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Introduzione al Manifesto del Partito Comunista*
di Stefano Garroni
Com’è ben noto il Manifesto fu scritto da Marx ed Engels su commissione della Lega dei comunisti, organizzazione londinese, che però raccoglieva anche lavoratori di altri paesi e che aveva una consistente rete di rapporti internazionali.
Lo scopo dell’opuscolo – perché di questo si trattava – era di propagandare un unitario orientamento politico, che fosse, nello stesso tempo, capace di rinserrare le file dei più decisi e combattivi rivoluzionari europei, come anche di fornire a quell’orientamento uno spessore storico e teorico. Insomma, si trattava anche – e forse fondamentalmente – di organizzare un effettivo argine contro il dilagare, nel movimento rivoluzionario, di orientamenti utopistici, spesso costruiti su ispirazioni di tipo francamente religioso e, generalmente, tanto roboanti sul piano verbale, quanto inconcludenti su quello effettivamente pratico e politico.
Ricordiamo che tutta la vicenda si ambienta nel 1848, in un’epoca, dunque, ricca di fermenti rivoluzionari, ma pure caratterizzata ancora dal fatto che il movimento proletario e persino gli ambienti rivoluzionari più solidi, mancano di una propria autonomia teorica, non sanno discriminare adeguatamente tra le critiche alla società presente che esprimono i rimpianti delle classi tramontate; e quelle, invece, che rappresentano un nuovo punto di vista, legato al moderno proletariato di fabbrica.
È' un’epoca, dunque, di incertezze teoriche, che si esprimono sia in oscillazioni politiche, sia nella proclamazioni di tesi francamente utopistiche e spesso “colorate” – lo ripeto – in senso religioso e sentimentale.
La battaglia per dare al movimento rivoluzionario un orientamento teorico diverso, che fosse fondato dal punto di vista critico-scientifico, già aveva visto nettamente impegnati sia Marx che Engels: l’incarico, dunque, ottenuto dalla Lega dei comunisti era anche una loro personale vittoria. Tuttavia, il compito assegnato era sempre – e solo – quello di scrivere un opuscolo agitatorio. Ricordare ciò può sembrare bizzarro, quasi si insistesse su un’ovvietà.
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Dialoghi europei
di Alessandro Visalli
Una conversazione a margine di un post su Facebook a volte può avere interesse se la distanza tra i suoi protagonisti è appropriata e si muove in un quadro di rispetto. In queste circostanze l’interazione produce arricchimento reciproco. In questo caso i protagonisti del dialogo sono tre e l’innesco, rapidamente superato è la questione dell’immigrazione. Il post iniziale aveva acceso un ramo di discussione nel quale, ad un certo punto, un interlocutore ha richiamato lo slogan dominante nell’area culturale della sinistra liberale: “solidarietà, accoglienza, integrazione”, da tradurre nella politica di aprire i confini senza se e senza ma (ovvero senza badare alle conseguenze). Il ‘padrone di casa’ a questa dichiarazione ha opposto che occorre, invece, “frenare i flussi, e combattere lo sfruttamento degli immigrati che sono già in Italia”, ciò “sia per ragioni di giustizia che di difesa degli stessi lavoratori italiani”.
Il movimento del dialogo inizia da qui, e da una mia replica a questa opposizione tra aprire senza limiti e frenare. Precisamente in risposta alla dichiarazione del globalista che combattere lo sfruttamento significa aprire i confini:
Visalli. “E' l'esatto contrario, l'immigrazione (economica, ovvero il 90 %) è un fenomeno in buona parte autoalimentato. Il flusso dell’immigrazione dipende dal divario di reddito percepito tra il paese ricevente e quello di partenza e in modo decisivo dallo stock di migranti precedente che non si è integrato. In particolare la dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’, che non si distribuisce molecolarmente ma si concentra in specifici luoghi e si densifica per omogeneità a causa di meccanismi sociali di reciproco sostegno) dipende dalla trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi.
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Resistenza: una lotta dimenticata e una vittoria tradita
di Armando Lancellotti
Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90
Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea Gustav e della Linea gotica, ha conosciuto poi una sostanziale sconfitta politica subito dopo il 25 aprile e la Liberazione del paese dal fascismo e dall’occupazione nazista.
Nelle considerazioni iniziali ed introduttive, così come in tutto il romanzo, risuona l’eco delle analisi di Claudio Pavone, tanto quelle che articolano la Resistenza sui tre piani della “guerra patriottica”, “di classe” e “civile” e che a inizio anni Novanta – all’uscita del suo Una guerra civile – hanno suscitato soprattutto a sinistra accese discussioni, poi ampiamente superate, quanto quelle che dettagliano lo scontro “civile” all’interno del Paese dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 come una contrapposizione tra la continuità con il passato e la rottura con esso, tra chi avrebbe desiderato mutare in profondità le strutture economico-sociali e la basi giuridico-politiche di un’Italia finalmente repubblicana che usciva dal ventennio fascista, dai suoi crimini e dalle sue guerre e coloro che, abbandonato il regime al suo ineluttabile destino, auspicavano una sostanziale continuità tra il vecchio e il nuovo Stato.
Per Cecco Bellosi, come per Pavone, la continuità con il passato fascista e la conservazione dello Stato pre-repubblicano hanno prevalso nettamente sulle istanze di rinnovamento e di trasformazione di cui il movimento partigiano si era fatto portavoce e per le quali aveva coraggiosamente combattuto.
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Sartre, Recalcati, la fine delle ideologie e l’autobus 37
di Maria Teresa Fenoglio
Per celebrare gli 80 anni della uscita di una delle più note pubblicazioni di Sartre, il romanzo “La Nausea”, Recalcati si esprime, nelle pagine di Repubblica (2 agosto 2018) a favore dell’incontro con la specifica realtà dell’Altro, in tutta la sua concretezza esistenziale, polemizzando con le ideologie umanistiche che ci allontanerebbero da un incontro conturbante.
“Ci vuole un tremore, una vertigine, uno squarcio per riaprire i nostri occhi di fronte alla Cosa informe dell’esistenza”. Proseguendo afferma: “Sartre sferra dei colpi mortali ad ogni forma di retorica umanistica: l’umanitaresimo comunista, socialista, cattolico, insomma ogni filosofia dei valori si schianta contro la Cosa dell’esistenza che la nausea rivela bruscamente nella sua pura contingenza. Una marmellata di buoni sentimenti rischia di nutrire la cultura dei diritti e dei valori cosiddetti universali.” E poi continua dicendo che “l’infima particolarità dell’esistenza” viene sublimata in forme ideologiche (Recalcati sembra identificarle tout court con quelle di destra) che, negando l’alterità, portano alla xenofobia. La conclusione è la seguente: “Perseguendo il valore assoluto dell’Uomo, lo sguardo dell’umanesimo retorico perde di vista la singolarità degli uomini”. Rimango profondamente turbata dai salti concettuali di Recalcati, dalle citazioni di un libro così profondo e significativo per la sua epoca, “La Nausea” di Sartre, decontestualizzato e utilizzato in relazione a scenari del tutto mutati; sconcertata infine da conclusioni che sembrano condurre artatamente il lettore al rigetto di ciò che, in parole più plebee e sicuramente meno accattivanti e colte, viene chiamato “buonismo”.
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Come si sviluppa una coscienza rivoluzionaria
di Renato Caputo
La centralità dei consigli e di un partito organizzato per cellule nei luoghi di lavoro come vettori per la formazione della coscienza di classe
La classe operaia in quanto tale, il proletariato in sé, sono privi di coscienza di classe. Il feticismo, la reificazione, il lavoro alienato, caratteristici del modo di produzione capitalistico, non riducono solo la forza-lavoro a una merce, ma fanno sì che lo stesso proletario si consideri una merce “che stabilisce, col gioco della concorrenza, il proprio prezzo, il proprio valore” [1]. In tal modo il salariato non è ridotto dalla reificazione del modo di produzione capitalistico unicamente a una merce in sé – almeno durante tutta la parte preminente della propria giornata e della propria esistenza in cui si aliena cedendo al capitalista l’uso della propria capacità di lavoro –, ma lo diviene anche per sé, ossia tende ad autoconcepirsi come tale. Il sindacato, tendendo a unificare i lavoratori di un determinato settore che svolgono generalmente la medesima o un’analoga professione, non solo non favorisce la presa di coscienza del lavoratore come membro della classe produttrice di tutta la ricchezza della nazione, ma al contrario “contribuisce a rinsaldare questa psicologia, contribuisce ad allontanarlo sempre più dal suo possibile concepirsi come produttore, e lo porta a considerarsi ‘merce’” (44).
Al contrario il proletariato sviluppa una coscienza di classe, superando l’alienazione prodotta da una sempre più accentuata divisione del processo produttivo, – “l’operaio può concepire se stesso come produttore”, osserva a ragione Gramsci, – “solo se concepisce se stesso come parte inscindibile di tutto il sistema di lavoro che si riassume nell’oggetto fabbricato, solo se vive l’unità del processo industriale che domanda la collaborazione del manovale, del qualificato, dell’impiegato d’amministrazione, dell’ingegnere, del direttore tecnico” (44). A tale scopo diviene essenziale il consiglio di fabbrica in cui i diversi salariati che contribuiscono alla produzione possono sentirsi come parte necessaria e indispensabile di un tutto, di una totalità, che costituisce il fondamento del processo produttivo.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. VIII
Prosit! - 干杯 ! Larghe intese lungo l’asse Pechino – Berlino
di Paolo Selmi
I brindisi lungo l’asse Berlino-Pechino si sprecano: ne hanno entrambi di ben donde1 . Se la Cina è la “locomotiva del mondo”, la Germania è la “locomotiva d’Europa”… come si sente dire spesso. La quota di PIL tedesco sul totale UE è pari al 27,4%, la Bundesbank è l’azionista di maggioranza relativa della BCE,
- entrambe non a caso con sede a Francoforte,
- entrambe costruite su un identico modello di indipendenza dal potere esecutivo (modello tedesco di autonomia del bancario dall’esecutivo vs. modello francese che subordina il primo al secondo, con un elemento peggiorativo a livello comunitario in termini di controllo democratico in quanto, se per cambiare una norma a regolamento dell’attività della Bundesbank, basta la maggioranza del Parlamento tedesco, in quello europeo vige la legge dell’unanimità)2 .
Torniamo ora a livello continentale: EU da una parte, RESTO DEL MONDO dall’altra. Ecco alcuni dati recenti: nel 2017 le esportazioni dall’Unione Europea (EU-28) sono state pari a 1879 miliardi di euro, le importazioni invece pari a 1856 miliardi, con un saldo attivo di 23 miliardi di euro (un modesto utile operativo, tradotto in termini di economia spiccia, dell’1,23%… ma almeno in attivo da 5 anni a questa parte, a differenza degli anni passati)3 :
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Nella bufera del Novecento
recensione di Nerio Naldi*
DE VIVO G. (2017), Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Roma: Castelvecchi, pp. 170.
Pubblichiamo la recensione del prof. Nerio Naldi, che da tempo è il "biografo ufficiale" di Piero Sraffa, al volume di Giancarlo De Vivo dedicato a Sraffa e Gramsci, già da noi recensito su Micromega con un commento successivo di Ernesto Screpanti. Ringrazio il prof. Carlo D'Ippoliti e Moneta e credito per l'autorizzazione.
Il libro di Giancarlo de Vivo contribuisce alla ricostruzione di aspetti fondamentali delle biografie di Piero Sraffa e di Antonio Gramsci e delle vicende che li legarono negli anni in cui Gramsci fu in carcere. In questa breve esposizione ci soffermeremo su quattro temi che il libro approfondisce nei suoi due capitoli principali e nelle loro appendici.
Il primo tema è la ricostruzione del ruolo di tramite fra Gramsci e il centro estero del Partito Comunista d’Italia (PCI) svolto da Sraffa negli anni in cui Gramsci fu in carcere. In questo ambito, il contributo del libro di de Vivo consente di confutare affermazioni, non documentate, che in anni recenti sono arrivate a descrivere Sraffa come un funzionario del Partito Comunista d’Italia o dell’Internazionale Comunista preposto alla sorveglianza di Gramsci, come persona di cui lo stesso Gramsci non si fidava, o addirittura come un carceriere anziché come un amico di Gramsci. de Vivo individua elementi decisivi che consentono di ricostruire la linea di condotta di assoluta fedeltà a Gramsci tenuta da Sraffa anche a fronte della posizione critica che lo stesso Gramsci aveva assunto sul modo in cui i dirigenti del PCI avevano gestito i rapporti con lui, il capo del partito, rinchiuso in carcere. In particolare, le ricerche di de Vivo consentono di concludere che Sraffa, come esplicitamente richiesto da Gramsci, non trasmise al centro estero del PCI le copie delle due lettere cruciali che questi aveva inviato a Tatiana Schucht il 5 dicembre 1932 e il 27 febbraio 1933, chiedendo che restassero riservate per lei e per “l’avvocato” – ovvero per Piero Sraffa.
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Razzista (d)a chi?
di Fulvio Grimaldi
La guerra del linguaggio rovesciato di chi ha perso potere, ragione e analisi. Cosa c’è dietro la mitopoiesi dei migranti
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Scusate la citazione d’esordio, bassamente sovranista, al limite del nazionalismo, certamente populista, con impliciti accenti di razzismo.
Parola d’ordine: daje al razzista!
Va bene, mettiamo le mani avanti, prima che mi si rovesci addosso una parte dello tsunami di livore-rancore-odio-fake news con cui la componente criminale dell’attuale classe dirigente uccidentale e il mercenariato dei suoi portantini politici e mediatici cretinopportunisti (in Italia tutta e tutti, escluso qualcuno che oggi sta al governo e chi l’ha votato) sta cercando di esorcizzare quanto capitatogli il 4 marzo e quanto di pur modesto (ma per loro funesto) glie ne è derivato. Per la prima volta, dalla guerra, il popolo ha populisticamente e sovranamente mandato a casa, al diavolo, la dinastia dei regnanti ladri e mafiosi. E questi hanno sbroccato e urlano.
Le mani avanti sono tre: primo, questo non è il mio governo, preferisco quelli di Robespierre e della Comune di Parigi, al limite quello di Fidel prima che se ne andasse il Che; secondo, ritengo i condizionamenti della Lega sul piano economico, ambientale, delle Grandi Opere, dell’amministrazione locale in perfetta continuità con i devastatori neoliberisti destrosinistri e la cultura linguistica del suo leader una sciagura; terzo, è dal 1966 che mi occupo senza soluzione di continuità di coloro dei quali viene ululato che sono vittime del razzismo di questo governo e, alla fin fine, degli italiani che questo governo hanno votato e, toh!, continuano a sostenere in numeri crescenti.
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Il ruolo dell'imperialismo italiano
di Giuliano Cappellini
Premessa
L’imperialismo è un sistema di conservazione sociale sia nei paesi che controlla, sfrutta e ai quali impedisce lo sviluppo, sia in casa propria perché lo sfruttamento di quei paesi serve a conservare quegli equilibri sociali interni che consentono alle classi dominanti di rafforzare le proprie posizioni. Limita perciò lo sviluppo economico e sociale anche nelle metropoli imperialiste.
Non è difficile verificare nella storia d’Italia la relazione complementare tra lo sviluppo socio-economico e l’influenza dell’imperialismo nazionale sulla politica del paese: dove aumenta l’uno diminuisce l’altro e viceversa. Il libro “In ricchezza ed in povertà”1 di Giuseppe Vecchi, professore di Economia Politica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, è un importante lavoro di ricostruzione scientifica e di divulgazione che ci consente ora di disporre delle serie storiche italiane, dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, che mostrano i tanti aspetti in cui si esprime lo sviluppo di una società. Specialmente (ma non solo) le serie del reddito e della sua distribuzione suggeriscono una divisione della storia italiana in pochi grandi periodi in cui si rilevano dinamiche più o meno uniformi e diverse da quelle degli altri periodi. Tale periodizzazione ci consente perciò di comprendere le caratteristiche di fondo della politica italiana diverse anch’esse tra periodo e periodo, e l’influenza che su questa ha avuto l’imperialismo “made in Italy”.
Nel grafico seguente2 , della serie del Pil per abitante,
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Aporie della ‘dipendenza’ e ‘sviluppo ineguale’ tra Inghilterra, Irlanda e Russia
La ricerca/azione di Marx ed Engels
di Eros Barone
Dopo lunghi anni trascorsi a studiare la questione irlandese, sono giunto alla conclusione che il colpo decisivo contro le classi dirigenti inglesi (e sarà decisivo per il mondo intero) non può essere sferrato in Inghilterra ma soltanto in Irlanda.[Lettera di Marx a Sigfried Meyer e August Vogt, 9 aprile 1870]
La rivoluzione comincia in Oriente, là dove finora si trovava l’intatto baluardo e l’armata di riserva della controrivoluzione.[Lettera di Marx ad Albert Sorge, 27 settembre 1877]
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1. La questione irlandese
Per situare correttamente la ricerca/azione sulla possibilità della rivoluzione socialista in Inghilterra, ricerca/azione che vide fortemente impegnati Marx ed Engels nel periodo intercorrente fra gli anni ’60 e gli anni ’80 del XIX secolo, è necessario delineare una periodizzazione della storia politico-sociale dell’Irlanda, in quanto proprio in questa isola, come prima Engels e poi Marx arriveranno a concludere, si trovava la chiave di quella possibilità.1
In tal senso, si possono individuare tre fasi principali della lotta di classe in Irlanda, fermo restando che il comun denominatore di questa lotta è il legame inscindibile tra l’istanza della liberazione nazionale e la questione agraria. Che questo sia il comun denominatore risulta infatti con estrema evidenza dal fatto che oppressore nazionale e oppressore di classe si identificano in una stessa figura, quella del grande proprietario terriero inglese, talché la chiave della “questione irlandese” va ricercata proprio nella questione agraria.
Orbene, la prima fase, caratterizzata dalla rivendicazione dell’autonomia, va dal 1825 al 1843 ed è dominata dalla personalità dell’avvocato Daniel O’Connell, leader di un’alleanza che comprendeva la borghesia cattolica irlandese e il partito ‘whig’ inglese.
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Superare la crisi italiana
di Enrico Grazzini
La proposta di Dosi, Minenna, Roventini, Violi, e il progetto alternativo di emettere Titoli di Sconto Fiscale accettati dalla BCE
Anche se i grandi giornali non ne scrivono, ormai le istituzioni europee e i governi di Germania e Francia si aspettano la crisi finale dei conti pubblici dell'Italia e il commissariamento del nostro Paese. A Berlino e a Parigi si stanno già preparando alla crisi italiana. I politici tedeschi e francesi non vorrebbero che il peggioramento del nostro debito pubblico provocasse il crollo dell'intera eurozona. Hanno già messo al lavoro i loro economisti per elaborare i “piani B” per commissariare l'Italia e “risanare” le nostre finanze pubbliche imponendo un'austerità ancora più dura. In Italia invece si stanno elaborando faticosamente delle proposte alternative per evitare la crisi finale e affrontare il problema del debito pubblico. Di queste nuove proposte mi occuperò in questo articolo, chiarendo però fin dall'inizio che alcune sono inapplicabili e altre sono efficaci.
L'impressione è che si avvicini l'ora della verità per l'economia e la politica italiana. Lo spread è aumentato dopo le ultime elezioni. Il problema è che il debito pubblico italiano continua ad aumentare. I mercati finanziari, Bruxelles e Berlino, attendono al varco la Legge di Bilancio che il ministro dell'economia Giovanni Tria sta elaborando. Molti nell'eurozona sperano che il nuovo governo giallo-verde porti l'Italia al fallimento per potere banchettare sulle sue rovine.
In questa condizioni è praticamente impossibile che Tria riesca a inaugurare politiche espansive e possa realizzare il programma di governo (reddito di cittadinanza e flat tax). Considerando i vincoli imposti dallo spread e da Bruxelles, Tria non può tagliare le tasse e aumentare la spesa pubblica. Se il governo non avvierà iniziative nuove e originali, non potrà avviare la svolta espansiva di cui il Paese avrebbe bisogno.
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Il fondamentalismo occidentale
di Domenico Losurdo (a cura di Emiliano Alessandroni)
Solo in seguito a una più profonda conoscenza [...]
l'elemento logico si eleva [...] fino a valere non già
semplicemente come un universale astratto, ma
come l'universale che abbraccia in sé
la ricchezza del particolare
Hegel - Scienza della Logica
Il testo che segue unisce brani tratti dal volume di Domenico Losurdo, Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana (Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 48-78). Si è qui deciso di riproporli in quanto appaiono particolarmente rilevanti per la fase storica che stiamo attraversando. L'Occidente registra infatti, da qualche tempo, l'assenza di una sinistra capace di rendersi promotrice di un Universale concreto (cfr. su ciò D. Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014).
La reazione all'Universale astratto promosso dal liberalismo viene pertanto condotta dall'iniziativa delle destre, siano esse sociali o postmoderne, che per propria vocazione tendono a ripiegare lo sguardo su un'astrattezza egolatrica e particolaristica. È quest'ultima a scolpire oggi, in Europa e negli Usa, le forme della critica al liberalismo. Alla prospettiva cosmopolita di un mondo senza Stati e sans frontières che l'ideologia anarcocapitalista insegue, fanno fronte gli arroccamenti identitari e i tradizionalismi localistici, all'insegna di miti genealogici spontanei che sorreggono fisionomie sociali gelose e protettive. L'ideologia dell'imperialismo statunitense, a seconda dei governi e delle circostanze storiche, tende a muoversi su questi due fronti, oscillando tra cosmopolitismo e tradizionalismo, tra Universale e particolare astratto. Pur avversi tra loro essi risultano ancora più ostili all'Universale concreto, che ha bisogno di superare entrambe le unilateralità per realizzarsi.
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Guerra al terrorismo o al mondo arabo?
Intervista all'American Herald Tribune
Paul Craig Roberts
AHT: Lei crede che nessun accordo con Washington possa essere ritenuto degno di fiducia; che cosa ci insegna la storia a questo proposito?
PCR: C’è una maglietta con la scritta: “Certo che puoi fidarti del governo, chiedi agli Indiani.” Alcuni governi sono più degni di fiducia di altri. Reagan, per esempio, aveva detto che avrebbe posto termine alla stagflazione e lo ha fatto. Reagan avevava detto che avrebbe terminato la guerra fredda e lo abbiamo fatto. Eisenhower ci aveva messo in guardia sul pericolo che rappresentava per la democrazia il complesso militare industriale, e noi abbiamo ignorato l’avvertimento.
Sembra che, quando c’è la possibilità di ritagliarsi grosse fette di potere e il governo è nelle mani di persone che perseguono programmi politici occulti, questi programmi vengono portati avanti con l’inganno. Per esempio, la “guerra al terrore” è in realtà una guerra contro quei paesi mussulmani che hanno una politica estera indipendente dai voleri di Washington e di Israele; è una guerra alle libertà civili degli Stati Uniti, ma è anche una guerra a quelle nazioni del Medio Oriente che ostacolano l’espansionismo territoriale di Israele. Ma Washington finge che sia una “guerra per la democrazia,” una “guerra per la libertà dal terrorismo, “ ecc.
I Russi hanno imparato, o avrebbero dovuto farlo, che, per Washington, nessun accordo è significativo. Quando la Russia aveva acconsentito alla riunificazione della Germania, le era stato promesso che la NATO non si sarebbe spostata di un centimetro verso est, ma l’amministrazione Clinton ha portato la NATO fino alla frontiera con la Russia. L’amministrazione Bush ha buttato nel cesso il trattato Anti-ABM e la Russia è ora minacciata dalle batterie dei missili antibalistici che si trovano a ridosso dei suoi stessi confini.
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La guerra civile è già cominciata?
di Riccardo Paccosi
Il "pericolo fascismo" rappresentato dai populisti, il ""perisolo fascismo" rappresentato dai liberal: un'analisi comparativa. Premessa: la "guerra civile", almeno nei presupposti, è già cominciata
Avverto un clima ch’è ormai di degenerazione assoluta e, dunque, scrivo qualche ultima riga prima di prendermi un’ossigenante pausa dall’ambito mefitico e velenoso del dibattito politico. La polarizzazione ideologica tra sinistra liberal e blocco populista, sta infatti assumendo connotazioni che – in termini di logica di fondo – sono già oggi, a tutti gli effetti, di guerra civile.
Agli albori della Seconda Repubblica, qualcuno notò la situazione di degenerazione costituzionale e democratica venutasi a creare. Una degenerazione ch’era dovuta a ragioni culturali, nonché alle nefaste “riforme” in senso bipolarista delle istituzioni.
Quando nel 1994 si delinearono le due polarità dell’arco politico-istituzionale, infatti, ci trovammo dinanzi a un centrodestra che paventava il “pericolo comunista” e a un centrosinistra che paventava l’avvento d’una “destra golpista”.
A differenza di tutti gli altri paesi d’Europa, dunque, la distruzione per via giudiziaria dei partiti costituenti del Dopoguerra aveva creato, in Italia, una situazione ove il mutuo riconoscimento democratico tra le forze politico-parlamentari veniva improvvisamente a mancare. In ragione di questo clima da “guerra civile strisciante”, da allora, l’Italia divenne il paese europeo più somigliante, sul piano della polarizzazione politica interna, agli Stati Uniti d’America.
Oggi, conclusa l’esperienza della Seconda Repubblica e avviatasi una fase di transizione che ancora non lascia intravedere i contorni della Terza, assistiamo a una fase di degenerazione ulteriore. In questo nuovo ciclo storico, il mutuo riconoscimento democratico è allo zero assoluto e l’odio conseguente fra le due polarità in cui è suddivisa l’opinione pubblica ha ampiamente sopravanzato, in intensità, quello del ventennio berlusconiano.
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La rivolta degli elettori
di Alessandro Visalli
Andrew Spannaus, “La rivolta degli elettori. Il ritorno dello stato ed il futuro dell’Europa”, ed. Mimesis, 2017
Il libro di Andrew Spannaus, giornalista ed analista americano che si occupa di strategia ed è autore anche di “Perché vince Trump” del 2016, scrive nel 2017 questo libro per contrastare la prima reazione dei media mainstream i quali dopo aver sottovalutato universalmente le possibilità di vittoria di Trump (creando le condizioni per uno dei più fragorosi suicidi collettivi della storia politica americana), restano incapaci di capire, come del resto i nostri, il riallineamento in corso.
L’analisi di Spannaus è semplice e netta: il mondo è cambiato nel 2016 ed è l’inizio della fine di un’epoca. Ci sono due avvenimenti che giustificano principalmente l’affermazione dell’autore: la Brexit e ovviamente l’elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America di un improbabilissimo outsider come Donald Trump. In particolare nella seconda circostanza, e dall’inizio delle primarie, l’unico discorso politico che ha dato prova di funzionare è stato l’attacco alle élite politiche ed a quelle finanziarie, sia nel campo democratico come in quello repubblicano. Questo è quello che Spannaus chiama “la rivolta degli elettori”. Peraltro questa protesta era iniziata da tempo, in Italia è citato l’incredibile successo del Movimento 5 Stelle nel 2013 (l’anno in cui inizia questo blog con due post di tenore sociologico: “La cipolla” e “spostamenti”). Quell’anno si assiste in effetti a spettacoli assolutamente nuovi come quello di un altro improbabilissimo leader, Beppe Grillo, che partecipa alle consultazioni per il governo con il Presidente della Repubblica avendo conseguito il maggiore risultato elettorale. Seguirà nello stesso anno un accordo di larga coalizione in Germania, e il sorgere a fine dell’anno della breve parabola di Matteo Renzi, divenuto Segretario del PD, che un paio di mesi dopo accede direttamente al governo. Ma si potrebbe anche ricordare l’incredibile dinamica delle elezioni presidenziali francesi, con i partiti storici che si dissolvono simultaneamente.
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La rivoluzione passiva del governo Conte
di Renato Caputo
Per quanto sia una rivoluzione-restaurazione quella portata avanti dal governo Conte, non bisogna accordarsi a chi la critica da destra, ma rilanciare dal basso il processo rivoluzionario
In prima istanza, servirsi della categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”, ovvero di “rivoluzione senza rivoluzione”appare fuori luogo per connotare l’attuale governo in cui pare avere l’egemonia Salvini e la componente oggettivamente reazionaria a lui legata. D’altra parte, se per “rivoluzione passiva” non si intende tanto una rivoluzione dall’alto, ma anche e soprattutto, come fa Gramsci, una “rivoluzione-restaurazione” le cose potrebbero cambiare. Tanto più che Gramsci definisce rivoluzione passiva nella sua epoca non solo e non tanto il “New Deal” rooseveltiano, ma piuttosto il fascismo, nel senso lato del termine che ha una dimensione oltre che pratica per l’Italia, ideologica per l’Europa [1].
Del resto, il concetto di rivoluzione passiva è utilizzato per la prima volta da Gramsci per designare il programma politico e la modalità di direzione egemonica del blocco moderato-liberale del Risorgimento, meglio noto come “Destra storica” (957). Tanto più che la direzione politica esercitata da quest’ultima è il prodotto, è l’espressione dell’“assenza di iniziativa popolare nello svolgimento della storia italiana” (Ibidem). Per cui lo stesso carattere “progressivo” della rivoluzione passiva non è altro che la “reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con ‘restaurazioni’ che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari” (Ibid.). In tal modo diviene pienamente comprensibile il significato di rivoluzione-restaurazione che ha in Gramsci il concetto di rivoluzione passiva, piuttosto che quello di Rivoluzione dall’alto più pertinente a descrivere forme di cesarismo progressivo. Tanto più che, a parere di Gramsci, la rivoluzione passiva è il prodotto della debolezza delle “forze progressive”, che consentono che la classe dirigente politica non sia espressione immediata della classe economica dominante ma sia espressione, piuttosto, del “ceto degli intellettuali” (1360).
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Soggettività marxiane, un libro a più voci
di Andrea Girometti
Il libro “Marx: la produzione del soggetto” (Derive Approdi, 2018), curato da Luca e Michele Basso, Fabio Raimondi e Stefano Visentin è un insieme di riletture dei testi sotto la luce della formazione dell’individuo nei suoi aspetti attivi e passivi. Con anche una critica femminista
L’incipit del bel testo Marx: la produzione del soggetto (Derive Approdi, 2018), curato da Luca e Michele Basso, Fabio Raimondi e Stefano Visentin – dedicato all’«amico e compagno Alessandro Pandolfi» recentemente scomparso – non può essere più chiaro negli intenti richiamando la non diffusa presenza del termine “soggetto” (inclusi i suoi derivati) nell’opera marxiana e allo stesso tempo scommettendo «sulla specificità e sull’operatività politica [di tale] parola».
Si tratta, peraltro, di un termine denso e ridondante nel dibattito filosofico-politico, e non di meno fantasmatico, come ribadiscono gli autori. È dunque sul «significato storico, teorico e politico che il concetto di soggetto svolge in alcune opere di Marx» che ruotano gli interventi dei diversi autori, sulla base del comune assunto che il marxiano «lessico della soggettività si presenta intrecciato e talvolta sovrapposto a una serie di altri termini significativi». Si pensi, come sottolineano i curatori, alla concezione del comunismo come realizzazione degli «individui come individui», degli «individui sociali», dei «liberi produttori associati». E ancora, si consideri quanto significativo fosse il fatto che Marx utilizzasse il termine Individuum (e non Subjekt) «in quanto portato del modo di produzione capitalistico» (pp. 7-8) o al tentativo, presente fin dai primi scritti, di superare la dicotomia soggetto individuale/soggetto collettivo.
In ogni caso, la scelta di utilizzare «la locuzione produzione del soggetto» rinvia all’ambivalenza intrinseca al termine in quanto indicante – insieme – un ente assoggettato e un ente autonomo, dunque la persistenza dei caratteri passivi e attivi che sempre lo connotano.
In altri termini, non si dà emancipazione che possa prescindere da limiti, presupposti e circostanze date. L’azione, individuale e collettiva, è sempre situata e sempre eccedente ogni determinismo nei suoi possibili risultati.
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Una questione di classe: perché la flat tax conviene al capitale
di coniarerivolta
La flat tax proposta dal Governo di Lega e Cinque Stelle viene presentata come una grande riforma fiscale che sarà di beneficio a tutti i ceti sociali, compresi quelli meno abbienti. Essa, in realtà, non farebbe altro che privilegiare una categoria assai ristretta di redditi elevati incrementando quel processo di erosione della progressività delle imposte già in atto da tre decenni. A ben vedere, la flat tax è il tentativo di un pezzo di classe dominante oggi in declino di rientrare sul carro dei vincitori del neoliberismo, a discapito solo ed unicamente dei lavoratori, sia in termine di maggiore peso fiscale sostenuto che in termini di minor welfare che sarà causato dalla riduzione delle entrate. In questo articolo cerchiamo di smascherare la retorica del governo giallo-verde sull’argomento.
Flat tax: chi ci guadagna?
La proposta del governo si articola come segue: per quanto riguarda i redditi delle persone fisiche, si passerebbe ad un sistema a due aliquote, al 15% e al 20%. La soglia di reddito che andrebbe a separare i due scaglioni dovrebbe essere fissata a 80.000 euro. Un’aliquota massima al 20% significa naturalmente un risparmio enorme di imposta per tutti i soggetti più benestanti o ricchi che attualmente pagano aliquote marginali fino al 43%. Risparmio tanto più intenso quanto più il reddito del contribuente è elevato.
Semplici calcoli hanno dimostrato che l’impatto della flat tax, anche nella versione a due aliquote del programma di governo, ridurrebbe fortemente le imposte sui redditi più elevati, con un effetto fortemente regressivo. A conti fatti un reddito di 30.000 euro annui finirebbe per pagare maggiori imposte, un reddito di 50.000 euro avrebbe un guadagno esiguo (1%), un reddito di 80.000 euro un guadagno del 15% e un reddito di 300.000 del 40% e così via, in un crescendo di regressività.
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La Comune e la somma dei possibili
di Mario Pezzella
Esce in questi giorni nelle librerie il numero speciale della rivista Il Ponte “Il tempo del possibile: l’attualità della Comune di Parigi” a cura Di F. Biagi, M. Cappitti, M. Pezzella. Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Mario Pezzella, La Comune e la somma dei possibili
“Diciannove marzo 1871: la più bella aurora che mai abbia dato luce a una città, l’alba più splendente in cui si compivano le attese, i presentimenti, gli annunci dei tempi nuovi: i sogni, le ‘utopie’“(289)[1]. Con queste parole Lefebvre ricorda la nascita della Comune e possiamo chiederci cosa gli detti un tale entusiasmo: in fondo la Comune ha avuto breve durata e si è conclusa in una triste tragedia. Il fatto è che –sia pure in un tempo così breve- essa ha dato realtà a un possibile, che si è impresso per sempre nella memoria storica degli oppressi: è concepibile una vita senza rapporti di servitù e sfruttamento, senza il dominio esclusivo del danaro, senza Stato e senza capitale. Con tutti i limiti e le contraddizioni che hanno contribuito alla loro sconfitta, gli uomini della Comune hanno comunque avuto “questo merito immenso…mostrare che una grande città moderna può fare a meno dello Stato”(293), “l’uomo si libera dall’economia”(388). Ciò che sembrava fantasma e immagine di sogno si mostra invece come utopia concreta. La Comune ha realizzato una rivoluzione e una riorganizzazione della vita quotidiana, nella sua pratica sociale, molto più rilevante di qualsiasi atto di governo.
La Comune –e il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale- rappresenta per Lefebvre un possibile sconfitto, ma leggibile nel nostro presente: la realtà storica è composta da una pluralità di possibili coesistenti e non segue la linea univoca del progresso imposta dai vincitori. Un possibile dimenticato può riattualizzarsi e modificare retrospettivamente la nostra percezione complessiva del passato, ricostruirne il senso; d’altra parte esso non è una fantasia arbitraria, ma possiede una sua oggettività storica documentabile e ricostruibile, anche se esclusa dal dicibile: “Il passato diviene o ridiviene presente in funzione della realizzazione dei possibili oggettivamente inclusi nel passato. Esso si svela e si attualizza con essi”(36).
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Paul De Grauwe e il pendolo dell’economia tra mercato e pianificazione
di Sergio Marotta
Limiti interni e limiti esterni del sistema economico
È uscita in questi giorni per i tipi de «Il Mulino» la traduzione italiana del libro di Paul De Grauwe I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia? Si tratta di un testo importante se non altro perché è stato scritto da uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’Unione europea, autore del manuale sul quale si formano le nuove generazioni di economisti nelle università di diversi Paesi dell’Unione.
Ma il libro è soprattutto un esempio di chiarezza nell’esposizione di problemi economici complessi che diventano immediatamente comprensibili anche per i non addetti ai lavori. De Grauwe non è un sostenitore di teorie economiche antisistema, ma è anzi un economista molto ascoltato che insegna alla London School of Economics: fonda le sue tesi sulle teorie di studiosi sicuramente mainstream come Daniel Kahneman, vincitore del premio Nobel per l’economia 2002, o Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales[1], e su teorie politiche di grande successo come quelle di Robinson e Acemoglu[2].
La tesi principale sostenuta nel libro è che il mercato così come oggi lo conosciamo non ha ancora molto tempo innanzi a sé e che le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rosee. Il mercato, infatti, rischia di raggiungere presto i suoi limiti e di andare a sbattere contro un muro. Secondo De Grauwe il muro che il mercato si troverà innanzi è costruito, innanzitutto, dall’interno attraverso l’accentuarsi, oltre ogni limite, della diseguaglianza nella ricchezza materiale. Ciò, alla lunga, non è sostenibile e darà luogo, come è già avvenuto in passato, a una reazione violenta da parte di coloro che si vedono privati dei necessari mezzi di sostentamento e che diventano ogni giorno più numerosi.
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LUDD ovvero dell’insurrezione permanente
di Sandro Moiso
La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00
In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.
Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.
I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2
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La guerra delle parole
di Carlo Galli
1. Strategie
Dopo la sconfitta del 4 marzo le élites politiche, economiche e mediatiche hanno reagito in modo diversificato. L’analisi del Pd è racchiusa nelle due affermazioni di Renzi: «la ruota gira» e «pop corn per tutti», che – per non ricorrere a giudizi impegnativi come quelli di nichilismo, cinismo, vuoto intellettuale – è quantomeno da definire una manifestazione di irresponsabile perdita di contatto con la realtà e di fatalistica attesa degli errori altrui.
La risposta delle élites tecnocratiche ed economiche della Ue, poi, è di alternare lusinghe e minacce, offrire 6.000 euro per ogni immigrato accolto, e minacciare con lo spread se ci saranno troppi sforamenti dei parametri dell’euro.
Le élites finanziario-mediatiche, un tempo portatrici del consenso mainstream, proseguono da parte loro la lotta con i loro tipici mezzi politici indiretti, nella speranza di delegittimare i vincitori e il popolo che li ha votati, in vista di riconquistare il potere grazie ai fallimenti del governo. Gli strumenti di questa lotta sono linguistico-culturali e vanno dal suscitare e coltivare la pubblica emotività sul tema dei migranti ad alcuni usi linguistici che i media mainstream non hanno inventato ma che rilanciano ossessivamente.
A parte l’accusa di “fascismo” agli avversari, elettori ed eletti, che pare eccessiva e fuori bersaglio se allude a una dittatura, a un “regime”, e che pertanto viene a significare poco più che una generica “malvagità” del popolo e delle élites vittoriose, fra le parole più frequenti ci sono i termini “sovranismo”, “populismo”, “nazionalismo”, “razzismo”. Si tratta di armi di battaglia, di macchine per la guerra linguistica, per lo scontro tra propagande: dalla parte opposta si mettono in campo infatti termini come “onestà” e “sicurezza”, generici e ambigui, e non meno mobilitanti e polemici; ma almeno capaci di vincere le elezioni, benché non altrettanto efficienti nella guerra linguistica.
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Del Manifesto politico di Carlo Calenda
di Alessandro Visalli
A fine giugno 2018 l’ex Ministro Carlo Calenda ha proposto apparentemente di sua iniziativa la formazione di un’alleanza repubblicana contro i populismi. L’ex Ministro (governi Renzi e Gentiloni), fresco di tessera del Partito Democratico (6 marzo 2018) viene da una carriera di manager (in società finanziarie, nella Ferrari sotto Cordero di Montezemolo e poi come responsabile marketing di Sky) e di funzionario di Confindustria (assistente del presidente con Cordero da Montezemolo dal 2004 al 2008), successivamente entra in politica, ovviamente ancora con Cordero, quando fonda Italia Futura e nel 2013 quando viene candidato in Scelta Civica. Malgrado la sua mancata elezione Letta lo nomina viceministro allo Sviluppo Economico e viene confermato da Renzi inizialmente come viceministro, poi è promosso ministro.
Con un simile curriculum il figlio di un giornalista e di una regista è naturalmente più che titolato a indicare la strada della sinistra liberale che da lungo tempo ha perso le sue radici novecentesche, per ricercarle più indietro. Con il suo “Manifesto politico”, dunque Carlo Calenda lancia il suo guanto di sfida e dopo indimenticabili tentativi come quello di Pisapia si candida a federare le disperse forze della sinistra contro l’orda dei barbari che avanza.
Detto in questo modo è un progetto del tutto velleitario, ma non è l’unico a ragionare sulla rotazione dell’asse politico dal destra/sinistra del novecento al centro/periferia (o all’alto/basso) dell’era populista che si avvia ancora una volta. Lo ha fatto, aiutato in modo decisivo dal sistema elettorale a due turni, il francese Macron (che è il modello di successo dell’area governista), lo vorrebbe fare lo sconfitto Matteo Renzi, dopo la slavina che lo ha travolto insieme a tutta la sinistra italiana (ma anche la destra berlusconiana gli è andata dietro, per non parlare delle microformazioni di centro confindustriale di cui Calenda è espressione).
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Il lungo viaggio verso la Flat Tax
L’ingiustizia fiscale ha radici lontane
di coniarerivolta
Nei primi mesi di vita del nuovo governo si è andata delineando sempre più chiaramente la proposta di riforma del sistema fiscale italiano, riassumibile nel cavallo di battaglia leghista della Flat Tax. Il governo ha provato in tutti modi ad associare a questa proposta un messaggio politico semplice e appetibile: si tratterebbe di una sostanziale riduzione delle tasse che sembrerebbe avvantaggiare tutti, lavoratori e imprese, ricchi e poveri, in grado di liberare risorse per l’economia tramite un supposto aumento di consumi e investimenti. A ben vedere, l’impatto macroeconomico della Flat Tax sul sistema italiano sarebbe disastroso dal punto di vista macroeconomico e produrrebbe un sostanziale indebolimento della natura redistributiva delle sistema fiscale. Con la Flat Tax, infatti i redditi più alti sono sottratti a quella maggiore pressione che fa di un sistema fiscale un utilissimo strumento di equità e di redistribuzione all’interno della società.
Per capire in quale contesto la riforma tributaria del governo andrebbe ad inserirsi è bene ripercorrere brevemente l’evoluzione del nostro sistema di imposte fino ad arrivare all’attuale struttura, con particolare attenzione alle imposte sui redditi.
Partiamo da una considerazione importante: il sistema tributario italiano non è lo stesso di 40 anni fa, quando fu introdotta l’imposta sul reddito delle persone fisiche e l’imposta sul reddito delle società di capitali. E’ già stato stravolto da una lunga serie di interventi, di cui l’ultimo annunciato è l’ennesimo di una coerente sequela, che ne hanno minato fortemente la struttura iniziale basata su una forte progressività.
Ad oggi in Italia esiste un sistema di imposte sui redditi articolato su tre pilastri. Un’imposta sul reddito delle persone fisiche, un’imposta sul reddito delle società e un’imposta sui redditi finanziari.
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L’Intendance suivrà: un “quotidiano comunista” per la guerra e la lotta di classe dell’Impero
di Fulvio Grimaldi
Cari amici, stavolta sono davvero lunghissimo. Era necessario. E’ la mia resa dei conti personale, ma spero anche di molti di voi, con un giornale e un gruppo che ha segnato la storia politica e culturale italiana dell’ultimo mezzo secolo: “il manifesto”, sedicente “quotidiano comunista”, nel quale la parola comunista ha assunto connotati rovesciati rispetto all’uso comune. E’ una storia lunga, piena di episodi, personaggi, eventi, illusioni, disvelamenti, divenuta però via via più trasparente. La trasparenza di un infiltrato imbolsito, che ha perso l’abilità mimetica dei suoi maestri. Ma gli illusi ci sono ancora. Diamogli una mano
“Se una minoranza vuole dominare deve agire per vie occulte, tramando, cospirando, pretendendo, ingannando. I suoi peggiori nemici saranno quelli che denunciano il complotto”. (Aldous Huxley)
“Il modo più efficace per distruggere popoli è negarne e obliterarne la comprensione della propria storia”. (George Orwell)
“La grande maggioranza dell’umanità si accontenta delle apparenze, come se fossero realtà, ed è spesso influenzata più dalle cose che sembrano che da quelle che sono”. (Nicolò Machiavelli)
Nostalgie amorose di Tommaso Di Francesco
“Linea notte” è quel ruscelletto di notiziole e opinioncelle d’ordine del TG3, spesso bruscamente alterato nel suo andazzo dall’epifania di una specie di convulsa menade da New York, che il mio ex-collega Mannoni, detto Mannoioni, conduce, tra un borborigmo e l’altro, indice di stomaco prospero ma non pacificato, con il placido compiacimento di chi poco sa, ma molto si fida degli ospiti. Accuratamente selezionati, ovvio. Ha una funzione salutare: ti tira giù piano piano le palpebre mentre Morfeo ti mette in assetto di dormitorio i neuroni.
Quasi mai, ma nella notte del 20 luglio 2018 sì, succede che un qualche neurone mezzo assopito venga elettrizzato da un’emissione audiovisiva fuori dal tran tran sulla rana e sulla fava. Ed è stato come un extrasistole nel pacioso elettrocardiogramma del fine giornata di regime. C’era l’ospite Tommaso De Francesco (non proprio giornalista da Pulitzer o poeta da Nobel) che, insieme all’ex-trafilettista di critica tv, Norma Rangeri (mi apostrofò per averla turbata con la messa in onda di scimmie fatte esplodere da scienziati vivisezionisti), oggi dirige il “manifesto”.
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