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Venti di guerra

di Carlos Xavier Blanco

Ripubblichiamo l’articolo di Carlos Xavier Blanco pubblicato sulla rivista spagnola El Viejo Topo –

goya capriccio 12.jpgSoffiano venti di guerra. Il vento porta con sé zolfo e puzza di cadaveri. Inoltre, come si direbbe nella narrazione di JRR Tolkien de Il Signore degli Anelli, si possono vedere nuvole nere e fuochi lontani che oscurano l’azzurro del cielo europeo. Le stelle si spengono.

Il tardo capitalismo risolverà la sua crisi, come prevede Lazzarato nell’articolo “Armatevi per salvare il capitalismo”, con una nuova guerra. “La guerra finale”, dicono alcuni. Il potenziale nucleare, così come la temibile tecnologia militare convenzionale, suggeriscono che questa potrebbe essere la Grande Guerra, la Terza Guerra Mondiale, il conflitto che devasterà definitivamente l’Europa. Non sarà domani, ma potrebbe essere già all’orizzonte. E la gente non reagisce. Nessuno grida per dire “stop!”

Se il male raggiungerà tali estremi, lo vedremo. Ma il fatto tangibile che il nostro continente sia già disseminato di cadaveri è qualcosa che stiamo già vedendo oggi (centinaia di migliaia di morti ucraini e russi, per non parlare dei mercenari stranieri).

Perché l’Europa è sempre il palcoscenico centrale del Grande Massacro che deve ancora venire. La Terra di Mezzo (Mitteleuropa) è il cuore delle battaglie per il dominio dell’Eurasia: un vasto spazio tra il confine franco-tedesco e quello russo. L’Europa, sottomessa al potere yankee dal 1945, vuole condurre una guerra che non può condurre. Lei obbedisce a un padrone, “scegliendo” tra la propria distruzione e la propria distruzione, cioè: costretta da un padrone che intende annientarla perché è costoso mantenerla. L’Europa è stata “liberata” dal mostro nazionalsocialista, il Sauron del secolo scorso, solo per finire a essere una colonia, da allora fino a oggi, di un altro mostro. Lasciò il “mondo di Auschwitz” ed entrò nel “mondo di Hiroshima”.

L’Europa ha pagato a caro prezzo la guerra civile del 1914-1945, la guerra civile tra Imperi. Ora vuole diventare l’ariete di un altro mostro: il mostro del capitalismo imperialista angloamericano e neoliberista, contro la Russia.

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effimera

Cambio di regime in Occidente?

di Perry Anderson

repressione9875.jpgPubblichiamo la traduzione italiana di un importante contributo di Perry Anderson, noto studioso marxista, docente di sociologia e storia all’Università della California, già direttore della New Left Review e collaboratore del quotidiano di sinistra Nation e della London Review of Books. Anderson è stato studioso di Gramsci e anche  esperto di politica italiana. Ricordiamo che nel 2014 scrisse un saggio dal titolo The Italian Disaster nel quale attribuisce la causa della lunga crisi italiana al ruolo anomalo assunto dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dalle sue continue interferenze costituzionali e politiche all’abbandono della prassi di guardiano imparziale dell’ordine parlamentare, avvenuto nell’ambito di un sistema già gravato dalla corruzione negli affari, nella burocrazia, nella politica. Il testo di Anderson non è mai stato tradotto e pubblicato su una rivista italiana.  In questo articolo, comparso sulla London Book of Review, Vol. 47 No. 6  del 3 aprile 2025, Anderson si sofferma sulla fase di transizione che sta caratterizzando la dinamica geopolitica internazionale in un contesto dove le destre estreme avanzano e dove una delle cause di questo declino populista è soprattutto imputabile al venir meno del ruolo critico della classe intellettuale progressista, prona, per vari motivi, ai diktat neoliberisti.

* * * * *

Negli anni recenti, il cambio di regime (Regime Change) è diventato un termine canonico. Significa il rovesciamento, tipicamente ma non esclusivamente da parte degli Stati Uniti, di governi in tutto il mondo non graditi all’Occidente, utilizzando a tal fine la forza militare, il blocco economico, l’erosione ideologica o una combinazione di questi elementi.

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acropolis 

Lo Sbroglio

di Satyajit Das

Parte 1: Furie Economiche e Finanziarie

proxyvk.jpgCondizioni così insostenibili devono finire come i nostri divertimenti. Come scrisse Fred Schwed in “Dove sono gli yacht dei clienti?”: “Quando le «condizioni» sono buone, l’investitore… compra. Ma quando le «condizioni» sono buone, le azioni sono alte. Poi, senza che nessuno abbia la cortesia di suonare un campanello d’allarme, le “condizioni” peggiorano”. Questo sta accadendo ora. Il fattore scatenante della tumultuosa fase finale del crollo è sconosciuto. Come aveva capito Mao Zedong: “una singola scintilla può appiccare un incendio nella prateria”. Potrebbe trattarsi di una recessione, perdite sul credito, crolli del prezzo delle azioni, il fallimento di una strategia di trading, il fallimento di un’azienda di grandi dimensioni, una frode o un evento geopolitico. Il mondo di oggi è una polveriera.

 

La prima parte di questa serie esamina i fattori che potrebbero rendere inevitabile una nuova crisi finanziaria. La seconda parte esaminerà la trasmissione degli shock, la resilienza e la capacità di rispondere per contenere una nuova emergenza.

Una nuova crisi finanziaria è alle porte. L’era sorprendentemente duratura dell’iperfinanziarizzazione si trova ad affrontare la prova più dura di sempre, a causa della concomitanza di condizioni economiche e finanziarie, unite a crescenti pressioni geopolitiche e ambientali. La mancanza di resilienza e la limitata capacità di risposta sono fattori aggravanti.

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sollevazione2

Blackout: è il liberismo bellezza!

di Leonardo Mazzei

PHOTO 2025 05 01 18 07 45.jpgTranquilli, dietro il blackout spagnolo, che ha coinvolto pure il Portogallo, non ci sono né complotti né misteri. Ci sono piuttosto silenzi e reticenze di un sistema di potere che non può disvelare la vera causa, che è innanzitutto economica e dunque politica, di quel che è successo.

A questo proposito l’imbarazzo di Sanchez è apparso evidente. Il capo del governo spagnolo avrebbe preferito poter additare una delle tante cause fasulle di cui si è cianciato sui media: un “misterioso” evento atmosferico, i sempre buoni “cambiamenti climatici”, la cattiva manina di hacker ovviamente filo-russi. Non ha potuto farlo, forse perché consapevole che il ridicolo può davvero uccidere la credibilità di un politico. Si farà, invece, una Commissione d’inchiesta, che è il classico modo per non arrivare a nulla.

 

Come avvengono i blackout

Siamo dunque ben lontani da una verità ufficiale, ma le notizie che cominciano a trapelare sono già sufficienti a indicare una prima e robusta ipotesi. Ma prima di arrivarci bisogna capire che cos’è un blackout generale, come quello verificatosi nella penisola iberica lo scorso 28 aprile. Mentre i blackout locali sono molto frequenti, basti pensare alle zone di montagna durante i temporali, i blackout generali (che interessano, cioè, interi paesi o porzioni importanti degli stessi) sono eventi piuttosto rari, ma che tuttavia capitano.

Senza scomodare i “mitici” blackout newyorchesi, in Europa, l’esempio più eclatante riguarda proprio l’Italia, che il 28 settembre 2003 rimase completamente al buio con l’eccezione della Sardegna. In questi casi, infatti, le isole – che hanno sistemi elettrici largamente indipendenti dal continente – sono in genere avvantaggiate. E’ stato così anche stavolta nel caso delle Baleari.

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lantidiplomatico

Robotizzazione generale del lavoro, espansione delle merci immateriali, caduta tendenziale del saggio di profitto e rivoluzione

di Fosco Giannini

kfdpnbibPer ora, gettiamo solo un sasso nello stagno. La parabola delineata dal sasso lanciato non pretende di farsi curva politico-teorica compiuta, né scia strategica illuminante. Il suo obiettivo sta nel rapporto dialettico che, forse, potrà costituirsi tra la “curvatura” del tragitto del sasso e l’impatto di esso nello stagno stesso, e questo, eventuale, obiettivo vogliamo perseguirlo attraverso il minor “gravame” semantico possibile (recuperando il senso greco anti enfatico di semantikos, segnalare) e la maggior semplicità linguistica possibile. Due accorgimenti che potrebbero sfociare in alcune “ruvidezze” espositive. Ma come asseriva San Paolo di Tarso, su tutt’altro fronte, nelle sue “Lettere” (sintetizzando): tutto non è possibile, o sentiamo il sublime non senso ieratico nel ricercarlo, o rinunciamo a priori a parlare di Dio.

Cosa ci accingiamo a compiere? Due tentativi di “nuovo attraversamento” di due concezioni cardinali marxiane: il primo, relativo alla determinazione del valore delle merci; il secondo, relativo alla caduta tendenziale del saggio di profitto (lungo la strada alcune, volutamente incompiute per ragioni di “sostenibilità” di questo contributo, digressioni). Perché questi due “nuovi attraversamenti”? Per mettere a fuoco (solo per approssimazione, solo in relazione ai moti carsici “avvertiti” e certamente ancora - a nostro parere- non collettivamente portati alla luce, con un tasso, dunque, di errore alto) i compiti, di media-lunga durata, delle forze comuniste e rivoluzionarie.

In relazione a quali fatti concreti (di già potente impatto sulla fase ma, ancor più, densi di futuro) tentiamo di attraversare nuovamente le due concezioni cardinali marxiane citate?

Primo, la robotizzazione del lavoro in corso, ancora ai primordi, sul piano mondiale, ma già evocante un proprio sviluppo di carattere irreversibile ed esponenziale, non lineare. Un passaggio storico dallo stesso carattere “destinale”, ma con ben più imponenti potenzialità trasformatrici del lavoro e della lotta di classe, di quello del passaggio - seconda metà del 1.700 – dalla tessitura col telaio a mano a quella col telaio di Arkwright.

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infoaut2

La lunga frattura. Un contributo al dibattito su guerra e riarmo

di Infoaut

Frattura4.pngIn questi mesi la storia corre veloce, in poco tempo alcuni dei capisaldi su cui si è retto l’ordine mondiale definitivamente consolidatosi dopo il crollo del muro di Berlino stanno vivendo profonde tensioni e ristrutturazioni.

Non sono che sintomi di processi più profondi e radicali che ribollono come magma sotto la crosta terrestre tentando di farsi strada, di trovare sbocchi, sfiati e infine ridefinire il paesaggio.

Obiettivo di questo testo è sì quello di fare uno sforzo di chiarezza poiché leggere quanto accade nel mondo intorno è un primo passo per immaginare dove intervenire in maniera efficace, ma anche uno strumento che vuole spingere a praticare un’ipotesi e a calpestare un terreno che, seppur pregno di limiti e ostacoli, si presta a essere una finestra di possibilità che si apre e che non va lasciata richiudersi senza nemmeno aver fatto un tentativo.

Proviamo a orientarci.

 

PRIMA PARTE

I movimenti tellurici

I primi segni superficiali di questi processi si sono avvertiti con la crisi del 2007-2008. La terra ha tremato, le forme che aveva assunto per i quarant’anni precedenti il sistema capitalista sono entrate in fibrillazione.

Non si può comprendere ciò che è venuto dopo senza considerare questo fatto nella sua interezza. Quelle scosse che avevano sconvolto i mercati finanziari sono state il segnale del magma che si stava rimettendo in moto.

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seminaredomande

Gli squilibri economici ristrutturano il mondo Rimettere in primo piano l’economia interna

di Francesco Cappello

photo 2025 04 09 23 30 23.jpgL’enorme debito pubblico statunitense [1] così come la posizione finanziaria netta negativa degli USA [2] che comprende lo squilibrio della bilancia commerciale (eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni, che è come vivere al di sopra delle proprie possibilità) peraltro in condizioni di dedollarizzazione sono diventati sempre più difficilmente gestibili. Per affrontare questa difficile situazione, Trump tenta di prendere il toro per le corna con la strategia dei dazi. Egli, infatti, non intende ricorrere a un aumento della pressione fiscale sui cittadini statunitensi ed ha anzi chiesto al Congresso di abolire l’imposta sul reddito. “Non abbiamo bisogno di tassare a morte la nostra gente”, “Dobbiamo tassare i paesi che si approfittano di noi.” Ha perciò avanzato l’idea di sostituire il gettito derivante dall’imposta sul reddito con entrate provenienti da dazi sulle merci importate. Questo approccio si ispira a un modello storico, quando gli Stati Uniti finanziavano il governo principalmente attraverso i dazi, prima dell’introduzione dell’imposta sul reddito nel 1913.

 

Un altro campo di battaglia, la spesa pubblica

Trump mira al suo abbattimento, come nel caso dello smantellamento dell’Usaid da parte del DOGE e, almeno nelle intenzioni manifestate, pare voler tagliare anche l’enorme spesa militare degli Stati Uniti, una somma annuale prossima al trilione di dollari, senza contare quella in campo nucleare tradizionalmente allocata nel capitolo di spesa per l’energia.

La spesa militare degli USA supera quella dei successivi dodici Paesi nella classifica mondiale. Tale spesa è divenuta ormai difficilmente sostenibile per gli Stati Uniti che hanno più di 800 basi militari, sparse in 80 diversi paesi del mondo.

Ovviamente tutto questo non basta e l’imposizione di tariffe ai paesi esportatori negli USA dovrebbe dare agli USA, nelle speranze di Trump, un altro contributo consistente. Oltretutto i dazi avrebbero dovuto avere un effetto collaterale assai desiderabile per i suoi scopi: l’abbassamento dei rendimenti obbligazionari dei titoli del Tesoro USA e con essi la riduzione del costo per interessi del debito.

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nazioneindiana

Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo

di Andrea Inglese

[I tempi sono oscuri e spaventosi. Non basta più stare dentro i ruoli assodati e fare bene il proprio lavoro. Ci sono strumenti da condividere e ci sono stili di pensiero e d’azione da salvaguardare. Non sappiamo ancora chi si servirà di cosa. Ma prepariamo il terreno. Ho cominciato la serie con questo pezzo, pubblicato il giorno dell’investitura di Trump. a. i.]

copertina n1.jpgIl Trump del secondo mandato non è solo il nome del declino palese dell’egemonia statunitense e dell’ordine mondiale a essa connesso, ma ne è probabilmente anche il precipitatore, il fattore accelerante. Questo è almeno il quadro entro cui è leggibile la politica estera dell’attuale presidenza. Io vorrei, però, mettere in relazione questa gesticolazione imperialista degli Stati Uniti e una tendenza di fondo che emerge nella sua politica interna, ossia l’attacco nei confronti delle istituzioni scientifiche e del contropotere costituito dai media cosiddetti mainstream. Su tale fronte, di guerra dichiarata nei confronti dei “nemici interni”, l’azione di Trump indica una più generale modalità di governo, che potremmo anche chiamare di “populismo autoritario”, ma che s’iscrive, in sostanza, in una concezione neofascista dei rapporti tra potere dei governanti e popolazione. Pur emergendo all’interno delle istituzioni di una democrazia liberale, l’autoritarismo populista alla Trump aspira allo smantellamento puro e semplice dei vincoli legali e dei contropoteri effettivi, sociali e culturali, che prevengono e ostacolano un esercizio dittatoriale del potere. (Spiegherò in una glossa, perché non ho nessun imbarazzo a parlare di neofascismo, e a identificarlo come una tendenza manifestamente presente nell’azione di tutta una serie di capi di governo attuali – da Putin, ovviamente, a Netanyahu o Erdogan – che agiscono, “ufficialmente”, all’interno di regimi più o meno democratici.)

Se nel corso del Novecento, le istituzioni scientifiche (università, laboratori di ricerca, ecc.) sono state sottoposte a critica sociale, e più in generale a una critica delle loro inevitabili matrici ideologiche, ciò non toglie che la libertà accademica e tutta una serie di procedure, collettivamente discusse, di verifica e di prova, hanno permesso alle varie discipline di evolvere, rettificarsi, e creare anche i propri anticorpi nei confronti dei diversi poteri (economici, politici, religiosi, ecc.) che le possono condizionare.

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effimera

Dollari, dazi e dominio

di Massimo De Angelis

gettyimages 481615361 612x612.jpgPrendendo spunto da Quo Liang nel suo Arco dell’impero, il mio punto di vista generale è che l’egemonia del dollaro possa essere descritta come un imperfetto meccanismo di respirazione della mostruosa macchina del capitale globale. Inspirazione: capitali e denaro rifluiscono negli Stati Uniti. Espirazione: capitali e denaro fuoriescono. Va da sé che a questo flusso è associato lo scatenarsi di dinamiche differenziate e pressioni per la ristrutturazione dei rapporti di classe in tutto il mondo. Da questa prospettiva, il paradosso di Triffin non è tanto un paradosso quanto lo sarebbe avere troppo o troppo poco ossigeno nei polmoni.

 

Il respiro tossico del dollaro

Il paradosso di Triffin descrive la trappola economica che si verifica quando la valuta di un paese – come il dollaro statunitense – diventa la valuta di riserva di riferimento a livello mondiale. Per far funzionare il commercio internazionale in modo minimamente fluido, il mondo ha bisogno di una valuta affidabile e universalmente accettata. Questo significa che il paese che emette tale valuta -attualmente gli Stati Uniti – deve immettere nel sistema globale una quantità sufficiente di dollari. L’unico modo per farlo è attraverso deficit commerciali persistenti: gli Stati Uniti acquistano più dal mondo di quanto vendano. Tuttavia, questo flusso costante di dollari comporta un problema: più gli Stati Uniti importano e accumulano deficit commerciali, più aumentano il loro debito. Col tempo, ciò può minare la fiducia globale nel dollaro stesso. Se i paesi iniziano a dubitare del suo valore, si scatena instabilità finanziaria. Ma c’è un vicolo cieco: se gli Stati Uniti tentano di rimediare riducendo i deficit commerciali – cioè diminuendo la quantità di dollari in circolazione – il mondo si ritrova improvvisamente a corto di liquidità in dollari. Il commercio internazionale rallenta, l’economia globale frena, e le valute emergenti trovano più spazio per sfidare il ruolo egemonico del dollaro.

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Una MAGA sostiene la deregulation di Trump

di Visconte Grisi

Da “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” n. 9/Primavera 2025 riportiamo un articolo di Visconte Grisi che mette in luce le contraddizioni della “deregulation” trumpiana ma anche gli elementi di continuità con le politiche delle amministrazioni precedenti.

Trump987946.jpgSembra che i recenti sviluppi della politica statunitense successivi alla elezione di Trump abbiano colto impreparati moltissimi commentatori, anche “di sinistra”, mentre, al contrario questi sviluppi erano prevedibili per altri osservatori più attenti allo svolgersi degli eventi.

Tanto per cominciare la richiesta alle nazioni europee di aumento delle spese militari in ambito NATO era già stata fatta ai tempi della prima presidenza Trump, anzi ancora prima nel 2014 quando presidente era Obama. In tempi più recenti gli Stati Uniti, con la presidenza Biden, hanno approfittato dello scoppio della guerra in Ucraina per scaricare sugli “alleati” europei non solo i costi della guerra ma anche quelli delle forniture energetiche. Basta solo ricordare il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, che trasportava il gas proveniente dalla Russia alla Germania, costringendo le nazioni europee a importare lo shale gas prodotto, soprattutto negli USA, con la tecnica del fracking che ha costi di produzione più elevati rispetto ai concorrenti, oltre a provocare enormi danni ambientali. Inoltre lo shale gas viene commercializzato in forma liquida, il che comporta ulteriori costi e problemi di logistica rispetto ai gasdotti e richiede la costruzione di rigassificatori. Conseguenza immediata di questo aumento dei costi energetici è stata la crisi del settore dell’automotive: in Germania la Volkswagen ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti e una riduzione della capacità produttiva di oltre 700mila veicoli che comporterà il licenziamento di 35mila operai. In Italia Stellantis minaccia il licenziamento di 250 lavoratori alla Mirafiori di Torino invocando naturalmente nuovi ammortizzatori sociali da parte dello stato.

Verrebbe da chiedersi come mai i governi europei abbiano accettato, senza fare una piega, di aderire a una tradizionale politica “atlantista” pur in palese contrasto con i loro interessi economici immediati.

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lantidiplomatico

Mercati di armi: perché la spesa militare non produce ma sottrae

di Carla Filosa

mnvzxxljv.jpgDa una notizia apparsa su Avvenire del 30 marzo scorso apprendiamo che in 34 paesi si vendono droni e prodotti bellici da parte di un mega-esportatore turco di nome Baykar. Dopo aver rifornito l’Africa, ora questa azienda punta a conquistare i nuovi mercati di America Latina, Ue e Nato. La Turchia, oltre a essere il secondo esercito Nato in ordine di importanza, sembra quindi essere il 4° fornitore bellico in Paesi africani (Somalia, Etiopia, Nigeria, Togo, Burkina Faso, Libia, Mali, Marocco), oltre l’Ucraina, secondo le affermazioni del ministro degli Esteri Hakan Fidan. Si tratta di piattaforme economiche e funzionali alla ricognizione, alla sorveglianza, all’intelligence e ai bombardamenti di precisione.

Si vendono bene anche blindati, forieri di una quota non indifferente di trasferimenti turco-continentali. Il Sipri poi (Istituto svedese di studi sulla pace) certifica che tra il 2020 e il 2024 il traffico delle armi è diminuito nel continente africano e aumentato in quello americano. Anche la Russia vende armi in Africa (21%), la Cina (18%), gli Usa (16%). Al momento sembrano mancare gli importanti contratti algerini e marocchini che potranno di nuovo riprendere al riattivarsi di dinamiche golpiste, insurrezionali e interessi neocoloniali cui vengono in soccorso aziende cinesi, francesi turche e russe, con priorità a scemare. La Russia vende jet ad Algeria, Mali, Burkina Faso e Niger. La Cina rifornisce Ecuador, Bolivia e Venezuela di servizi satellitari e tiene rapporti d’intelligence con Cuba. Il Brasile per ora si rifornisce in Europa. Come si evince chiaramente, i Paesi più forti in senso imperialistico gestiscono il monopolio dei mercati mondiali in espansione degli armamenti, avendone continuamente attiva la ricerca innovativa e pertanto competitiva come per ogni altra merce.

Il quadro, sicuramente ora riferito per difetto, mostra la florida stagione per l’industria bellica e fornirebbe ottime ragioni al progetto di “riarmo” europeo, nonostante qui si riscontri una sensibilità per la parola da mutare in un eufemismo di ipocrisia più gradita, che ne cancelli preventivamente un fermo rifiuto, da parte di masse indisposte a barattare una sorta di benessere raggiunto con avventure suprematiste aborrite.

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machina

Armarsi per salvare il capitalismo finanziario!

La lezione di Rosa Luxemburg, Kalecki, Baran e Sweezy

di Maurizio Lazzarato

0e99dc 32d3cb5e75894293ac6ef4774584025bmv2Dopo «Perché la guerra?», «Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale» e «I vicoli ciechi del pensiero critico occidentale» (I) e (II), un nuovo articolo di Maurizio Lazzarato per inquadrare i fenomeni politici contemporanei e capire la natura del riarmo europeo e della guerra.

Secondo l'autore, è in corso, dal punto di vista capitalistico, una lotta feroce tra Trump e le élite sconfitte nelle elezioni presidenziali statunitensi, che hanno ancora forti presenze nei centri di potere, soprattutto in Europa.

Così, la corsa agli armamenti non assume la forma di «keynesismo militare» perché ha una logica differente: garantire surplus finanziari ai fondi di investimento, non adeguatamente rappresentati dal governo del tycoon. Una guerra che è scontro politico, tra diversi fattori soggettivi capitalistici.

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Per quanto grande sia una Nazione, se ama la guerra perirà; per quanto pacifico sia il mondo, se dimentica la guerra sarà in pericolo.

dal Wu Zi, antico trattato militare cinese

Quando diciamo sistema di guerra intendiamo un sistema quale è appunto quello vigente che assume la guerra anche solo programmata e non combattuta come fondamento e culmine dell’ordine politico, cioè del rapporto tra i popoli e tra gli uomini. Un sistema dove la guerra non è un evento, ma una istituzione, non è una crisi ma una funzione, non è una rottura ma un cardine del sistema, una guerra sempre deprecata e esorcizzata, ma mai abbandonata come possibilità reale

Claudio Napoleoni, 1986

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maggiofil

Il funzionario del capitale e la signora nello specchio

di Gianmarco Oro

mvpieryughip1. Introduzione

Durante la campagna elettorale del 2024, Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di porre al centro della propria agenda politica un’attenzione particolare al crescente deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, che nel 2022 ha raggiunto i 943 miliardi di dollari.

Già durante la sua prima amministrazione, Trump aveva adottato una serie di misure protezionistiche volte a ridurre il disavanzo commerciale con la Cina, imponendo nel gennaio 2018 dazi compresi tra il 30% e il 50% sui pannelli solari e, da marzo, del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. Tali misure – non revocate dall’amministrazione Biden – rappresentano il precedente su cui Trump ha inteso proseguire la guerra commerciale avviata con la Cina nel 2018, ma per estenderla ora a tutti i paesi con un surplus commerciale significativo nei confronti degli Stati Uniti, in particolare all’Unione Europea che nel 2024 ha registrato un saldo positivo verso gli USA pari a 48 miliardi di euro (Eurostat, cfr. Parlamento Europeo, 2025). Pertanto, dal 2 aprile 2025, gli Stati Uniti hanno imposto dazi del 20% sulle importazioni dall’UE di acciaio, alluminio e prodotti contenenti questi materiali, tra cui macchinari, automobili, attrezzature per il fitness, elettrodomestici, dispositivi elettronici e articoli per l’arredamento.

In risposta, l’UE prevede di reagire adottando una strategia articolata che comprenderà sia azioni diplomatiche, come ricorsi presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, sia misure ritorsive come l’introduzione di dazi su specifici prodotti statunitensi, quali acciaio, alluminio, prodotti tessili, elettrodomestici e utensili per la casa, plastiche, prodotti in legno e prodotti agricoli come pollame, bovini, pesce, latticini, zucchero e ortaggi (cfr. Commissione Europea, 2025). Ai dazi, contro-dazi: ritorsioni, ripicche. A che pro?

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effimera

Il difficile e illusorio equilibrismo di Trump

di Andrea Fumagalli

Dazi Trump.jpgAlle 16.00 del 2 aprile 2025, ora di Washington, Trump ha annunciato dal Rose Garden della Casa Bianca l’entrata in vigore immediata di dazi sui beni importati del 20% per l’Europa, del 34% per la Cina, del 10% per la Gran Bretagna e in modo differenziato per moltissimi altri paesi. A ciò si aggiunge il dazio del 25% sulle automobili prodotte all’estero. Ricordiamo che tali dazi si sommano a quelli già emessi sull’acciaio e sull’alluminio. Sono entrati in vigore alle 0:01 di sabato ora di Washington (le 6:01 in Italia) i dazi aggiuntivi del 10% imposti dall’amministrazione Trump su gran parte dei prodotti che gli Stati Uniti importano dal resto del mondo: questa soglia minima universale, da cui sono esenti determinati prodotti, si aggiunge ai dazi già esistenti. La Cina ha già adottato le proprie contromisure: verranno applicati dazi sulle merci Usa del 34% a partire dal 10 aprile.

Di fatto è la pietra tombale sulla globalizzazione degli anni ’90 e dei primi 2000, basata sul Washington Consensus a matrice Usa: una realtà che ora appare del tutto diversa se non rovesciata.

 

1. La possibile logica di Trump

Per cercare di capirne la logica (perché le decisioni di Trump non sono frutto di follia), occorre partire da due dati fondamentali per la sostenibilità dell’economia statunitense.

Il primo riguarda il saldo della bilancia commerciale americana, che nell’anno 2024 ha toccato il massimo storico, raggiungendo un valore 1.210 miliardi di dollari con un aumento di 148 miliardi [+14%] rispetto al 2023. La bilancia commerciale americana mostra un saldo negativo con tutti i maggiori partner commerciali degli Stati Uniti, ovvero Cina, Messico, Canada, Vietnam e il blocco dei paesi dell’Unione Europea, non a caso i paesi più colpiti dai dazi di Trump.

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krisis.png

«Perché, prima o poi, il capitalismo ha bisogno della guerra»

di Andrea Zhok

Umberto Boccioni Charge of the LancersIl professor Zhok espone la sua tesi: per sopravvivere, il libero mercato deve crescere. E, quando si ferma, l’ultima risorsa è il conflitto.Il docente di Filosofia morale alla Statale di Milano si inserisce nel dibattito su guerra e riarmo con una lettura molto critica del capitalismo. Secondo l’analisi di Andrea Zhok, il libero mercato, per sopravvivere, richiede una continua crescita. Quando la crescita si arresta, il sistema entra in crisi. E le soluzioni tradizionali – innovazione tecnologica, sfruttamento della forza lavoro, espansione dei mercati – non bastano più. In questa prospettiva, sostiene Zhok, la guerra diventa l’extrema ratio, offrendo al sistema economico un meccanismo di distruzione, ricostruzione e controllo sociale.

* * * *

1. L’essenza del capitalismo

Il nesso tra capitalismo e guerra è non accidentale, ma strutturale, stringente. Nonostante la letteratura autopromozionale del liberalismo abbia sempre cercato di spiegare che il capitalismo, tradotto come «dolce commercio», era una via preferenziale verso la pacificazione internazionale, in realtà questo è sempre stata una conclamata falsità. E questo non perché il commercio non possa essere viatico di pace – può esserlo – ma perché l’essenza del capitalismo NON è il commercio, che ne è solo uno dei possibili aspetti.

L’essenza del capitalismo consiste in uno e un solo punto. Si tratta di un sistema sociale idealmente acefalo, cioè idealmente privo di guida politica, ma guidato da un unico imperativo categorico: l’incremento del capitale a ogni ciclo produttivo.

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mondocane

Yemen, una Little Big Horn araba

di Fulvio Grimaldi

fjopaiseytyhDiciamo subito una cosa. Qui non si parla di “ribelli Houthi”. Qui si parla di yemeniti e di governo dello Yemen. “Ribelli Houthi” lo lasciamo dire ai mistificatori, ignoranti o malevoli,

che provano a negare i suoi titoli a una nazione che ha conquistato la sua libertà e sovranità lottando e spendendo sangue. Una lotta impari, ma vinta, contro chi, quinte colonne, sauditi, aeronautica USA, cercava di tornare a imporgli una storica sudditanza coloniale: troppo strategicamente decisiva la sua posizione all’imbocco della più importante via marittima del mondo.

Ansarallah, Partigiani di Dio, è il nome del movimento di liberazione scita, capeggiato da Abdulmalik Badreddin al-Houthi  (da cui “ribelli Houthi”, per pretendere l’illegittimità della loro conquista del potere), che nel corso di tre lustri ha combattuto i tentativi di ricupero colonialista condotti dai sauditi sotto spinta USA e con la complicità di una quinta colonna interna.

So che gli yemeniti mi perdoneranno l’approccio molto gergale, molto confidenziale del titolo. Me lo posso permettere. Lo so, perché tra gli yemeniti e me c’è molta confidenza, appunto, molta amicizia. Sono, loro, intelligenti, ospitali, spiritosi, disposti all’amicizia. Ci ho vissuto per due anni, nello Yemen, ci conosciamo. Sono perlopiù piccoli, masticano per ore il Qat, una foglia che contiene in misura ridotta il principio dell’amfetamina. La masticano perché toglie l’appetito e loro, da secoli, l’appetito non se lo possono permettere. Così un po’ per volta si sono rimpiccioliti. Corpi piccoli, grande spirito.

Sono i più poveri degli arabi, anche se qualcuno ricorda che per i romani erano gli abitanti dell’Arabia Felix. Felix duemila anni fa, prima che gli passassero sopra invasori e spoliatori d’ogni genere, dagli ottomani, ai pirati, a tutti coloro che volevano togliergli la posizione di controllo sul Mar Rosso, come gli inglesi, i peggiori di tutti. A Sanaa, la capitale, ho visto le Mille e una notte, più che a Babilonia, o a Niniveh.

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guerredirete.png

La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni

di Cesare Alemanni

brian kostiuk S4jSvcHYcOs unsplash scaled.jpgTra gli anni ’90 e il 2016, all’epoca della iper-globalizzazione a egemonia americana, il mondo ha assistito a un processo di divisione del lavoro su scala planetaria. La specializzazione di distretti industriali e aree economiche nelle attività in cui ciascuna godeva dei maggiori “vantaggi comparati” (in termini di sviluppo, risorse, lavoro o logistica) è stata una dei motori dell’accelerazione tecnologica degli ultimi decenni.

La possibilità di ridurre l’investimento nelle infrastrutture produttive, spostando le lavorazioni in luoghi caratterizzati da costi inferiori (pensiamo alla supply chain asiatica di Apple), ha permesso all’industria dell’hardware di liberare immensi capitali da investire nell’innovazione. Tra i settori che hanno cavalcato più intensamente queste dinamiche c’è quello dei microchip (o semiconduttori): l’oggetto tecnologico alla base di tutte le tecnologie, dal banale termostato ai sistemi di guida delle testate nucleari, dalle batterie dei veicoli elettrici ai server per l’addestramento delle intelligenze artificiali.

 

Il modello delle foundry, le fabless e la divisione del lavoro

Negli ultimi trent’anni, le aziende di chip dal maggiore valore di mercato, quasi tutte americane, hanno iniziato ad appaltare gran parte della loro attività di manifattura all’estero, in paesi come Taiwan e la Corea del Sud, dove hanno trovato personale qualificato (i chip richiedono ingegneri molto formati in tutte le fasi della lavorazione) con un costo del lavoro decisamente inferiore. Ha così preso piede, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico, il modello delle “foundry”: aziende di manifattura avanzatissima, che fabbricano chip per conto di aziende occidentali, le quali possono così concentrarsi sulla curva dell’innovazione, che nei chip si incarna nella celebre “legge di Moore” (ovvero l’osservazione che il numero di transistor contenuti in un chip raddoppia ogni due anni).

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blackblog

Dal Welfare al Warfare: keynesismo militare

di Michael Roberts

europa guerra 1 1711063311250.png .pngIn Europa, il "guerrafondaismo" è arrivato al suo culmine.Tutto è cominciato con gli Stati Uniti che, sotto la presidenza di Trump, hanno deciso che non vale la pena spendere soldi per proteggere militarmente le capitali europee dai potenziali nemici. Trump vuole impedire che gli Stati Uniti paghino la più parte del finanziamento della NATO - la quale fornisce la propria potenza militare - e inoltre vuole mettere fine al conflitto Russia-Ucraina, in modo da poter così concentrare la strategia imperialista degli Stati Uniti sull'emisfero occidentale e sul Pacifico, con l'obiettivo di "contenere" e indebolire l'ascesa economica della Cina. La strategia di Trump ha gettato nel panico le élite dominanti europee, improvvisamente preoccupate che l'Ucraina perda contro le forze russe, e che pertanto tra non molto Putin sarà ai confini della Germania o - come sostengono sia il premier britannico Keir Starmer che un ex capo dell'MI5, sarà «per le strade della Gran Bretagna». Qualunque possa essere la validità di questo presunto pericolo, si è venuta però a creare l'opportunità, per i militari e i servizi segreti europei, di "alzare la posta" e chiedere così la fine di quei cosiddetti "dividendi di pace" che avevano avuto inizio dopo la caduta della temuta Unione Sovietica, e in tal modo avviare ora il processo di riarmo. Kaja Kallas, alta rappresentante della politica estera dell'UE, ha spiegato il modo in cui vede la politica estera dell'UE: «Se insieme non siamo in grado di esercitare abbastanza pressione su Mosca, allora come possiamo affermare di poter sconfiggere la Cina?» Per riarmare il capitalismo europeo, sono stati offerti diversi argomenti: Bronwen Maddox, direttrice di Chatham House, il "think-tank" per le relazioni internazionali che rappresenta principalmente le opinioni dello stato militare britannico, se n’é venuto fuori con l'affermazione che «la spesa per la "difesa" è il più grande beneficio pubblico per tutti, poiché essa è necessaria per la sopravvivenza della "democrazia" contro le forze autoritarie». Ma c'è un prezzo da pagare per difendere la democrazia: «il Regno Unito potrebbe dover prendere in prestito di più per poter pagare le spese per la difesa di cui ha così urgente bisogno.

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labottegadelbarbieri

Il realismo appassionato di Piero Bevilacqua

di Giorgio Monestarlo

Recensione di Giorgio Monestarlo a «La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione europea» (Castelvecchi, 2025)

nòoaswuergftuiIl libro di Piero Bevilacqua è piccolo (per pagine) ma grande per saggezza e radicalità. Bevilacqua è uno storico di razza, attento conoscitore dell’agricoltura e dell’economia italiana, meridionalista e pioniere della storia ambientale.

Collocandosi in una corrente che critica e demistifica l’interpretazione ufficiale della guerra in Ucraina, Bevilacqua in realtà si muove su un piano che non è tanto quello dell’approfondimento geopolitico del conflitto quanto quello di una serrata rilettura della storia statunitense ed europea dal dopoguerra ai giorni nostri. In altri termini, “la guerra mondiale a pezzi” acquista nelle pagine di Bevilacqua il significato di rilevare, in modo chiaro, la natura di un processo storico pluridecennale che è giunto al suo compimento e che coincide in sostanza con il progetto di predominio statunitense edificato, con successi e fallimenti, all’indomani della vittoria sui nazifascisti e della spaccatura con l’Urss, momento cruciale di quella volontà di dominio unipolare che ha mosso con ferrea continuità la politica di Washington. Di qui la netta contrapposizione di Bevilacqua tra la cultura e il sapere che la storia può offrire per formare una coscienza critica degna di questo nome e invece l’informazione giornalistica che, tranne poche eccezioni, risponde non tanto al bisogno di verità ma piuttosto alla creazione del consenso che questo o quel decisore politico o economico di volta in volta impongono come presunto, e in realtà esattamente opposto, interesse generale.

Anche per questo motivo Bevilacqua rivendica il bisogno di storia che attraversa in lungo e in largo la nostra società: la storia spiega la complessità, la storia è in grado di smascherare l’occultamento della verità su cui si regge il potere, occultamento che è tanto più invadente quanto più il potere traballa.

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seminaredomande

Le conseguenze economiche del ReArm Europe

Una pericolosissima operazione tutta finanziaria

di Francesco Cappello

La riconversione bellica, Smantellamento del welfare a vantaggio del warfare

photo 2025 03 18 09 39 10 1 691x641.jpgL’Unione europea, che ha già subito la rottura dei rapporti con la Russia imposta dagli USA (si pensi al sabotaggio USA del North Stream) causa prima della incipiente recessione economica, sotto l’ipnosi indotta dalla volontà inglese – che intervengono per sabotare ogni trattativa di pace – e del sistema delle lobby da cui sono governati, piuttosto che riattivare la diplomazia con la Russia, negoziando con essa il ripristino dell’architettura di sicurezza europea, ha varato la risoluzione 0146/2025 che pretende di portare l’Europa in guerra con la Federazione Russa schierandosi incondizionatamente con Kiev, impegnandosi a fornire più armamenti e a revocare i precedenti limiti sull’uso delle armi fornite autorizzando a usarle per colpire in profondità la Russia, rimuovendo le gravi conseguenze inscritte nella nuova dottrina nucleare russa.

Il punto 32 della risoluzione invita esplicitamente gli Stati membri a prepararsi perle evenienze militari più estreme e sottolinea la necessità di ridurre gli ostacoli presenti nelle legislazioni nazionali e dell’UE che potrebbero compromettere le esigenze di difesa e sicurezza europee. Come è noto sono già state proposte modifiche alla legge 185/1990 sul commercio di armi in Italia che mirano a ridurre la trasparenza e i controlli sull’export di armamenti [1].

L’art. 11 dalla Costituzione che ripudia la guerra in generale ed in particolare come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è, per fortuna, intangibile perché parte dei primi dodici articoli che non possono essere né rimossi né riformabili. Questi articoli sono considerati il cuore della Costituzione e non possono essere modificati nemmeno attraverso il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138.

 

Le conseguenze economiche del ReArm Europe

Nel 2025, il debito pubblico italiano in scadenza che dovrà essere rinnovato, ammonta a circa 350 miliardi di euro. Si tratta di titoli di Stato che necessitano di essere rifinanziati per mantenere la stabilità economica del paese.

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collettivolegauche

 La nuova grande trasformazione: il capitalismo cognitivo secondo Boutang

di Collettivo Le Gauche

71BUSsCS31L.jpg1. Introduzione

Il libro Le capitalism cognitif. Le nouvelle grande trasformation di Yann Moulier Boutang offre una riflessione profonda e articolata sull’attuale fase del capitalismo, mettendo in luce un contrasto evidente tra la dinamicità del capitalismo e la stagnazione della politica. Negli ultimi decenni il sistema capitalistico ha subito una trasformazione radicale, espandendosi globalmente e penetrando in contesti un tempo considerati impermeabili, come la Cina, che pur mantenendo una struttura politica comunista, ha abbracciato un modello economico capitalista. Questo capitalismo non si limita a sopravvivere ma prospera, spostando confini e ridefinendo le regole del gioco. La sua forza risiede nella capacità di reinventarsi continuamente, di sfruttare nuove tecnologie e di creare nuovi mercati, anche in aree precedentemente inesplorate. La risposta della politica, invece, sembra paralizzata. La caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, eventi che avrebbero potuto aprire la strada a nuove idee e visioni politiche, hanno invece coinciso con una sorta di “pensiero unico” dominante, in cui il capitalismo è diventato l’unico sistema di riferimento. La politica si è ridotta a una gestione tecnica delle cose, perdendo la sua capacità di immaginare un futuro diverso. Autori come Fukuyama, con la sua teoria della fine della storia, hanno contribuito a diffondere l’idea che il capitalismo rappresenti il punto finale dell’evoluzione umana, un’era in cui i conflitti ideologici sarebbero stati sostituiti da una pacifica amministrazione tecnica. Questa visione si è rivelata illusoria: le guerre e i conflitti continuano a proliferare e il mondo è tutt’altro che pacificato. La politica, invece di rispondere a queste sfide con nuove idee, sembra ripiegarsi su se stessa, ripetendo vecchi schemi e rifugiandosi in nostalgie del passato. Si assiste a un ritorno ai nazionalismi, ai fondamentalismi religiosi e a forme di socialismo che sembrano più un’evocazione del passato che una proposta per il futuro.

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sinistra

Siamo al dunque

di Algamica*

algamica Siamo al dunque definitivo html 92c9b73eea7a658e.png«Siamo entrati, sembriamo non volerlo comprendere, in una fase della storia inedita e pericolosa» scriveva Walter Veltroni sul Corriere della sera l’8 febbraio di quest’anno. Un giudizio che condividiamo appieno. Ma in che senso è inedito e pericoloso, perché e innanzitutto per chi?

Partiamo, come sempre dai fatti per cercare di capire cosa sta succedendo realmente e di cosa ci dobbiamo aspettare. Due sono le questioni in primo piano: la crisi in Medioriente e quella in Ucraina, con risvolti storici tempestosi.

Diciamo fin da subito che lo spettacolo piuttosto indecoroso che stanno offrendo le cancellerie occidentali sull’Ucraina è degno della “migliore” tradizione del liberalismo occidentale: partire lancia in resta quando la storia gonfiava le sue vele e arretrare vergognosamente senza volerne ammettere l’evidenza.

Cerchiamo di chiarire di cosa parliamo: è acclarato che l’Occidente nel suo insieme, causa la crisi storica del modo di produzione capitalistico che non riesce più a far ripartire l’accumulazione, aveva deciso, scegliendo Kiev come testa d’ariete per provocare la Russia, attirarla in una guerra, batterla, smembrarla e stravincere la Guerra fredda, gestire le sue risorse energetiche e tentare di riprendere il controllo della dominazione imperiale ormai in declino. Detto altrimenti una sorta di una nuova Israele più a est. Si trattava di un passaggio obbligato per cercare di recuperare un rapporto con il resto del mondo, l’Asia in modo particolare che la sta sopravanzando nella concorrenza e in particolare per quanto riguarda la produzione e l’approvvigionamento di quelle materie prime e di quei metalli rari necessari alla nuova industria e alla logistica delle telecomunicazioni, che abbondano appunto in Cina, in America Latina, nel cuore dell’Africa, in Russia e in Ucraina e perfino in Groenlandia e di cui sono sprovvisti le nazioni avanzate dell’Occidente e gli Stati Uniti. Dunque un potere capitalistico in affanno che aveva già alle spalle una serie di sconfitte a cominciare dal Vietnam per finire alla fuga precipitosa dall’Afghanistan oltre all’odio guadagnato in gran parte del resto del mondo per i suoi comportamenti gangsteristici.

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pierluigifagan

Il capitalismo della frammentazione

Recensione al libro di Quinn Slobodian, Einaudi, 2023

di Pierluigi Fagan

9788806251765 0 0 536 0 75 1.jpgSlobodian è uno storico canadese, già autore dell’ottimo Globalist. La fine dell’impero e la nascita del neoliberismo (Meltemi 2021), qui in indagine sull’evoluzione del sistema ideologico di certo capitalismo anglosassone ovvero l’anarco-capitalismo. Titolo originale dell’opera: Crack-Up Capitalism: Market Radicals and the Dream of a World Without Democracy che ha il merito di chiarire subito il punto centrale della questione: un mondo dominato dal mercato e il capitale, libero da ogni residua forma di democrazia.

La forma economica capitalistica sappiamo essere presente in vari modi e intensità nell’intera storia umana incluso il tardo medioevo italiano che creò e raffinò gran parte degli elementi di questa forma economica. Ma solo quando si impossessò dello stato con la Gloriosa rivoluzione inglese del 1688-89, cominciò a diventare sia la forma completa che conosciamo, sia l’unica forma di economia ammessa. Dopo quasi due secoli e mezzo, Il Regno Unito arrivò ad accettare il pieno suffragio universale della forma di rappresentanza parlamentare che diciamo impropriamente “democrazia”. Dopo guerra e dopoguerra, inizia il fastidio delle élite per questa pur imperfetta forma di “democrazia”, precisamente dagli anni ’70 e le prime teorizzazioni dei think tank americani, dalla Trilaterale di Samuel Huntington in giù. A seguire, la versione con sempre meno politica ovvero democratica e sempre più dittatura prima della mano invisibile, poi del capitale finanziario detta “neo-liberismo”. L’anarco-capitalismo è la radicalizzazione ulteriore che, come da titolo originale del libro di Slobodian, sogna un mondo totalmente libero dai vincoli sociali e politici ovvero una monarchia o aristocrazia del capitale.

Tale ideologia anarco-capitalista non va presa come un canone ferreo ma come una costellazione di concetti, ispirazioni e tendenze. Può darsi che, a parte i teorici deputati a disegnare mondi di perfezione logica poco realistici che hanno il fascino dell’ideale, alcuni elementi possano essere usati per applicazioni parzialmente diverse ma concrete come sta facendo e sempre più farà Donald Trump. Vale dunque la pena di vedere cosa dice l’indagine di Slobodian.

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lantidiplomatico

L’Occidente ha i secoli contati (ma l’Europa unita finirà molto prima)

di Alessandro Somma

9791255430469 0 0 0 0 0.jpgIl saggio di Emmanuel Todd sulla sconfitta dell’Occidente convince soprattutto nella previsione circa la fine dell’Unione europea come conseguenza del suo appoggio incondizionato alla guerra condotta dagli Stati Uniti contro la Russia. L’Unione nasce del resto come progetto atlantista, concepito per serrare le fila del mondo capitalista e affossare il costituzionalismo democratico e sociale sorto come reazione alla sconfitta del fascismo. E si sviluppa sotto forma di dispositivo neoliberale irriformabile, in quanto tale destinato a minacciare a tal punto le società europee da far apparire una loro reazione avversa come inevitabile e prima o poi destinata a produrre il disfacimento dell’Unione.

Todd trascura però le differenze tra il costituzionalismo democratico e sociale e quello liberale, e con ciò elementi fondamentali per analizzare la crisi della democrazia provocata dalla virulenza del neoliberalismo. Per contro sopravvaluta il ruolo della religione in quanto fondamento per il recupero della dimensione comunitaria indispensabile al successo del costituzionalismo: anche il neoliberalismo possiede una simile dimensione, nel cui ambito la religione ben può divenire una fonte di valori premoderni buoni solo a sostenere la modernità capitalista.

 

Il declino dell’Occidente e il neoliberalismo

La letteratura sul declino dell’Occidente ha una tradizione relativamente lunga. Prende corpo con il celeberrimo volume di Oswald Spengler, pubblicato alla conclusione del primo conflitto mondiale con una tesi decisamente reazionaria: il “tramonto” della civiltà occidentale veniva attribuito alla centralità assunta dal denaro alimentata dalla democrazia, tanto che lo si sarebbe potuto arrestare solo con l’avvento del cesarismo[1].

Da allora molti si sono cimentati con lo stesso tema e con sensibilità le più disparate, quindi non solo per sponsorizzare soluzioni antidemocratiche al declino dell’Occidente.

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seminaredomande

Crepe profonde nel sistema economico occidentale

di Francesco Cappello

I patologici squilibri indotti dal modello economico occidentale risultano sempre più insostenibili. La finanziarizzazione estrattiva/speculativa genera e alimenta il conflitto globale

Schermata 2025 01 29 alle 22.11.10.pngLa pratica neoliberista che obbliga gli Stati a finanziarsi facendo ricorso esclusivo ai mercati finanziari, vendendo titoli a soggetti non residenti in cambio di soldi da restituire con gli interessi, è sempre meno sostenibile. I costi dei debiti sovrani crescono rapidamente, creando un potenziale rischio per l’economia globale. Il rendimento dei titoli di Stato USA a 10 anni [1], attualmente al 4,5% potrebbero crescere sino al 5% o più. Già questo singolo fattore è indice di una fragilità crescente delle economie occidentali. Non si tratta, infatti, di un fenomeno circoscritto agli Stati Uniti, ma si sta verificando anche altrove: Gran Bretagna (4,58%), Italia (3,65%) e Francia (3,29%), Ungheria (6,74), Messico (9,61%), Sud Africa (10,11%), Brasile(10,75%), Turchia (25,51%) tutti paesi con tassi in rapido aumento. Era già accaduto nel 2007, prima della crisi finanziaria del 2008, e all’alba del secolo che ha visto valori superiori al 5%.

 

Perché allarma l’aumento dei tassi a lunga scadenza?

Alti Rendimenti finanziari inducono i possessori di capitali a farli fruttare finanziariamente piuttosto che investirli nell’economia reale. L’aumento dei tassi d’interesse drena, infatti, capitali dall’economia produttiva, spingendo cittadini e aziende a risparmiare invece di spendere ed investire, con evidenti conseguenze negative sull’attività economica. I prestiti necessari agli investimenti costano di più, viceversa, investire finanziariamente capitali rende di più e con zero rischio di impresa.

Per i governi, la situazione è ancora più complessa: molti paesi spendono più di quanto incassano con le entrate fiscali, vedendosi costretti a tagli nello stato sociale e ad aumentare il debito per far fronte al debito tramite l’emissione di nuove obbligazioni.

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui un estratto del volume

Qui comunicato stampa

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Qui una recensione del volume

Qui una slide del volume

 

2025 03 05 A.V. Sul compagno Stalin

Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF

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Qui quarta di copertina

Qui un intervento di Gustavo Esteva attinente ai temi del volume

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Qui una scheda del libro

 

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Qui la premessa e l'indice del volume

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Qui la seconda di copertina

Qui l'introduzione al volume

 

 

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Qui il volume in formato PDF

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Qui l'indice e la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui una anteprima del libro

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Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Terry Silvestrini

Qui una recensione di Diego Giachetti

 

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Qui una presentazione del libro

 

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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

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Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Ciro Schember

 

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

Qui l'introduzione

 

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Qui l'introduzione al volume

 

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Qui una recensione del libro

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

 

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Qui la quarta di copertina

Qui una presentazione

 

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Qui una recensione di Luigi Pandolfi

 
Enrico Grazzini è giornalista economico, autore di saggi di economia, già consulente strategico di impresa. Collabora e ha collaborato per molti anni a diverse testate, tra cui il Corriere della Sera, MicroMega, il Fatto Quotidiano, Social Europe, le newsletter del Financial Times sulle comunicazioni, il Mondo, Prima Comunicazione. Come consulente aziendale ha operato con primarie società internazionali e nazionali.
Ha pubblicato con Fazi Editore "Il fallimento della Moneta. Banche, Debito e Crisi. Perché bisogna emettere una Moneta Pubblica libera dal debito" (2023). Ha curato ed è co-autore dell'eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro" ” , 2015. Ha scritto "Manifesto per la Democrazia Economica", Castelvecchi Editore, 2014; “Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori Riuniti, 2011; e “L'economia della conoscenza oltre il capitalismo". Codice Edizione, 2008

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Qui l'indice del libro e l'introduzione in pdf.

 

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Qui la quarta di copertina

Ancora leggero

Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

La Democrazia sospesa Copertina

Qui la quarta di copertina

Qui una recensione di Giuseppe Melillo

 

 

cocuzza sottile cover

Qui l'introduzione di Giuseppe Sottile

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