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Anniversari. Il 7 ottobre è accaduto l’11 settembre
Una parziale rassegna di analisti non allineati
di Francesco Cappello
All’indomani del 7 ottobre è stato subito chiaro che non tutti i giornalisti e gli analisti avevano accettato l’interpretazione dei fatti come diffusi dal mainstream. Passerò in rassegna, più o meno in ordine di apparizione, quelle analisi che mi sono note e che hanno messo radicalmente in dubbio l’interpretazione corrente dei fatti di quel sabato 7 ottobre 2023, usati per “legittimare”, almeno agli occhi della maggioranza più sprovveduta, l’azione genocidiaria del governo israeliano, iniziata il giorno dopo, e che tragicamente continua, senza interruzione, da un anno a questa parte
Ecco come Grandangolo, la Rassegna stampa internazionale del venerdì su Byoblu, a cura di Manlio Dinucci, andata in onda venerdì 13 ottobre, presenta didascalicamente la propria versione dell’attacco di Hamas ai danni di Israele, avvenuto sabato 7 ottobre del 2023, nell’edizione dal titolo L’11 settembre del Medioriente:
Secondo la versione ufficiale, l’attacco di Hamas ha “colto di sorpresa” Israele. Vi è però una serie di fatti inspiegabili che non rende credibile la versione ufficiale.
Come è possibile che la barriera di Gaza sia stata sfondata con bulldozer senza che nessuno se ne sia accorto? La barriera che circonda Gaza, lunga 64 chilometri, è formata da un muro sotterraneo dotato di sensori, per impedire di scavare tunnel, e da una recinzione alta 6 metri con sensori, radar, telecamere e sistemi d’arma automatici collegati a un centro di comando, ed è presidiata da soldati.
Come è possibile che in quello stesso giorno si stesse svolgendo un festival musicale, con migliaia di giovani, nel deserto a pochi chilometri da Gaza, in una zona già ritenuta pericolosa perché nel raggio dei razzi di Hamas, per di più senza alcuna forza di sicurezza?
Come è possibile che, quando i militanti di Hamas hanno attaccato i centri abitati, non siano immediatamente intervenute con elicotteri le forze speciali israeliane, ritenute tra le migliori del mondo, e siano intervenute solo forze di polizia?
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Contro l’Europa del capitale e della guerra
di Ascanio Bernardeschi
Le politiche economiche dell’Unione europea tutelano gli interessi del grande capitale conducendoci a una crisi di vaste proporzioni, peggiorando drasticamente le condizioni e i diritti dei lavoratori e abbattendo gli spazi di resistenza democratica.
In Europa siamo di fronte a una crisi di vaste proporzioni, tanto da far rimpiangere quella del 2008. Il tessuto produttivo europeo è alla canna del gas a partire dalla “locomotiva” Germania. Come al solito, il peggio ne fanno i lavoratori. Proviamo a indagare le cause.
1992, Trattato di Maastricht. Una data infausta. Da quel momento, con una costante progressione, si è impoverito e ha perso diritti il mondo del lavoro. Non si tratta di una coincidenza. L’ex governatore della Banca d’Italia, nell’occasione della firma del Trattato, ebbe a sussurrare agli intimi che i nostri governanti non si rendevano conto di cosa stavano sottoscrivendo, cioè il cambiamento della natura dello Stato, la sua riduzione a uno Stato minimo, ma non di tipo liberale ottocentesco; molto peggio perché privava gli Stati della sovranità monetaria e sposava acriticamente tutte le indicazioni della scuola neoliberista di Chicago.
Per la verità, la cosa era cominciata un paio di anni prima con il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro, di cui fu esecutore Azelio Ciampi. Uno dei capisaldi della scuola di Chicago è, infatti, che le banche centrali debbano essere indipendenti dalla politica e debba essere loro proibito di acquistare non già i titoli tossici, ma direttamente dal Tesoro i titoli del debito pubblico. Questo ha significato che da allora gli Stati sono costretti a collocare per intero tali titoli nel mercato, esponendosi alla speculazione a rischio di far lievitare i tassi e con ciò il debito stesso, come è avvenuto regolarmente per la maggior parte delle nazioni.
Questo tranello è stato confermato dal Trattato che vi ha aggiunto altre tagliole. Sempre in omaggio alle dottrine neoliberiste ha stabilito che la prima cosa da tutelare è la stabilità monetaria e il controllo del tasso di inflazione, non i diritti sociali.
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I sionisti stanno vincendo?
di Leonardo Mazzei
Domande e punti fermi ad un anno dal 7 ottobre
Un anno fa, a caldo, scrivemmo che la data del 7 ottobre sarebbe rimasta nella storia. Definimmo lo sfondamento del muro che recinge il lager di Gaza come il grido di libertà della Resistenza palestinese. Sapevamo pure che il significato e la natura di quell’eroica azione sarebbe stato infangato, distorto, infine rovesciato dalla narrazione nazi-sionista che pervade l’occidente.
Così scrivevamo, infatti, il 10 ottobre 2023:
«A Gaza, sabato scorso, un muro è stato abbattuto. È il muro che recinge da 16 anni il più grande campo di concentramento che la storia ricordi. Quello sfondamento è stata la vittoria di tutti coloro che amano la libertà delle persone e dei popoli. Ma quel coraggioso rilancio della lotta di liberazione è stato subito etichettato come “terrorismo”. Il linguaggio orwelliano si è imposto un’altra volta. Era inevitabile che così fosse nella nostra marcia società. Ma questa arroganza dei dominanti è pure il segno della loro straordinaria insicurezza. Hanno talmente paura del mondo così com’è, che lo raccontano a rovescio non solo agli altri ma pure a sé stessi».
Fu chiaro da subito che il 7 ottobre avrebbe segnato una svolta nella lotta di liberazione del popolo palestinese, così come non c’erano dubbi sull’estrema ferocia della reazione dell’occupante sionista.
In un anno di acqua ne è passata sotto i ponti, ed è giusto tentare un primo bilancio (sintetico e per punti) di quanto avvenuto, anche per provare a capire quel che ci aspetta.
- Israele stato criminale e genocida
In questi giorni i sionisti di tutto il mondo, gente disonesta e spudorata come tutti i razzisti che si rispettino, hanno cercato di venderci la storia di un 7 ottobre come riedizione dello sterminio nazista.
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La guerra alle porte
di Enrico Tomaselli
Un errore facile da commettere, se si pensa all’attuale situazione mondiale, è quello di sopravvalutare l’importanza delle scelte opzionabili dalle varie leadership; o per meglio dire, non si tiene sufficientemente conto di quanto l’accumulo delle scelte pregresse (e delle loro conseguenze) finiscano per limitare sempre più lo spettro delle opzioni possibili, e quindi – di fatto – spostino il baricentro decisionale dalla volontà delle élite politiche all’incastro oggettivo degli elementi in campo.
Se prendiamo ad esempio in considerazione il conflitto ucraino, che ormai si avvia verso il suo terzo anno, dovremmo – con maggiore razionalità – riconoscere che le chance di una soluzione non militare sono ormai decisamente esigue, e ovviamente tendono a ridursi assai velocemente. E ciò, appunto, non dipende più tanto dalla mancanza di volontà di giungere a una composizione diplomatica, quanto dal fatto che i margini per una possibile soluzione di tal genere sono effettivamente minimi.
Ci sono, ovviamente, interessi contrapposti di non facile conciliazione, o tra i quali non è facile anche solo trovare una mediazione, sia che ci riferiamo all’interesse ucraino di mantenere/recuperare la propria integrità territoriale, sia che ci riferiamo a quello statunitense di destabilizzare la Russia – e naturalmente, agli opposti interessi russi.
Si è detto più volte che la guerra ha una logica propria, che conduce le cose verso esiti spesso assai diversi da quelli desiderati, e soprattutto imprevisti. E ciò vale, naturalmente, anche sul piano delle conseguenze politiche. Ora è chiaro che i calcoli con cui i due principali player della partita – Stati Uniti e Russia – sono entrati nel conflitto, non solo si sono rivelati (in misura diversa) errati, ma proprio in virtù della loro erroneità hanno determinato un mutamento degli obiettivi strategici.
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Raniero Panzieri e la questione del potere
di Franco Ferrari
Il 9 ottobre 1964 muore improvvisamente a Torino, a soli 43 anni, Raniero Panzieri, intellettuale socialista, per diversi anni dirigente politico del PSI e poi dal 1961 promotore dei “Quaderni Rossi”, rivista di teoria e di intervento politico diventata nel tempo oggetto di una sorta di vera e propria venerazione.
Panzieri è stata una figura intellettuale importante, un attento e originale studioso di Marx e un critico acuto di molte delle tesi prevalenti nella sinistra tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni ’60, con la indubbia capacità di cogliere elementi nuovi presenti in una fase di tumultuoso cambiamento sociale dell’Italia di quel periodo.
L’obbiettivo limitato di queste note non è certo di ricostruirne, neppure sommariamente, la biografia, intensa per quanto breve (per questa si rimanda a Dalmasso 2015), né di esaminarne in dettaglio un pensiero complesso che, come sempre avviene nei pensatori originali, non può essere ridotto a un percorso lineare. La scomparsa improvvisa ha anche lasciato irrisolti molti nodi che poi altri, in direzioni diverse, cercheranno di sviluppare spesso con forzature che probabilmente lo stesso Panzieri non avrebbe accettato. Né si possono facilmente ridurre e semplificare, quasi in forma manualistica, le implicazioni e anche le contraddizioni del suo pensiero. Più modestamente si cercherà di individuare qualche nodo problematico attorno al quale ci si può interrogare anche nel presente, a sessant’anni dalla sua scomparsa.
Il socialismo di sinistra
Il primo punto che si vuole evidenziare è come si collochi Panzieri nella più generale storia del movimento operaio e socialista italiano.
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Umiliata in Ucraina e impantanata nel Pacifico, Kabala Harris dichiara guerra all’Iran
di OttolinaTV
Intervistatore: “Quale paese straniero considera sia il nostro principale nemico?”
Kabala Harris: “Credo ovviamente ne venga subito uno in mente, che è l’Iran. l’Iran ha sangue americano sulle sue mani“
Ottoliner buondì. Dopo due anni e mezzo vi cominciavate ad annoiare a sentir sempre parlare degli schiaffi che quotidianamente l’Occidente collettivo raccatta nella guerra per procura in Ucraina? Nessun problema: la guerra mondiale dell’imperialismo a guida USA contro il resto del mondo è pronta ad arricchirsi di un nuovo, entusiasmante capitolo! Per mesi, un po’ tutti (e noi per primi) ci siamo fatti mille pippe su come a volere una regionalizzazione dello sterminio di Gaza fosse Israele, mentre gli USA erano titubanti; la motivazione è nota e a chi ci segue ormai gli uscirà dalle orecchie: aprire un altro fronte, oltre a quello caldo in Ucraina e a quello in via di preparazione nel Pacifico, non è alla portata della superpotenza USA e dei suoi alleati. E visto che – da quando hanno raso al suolo l’intero paese per diventare energeticamente indipendenti e da quando la Cina è diventata la leader globale indiscussa delle rinnovabili – il Medio Oriente aveva cominciato a perdere la sua centralità, indebolire la deterrenza su uno dei due fronti principali per rimettere a ferro e fuoco l’Asia occidentale non sembrava avere molto senso, fino a quando qualcosa non è cominciata a cambiare piuttosto rapidamente. Le prime avvisaglie le abbiamo cominciate a registrare a inizio estate quando, mano a mano che Biden rincoglioniva sempre di più, Trump, da underdog ostracizzato dal sistema, cominciava a incassare il sostegno di pezzi sempre più consistenti di Stato profondo (a partire dai peggio sociopatici miliardari della Silicon Valley) e addirittura, cosa più unica che rara, cominciava a surclassare in donazioni la campagna dem.
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Cinquanta sfumature di rosso. Il marxismo e la pluralizzazione del conflitto sociale
di Alexis Piat
Introduzione: Il rosso delle origini – Marx e la teoria materialista del conflitto
1 - Pochi autori sono più difficili da leggere di Marx. Non perché la concettualità marxiana sia particolarmente astratta o complessa – se è indiscutibilmente così, queste dimensioni appartengono di diritto a qualsiasi grande pensiero – ma perché il lettore deve sempre assicurarsi di leggere Marx correttamente, senza le innumerevoli scorie lasciate dalla storia che ricopre il testo. Se tale recupero avviene, il lettore non legge più Marx: sogna il pensiero o la pratica di un altro, quello di Althusser nel migliore dei casi, quello di Stalin quando le cose vanno davvero male. Tutti sanno che per Marx «la lotta di classe è il motore della storia». Tuttavia, sarebbe difficile fare riferimento a una tale formula quando essa sembra essere una figura imposta di commento (al punto che è difficile rintracciarne l'origine), dal momento che invece non appare da nessuna parte, come tale, nell'opera di Marx. [*1]
2 - D'altra parte, è indiscutibile che la prima sezione del Manifesto del Partito Comunista si apre con l'affermazione che «La storia di ogni società fino ai giorni nostri è la storia delle lotte di classe» [*2]. Tuttavia, è necessario fare diverse osservazioni su questa affermazione. In primo luogo, non è strettamente equivalente alla formula generalmente utilizzata dal commento: è infatti descrittiva, piuttosto che analitica, e la storia stessa deve essere intesa come il periodo su cui i resoconti scritti danno conto, e non come la sostanza del futuro delle società umane [*3]. In secondo luogo, si colloca all'interno di un testo il cui statuto non è strettamente teorico: il Manifesto è un documento di propaganda e, per quanto sia una propaganda di ottima qualità, e direttamente radicata nella teoria, il suo rigore è subordinato alle necessità dell'azione rivoluzionaria.
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Regalo di Mazzucco a Israele
di Fulvio Grimaldi
Un video del giornalista investigativo denuncia Hamas creatura consapevole di Israele. Peccato che i file di Wikileaks e l’evidenza politica e materiale dicano il contrario
Massimo Mazzucco è un valido giornalista-regista investigativo. I suoi lavori, Il presunto allunaggio, l’autoattentato dell’ 11 settembre, il mega-imbroglio Ucraina, meritano le nostre standing ovations. E’ un amico, per quanto distanziatosi, forse in seguito ad alcune divergenze su interpretazioni dei fatti. Con il video sul 7 ottobre dell’attacco di Hamas ha, a mio avviso, indebolito la sua credibilità. Volente o nolente, il suo è stato il ricorso a uno dei classici sistemi messi in campo per demolire l’onorabilità e la verità di un protagonista della lotta contro il Potere.
E aggiungo una considerazione cruciale. Fosse anche fondata la tesi di un Hamas prezzolato a suo tempo e poi lasciato fare il 7 ottobre e quindi spinto nella trappola – e NON lo è - , diffonderla ora, per amore di scoop alla Fracassi, a detrimento dell’onorabilità e dell’integrità del cuore della resistenza palestinese e umana, significa assumersi una pensate responsabilità
Lo si è fatto molte volte e io ne sono stato testimone, in particolare al tempo delle guerre all’Iraq. Saddam Hussein, da sempre l’antagonista più coerente e pericoloso per americani e Israele, andava distrutto moralmente ancora prima che militarmente.
Si fece credere a un’opinione pubblica, che ne stava sostenendo la causa antimperialista e antisionista e costituiva massa critica nell’opposizione internazionale a contrasto della guerra (ricordate i milioni in piazza detti “La Terza Potenza Mondiale”?), che, dopotutto, il presidente iracheno aveva delle vergogne da occultare: era stato “l’uomo degli americani” i quali lo avevano armato per decenni e, in particolare, contro l’Iran. Quindi, agli occhi del suo popolo e dei suoi sostenitori internazionali, doveva risultare un inaffidabile doppiogiochista, al quale non andava concessa nessuna solidarietà.
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Ebrei o sionisti? Decidete!
di Algamica
La manifestazione del 5 ottobre a Roma è stata grande nonostante la campagna terroristica fatta dalla stampa, in modo martellante quella dei fogliacci di destra.
In quella manifestazione esponevamo un cartello: «Ebrei o sionisti? Decidete »! Un cartello che ha incuriosito perfino la nota giornalista Giovanna Botteri che ha voluto intervistarci, alla quale abbiamo esposto il suo significato e alla domanda: «ma allora non credete nella possibilità di due popoli due Stati»? abbiamo risposto che: «è l’insieme dell’Occidente che non ha mai voluto uno Stato per i palestinesi ed ha sempre sostenuto lo Stato di Israele e la sua azione criminale per 80 anni nei confronti dei palestinesi fino al genocidio che sta praticando in questo periodo».
Ora nonostante, ripetiamo, la campagna terroristica e il divieto della questura e del governo, ispirati dalla Sinagoga di Roma, fin da subito che era stata indetta la manifestazione, la manifestazione c’è stata, nonostante che per entrare in piazza fosse necessario essere identificati. Dunque il significato è impressionante: una volontà di esprimere a tutti i costi una condanna radicale dell’Occidente e dello Stato sionista di Israele e il sostegno alla resistenza palestinese.
Si diceva: «ma manifestare il 5 ottobre, a ridosso del 7 ottobre, ha un significato politico: vuol dire festeggiare l’azione “terroristica” compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023». Ovviamente chi ragiona in questo modo intende rimuovere in toto 80 anni di torture operate dallo Stato sionista di Israele nei confronti del popolo palestinese. A noi non interessa fare comparazione, perché se dovessimo mettere su due piatti di una bilancia ottant’anni di soprusi e il 7 ottobre 2023 non c’è alcun dubbio di dove penderebbe la bilancia.
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I Lincei e l’INVALSI: 10 domande scomode
di Redazione ROARS
Un interessante convegno linceo, dal titolo “Problemi sulla valutazione” a scuola, si svolgerà alla presenza dell’INVALSI. Ecco le nostre 10 domande: non abbiamo resistito, sperando che qualche Linceo voglia farle al posto nostro.
L’Accademia Nazionale dei Lincei è un’istituzione di rilevanza storica e culturale, considerata “la più illustre nella storia fra le moderne accademie d’Italia e d’Europa”. Sul sito dell’Accademia se ne può ripercorrere la storia: i lincei, dal nome del felino dallo sguardo acuto, simbolo della compagnia di studiosi – Federico Cesi, Galileo Galilei, Quintino Sella, Giovanbattista della Porta, per citare i più illustri – coltivarono e promossero fin dal ‘600 una rinnovata visione delle scienze, fondata sull’indagine libera e sperimentale, opposta a qualsiasi vincolo di tradizione e autorità.
L’Accademia di oggi promuove e organizza un Convegno nazionale dal titolo “Problemi sulla valutazione scolastica” (qui il programma). Ottima idea, pensiamo. Di “Problemi sulla valutazione scolastica” ce ne vengono in mente parecchi. Sfogliamo il programma. Tra diversi nomi, più o meno noti, ritroviamo alcune vecchie conoscenze.
Primo tra tutti: il presidente INVALSI, Roberto Ricci, che racconterà in apertura le sfide della scuola del futuro, viste attraverso i dati dei test INVALSI.
-il professor Matteo Viale, linguista, che tra le sue attività istituzionali annovera quella di esperto e consulente INVALSI, con cui condividemmo un interessante scambio di informazioni su chi e come vengono corretti i test computerizzati (vedi qui)
-il professor Giorgio Bolondi, matematico, storico esperto e collaboratore, in diverse tipologie di ben remunerati incarichi, dello stesso istituto INVALSI.
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Cheng Enfu. “Dialettica dell’economia cinese”
di * * * e Vladimiro Giacché
Cheng Enfu, tra i maggiori esponenti del marxismo cinese e internazionale, promotore e animatore, con riviste e forum internazionali, della più importante comunità marxista mondiale, raccoglie diversi saggi scritti negli ultimi decenni, nei quali la Cina ha compiuto – non in rottura ma in continuità dialettica con il trentennio di costruzione delle basi del socialismo dopo la conquista del potere politico (1949-1978) – uno straordinario percorso di sviluppo economico che per durata (pochi decenni) e popolazione coinvolta (oltre 1,4 miliardi di persone) non ha eguali in tutta la storia mondiale.
Preceduto da un importante saggio su Dieci punti di vista sul marxismo, questo corposo libro si snoda attraverso 7 capitoli a loro volta suddivisi in diverse sezioni: 1. Il moderno sistema economico della Cina; 2. L’economia cinese nel quadro di una Nuova Normalità; 3. I cinque nuovi concetti di sviluppo della Cina; 4. La riforma del sistema di distribuzione cinese; 5. Riforma del rapporto tra mercato e governo in Cina; 6. L’apertura graduale del mercato finanziario interno in Cina; 7. L’apertura dell’economia cinese.
Ognuna delle rilevantissime questioni inerenti l’“economia socialista di mercato” cinese viene affrontata, con approccio critico-dialettico, con analisi concreta della situazione concreta, “cogliendo la verità dai fatti”, combinando sempre rilevazione empirica e analisi teorica, senza cedimenti ad affermazioni propagandistiche o autocelebrative.
I lavori di Cheng e della sua scuola prendono le mosse dalla realtà, esaminano i caratteri di fondo e le ragioni del successo complessivo della “via cinese”, denunciano altresì limiti e rischi di alcune tendenze, proponendo correttivi, o cambiamenti di rotta.
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Il panico morale di fronte alle critiche a Israele
di Donatella della Porta
Nel pamphlet “Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica” Donatella della Porta analizza come artisti, attivisti e intellettuali solidali con la Palestina – ebrei compresi – siano stati presi di mira e accusati di antisemitismo, in particolare in Germania, per le loro posizioni critiche di Israele.
Al Festival del Cinema di Berlino 2024 (la Berlinale) il premio per il miglior film documentario è stato assegnato a “No Other Land”, opera congiunta del regista palestinese Basel Adra e del giornalista israeliano Yuval Abraham, che esamina l’impegno comune di un cittadino palestinese e un cittadino israeliano a portare alla luce le violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele nella Cisgiordania occupata. Durante la cerimonia di conferimento del premio, l’artista palestinese ha condannato i massacri in corso in Palestina e ha chiesto alla Germania di interrompere la fornitura di armi al governo israeliano (cosa che Paesi come Spagna, Irlanda e Portogallo si erano già impegnati a fare); l’artista israeliano ha denunciato la situazione di apartheid nel suo Paese e ha chiesto la fine dell’occupazione.
Quasi immediatamente politici e giornalisti tedeschi li hanno accusati di antisemitismo, hanno minacciato di togliere i finanziamenti al festival e hanno invitato il ministro verde della Cultura, Claudia Roth, a dimettersi dopo che il quotidiano Bild l’aveva accusata di aver applaudito i discorsi degli artisti. Dopo aver affermato che le dichiarazioni al gala erano “scioccamente unilaterali e caratterizzate da un profondo odio verso Israele”, il suo ufficio stampa ha affermato che la ministra aveva applaudito l’artista israeliano ma non il suo coautore palestinese. In seguito alla reazione scandalizzata alle loro dichiarazioni, entrambi gli artisti hanno ricevuto minacce di morte. Come ha dichiarato Abraham al Guardian, “stare sul suolo tedesco come figlio di sopravvissuti all’Olocausto e chiedere un cessate il fuoco – e poi essere etichettato come antisemita non è solo oltraggioso, ma sta anche mettendo letteralmente in pericolo vite ebree… Non so cosa la Germania stia cercando di fare con noi”, ha aggiunto. “Se questo è il modo in cui la Germania affronta il senso di colpa per l’Olocausto, lo sta svuotando di ogni significato”. Prima dell’inizio dell’evento, alcuni artisti si erano già ritirati dal festival, denunciando quella che consideravano una nuova ondata di maccartismo.
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Il ritorno dell’estrema destra nell’Europa (neo)liberale
di Giovanni Guerra
Il successo dei "populisti" non è la causa, ma l’effetto, della crisi della democrazia. E dato che all'orizzonte l’unico keynesismo che si profila è quello in campo militare coniugato al rigore fiscale, è prevedibile un ulteriore rafforzamento dell'estrema destra
Stimolato da alcune considerazioni del suo maestro Hegel, Karl Marx, nell’incipit del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, osservava che la «storia si present[a]» sempre «due volte», «la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». L’adagio del filosofo di Treviri descrive alla perfezione il ritorno dell’estrema destra in Europa a distanza di un secolo, lustro più, lustro meno, dalla sua prima ascesa con Mussolini (1922) ed Hitler (1933), ma anche Horty (1920), Salazar (1932), Franco (1939) e Pétain (1939), che hanno fatto precipitare il continente nel ventennio più buio della sua storia recente.
La resistibile ascesa dei populisti in Europa
Quelli erano “dittatori”, quelli di oggi sono (chiamati) “populisti”, ma non per questo sono meno pericolosi. Sollecitati da questa ricorrenza storica, e stanchi di veder versare altre lacrime di coccodrillo da parte di chi pensa che il successo dell’estrema destra sia la causa, e non l’effetto, della crisi della democrazia nel continente, sembra doveroso provare a riflettere sulle responsabilità gravanti sulle classi dirigenti liberali europee (Zielonka), nella convinzione che molte siano le colpe loro imputabili nell’aver favorito, oggi come allora, tale resistibile exploit. Non solo, forte è l’impressione che, proprio come in passato, tra l’estrema destra e l’«estremo centro» (Ali) (neo)liberale si registrino numerose convergenze, a partire, neanche a dirlo, dalla comune avversione per il socialismo (Dardot – Guéguen – Laval – Sauvêtre): a ben vedere, la prima non costituisce una “rottura” rispetto al secondo, quanto piuttosto una “inflessione” sciovinistica e politicamente illiberale di una medesima cultura basata sulla protezione del liberismo economico e dei processi di accumulazione capitalistica (Wilkinson).
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La grande rimozione
Il comunismo nel Novecento? Una sconfitta, non un fallimento
di Mauro Casadio
Ieri la prima giornata di lavori del Forum “Elogio del comunismo del Novecento”. Oggi si prosegue la mattina con la seconda e terza sessione, poi interruzione per partecipare alla protesta contro il divieto di manifestazione. I lavori riprenderanno domenica mattina con la quarta sessione.
Pubblichiamo il testo dell’introduzione ai lavori del Forum di Mauro Casadio della Rete dei comunisti
In questo nuovo cambio epocale si stanno determinando le condizioni per affrontare in modo più oggettivo la grande rimozione politica fatta, in buona e mala fede, sul movimento di classe e comunista del ‘900; necessità che si impone non solo in termini storici ma anche per le prospettive di una, ora di nuovo, necessaria trasformazione sociale. Come RdC già dagli anni ’90 sentivamo questa esigenza tanto da produrre alcune pubblicazioni, titolate “Il bambino e l’acqua sporca”, per indagare più a fondo quelle esperienze cercando, appunto, di salvare il “bambino”.
Ci fermammo, però, in quella ricerca ed elaborazione sia per nostri limiti soggettivi sia perché, nel contesto dell’affermazione globale del neoliberismo, rischiavamo di oscillare tra suggestioni ipercritiche e continuismo dogmatico vista l’impossibilità di avere verifiche certe nella realtà. Ciò non esclude che avessimo già una idea di ciò che era avvenuto e si era prodotto nelle esperienze comuniste dell’est e dell’ovest dell’Europa in particolare, luogo dal quale era partito il moto rivoluzionario mondiale del Novecento.
Se per la soggettività gli esami non finiscono mai, sul piano dell’oggettività la situazione attuale viene ora in nostro aiuto in quanto la crisi di egemonia dell’imperialismo euroatlantico ci fornisce più strumenti per concepire una nuova possibilità di cambiamento di sistema.
Certo se il capitalismo non fosse ricaduto ancora una volta nelle sue intime contraddizioni di fondo parlare del movimento comunista del ‘900 sarebbe possibile farlo solo in termini di ricerca storica, utilissima ma non di nostra diretta competenza.
La fine della “fine della storia”
Invece la fine della “Fine della Storia” ci permette di tracciare una linea rossa dalla rivoluzione Bolscevica del ’17 utile a interpretare gli andamenti del conflitto di classe internazionale, ma soprattutto definire il ruolo avuto da essa nel processo di emancipazione generale di tutta l’umanità.
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Perché la guerra?
La congiuntura economico-politico-militare
di Maurizio Lazzarato
Pubblichiamo il primo di una serie di articoli scritti per noi da Maurizio Lazzarato, volti a fare il punto sulla «guerra civile mondiale» in corso. Nella prima parte, l’autore si sofferma sul «centro che non tiene», come direbbe il poeta, ovvero sulla crisi negli Usa, cuore del potere capitalistico contemporaneo. Le crisi e le guerra che stanno distruggendo il mondo sono figlie proprio delle strategie di potere del paese a stelle e strisce.
Ricordiamo che su questi temi Maurizio Lazzarato ha scritto un libro recentemente edito da DeriveApprodi, Guerra civile mondiale?
* * * *
Il fallimento economico e politico degli USA
Un doppio, contraddittorio e complementare, processo politico ed economico è in corso: lo Stato e la politica (statunitense) affermano con forza la loro sovranità attraverso la guerra (anche civile) e il genocidio. Mentre, allo stesso tempo, mostrano la loro completa subordinazione al nuovo volto che il potere economico ha assunto dopo la drammatica crisi finanziaria del 2008, promuovendo un’inedita finanziarizzazione, altrettanto illusoria e pericolosa, come quella che ha prodotto la crisi dei mutui sub prime. La causa del disastro che ci ha portato alla guerra è diventata una nuova medicina per uscire dalla crisi: una situazione che non può essere che foriera di altre catastrofi e di altre guerre. Un’analisi di quanto sta accadendo negli Stati Uniti, il cuore del potere capitalistico, è fondamentale poiché è proprio dal suo seno, dalla sua economia e dalla sue strategia di potere, che sono partite tutte le crisi e tutte le guerre che hanno sconvolto e, tutt’ora, devastano il mondo.
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A un anno dall’attacco di Hamas, Israele spinge il Medio Oriente verso l’abisso
di Roberto Iannuzzi
L’assassinio di Nasrallah e l’offensiva israeliana in Libano potrebbero innescare una spaventosa destabilizzazione regionale. I missili iraniani su Israele ne costituiscono solo la prima avvisaglia
Il 27 settembre 2024 ha segnato uno spartiacque nella storia mediorientale. L’uccisione di Hassan Nasrallah (guida storica e carismatica di Hezbollah) a seguito di un violentissimo bombardamento israeliano ha scosso gli equilibri regionali con conseguenze difficili da prevedere.
In questo sanguinoso episodio sono rimasti uccisi anche centinaia di civili – un bilancio preciso è reso difficile dall’impossibilità di recuperare corpi letteralmente polverizzati dalla potenza delle esplosioni.
A quasi un anno da quel fatidico 7 ottobre che vide l’attacco di Hamas ad avamposti militari e insediamenti israeliani, l’eliminazione di Nasrallah ha segnato un’ulteriore escalation in un conflitto che ha ormai assunto una dimensione regionale.
Nel quadro dell’irrisolto e dimenticato conflitto israelo-palestinese, e della durissima occupazione militare israeliana, l’inaspettata azione di Hamas del 7 ottobre (la cui dinamica rimane tuttora avvolta da misteri e interrogativi) fu all’origine della devastante reazione militare di Tel Aviv che ha portato alla totale distruzione di Gaza provocando oltre 41.000 morti.
Perfino una catastrofe di queste dimensioni era stata però trasformata in routine dalla copertura parziale e insufficiente dei media occidentali, e declassata a quarta o quinta notizia sui telegiornali (quando viene citata).
Ora vi è il rischio che anche la portata dell’operazione israeliana che segna il definitivo coinvolgimento del Libano nel conflitto venga sottovalutata in Occidente. L’uccisione di Nasrallah, in particolare, e la decapitazione della leadership di Hezbollah, è ciò che ha portato i missili di Teheran nei cieli israeliani.
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L’Europa di Draghi e l’economia di guerra
di Alessandro Scassellati
Nel suo rapporto l'ex Presidente del Consiglio non propone una maggiore cooperazione a livello internazionale e un dialogo con le potenze emergenti, ma asseconda la deriva verso un mondo dominato da poli energeticamente e tecnologicamente autosufficienti, armati fino ai denti e disposti a entrare in guerra per risolvere eventuali controversie
Mentre l’Unione europea si è spostata a destra sia in Parlamento sia nella composizione della Commissione1 e si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania e altri paesi cosiddetti “frugali”) che esclude solo le spese per le armi dal computo nel calcolo del deficit2, da mesi gli alti funzionari dell’Ue fanno dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro”, ha affermato qualche settimana fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica” e a sostenere che “dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”, spendendo 500 miliardi di euro nel prossimo decennio, lavorare per costruire un esercito europeo e avere come priorità principale “prosperità e competitività”.
Non a caso, circa un anno fa, von der Leyen aveva affidato a due dei maggiori esponenti della tecnocrazia europea, campioni della visione del mondo neoliberista, Mario Draghi ed Enrico Letta, la redazione/supervisione di due rapporti complementari che avrebbero dovuto delineare, da un lato, una strategia per il futuro della competitività europea (vedi qui e qui) e, dall’altro, una strategia per il futuro del mercato unico europeo (vedi qui). Il Rapporto Draghi incorpora le analisi e raccomandazioni del Rapporto Letta, per cui nell’analisi che segue ci concentriamo sulla strategia messa a punto da Draghi e presentata ufficialmente il 9 settembre scorso.
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Elezioni USA, una guerra interna al capitalismo finanziario
di Alessandro Volpi
Alle presidenziali USA la sfida tra Harris-Walz e Trump-Vance andrebbe più adeguatamente definita come uno scontro tra il capitalismo finanziario delle "Big Three" e quello che ne vuole indebolire il monopolio. Senza scomodare la contrapposizione “Sinistra” - “Destra”
In seguito all’annuncio del ritiro di Biden dalla corsa presidenziale è emerso, con sempre maggiore chiarezza, uno scontro in corso all’interno del capitalismo finanziario statunitense. Provo a sintetizzarlo e forse anche a semplificarlo. Dopo la scelta di Vance come vicepresidente, dopo le prese di posizione di Musk, sta infoltendosi la schiera dei sostenitori – e finanziatori – di Trump. Si tratta di soggetti riconducibili a un capitalismo che prova ad arginare lo strapotere delle Big Three, cioè dei superfondi ,Vanguard, Black Rock e State Street, ormai decisamente legati ai democratici. Sia Biden sia Kamala Harris hanno avuto e hanno nel loro staff figure chiave che provengono da Black Rock. Un personaggio come Jamie Dimon, il CEO di JP. Morgan, la banca dei superfondi, blandito da Trump, è stato a lungo in procinto di essere candidato per i democratici. Il presidente della Fed, con il sostegno di Yellen, ha accompagnato le strategie degli stessi superfondi, comprando a piene mani i loro Etf [Exchange Traded Funds, fondi d’investimento quotati in borsa che seguono la performance di un in-dice: ndr].
La cordata dei trumpiani contro gli oligopoli finanziari targati “democrats”
Contro questa simbiosi ha preso corpo, come accennato, una cordata di figure che vuole utilizzare il potere politico della presidenza Trump per combattere o limitare proprio lo strapotere delle Big Three. In tale sequenza compaiono alcuni grandi fondi hedge, come quello di John Paulson, preoccupati per la progressiva emarginazione da un “mercato” normalizzato dai superfondi, alcuni petrolieri non legati direttamente ai colossi dell’energia in mano alle Big Three, come Timothy Dunn e Harold Hamm di Continental Resources, ma figurano anche miliardari di lunga tradizione come i Mellon, infastiditi dallo strapotere di Fink, e personaggi alla Bernie Marcus, il fondatore di Home Depot, un colosso da 500 mila occupati, ostile al modello fabless delle big tech che vede affacciarsi nella sua creatura, ceduta proprio a Vanguard, Black Rock e State Street.
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Cos’è la scienza?
Luca Busca intervista Carlo Rovelli
Non ha ormai più bisogno di presentazioni il professor Carlo Rovelli, assurto all’Olimpo della fisica teorica con la teoria della “gravità quantistica a loop”. Oltre agli articoli scientifici che gli hanno dato lustro in ambito accademico, il fisico ha scritto libri di divulgazione in grado di spiegare i complessi meccanismi della meccanica quantistica, e non solo, anche a chi è privo delle conoscenze necessarie.
Questa sua grande capacità esplicativa ha fatto sì che la rivista Foreign Policy lo inserisse tra i 100 «Global Thinkers» più influenti nel 2019. La sua vena “poetica” gli ha fatto valicare spesso le alte vette della scienza portandogli in dote innumerevoli premi letterari. Tra questi spiccano il Premio Galileo per la divulgazione scientifica vinto nel 2015 con il libro “La realtà non è come ci appare” e l’ultimo, nel 2024, il Premio Lewis Thomas per la “scrittura creativa”, istituto nel ‘93 dal Consiglio della Fondazione David Rockefeller.
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L.B. Una sfida quasi impossibile anche per te: in poche parole, cos’è la scienza?
C.R. La scienza…? Direi che è una cosa che fanno gli esseri umani, per cercare di capire meglio il mondo in cui sono. È una attività cresciuta lentamente, nei secoli, imparando una serie di metodi utili, come per esempio rimettere spesso in discussione le cose che crediamo di sapere, discutere, mettere le idee alla prova dei fatti, e altri.
L.B. Che rapporto hai con la fantascienza, ovviamente non mi riferisco a improbabili supereroi ma a scrittori come l’ultimo George Orwell, Isaac Asimov, Philip K. Dick, Ray Bradbury e J.B. Ballard?
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La teoria del valore di Marx: collasso, IA e Petro
di Michael Roberts
Un sito, Marxism and Collapse (M&C) ha condotto un "dialogo" con un modello di Intelligenza Artificiale chiamato Genesis Zero (GZ) il quale include «un'espansione e una confutazione» della teoria del valore di Marx. La voce umana (M&C) pone delle domande e spinge il modello di intelligenza artificiale (GZ) a discutere le inadeguatezze della teoria del valore di Marx, e a raggiungere una nuova e migliore teoria. Il sito web Marxism and Collapse può essere trovato qui, e qui si trova la loro "dichiarazione di programmatica". Mentre, le parti principali della discussione sulla Teoria del Valore di Marx, Genesis Zero - Gustavo Petro, si trovano qui
M&C sostiene che nell'analisi di Marx c'è una debolezza fondamentale secondo cui, in una merce, la cosa riguarda il duplice carattere del valore d'uso e del valore di scambio. L'addestratore umano di M&C fornisce delle domande guida in modo da far sì che GZ, di conseguenza, risponda che nella teoria di Marx c'è davvero una debolezza: vale a dire, che essa lascia fuori la natura in quanto fonte di valore. Quindi, GZ concorda sul fatto che abbiamo bisogno di modificare la teoria del valore di Marx, trasformandola in una teoria "generale" del valore che incorpori in sé il valore della "natura". Questo dibattito è stato distribuito principalmente in America Latina e in Spagna (ad esempio, nel giornale colombiano Desde Abajo), e ciò sebbene le precedenti versioni inglesi siano state ampiamente distribuite anche in diversi paesi di lingua inglese. Anche il presidente colombiano Gustavo Petro è entrato in questo dialogo, cosa che ha suscitato un notevole interesse. Petro non è solo il presidente della Colombia, ma è anche molto interessato alla teoria marxista, in relazione alla crisi ambientale e ai danni generati dal capitalismo a livello globale e in Colombia. Ed egli è desideroso di trovare un modo per poter applicare la legge del valore alla misurazione del danno ecologico e ambientale recato alla natura che viene causato dal capitale. Dal dialogo, si conclude che bisogna modificare la legge del valore di Marx in modo che essa incorpori la natura, la quale secondo lui è assente nella teoria del valore di Marx. Petro ha utilizzato le idee espresse in questo dialogo in diverse presentazioni orali.Prendiamo in considerazione l'idea che la teoria del valore di Marx sia inadeguata, incompleta e persino falsa poiché non considera la natura come fonte di creazione del valore. Però, ritengo invece che questa idea sia superflua, e che essa serva solo a indebolire la teoria del valore di Marx in quella che è la sua penetrante e convincente critica del capitalismo.
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La Meloni riceve Larry Fink (BlackRock) a Roma e gli svende l’Italia
di OttolinaTV
Nei giorni in cui l’Iran e l’asse della resistenza mandavano un messaggio chiaro e forte all’imperialismo di tutto il mondo, anche l’Italia – e, in particolare, con il suo eroico presidente del consiglio Giorgia Meloni – non ha voluto essere da meno: da poco rientrata da New York dopo aver ritirato l’infame premio di miglior atlantista dell’anno, Giorgia la collaborazionista ha infatti ricevuto a palazzo Chigi Larry Fink, il presidente e amministratore delegato di BlackRock. Il messaggio è stato chiaro: oligarchi di tutto il mondo, unitevi! E fate dell’Italia quello che volete. Nel corso del colloquio, la madre cristiana e Fink hanno infatti discusso dei possibili investimenti del fondo finanziario americano nell’ambito dello sviluppo di data center e nelle infrastrutture energetiche di supporto; e il presidente dell’amministrazione coloniale ha inoltre prospettato al fondo di investimento americano l’opportunità di investire in Autostrade e in altri settori di natura strategica. Ma i due punti principali dell’incontro sono stati la possibilità di creare strumenti finanziari specifici da parte di BlackRock nell’ambito del famoso Piano Mattei e la definizione di prestiti obbligazionari per la ricostruzione dell’Ucraina, concepiti da BlackRock e garantiti politicamente dall’Italia; Blackrock che, ricordiamolo, gestisce un patrimonio di 10 mila miliardi di dollari (il valore del PIL di Germania e Giappone messi insieme) ed è tra i primi azionisti di gran parte delle grandi aziende occidentali, Italia inclusa. Negli ultimi giorni, Giuliano vi aveva raccontato della scalata di UniCredit a Commerzbank proprio grazie alla collaborazione del fondo di investimento e del suo ingresso con una quota del 3% in Leonardo, la principale industria degli armamenti italiana; in fatto di infrastrutture, strategiche o quasi, è bene ricordare che un altro grosso attore statunitense, il fondo KKR, ha recentemente comprato la rete fissa di Telecom Italia per 22 miliardi di euro.
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Il mito antifascista degli Arditi del Popolo e del settarismo «bordighista»
Considerazioni in/attuali
di F. B.
«Ogni volta che al posto di "proletariato" leggo "popolo", mi domando quale brutto tiro si stia preparando ai danni del proletariato.»
(G. D.)
La «leggenda» degli Arditi del Popolo nasce all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, allorché – dopo che per quasi cinquant’anni quell’esperienza di opposizione armata al fascismo in ascesa era caduta nell’oblio – un fiorire di studi ad opera di giovani storici «militanti» la riportò improvvisamente in auge. Questo rinnovato interesse per una vicenda lontana e ormai da tempo dimenticata, come sempre accade, non fu casuale: esso rispondeva, infatti, all’esigenza di dotare la pratica dell’«antifascismo militante» delle formazioni della sinistra extraparlamentare di un proprio mito fondativo, da affiancare a quello ormai sbiadito e sin troppo «istituzionale» della Resistenza. L’antifascismo militante era nato per contrastare il neo-squadrismo di fascisti vecchi e nuovi, che lo stato democratico utilizzava come manovalanza cui delegare il «lavoro sporco» nella repressione delle lotte operaie e studentesche, oltre che nel quadro della cosiddetta strategia della tensione. Ma i suoi riferimenti storici, nonché l’appellativo stesso di «antifascismo», rivelano come la sua funzione, sul piano tanto pratico che ideologico, andasse oltre il terreno della semplice «difesa proletaria», e si collocasse su un piano politico ben preciso: quello della difesa della democrazia (democrazia che peraltro in quegli anni, in Italia, non fu mai seriamente in pericolo). Inoltre, esso assolse a una funzione di polizia interna al movimento, volgendosi soprattutto contro le sue correnti più radicali (i cui aderenti erano invariabilmente bollati come «provocatori fascisti» e spesso oggetto di aggressioni fisiche da parte dei «servizi d’ordine» gauchiste). Ciò non stupisce se si pensa che, seppure con sfumature diverse, la matrice di pressoché tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare era più o meno apertamente marxista-leninista.
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La strategia iraniana e il futuro del Medio Oriente
per "Egemonia" Alessandro Bianchi intervista Alberto Bradanini
"La strategia iraniana, dunque, sembra aver scelto la pazienza e il tempo lungo della storia. Israele è oggi un paese in seria difficoltà, diviso e in profonda crisi, un’economia in sofferenza (due declassamenti in poche settimane da parte di Moody’s), 5-600.000 israeliani usciti dal paese (molti non torneranno più) e altri lo faranno alla luce degli sviluppi."
La reazione dell'Iran ai crimini di Israele si è manifestata con 200 missili nella sera di martedì 1 ottobre. Decine hanno colpito obiettivi israeliani con Teheran che ha dato al mondo una dimostrazione pratica di come sia in grado di aggirare i sistemi di difesa israeliana e di come possa infliggere danni enormi alle infrastrutture civili e militari del regime di Tel Aviv. Si è trattata di una risposta moderata, mirata e in pieno rispetto della normativa di ritorsione nell'ambito del diritto internazionale. Con il regime di Israele che ha minacciato risposte sul territorio iraniano e con il tentativo di invasione in corso in Libano, i rischi di una ulteriore escalation nella regione sono enormi.
Nella "guerra mondiale a pezzetti" che stiamo vivendo, ogni teatro è strettamente interconnesso e il riscaldarsi di uno determina l'acuirsi di tensioni e apertura di altri. Per questo sono molti gli interrogativi che si manifestano oggi, nei drammatici tempi che viviamo, e abbiamo cercato risposte in una guida sicura per i lettori di "Egemonia": l'ex ambasciatore italiano a Teheran Alberto Bradanini.
Buona lettura.
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Ambasciatore dopo l'assassinio dello storico leader di Hezbollah Nasrallah, la possibile operazione di terra da parte di Israele in Libano e il lancio di razzi dell'Iran di martedì primo ottobre, come sono cambiati gli scenari nella regione?
È chiaro come il sole che l’escalation cui punta Israele attraverso massacri, aggressioni, omicidi mirati, bombardamenti da terra e dall’aria senza alcuna differenza tra militari e civili è un agire lontano anni luce dalla civiltà etica e giuridica del XXI secolo, che viola la Carta delle Nazioni Unite e i valori esistenziali di ogni essere umano.
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Nuovo brutalismo e guerra robotica
di Stefano Isola
Testo dell’Intervento di Stefano Isola alle Tre giornate contro le tecno-scienze, sesto incontro internazionale, Luglio 2024 ad Acqui Terme organizzate da Resistenze al nanomondo e pubblicato sul giornale L’Urlo della Terra, n.12, Luglio 2024
Nei territori palestinesi si consumano stragi quotidiane di donne e bambini sterminati da bombe teleguidate, di persone che muoiono di fame e che non hanno dove rifugiarsi e dove potersi curare le spaventose ferite, e tutto questo procede accompagnato da un irreale balletto di distinguo e accorate perorazioni contro tutte le aggressioni e tutti gli estremismi. Altri massacri, tra quelli che costellano la storia moderna, presentano efferatezze e numeri paragonabili, e sono stati talvolta colpevolmente ignorati per molto tempo a livello internazionale, ma sono stati tutti comunque raccontati a posteriori attraverso reportage di osservatori, giornalisti e storici. L’attuale genocidio perpetrato a Gaza dall’IDF si caratterizza come una delle peggiori voragini umanitarie della storia anche per il fatto di essere trasmesso in diretta audiovisiva, ovunque, orizzontalmente, e di essere perciò osservabile da chiunque voglia informarsi, e, nonostante questo, non solo non viene fatto quasi nulla per fermarlo, ma si continua a inviare armi micidiali per la sua perpetuazione. Per altro, il governo statunitense rifornisce ininterrottamente Israele di armi e risorse per perseguire il suo assedio criminale degli oltre due milioni di palestinesi di Gaza, assicura allo Stato dell’apartheid una copertura diplomatica presso le Nazioni Unite e distorce od oscura sistematicamente la condotta barbara dell’IDF. A causa di tutto ciò si dovrebbe parlare più propriamente di genocidio israelo-statunitense. Analoga e corrispondente situazione nella parallela guerra per procura che la NATO sta combattendo contro la Federazione Russa tramite il sacrificio dell’Ucraina, dove decine e decine di migliaia di giovani ucraini, e anche russi, hanno già perso la vita in una delirante prova di forza cinicamente spinta e finanziata ad oltranza da potenze esterne.
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“State tranquilli…”, disse la rana mentre bolliva
di Dante Barontini
La frittata è fatta. Ora tutti i protagonisti, spalleggiati dai loro alleati, rimuginano sulle prossime mosse e lanciano bellicose minacce perché “gli altri” si fermino. E’ una danza tra soggetti che hanno bisogno di mostrarsi fortissimi, ma che sanno bene cosa rischiano. Eppure la logica di guerra, da sempre, spinge ad andare un passo oltre quel che si vorrebbe e potrebbe fare…
Stavamo camminando sul bordo del baratro da almeno tre anni, ma gli opinion maker dell’establishment – tutti o quasi, senza grandi distinzioni – ci dicevano ogni giorno di non preoccuparci. “Il nemico” c’è, è cattivissimo e crudele, ma in fondo “noi” (l’Occidente collettivo) siamo troppo forti e gli facciamo paura. Ergo, la sua faccia feroce è solo un bluff da andare a vedere, come a poker. Non c’è un vero pericolo se “agiamo subito”, perché se si aspetta troppo quel nemico può diventare molto più forte.
Non ci vuole una grande perspicacia per riconoscere in questo filo di “ragionamento” la narrazione di un guitto come Zelenskij o di un genocida come Netanyahu. Lo schema è identico, il “suggeritore” anche: l’imperialismo degli Stati Uniti.
Facile anche riconoscere nel “ragionamento” il riflesso narrativo di una condizione reale: l’Occidente neoliberista è in declino, sia sul piano economico (i suoi tassi di crescita sono ormai surclassati da oltre 20 anni, se non di più) che su quello “valoriale” (il doppio standard sistematico ha reso una barzelletta la pretesa di ergersi a “faro di civiltà”). La sua superiorità tecnologica è azzoppata, e sempre più spesso deve ricorrere alle sanzioni o dazi (o peggio, come ha mostrato per anni la vicenda Huawei) per proteggere i propri marchi dalla concorrenza. E neanche questo basta più (vedi la crisi dell’auto).
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