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“Follia capitale”
di Salvatore Bravo
Il valore di un autore non è consumabile come la merce, non sono in scadenza. I grandi pensatori resistono e sopravvivono alle mode, all’idolatria accademica come all’occultamento scientemente organizzato. Le idee sopravvivono ai tempi, ai commerci, come alle tempeste ideologiche. Il caso Marx è esemplificativo, il filosofo spettralmente celato dopo l’89, oggetto di un atto di rimozione collettiva in nome del capitalismo globale, oggi è invocato per darci strumenti di lettura per una realtà sempre più incomprensibile, esposta alla fatalizzazione. Non si tratta di rendere Marx un feticcio da interrogare, anzi, ma di discernere nella complessità dell’opera, vero sistema aperto, gli strumenti interpretativi ancora validi. E’ un’operazione non facile, se si considera che solo una parte minimale dell’opera marxiana ha raggiunto una forma tale da farla giudicare da Marx degna di pubblicazione.
L’alienazione universale
Uno degli elementi fondanti che rende Marx terribilmente attuale è il concetto di “alienazione universale”. Lo sviluppo tecnologico, la capacità produttiva sempre più elevata, comportano una alienazione esponenziale, appunto “universale”. Marx era consapevole, e specialmente osservava come il progresso tecnologico implicava un’incessante regressione dei rapporti sociali. Le tecnologie di per sé, potrebbero essere slancio verso l’uscita dalla fatica, dal lavoro coatto ed alienato, ma se esse sono inserite all’interno di una struttura sociale, le cui relazioni sono di tipo verticistico e gerarchico, divengono strumento per opprimere maggiormente gli oppressi. Le tecnologie con il loro sviluppo geometrico, incontenibile, favoriscono l’assalto del capitalismo assoluto a tutto il pianeta; il saccheggio sotto l’egida del “valore in movimento”, come definiva Marx il capitale. Forme di alienazione tradizionale si sommano a nuove forme di estraniamento. Le tecnologie sono esse stesse vendute sul mercato, sostengono la globalizzazione e la produzione dell’accumulo di capitale.
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Il Venezuela, l'Italia, l'11 settembre
di Geraldina Colotti
Molte volte si è richiamata l'analogia tra gli attacchi che hanno portato al colpo di Stato in Cile, l'11 settembre 1973, e quelli rivolti contro il Venezuela oggi. E' utile ricordarlo ancora in un momento in cui il portato del Novecento torna, prepotentemente, a interrogare il modello capitalista con le sue grandi questioni aperte, sul piano concreto e simbolico.
In America latina – continente che dall'inizio di questo secolo ha dettato il passo all'Europa, culla del movimento operaio - nel mirino vi sono tre punti fondamentali per le speranze di futuro del socialismo: la rivoluzione cubana, vittoriosa e indomita dal 1959; la rivoluzione sandinista, riemersa faticosamente dalle catacombe in cui era sprofondata dopo il ritorno del neoliberismo in Nicaragua, e ora di nuovo a rischio di essere ricacciata nel baratro; e la rivoluzione bolivariana, trincea di quel “socialismo del XXI secolo” che ha voluto rinnovare quello del secolo precedente cambiandone la definizione ma non il progetto e la finalità.
In Europa, e specialmente in Italia - tornata spaventosamente indietro dal lungo ciclo di lotta rivoluzionaria, anche di guerriglia, degli anni 1970 -, sembra non ci sia fine al peggio. Sembra, addirittura, che a cantarle chiare siano componenti xenofobe o falsi sovranismi corporativi, che turlupinano le masse con la peggiore demagogia, proprio mentre affermano di essere “liberi da tutte le ideologie”.
Vale, invece, ancora, quanto scriveva Marx nel 1859: “Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”.
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Vaccini obbligatori: fenomenologia del positivismo scientista a sostegno delle politiche tecnocratiche
di Bazaar
Il dibattito sui vaccini obbligatori, e sulle misure da prendere per chi non rispetta la profilassi, infiamma da tempo.
Graziano Delrio esulta a causa dell’approvazione del decreto Lorenzin in un modo piuttosto singolare: « Ha vinto la ragione, ha vinto la scienza ».
https://twitter.com/graziano_delrio/status/1037353981994065921
Insomma, un decreto legislativo che dovrebbe essere frutto della dialettica politica intorno ai dati empirici offerti dalla dialettica scientifica, si trasforma in uno scontro politico in cui una parte – la parte finanziariamente e mediaticamente egemone – professa di promuovere prometeicamente un sapere obiettivamente vero, definito “scientifico”. Questa parte politica esprime biasimo verso la controparte, che trova perlopiù consenso in chi si informa al di fuori dal circuito mediatico mainstream, e che viene tacciata di essere “insipiente”, “ignorante” del metodo scientifico, “credulona” e affetta da “pregiudizi”: che soffre di un patologico “analfabetismo funzionale”.
Secondo Repubblica il Capo dello Stato avrebbe dichiarato che: «Nei confronti della scienza non possiamo esprimere indifferenza o diffidenza verso le sue affermazioni e i suoi risultati » e che «Non sempre l'uomo interpreta bene la parte di Ulisse alla ricerca della conoscenza e nel saper distinguere il vero dal falso ».
La Lorenzin, di cui porta il nome il decreto, avrebbe invece dichiarato che: « Si tratta di una vittoria della scienza su ignoranza e pregiudizio ».
Secondo il segretario del maggior partito dell’opposizione Maurizio Martina: «è stata battuta la loro visione oscurantista », ovvero la “visione” della controparte politica non favorevole all’obbligo vaccinale.
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ILVA: l’unica scelta libera ce l’aveva il governo
di Rita Cantalino
Prologo
È difficile scrivere qualcosa su quello che sta accadendo a Taranto in questi giorni per una ragione molto semplice: non c’è niente di nuovo. Che il popolo tarantino fosse stato sacrificato sull’altare del progresso e del profitto era un dato che avevamo acquisito già da tempo. Che ogni reale tentativo di mettere un freno a questa situazione dovesse cadere nel vuoto, lo avevamo visto nel 2012 con il decreto Salva Ilva, che mandò a farsi benedire il lavoro di indagine della gip Todisco e di fatto violò 17 articoli della Costituzione, imponendo la riapertura e la ripresa della produzione di un impianto sequestrato.
Che i tarantini debbano continuare a morire è una cosa che si dice dall’inizio degli anni ’70, quando appunto divenne palese che erano condannati a farlo. Quando cominciarono le denunce, le accuse di allarmismo e tutto quel teatrino che accompagna la difesa strenua dei territori da parte di chi li vive, e la rivendicazione del diritto a spolparli da parte di chi se ne appropria.
Chi scrive non è mai stato di parte rispetto a questo o quello schieramento politico, ha sempre voluto fare dei conflitti ambientali la lente per guardare a questo paese e alle sue contraddizioni, annoverando tra i buoni quelli che pensavano che chi abita un territorio debba decidere cosa ci accade, e che nulla debba ledere questo suo diritto e quello alla salute, e tra i cattivi quelli che invece si imponevano per sopraffare questi ultimi, per arricchirsi o arricchire qualcuno, sulla pelle di qualcun altro.
Non c’è nulla di complicato in questo, come non c’è nulla di complicato in quello che è accaduto a Taranto, dove si è consumata una scelta in questo senso da parte del governo, e dove si è consumato il tradimento da parte di chi aveva promesso di combattere il mostro e ha deciso poi di lasciarlo vincere, come sempre.
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Lavoro, patria e costituzione
di Vladimiro Giacché
Pubblichiamo l'intervento di Vladimiro Giacché all'assemblea di presentazione dell’associazione “Patria e Costituzione” tenutasi a Roma l'8 settembre 2018
L’incontro di oggi ruota attorno a 3 parole: lavoro, patria e Costituzione.
L’idea di fondo è che oggi il lavoro (gli interessi dei lavoratori) possa essere difeso soltanto attraverso un patriottismo costituzionale.
La patria di cui parliamo oggi ha una specifica genesi e una specifica configurazione storico/istituzionale: è la Repubblica nata dalla Resistenza antifascista e contro l’invasore nazista, una Repubblica che ha per l’appunto la Costituzione (i valori cui si ispira, i diritti che rende esigibili) quale architrave istituzionale e stella polare delle sue leggi e dell’operato dei suoi organi statuali.
Dire questo oggi, e soprattutto praticare una politica conseguente, non è più scontato. Non lo è da anni, in verità.
Il primo motivo di questo è lo svuotamento/negazione della Costituzione da parte dei Trattati europei e della legislazione che a essi si ispira.
Un esempio tra i molti possibili: il recepimento nella nostra legislazione della sola Unione bancaria europea pone in discussione (nega) ben 3 articoli della Costituzione:
- l’art. 43, che in coerenza con l’importanza attribuita al settore pubblico dell’economia dalla Costituzione, prevede la possibilità di espropriare “a fini di utilità generale” (con indennizzo) “imprese o categorie di imprese…che abbiano carattere di preminente interesse generale”;
- l’art. 47, secondo il quale la Repubblica tutela il risparmio “in tutte le sue forme”, e quindi senz’altro nella forma di deposito di conto corrente;
- e, se passerà la cosiddetta riforma delle banche di credito cooperativo prevista dalla L. 49/2016, anche l’art. 45, il quale prevede che “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”.
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“Dialettica o eclettismo?”
Un’anticritica
di Eros Barone
«Amico, non veniamo per Callia e non siamo sofisti. Forza, apri! Siamo venuti per vedere Protagora. Digli che siamo qui!»
Platone, Protagora, 314, c-e.1
Ringrazio innanzitutto Fabrizio Marchi per avermi offerto la preziosa e stimolante opportunità di sviluppare e approfondire il discorso a partire dai punti di consenso e di dissenso che egli ha espresso, sia pur sinteticamente, nella nota dedicata ad alcuni aspetti cruciali del dilemma “Dialettica o eclettismo?” qui , che ho posto al centro del mio articolo qui, laddove non può sfuggire l’importanza teorica e il carattere dirimente di tale dilemma sia nell’analisi scientifica che nell’orientamento pratico del movimento di classe. Seguirò quindi, nella mia disàmina, l’ordine di successione adottato da Marchi nella sua nota.
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Il ‘metodo delle etero-integrazioni’ e l’autonomia teorica del marxismo
Prima di entrare nel merito delle questioni poste dal mio interlocutore, ritengo opportuno premettere alcune considerazioni generali e di metodo. Orbene, è un classico ‘topos’ della cultura borghese di sinistra, al quale mi sembra che anche Marchi in qualche misura soggiaccia, distinguere tra un marxismo ‘critico’ ed ‘aperto’ e un marxismo ‘dogmatico’ e ‘chiuso’. Questa distinzione è stata spesso assunta e fatta propria da un buon numero di marxisti i quali, non avendola basata sui propri princìpi, cioè in sostanza non avendola ritradotta in un linguaggio rigoroso, hanno finito col mutuarne tutto il contenuto ideologico di origine: ciò è avvenuto non solo in Occidente, ma anche negli stessi paesi socialisti, quantunque lì la ricezione del ‘topos’ sia avvenuta ‘a posteriori’, cioè per opporre il nuovo ‘Diamat’ al vecchio ‘Diamat’. In realtà, la suddetta ricezione si è sempre realizzata, in un senso o nell’altro, sull’onda di una qualche ‘criticità’ del pensiero borghese, da integrare in quello marxista.
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Usa, la mistificazione dei fondamentali economici
di Zosimo
Negli USA il clima di euforia sull’andamento economico nasconde la ripida crescita della diseguaglianza e della povertà
L’attuale stato dell’economia statunitense evidenzia bene lo stridente contrasto tra indicatori positivi (PIL, disoccupazione, consumi, profitti) presi in considerazione dal pensiero economico dominante e altri indicatori trascurati che testimoniano la crescita di povertà e disuguaglianza, la stagnazione dei salari e il deterioramento delle condizioni di lavoro.
Negli ultimi tempi sulla stampa mainstream americana è un continuo succedersi di dati, informazioni e analisi che celebrano l’andamento positivo di tutti i principali indicatori macroeconomici, i quali dimostrerebbero quindi di uno stato di grazia dell’economia statunitense.
Il 2008 e la fase della crisi sembrano quindi ormai un lontano ricordo e neanche le incertezze e l’apparente instabilità politica determinata dalle tensioni attorno all’amministrazione Trump riescono tuttavia a scalfire quella che, leggendo i bollettini quotidiani, appare una vera e propria cavalcata trionfale.
Come siamo abituati ormai da decenni, gli indicatori economici che stanno sempre al centro dell’attenzione degli economisti e degli analisti sono soprattutto il PIL, il tasso di disoccupazione, i tassi di interesse e il tasso di inflazione.
Il PIL del primo semestre 2018 è cresciuto del +4,1% ad un tasso annualizzato, un valore che non si raggiungeva dal 2014 e che porta la Casa Bianca a toni trionfalistici, attribuendolo soprattutto alle politiche adottate con l’avvento della Presidenza Trump, in primo luogo la riforma fiscale, che ha tagliato le aliquote individuali soprattutto in favore delle fasce di reddito più elevate e che ha dimezzato l’imposta sul profitto d’impresa (19% invece del 35% precedente).
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Su "Patria e Costituzione"
di Gianpasquale Santomassimo
Qui di seguito, autorizzati dall'autore che ringraziamo, il testo della relazione del prof. Gianpasquale Santomassimo (già docente di storia presso l'Università di Siena) per "Patria e Costituzione"
Ci troviamo probabilmente all’interno di una vera e propria rivolta popolare in atto nel continente. Che si esprime nelle forme pacifiche di un sommovimento elettorale e che tende ad assumere, per la disastrosa politica delle sinistre tradizionali, una forte connotazione di destra, dal punto di vista politico e culturale.
E’ un esito che non giunge per la verità inatteso, che viene dopo un quarto di secolo di impoverimento costante, di erosione tangibile delle garanzie dello stato sociale, di stagnazione permanente e di perdita di prospettive credibili per le generazioni più giovani. Assistiamo a una gigantesca sostituzione di rappresentanza sociale, che vede i ceti popolari cercare spesso a destra protezione e sicurezza (sicurezza che è una dimensione globale, che significa in primo luogo sicurezza del lavoro e nel lavoro, sicurezza sul terreno della salute e dell’assistenza, e che solo in ultima analisi significa anche tutela dell’ordine pubblico). Una inversione di ruoli e di rappresentanza di ceti e di stili di vita, raffigurato plasticamente da tutte le analisi del voto degli ultimi anni, che hanno contrapposto benestanti soddisfatti dei centri cittadini a popolo delle periferie che esprimeva un bisogno al tempo stesso di ribellione e di protezione. E lasciando alla sinistra la rappresentanza di un ceto medio più o meno riflessivo, fatto di benestanti soddisfatti degli esiti provvisori della globalizzazione e dei diritti civili acquisiti.
Ma quel segno prevalente di destra non è univoco: dove esiste una nuova sinistra degna di questo nome, essa prende le distanze dai miti dell’ultimo trentennio e partecipa in forma autonoma alla lotta contro l’establishment europeo. Anche dalla sua capacità di incidere dipenderanno gli esiti finali di questo processo.
La sinistra italiana purtroppo non fa parte di questo quadro.
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Libia-Siria: per chi tifano, per chi tifare
di Fulvio Grimaldi
Amici, anche stavolta siamo lunghi. Perdono. Comunque per 15 giorni sono fuori e, dunque, c’è tempo per piano piano farcela. Se credete
Diciamocelo: che bravi governanti sono quelli di Al Qaida e Isis!
Per chi tifano in Siria quelli là (non fatemeli nominare sennò Facebook mi banna e cancella il post) non è difficile saperlo: basta leggere il “New York Times”, standard aureo del giornalismo perennemente degno dei riconoscimenti, se non di Pulitzer, di Reporters Sans Frontières (il corrispettivo mediatico di Medicins Sans Frontières e altrettanto cari a quelli là). Se pensavamo che nella provincia nord-occidentale di Idlib si fossero concentrati, accolti, nutriti e armati dai vecchi padrini turchi, tutti i tagliagole Isis e Al Qaida generosamente fatti evacuare dai territori e dalle città da loro abbellite con croci appesantite da infedeli, o con pelli di corpi scuoiati di dissidenti, la lettura del “New York Times” ci libera dall’intossicazione di simili fake news.
L’autorevole giornale che, se non fosse stato per l’assist della CNN, dei media di obbedienza atlantista con, nel nostro piccolo, il “manifesto”, ci avrebbe con le sue sole penne liberato da Milosevic, Saddam, Gheddafi, Assad e dai Taliban, rettifica quella che finora e per troppo tempo, quasi otto anni, è stata un’informazione falsa, bugiarda, truffaldina. Assad, con quegli hackers e troll delle ingerenze urbi et orbi russe, con quegli spiritati di flagellanti sciti, iraniani e hezbollah, voleva farci credere, col supporto di chilometri di audiovisivi fabbricati, raffiguranti giustizieri cha spellavano vivi innocenti, li incendiavano, o li annegavano in gabbie o li crocifiggevano, o ne sposavano a ore le donne, che il suo paese era stato invaaso, non da oppositori democratici assistiti dalla “comunità internazionale”, bensì da un branco di ossessi islamisti attivati da una “comunità internazionale” in preda a psicopatia stragista. Come pretendeva fosse successo in Libia e, poi di nuovo, in Iraq.
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Un socialismo possibile. Per aprire un dibattito - parte I
di Gianbattista Cadoppi
All’amico, compagno e maestro Domenico Losurdo[1].
Considerazioni sui sistemi socialisti in URSS, Est Europa e Cina
La formazione della teoria del socialismo alla cinese ha usato proprio il marxismo come linea di guida, facendo un bilancio dell’esperienza e delle lezioni dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est europeo, e anche della stessa esperienza di costruzione del socialismo in Cina nel periodo ‘49-’78, prendendole come base per la formazione di questa teoria.
Huang Hua Guang, responsabile per l’Europa Occidentale del Dipartimento Esteri del Partito Comunista Cinese (Ceccotti, 2010)
Il socialismo marxista differisce da altre impostazioni di tipo sociale come il fabianesimo[2] inglese che rifiutano il capitalismo esclusivamente per ragioni etiche. Il socialismo marxista dovrebbe superare i sistemi precedenti anche, e soprattutto, in termini di razionalità economica.
Nel marxismo la superiorità etica del socialismo va di pari passo con la sua superiorità economica. L’emancipazione umana nel socialismo diventa una premessa per liberare le forze produttive da obsoleti rapporti di produzione che devono essere superati per l’emancipazione dell’umanità. Tutto ruota attorno ai rapporti di produzione. In altre parole, la proprietà sociale dei mezzi di produzione dovrebbe garantire a ogni membro della società il diritto di un accesso equo alle decisioni concernenti il modo in cui i mezzi di produzione vengono impiegati e al modo in cui i frutti di tale impiego sono distribuiti. La proprietà sociale dovrebbe stabilire un rapporto adeguato tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La socializzazione dei mezzi di produzione renderebbe il lavoro direttamente sociale giacché nel capitalismo lo è solo indirettamente essendo mediato dal profitto individuale (Brus; Łaski, 1989).
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Spread: come uscire dalla trappola
di Leonardo Mazzei
Mazzei ci spiega, con parole chiare, chi c'è dietro la trappola spread, come nacque; come e con quali misure è necessario e possibile uscirne
Il tema non è nuovo. E' lì da sette anni, da quando servì ad intronizzare Monti, portando l'Italia sulla china di un declino di cui ancora non si vede la fine. No, il tema non è nuovo, ma è di nuovo attualissimo. Il signor spread torna a presentarsi non solo come il supremo regolatore delle scelte economiche, ma come l'autentico dittatore dell'eterno "stato d'eccezione" in cui l'Italia si è cacciata entrando nell'euro.
Torneremo a breve sulle alterne vicende che ci stanno portando al decisivo snodo della Legge di Bilancio. Vicende che vedono un triplo e complicato confronto: tra il governo e l'Unione Europea sui numeri del bilancio 2019; tra M5s e Lega sulle priorità dei provvedimenti da adottare; tra questi due partiti e la Quinta Colonna dei poteri sistemici all'interno dell'esecutivo (Tria, Moavero, ecc.) sul grado di compatibilità (politica, oltreché economica) dell'intera manovra. Di certo a nessuno sfuggirà come, in questa triplice partita, la vera arma delle forze euriste sia fondamentalmente lo spread.
Meno di un mese fa segnalammo come i veri eroi dell'attuale opposizione fossero nientemeno che gli speculatori, cioè appunto i "signori dello spread". La novità è che mentre allora sembrava che quest'arma dovesse servire a disarcionare Conte, oggi - avendo valutato l'assenza di alternative politiche - essa viene sapientemente usata dal blocco dominante per condizionare le mosse della maggioranza governativa, imbrigliandola così di fatto in estenuanti mediazioni al ribasso. Vedremo nelle prossime settimane fino a che punto questa operazione avrà successo, ma di certo questo è il problema: la dittatura dello spread, il suo potere condizionante quando non apertamente eversivo.
A due anni dalla storica sconfitta del disegno anticostituzionale di Renzi, la democrazia italiana è di fronte ad una minaccia più subdola, ma più grave.
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Il sistema conteso
L'eredità hegeliana tra Gramsci e Gentile
di Emiliano Alessandroni
Nelle pagine dei Quaderni del carcere Gramsci afferma in più di un'occasione come la filosofia di Croce e Gentile – indipendentemente da quanto essi stessi ne dicano – lungi dal costituire l'erede della filosofia hegeliana, esprime un ripiegamento sull'unilateralità idealistica che espunge la dimensione più viva e concreta del filosofo tedesco, per dare luogo ad una sorta di «hegelismo addomesticato»1, ovvero ad una revisione conservatrice di Hegel:
È da vedere se il movimento da Hegel a Croce-Gentile non sia stato un passo indietro, una riforma «reazionaria». Non hanno essi reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica?...Tra Croce-Gentile ed Hegel si è formato un anello tradizione Vico-Spaventa-(Gioberti). Ma ciò non significò un passo indietro rispetto ad Hegel2?
Scongiurando un tale arretramento, una tale controriforma reazionaria, Gramsci indica nel marxismo, ovvero nella filosofia della praxis, l'autentica eredità dell'hegelismo, scagliandosi con veemenza contro tutte le generalizzazioni indebite suscettibili di soffocare in categorie astratte e formali le specificità e le scissioni concrete – come avviene di norma nel neoidealismo, e segnatamente in Gentile:
Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima risultava dall’insieme dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in polemica tra loro, in contraddizione tra loro.
In un certo senso, pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione3.
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Quattro tempi della storia per Domenico Losurdo
di Alessandro Visalli
L’ultimo capitolo dell’ultimo libro del filosofo marxista Domenico Losurdo, scomparso questo anno, su “Il marxismo occidentale” si pone una domanda di straordinaria difficoltà, ma di grande rilevanza in questa fase nella quale l’ultima versione del capitalismo sta mostrando tutta la sua ferocia e capacità di creare continuamente nuovi e creativi modi per creare periferie da sottoporre a saccheggio e isole di sfruttamento coloniale in ogni luogo, anche entro le ex opulente società del ‘primo mondo’.
Il punto di partenza di Losurdo nel suo libro è che la storia del novecento è andata in modo ben diverso da quanto il modello astratto di Marx ed Engels prevedevano in ultima analisi perché la dialettica interna alla società borghese è stata neutralizzata dalla forza maggiore che spingeva il capitalismo alla espansione coloniale. Spinta che ancora si manifesta e che, anzi, si manifesta ovunque sempre più forte. La contraddizione tra l’espansione delle forze produttive e la sua appropriazione limitata, che avrebbe dovuto portare al socialismo, è rimasta senza effetti. Al contrario il marxismo occidentale ha ovunque perso la propria capacità emancipativa, riducendosi o ad un generico progressismo (che si accontenta del tempo che chiamerà del “futuro in atto”, ovvero della capacità del capitalismo borghese di dissolvere i rapporti sociali tradizionali, sostituendoli con rapporti “razionalizzati”, ovvero rapporti sociali tra cose), o ad un altrettanto generico messianesimo (che salta direttamente, e in modo meramente enunciativo, dal “futuro in atto”, che rigetta solo nominalmente, al “futuro remoto”, avvolto nella nebbia dell’utopia). Ciò che ha squalificato la prospettiva marxista occidentale, e quindi la sua carica emancipativa, è il rifiuto di fatto della transizione reale, ovvero del tempo nel quale si crea un “futuro prossimo”. Ovvero il tempo nel quale lo Stato non va dissolto ma usato, in cui le classi esistono e bisogna farci i conti (anche con le necessarie alleanze), in cui la pressione esterna richiede di organizzare le forze.
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Ma come funziona il M5s e perché vince?
di Aldo Giannuli
A molti il M5s sembra un evento inspiegabile come la “ venuta degli Ixos” e se ne chiedono il perché del successo. Proviamo a spiegarlo ragionando per punti.
1. Il M5s non viene dal nulla: è il figlio (o il nipote) dell’ondata populista nata nei primi anni novanta ad opera di Pannella, Occhetto e Segni portatori di uno schema politico plebiscitario, simil-presidenzialista basato su soggetti fluidi raccolti intorno ad un leader. La Seconda Repubblica è nata ed ha vissuto all’insegna del populismo, ha poi avuto una ulteriore svolta, con l’attuale iper populismo, per il mix fra la comparsa del media ultra-populista, il web e la crisi finanziaria del 2007-2008.
2. Il M5s non è un fenomeno solo italiano: si pensi al Fn francese, ad Afd in Germania, all’Ukip in Inghilterra ecc. Considerato che l’Italia è il paese occidentale che ha più sofferto della crisi e che più stenta a riprendersi, non stupisce che sia il paese nel quale le formazioni iper populiste (Lega e M5s) siano quelle con i risultati elettorali più alti. In comune con le altre formazioni iper populiste il M5s ha la critica della politica in quanto attività separata dalla società civile, il mito dell’autosufficienza del popolo, che non ha bisogno di èlite, il carattere post ideologico, l’organizzazione poco strutturata.
3. Ma il M5s ha proprie peculiarità. Al suo sorgere, esso ha avuto caratteristiche anti-sistema e si è autoproclamato “né di destra né di sinistra” in nome della critica alla democrazia rappresentativa e a favore della democrazia diretta (che, a voler essere pignoli, è una ideologia di sinistra). In verità, esso ospitava confusamente idee tanto di destra quanto di sinistra con una prevalenza di questi ultimi, che ne hanno fatto una cosa ben diversa dal Fn francese o da Afd tedesca. Ma la diversità fondamentale è data dalla Casaleggio Associati, che è un pezzo a sé del progetto del suo fondatore Gianroberto Casaleggio, come strumento per realizzare la democrazia diretta.
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Attualità di Marx. Che cosa possiamo dire di nuovo sulla Scienza dal punto di vista del materialismo storico?
di Angelo Baracca
Nella ricorrenza del bicentenario della nascita di Marx si stanno ovviamente moltiplicando le iniziative a livello internazionale, nazionale e locale. Non devo certo esprimere la mia convinzione che dall'elaborazione di Marx ci siano ancora tantissimi insegnamenti da trarre. La vera sfida è di trarre spunti fecondi sui temi più scottanti oggi sul tappeto. Non ho l'ambizione di fare questo, ma vorrei dare un contributo su un campo che probabilmente non sarà al centro dei temi trattati, ma sul quale mi sono personalmente impegnato per quattro decenni e che ritengo sempre più cruciale oggi: il tema della Scienza. Intendo la Scienza capitalistica, quella cioè che venne fondata (schematizzo brutalmente) nei secoli XVII-XVIII e divenne con il decollo della Rivoluzione industriale del XVIII secolo uno dei cardini, sempre più imprescindibili, della Società industriale e del capitalismo. E qui sono convinto che ci sia ancora moltissimo da trarre da Marx.
La Scienza, in tutte le sue manifestazioni, informa sempre più tutti gli aspetti non solo della produzione e della distribuzione, ma della vita sociale e individuale. Questi sviluppi sempre più radicali e pervasivi sembrano avere anestetizzato la maggior parte delle persone le quali, nell'illusione di acquisire attraverso tecnologie sempre più sofisticate capacità a poteri eccezionali, non si rendono più conto di essere (anche) strumenti sempre più passivi e dipendenti dalla prossima innovazione che verrà introdotta, e per la quale viene sapientemente costruita l'aspettativa. Inutile dire che in questo meccanismo ha assunto un ruolo esorbitante la pubblicità, che pervade in modo incontenibile tutti gli aspetti della nostra vita, utilizzando molto frequentemente slogan che non hanno nessun fondamento, quando non sono palesemente infondati.
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“L’Europa è sull’orlo dell’abisso”
Mathieu Magnaudeix intervista Joseph Stiglitz
In un’intervista a Mediapart, il celebre Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz si preoccupa del perseguimento dell’austerità nella zona euro. Si allarma anche delle politiche di Donald Trump e dell’esplosione delle disuguaglianze, dieci anni dopo la crisi finanziaria del 2008. Più che mai, sostiene di “aumentare i salari”, regolare la finanza e lottare contro i “monopoli”
Dieci anni dopo la crisi del 2008, a che punto è la regolamentazione finanziaria? Membri dell’ICRICT [Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation, ndt], una commissione indipendente create da tre anni che propone soprattutto di riformare la tassazione delle multinazionali, illustri economisti e sostenitori di una regolamentazione della finanza si sono riuniti martedì 4 settembre a New York. Tra questi, lo specialista dei paradisi fiscali Gabriel Zucman, professore all’università californiana di Berkeley, l’eurodeputata ecologista Eva Joly, o l’economista indiana Jayati Ghosh, venuta ad esprimere i suoi timori di vedere la bolla di indebitamento dei paesi emergenti “scoppiare presto, forse da quest’anno”.
Anche lui, membro dell’ICRIT, il celebre Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, professore alla Columbia University e precedente capo economista alla Banca Mondiale, ha risposto alle domande di Mediapart.
* * * *
Panama Papers, Paradise Papers, Swiss Leaks, LuxLeaks, Malta Files, etc. Dalla crisi del 2008, grandi inchieste internazionali hanno provato la portata dell’evasione fiscal nel mondo. Ma la situazione è veramente cambiata?
La crisi finanziaria del 2008 non è stata provocata dai paradisi fiscali, ma è abbastanza notevole constatare la piena luce che ha proiettato su questi. Ed è una buona cosa! Grazie al lavoro di investigazione di giornalisti del mondo intero, ci si è resi conto della magnitudine dell’evasione fiscale, ma anche dell’elusione fiscale, che priva gli Stati di risorse essenziali. Le restrizioni fiscali che hanno seguito la crisi hanno peraltro accresciuto questa presa di coscienza e reso l’opinione pubblica molto sensibile a queste questioni.
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Terza questione di geopolitica: il “cuore della terra” sul fronte orientale
L’ipotesi di Russasia
di Uber Serra e Giorgio Gattei
1. Dal duello al “triello”.
A dar retta a diversi commentatori, all’ultimo incontro di Helsinki del 16 luglio 2018 Donald Trump avrebbe dovuto aggredire Vladimir Putin rinfacciandogli (almeno) l’occupazione della Crimea e l’intervento militare in Siria. Se così si fosse comportato, Trump avrebbe agito come l’ennesimo combattente “da guerra fredda” sopravvissuto alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Invece Trump non ha agito così, quasi consapevole (lui o i suoi spin doctors) che l’equilibrio geopolitico è ormai mutato e la vecchia logica della contrapposizione bipolare tra USA e URSS è superata. Le cose si sono fatte più complicate e la situazione va considerata in modo nuovo.
La logica della guerra fredda è stata quella di un duello in cui chi spara per primo vince. Tuttavia nella realtà di quella guerra nessuno dei due antagonisti ha potuto pensare di “buttare la bomba atomica” per primo perché la ritorsione immediata sarebbe stata devastante anche per lui, il che ha consentito, ad esempio, di chiudere per via di telefono (sic!) la pericolosissima crisi di Cuba del 1962. Eppure quel duello è finito, ma come mai? Solo perché l’Unione Sovietica si è fatta esplodere una bomba atomica tra i piedi (a Chernobyl, in Ucraina, nel 1985), dopo di che è stata per lei tutta una frana fino all’ammaina-bandiera rossa dal Cremlino nel 1991. Così il “nemico americano” è rimasto unico e vincitore, sebbene questo “dominio unipolare” sia durato ben poco se già nel 1999 a Mosca era arrivato un Vladimir Putin (ex KGB) intenzionato a riportare alla dignità militare un paese fin troppo umiliato dalla NATO, mentre nel 2001 Washington ha dovuto accettare l’ingresso di una Cina “rossa” nella Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) pur di avere un alleato in più nella “crociata” contro il fondamentalismo islamico attentatore alle Torri Gemelle di New York.
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“A proposito di…”
di Elisabetta Teghil
[…] La socialdemocrazia non va
a caccia di farfalle.
Il nemico marcia in testa a te
ma anche alle tue spalle.
Il nemico marcia con i piedi
nelle tue stesse scarpe.
Quindi anche se le tracce non le vedi
è sempre dalla tua parte[…]
Claudio Lolli-La socialdemocrazia- da “Disoccupate le strade dai sogni”
Gli appelli all’unità antifascista e antirazzista che si sono moltiplicati recentemente dopo la formazione del nuovo governo concentrano la loro attenzione su aspetti emotivi, specifici e circoscritti omettendo che la mentalità e la visione del mondo di stampo nazifascista è veicolata proprio dal neoliberismo che in Italia trova il suo referente nel PD che si è proposto e lavora per naturalizzare qui da noi la società neoliberista improntata per quanto si proclami “moderna”, a valori feudali, ottocenteschi e nazisti.
Definire la società impostata e voluta dal Pd in questi anni come fascista, definire il PD come fascista non è un insulto banalmente usato nelle situazioni più disparate, e dallo stesso PD tra l’altro, quando si vuole tacitare un avversario politico, ma risponde all’analisi di quello che il Pd ha messo in atto, di come ha trasformato il sociale, di come ha costruito un comune sentire improntato a valori corrispondenti ai principi dell’ideologia fascista.
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Elezioni europee. Rompiamo il falso schema “europeisti versus nazionalisti”
di Dante Barontini
L’orizzonte delle europee e la crisi della governance Ue
Non siamo degli appassionati del rito elettorale, ma per la prima volta la scadenza di solito più inutile – le elezioni europee – assume un valore strategico.
E’ quasi sorprendente, visto che tutta la costruzione dell’Unione Europea è stata pensata per congelare dentro trattati di fatto non modificabili (se non all’unanimità, ossia mai) rapporti di forza temporanei e indirizzi di governance in grado di vanificare eventuali risultati elettorali divergenti in qualche singolo paese.
Come spiegava il cerbero Wolfgang Schaeuble in una riunione dell’Eurogruppo, “non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19 e, se ogni volta che c’è una elezione, cambia qualcosa i contratti tra noi non significherebbero nulla”.
Tutta la costruzione, però, poggiava su una maggioranza politica che sembrava eterna: la grosse koalition su scala continentale tra “popolari” e “socialisti”. Ancora nel 2009 questa coalizione sfiorava i due terzi dei seggi a Strasburgo e quindi garantiva che qualsiasi scelta fatta nella formazione della Commissione (il “governo” europeo, quello che fa le leggi e le “raccomandazioni”, che controlla/contratta la stesura delle “leggi di stabilità” nazionali, ecc), o nel Consiglio Europeo, venisse approvata senza problemi.
I primi scricchiolii sono stati avvertiti già nel 2015, quando la maggioranza è scesa al 54%, mentre cresceva l’opposizione di destra che andava al governo in alcuni paesi, ed ora è diventata un protagonista problematico in quasi tutti. Esisteva anche un’opposizione di sinistra, molto variegata quanto ad orientamenti, ma politicamente ininfluente o subordinata ai “socialisti”.
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Sogni e realtà
di Carlo Galli
Proponiamo questo intervento di Carlo Galli non solo per la sua spietata critica della cosiddetta "sinistra liberal" di cui il PD è il principale rappresentante nel panorama politico italiano, ma anche perchè molte delle sue argomentazioni possono essere pertinenti anche a buona parte della cosiddetta sinistra "radicale"
Se il Pd è un partito di sinistra, e se la sua rinascita è indispensabile alla rinascita di questa, allora c’è poco da stare allegri: il suo orizzonte è infatti diviso fra chi non ammette alcun errore e incolpa i cittadini di avere sbagliato a votare, chi vuole cambiare nome come se non si dovesse anche cambiare politica, e chi, come Veltroni non trova nulla di meglio che identificare la sinistra con il «sogno» e la «speranza».
Nel momento di più cupo smarrimento e di più evidente mancanza di strategia, si propone quindi come soluzione della crisi lo stile politico che l’ha generata: uno stile sovrastrutturale, centrato sulla comunicazione e sull’illusione mediatica – al più, corretto dall’ammissione che il Pd non ha saputo stare «vicino a chi soffre», detto con un linguaggio che ricorda più la beneficenza che la politica –; uno stile lontano da ciò che è veramente la sinistra: teoria e prassi, analisi e lotte, materialismo e realismo, disegno di una società futura che parte dall’assunto che la struttura economica, e la cultura che la esprime, è conflittuale e non neutrale, e che quindi la liberal-democrazia non è una universale panacea formalistica che realizza l’accordo di tutti i cittadini ma il risultato, in equilibrio dinamico e precario, di tensioni e di contraddizioni che non si possono togliere né superare in «narrazioni» e in «visioni».
Come lascia assai poco a sperare la decisione – che accomuna il Pd a molta opinione “progressista” – di cercare la via d’uscita dalla impasse politica nella sempre più acuta polemica “antifascista” contro il governo; una mossa che esprime una lettura “azionista” cioè moralistica – o, se si vuole, “liberal” – della politica, a cui la sinistra dovrebbe preferire la analisi storica ed economica sullo stile di Gramsci. Non lo sdegno ma la comprensione dei processi è il solo inizio possibile se la sinistra vuole avere qualche chance di non scomparire.
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Immunità di legge
di Il Pedante
Il 25 settembre uscirà nelle librerie per i tipi di Imprimatur Immunità di legge. I vaccini obbligatori tra scienza al governo e governo della scienza (ISBN 8868307510), un lavoro che ho firmato con Pier Paolo Dal Monte a commento dei dibattiti sollevati dal Decreto Lorenzin sull'estensione e l'inasprimento dell'obbligo vaccinale in Italia.
Chi segue questo blog sa che il tema, affrontato già in altri articoli (qui e qui in modo specifico), mi è caro non solo per l'urgenza dei pericoli che rappresenta una «cessione di sovranità» sui propri corpi a un complesso politico ed economico sempre più disperatamente dedito alla concentrazione dei poteri e alla compressione di libertà e diritti per alimentare un modello di sviluppo ormai inequivocabilmente distruttivo, ma anche perché in esso si incarna con una limpidezza senza precedenti, direi in modo quasi finale, il nodo politico di una democrazia incompresa, mal tollerata e declinante.
Nella prima parte del libro, di cui sono autore, si ripercorrono e si contestualizzano le tappe di una reciproca invasione di campo orchestrata da politici, mezzi di informazione e commentatori, tra scienza e governo, dove la prima è stata imbracciata come testa d'ariete per creare spazi interdetti al metodo democratico (ad es. «il tema dei vaccini dovrebbe stare fuori dalla campagna elettorale») in deroga al primo articolo della nostra Carta, mentre il secondo, nominalmente subordinato al principio «superiore» di un preteso consenso scientifico elevato a totem, umiliava a sua volta il metodo della scienza negandone la complessità e lo statuto necessariamente aperto a ipotesi diverse e divenienti.
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Il razzismo, malattia permanente del capitalismo
di Ascanio Bernardeschi
Il capitalismo usa il razzismo per perpetuarsi e per colpire la classe lavoratrice. Per combatterlo non basta l’atteggiamento umanitario ma serve la coscienza di classe che individui il vero nemico
Il razzismo, per quanto abominevole, non è, almeno nella nostra era, una malattia sociale, ma è un carattere fisiologico delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, in quanto costituisce una potente leva per fare profitti e per dividere le classi lavoratrici. Per questo, quando se ne presenta l’opportunità, viene scientemente iniettato in dosi massicce nel corpo della società.
Il compianto Domenico Losurdo [1], ha già ampiamente documentato come, fin dagli albori del capitalismo, l’ideologia liberale abbia elaborato una sorta di la de-umanizzazione delle razze indigene come pretesto e giustificazione delle colonizzazioni delle loro terre e dell’intensivo sfruttamento del loro lavoro. Tra i tantissimi intellettuali da lui citati, c’è l’economista apologetico borghese John Stuart Mill, il quale, mentre elogiava la libertà occidentale, sosteneva che “il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari»¡”. Lo stesso Tocqueville, considerato un campione della democrazia, predicava la supremazia occidentale e il rischio di una “misce generation”, cioè la mescolanza di diversi gruppi razziali, per cui si rendeva necessario tenere ben distinta la razza superiore bianca da quelle inferiori, considerate alla stregua di animali parlanti. Lo stesso nazismo e il manifesto della razza fascista trovano i loro precedenti in questa tradizione liberale: un razzismo che non si limitava a de-umanizzare i neri e gli ebrei, ma anche i popoli slavi, così come oggi avviene nei confronti di altri popoli che ci interessa colpire.
Anche la deportazione e la messa in schiavitù dei neri africani per farli lavorare fino allo stremo e senza alcun diritto nelle piantagioni americane necessitava del razzismo quale sovrastruttura ideologica ideale.
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Gallino, l'euro, lo spread, Salvini, Visegrad
L'impotenza della sinistra europeista
di Enrico Grazzini
Luciano Gallino aveva denunciato i disastri prodotti dalla subordinazione dello stato al mercato, spiegando come uscire dalla gabbia dell’euro e dell’austerità senza rompere l’Unione europea. Una lezione inascoltata dalla sinistra italiana, che continua a difendere questa Europa liberista in nome di un europeismo acritico e illusorio. Con il rischio di consegnare così milioni di elettori alla destra xenofoba e anti-europeista.
La sinistra alternativa che quattro anni fa aveva promosso la lista Tsipras, anche con l'aiuto e l'adesione del compianto Luciano Gallino – senza alcun dubbio lo studioso più profondo e critico della sinistra –, non può certamente riproporre quello stesso progetto di uscita dall'austerità che molti (come me) considerano del tutto fallimentare, o che comunque, nella migliore delle ipotesi, certamente non può più costituire un riferimento esemplare! Dopo la capitolazione greca di fronte alla Troika (UE, BCE e FMI) oggi la sinistra europea e soprattutto quella italiana non hanno ancora elaborato una proposta credibile per l'Europa e per l'euro. Il problema è che la sinistra italiana non vuole neppure discuterne e si chiude nei suoi dogmi. Così si assume la pesante corresponsabilità di consegnare milioni di elettori alla destra xenofoba e anti-europeista.
La famigerata Troika non ha lasciato la Grecia, anche se formalmente ha terminato il suo programma di aiuti; il debito pubblico greco è ancora al 180% del PIL, e il programma europeo di austerità continua incessante sia nell'Ellade che in Italia e negli altri paesi dell'eurozona (a parte ovviamente la Germania). La Grecia è sotto il controllo straniero. La Banca Centrale Europea tuttora non include l'Ellade nel suo piano di Quantitative Easing perché giudica ancora insolvente lo stato greco. Mario Draghi non considera affidabili i titoli di debito greci, che non quindi sono sostenuti dalla BCE.
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Seconda questione di geopolitica: il “cuore della terra” al fronte sud
di Uber Serra
Nella prima puntata di questa inchiesta sullo stato attuale della narrazione geopolitica autentica (quella di H. Mackinder, per intenderci) s’è detto che per essa c’è un luogo privilegiato del pianeta il cui governo consentirebbe il dominio del mondo: è questo il “cuore della terra” (o Heartland) che coincide con la Russia nella estensione delle steppe dal Dniepr alla Kamciakta. Però la Russia è stretta dal Mar Glaciale Artico a nord e dalla fascia dei deserti asiatici a sud, sicché per esercitare il pieno controllo sul pianeta dovrebbe spingere la propria supremazia su una di quelle “terre di confine” (poi dette Rimlands dal geopolitico americano Nicholas Spykman) che la circondano ad ovest (Europa e Balcani), a sud (Medio Oriente e Persia) e a est (Cina e Corea) e che si affacciano, per l’appunto, sui mari caldi. Proprio per evitare tanta jattura Mackinder aveva affidato, al suo tempo, alle due isole dirimpettaie al continente euroasiatico, la Gran Bretagna e il Giappone, il compito strategico di “salvare” il mondo dalle mire planetarie di Mosca, un compito però che dopo la seconda guerra mondiale, avendo tradito il Giappone il suo “dovere” geopolitico ed essendosi esaurita la Gran Bretagna a sua difesa, è stato assunto su tutti i fronti dai più robusti e onnipresenti Stati Uniti d’America. Ed è questo il “destino” americano che perdura tuttora sebbene l’URSS sia scomparsa, e questo perché la Russia è cattiva non perché zarista, sovietica o quant’altro, ma perché geopoliticamente resta comunque il “cuore della terra”.
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Questa società è troppo ricca per il capitalismo!
di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle
La casalinga sveva e i parassiti della società
Due posizioni apparentemente inconciliabili caratterizzano la controversia politica su come vada affrontata la crisi. Mentre gli uni, per rilanciare la crescita economica, vogliono ancora continuare sempre ad aprire le valvole monetarie ed applicare dei nuovi programmi congiunturali, gli altri difendono un rigoroso orientamento all'austerità. I due campi pretendono che, nel caso venga applicato il loro piano, la crisi potrà essere superata, e che il modo di produzione capitalistico potrà essere ripristinato su delle solide basi. Si potrebbe pensare che ancora una volta stiamo assistendo al vecchio dibattito che opponeva l'orientamento keynesiano a quello liberale, un dibattito cui nel secolo passato abbiamo assistito tante volte. Ma dove il sistema di riferimento a tale controversia viene meno, in quanto la crisi indebolisce in maniera irrevocabile le basi della produzione della ricchezza capitalistica, ecco che la cosa degenera in sinistra farsa. Tuttavia, i protagonisti non se ne rendono nemmeno contro, oppure riescono benissimo a fare finta di niente. Continuano ad interpretare instancabilmente lo stesso spettacolo, mentre la scena sotto i loro piedi appare essere sempre più decrepita. Il conflitto fra le loro visioni non rimane tuttavia senza conseguenze, poiché, anche se nessuno dei due piani è in grado di offrire un'uscita dalla crisi, nondimeno assegnano il loro carattere alla gestione di tale crisi, e quindi anche alle ripercussioni concrete che tali misure hanno sulla società.
In Germania, la politica di austerità gode tradizionalmente di un favore particolare. Si sente dire dappertutto che la società avrebbe «vissuto a spese dell'avvenire», e che nel presente si tratta di dover fare delle economie.
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