabbrica fordista, come il passaggio dalla lavorazione alla catena a quella “a isole”, la robotizzazione ecc.. Negli stessi anni si apriva un dibattito – purtroppo caratterizzato da forzature ideologiche – sulla fine della centralità dell’”operaio massa” e la comparsa sulla scena di una nuova figura egemone, quella dell’”operaio sociale”. Insomma, che nel mondo del lavoro si fosse alla vigilia di qualcosa di grosso, era chiaro a molti dei protagonisti di quelle analisi già dalla metà degli Anni Settanta.
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Il Medio Oriente dopo Mubarak: alba democratica o crisi dei popoli?
by Redazione
In Medio Oriente stiamo assistendo soltanto alla tumultuosa sostituzione di alcuni dittatori, o al cambiamento di interi sistemi di governo corrotti e atrofizzati che hanno permesso a leader politici come Ben Ali e Mubarak di governare per decenni in Tunisia e in Egitto?
E’ questo il grande interrogativo che tutti si pongono di fronte a quanto sta avvenendo in questi due paesi, ma anche di fronte alle manifestazioni di rabbia e di protesta che stanno scuotendo l’intera regione mediorientale, dall’Algeria allo Yemen.
Le migliaia di profughi giunti in Italia dalle coste tunisine dimostrano che la transizione in quel paese non sta aprendo nuove prospettive ai suoi abitanti e, invece di condurre la Tunisia verso la democrazia, rischia di farla sprofondare nel caos, mentre i resti della vecchia élite al potere continuano a mostrarsi restii a coinvolgere le altre forze politiche nel processo decisionale.
In Egitto, l’esercito ha accentrato il potere nelle proprie mani, e le modalità della transizione dipenderanno interamente da esso. Le forze armate, che già rappresentavano la base storica del vecchio regime, sono uscite rafforzate da queste settimane di rivolta popolare, potendo contare sul monopolio della forza ed avendo intelligentemente gestito la collera della piazza, che si è rivolta soprattutto contro il presidente Mubarak e contro l’élite affaristica rappresentata dal figlio Gamal.
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La Germania, l’Italia e l’Europa
Guido Montani*

Della prima strategia Cesaratto non parla. Suppongo che la ritenga errata e, in questo caso, sono d’accordo con lui. Per quanto riguarda la seconda e la terza alternativa, non penso che debbano essere messe in contrapposizione, perché in un’Europa unita deve scomparire la distinzione tra paesi forti e deboli. Oggi, non è così. Se volessimo ricostruire le misure adottate dal Consiglio europeo in risposta alla crisi finanziaria che, nel 2008, si è estesa all’Europa potremmo dimostrare che le maggiori decisioni sono state prese in un prima fase dal direttorio franco-tedesco e, negli ultimi tempi, praticamente solo dalla Germania.
Ora sembra che la Sig.ra Merkel, in cambio dell’aiuto tedesco all’EFSF, chieda che i paesi dell’UE includano il vincolo del bilancio in pareggio nelle loro costituzioni e che anche l’età pensionabile debba essere portata ovunque a 67 anni, come in Germania. La giustificazione è che i cittadini tedeschi non vogliono pagare per i paesi più spendaccioni, come la Grecia. Di fatto, il governo tedesco sta diventando il governo dell’UE. Se in futuro si procederà in questa direzione si costruirà un’Europa tedesca. Ma questa non è una buona soluzione per i cittadini europei.
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