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Quelle liberalizzazioni incostituzionali
Lorenzo Dorato*
Gli obiettivi di liberalizzazione dei mercati (e in subordine logico quelli di privatizzazione) - definiti a partire dalle direttive dell’Unione europea della fine degli anni ‘80, principio anni ‘90 - si sono imposti come preminenti rispetto ad altri obiettivi di politica industriale ad essi divenuti subordinati, a scapito così di quella flessibilità discrezionale e di quegli ampi margini di manovra che avevano caratterizzato l’approccio delle politiche pubbliche di intervento nei sistemi produttivi nel trentennio immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale (e in parte già dagli anni ’30 del novecento).
Il paradigma liberista, posto come unica opzione possibile, ha eroso in maniera sistematica e progressiva i margini di flessibilità delle politiche industriali degli Stati nell’orientamento dei sistemi produttivi nazionali (erosione, va detto, avvenuta di fatto in forme asimmetriche tra paese e paese, segno di una chiara gerarchia nei rapporti di forza). Si è trattato di un vero e proprio sconvolgimento paradigmatico che ha radicalmente mutato il ruolo dello Stato nella sua capacità di intervento nelle dinamiche del sistema produttivo. Da uno Stato interventista, pensato come governatore dei processi economici a garanzia di obiettivi politici e sociali, si è giunti ad uno Stato regolatore del mercato e del libero gioco della concorrenza. La regolazione ha sostituito la programmazione. E così si è consumato un radicale contrasto tra la concezione di governo del sistema economico che emerge dal dettato costituzionale italiano e la concezione che invece prescrive la normativa comunitaria.
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Austerità autolesionista?
di Dawn Holland e Jonathan Portes
I governi dell'UE hanno ciascuno singolarmente adottato severi programmi di austerità, nel tentativo di evitare di diventare il prossimo Portogallo. Questo articolo presenta i risultati del National Institute Global Econometric Model, i quali suggeriscono che le politiche, pur razionali se considerate singolarmente, stanno portando alla follia collettiva. Il ''paradosso della parsimonia" di Keynes è in pieno svolgimento, in quanto le nazioni dell'UE continuano a comportarsi come piccole economie aperte, mentre in realtà sono una grande economia chiusa.
L'austerità - in particolare i programmi di risanamento di bilancio in corso nella maggior parte dei paesi dell'UE - è autolesionista? DeLong e Summers (2012) hanno sostenuto che, nelle attuali circostanze economiche, l'impatto negativo del risanamento di bilancio sulla crescita può essere così forte che gli effetti sul rapporto debito/PIL diventano perversi, provocandone un aumento invece che una diminuzione. Questa domanda è stata bruscamente messa in luce dalla tardiva rivalutazione da parte del FMI della grandezza del "moltiplicatore fiscale" nei principali paesi industrializzati durante la Grande Recessione (IMF 2012), anche se il loro metodo, che chiaramente non è definitivo, è stato contestato da Giles (2012).
In una recente ricerca, abbiamo fatto il primo tentativo – a quanto ci risulta – di costruire un modello sull'impatto quantitativo del consolidamento fiscale coordinato in tutta l'UE, usando il National Institute Global Econometric Model, e tenendo conto della congiuntura economica attuale (Holland e Portes 2012).
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Gli squilibri europei e la lezione di Keynes
di Alessandro Bramucci
La crisi economica mondiale esplosa nel 2007 negli Stati Uniti con lo scoppio della bolla immobiliare e il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers nel Settembre del 2008 affonda le sue radici nella finanza. La deregolamentazione del settore bancario, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, ha permesso la trattazione di prodotti finanziari altamente rischiosi il cui fallimento, scatenato dal default dei mutui sub-prime e dal collasso dei prezzi nel settore immobiliare americano, ha aperto enormi voragini nei bilanci delle più grandi banche d’affari del mondo.
Tuttavia in Europa la crisi finanziaria si è presto evoluta in crisi del debito sovrano. Tra il 2010 ed il 2011 molte economie dell’Euro zona hanno visto il carico del debito pubblico aumentare consistentemente come conseguenza sia dei piani di salvataggio per il settore bancario, sia per l’ausilio di politiche fiscali espansive per far fronte alla recessione nell’economia reale. L’aumento eccessivo del debito ha poi innescato la speculazione finanziaria. Gli stati periferici dell’area Euro come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, si sono trovati nella condizione di dover pagare tassi di interesse insostenibili sull’emissione del debito sovrano per potersi finanziare sul mercato dei capitali privati.
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Nuova governance Ue: il tentativo di uscire da destra dalla crisi
di Alfonso Gianni
In uno dei suoi consueti articoli domenicali sul Sole24Ore Guido Rossi ha scritto che nel contesto dell’attuale globalizzazione «la sovranità degli Stati nazione ha dunque abdicato e lo Stato di diritto si è trasformato in uno Stato dell’economia». Questa citazione - che sembra riecheggiare il passaggio dall’homo aequalis all’homo oeconomicus per dirla alla Louis Dumont - potrebbe a tutti gli effetti essere apposta come lapide all’idea dell’Europa politica dei popoli sepolta dopo il vertice di fine giugno.
In effetti la tanto attesa, e pour cause temuta, riunione del Consiglio Europeo del 28-29 giugno a Bruxelles ha portato a un primo significativo compimento di un percorso non breve che ha condotto le elites europee - più che malgrado, grazie alla più grave crisi economica della storia del capitalismo in Europa - a dotarsi di un sistema compiuto di governance continentale in campo economico e politico. Con molto amaro in bocca si potrebbe persino dire che l’evento almeno un suo piccolo lato positivo ce l’ha, dal momento che da questa data in poi a nessuno dovrebbe essere più consentito di reclamare la costruzione di un governo del sistema economico europeo, quasi che questo fosse in quanto tale un elemento intrinsecamente positivo. Ora la governance c’è, è dotata di snelle articolazioni e robuste rigidità, come si conviene a ogni costruzione sistemica, e corrisponde certamente al tentativo organico di un’uscita da destra dalla crisi, grazie a l rilancio in grande stile di un neoliberismo aggiornato e corretto.
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Vi spiego i piani di chi vuole più Europa
di Fabrizio Tringali
Buongiorno a tutti. Sono Fabrizio Tringali e sono l'autore di un libro uscito da poco sull'euro e sull'Unione Europea; il titolo del libro è “La trappola dell'Euro. Le cause, la crisi, le conseguenze e la via d'uscita”, scritto insieme a Marino Badiale che insegna matematica all'Università di Torino.
Sono molto grato a Claudio Messora per avermi dato la possibilità di raccontarvi qualcosa, rispetto alla crisi che stiamo vivendo, che spero possa esservi utile, affrontando anche qualche aspetto che magari finora non è stato del tutto affrontato. In effetti Marino Badiale ed io iniziamo a parlare della crisi e soprattutto del fatto che le cause della crisi vanno ricercate prevalentemente nell'euro già dai primi mesi del 2011, quando iniziammo a discutere di queste cose pubblicando un breve saggio all'epoca e venivamo abbastanza guardati come matti, ci dicevano che la crisi è dovuta al debito pubblico, la crisi è dovuta a Berlusconi, la crisi è dovuta alla corruzione, alla mafia, la crisi è dovuta a questo paese che non è capace di stare al pari con gli altri paesi dell'Europa migliori di noi. Ecco, tutte queste cose, che possono essere in parte vere, in parte non lo sono affatto e in parte magari sono, per così dire, delle aggravanti rispetto ad una situazione di crisi che però non è assolutamente dovuta a questo ma è dovuta appunto alla moneta unica. E questo, finalmente, devo dire che nel dibattito pubblico sta emergendo ormai, sta emergendo da tutte le parti, anche grazie al lavoro che sta facendo Claudio Messora, ma anche grazie a una persona come Alberto Bagnai, per esempio, che con un bellissimo blog ha spiegato moltissimi degli aspetti, delle criticità dell'euro, tra l'altro Alberto ha scritto anche la prefazione al libro che io e Marino abbiamo scritto.
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I due debiti gemelli dell’Eurozona
Rosaria Rita Canale e Ugo Marani
A seguito della crisi finanziaria del 2007, i paesi dell’Eurozona hanno teso a separarsi in due grossi blocchi a seconda della loro capacità di rispettare i vincoli comunitari dei parametri relativi al disavanzo e al debito pubblico.
L’opinione prevalente, e in primo luogo quella delle istituzioni comunitarie, ha teso, in base a un discutibile criterio di causalità, a mettere in relazione fragilità nazionali e dissipatezza delle finanze pubbliche e a individuare il fiscal retrenchment quale condizione necessaria per il ripristino della credibilità nazionale e della sopravvivenza della valuta unica.
Man mano che la crisi si acutizzava, un più rilevante elemento di squilibrio si evidenziava: un’external imbalance, ovvero la presenza, e in taluni casi la compresenza, di deficit delle partite correnti e di deflusso dei capitali a breve termine. Si tratta di uno squilibrio decisivo che merita un’attenta valutazione, ma che, dalla governance europea è stato celermente assorbito nell’interpretazione consueta, in ragione delle relazioni che si presume esistano tra external imbalance e fiscal imbalance. Una sintesi lucida di questo approccio è contenuta nell’ultimo Rapporto dello European Economy Advisory Group (EEAG 2012): un incremento del disavanzo e del debito pubblico agisce negativamente su entrambe le componenti della bilancia dei pagamenti, aumentando il livello di importazioni di beni e minando la credibilità dei titoli pubblici.
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Crisi mondiale e crisi dell'euro
Dafni Ruscetta intervista Bruno Amoroso
• Professor Amoroso, secondo lei l’Italia è davvero vicina all’uscita dal tunnel, come ha dichiarato il Premier Monti? Oppure ‘la notte è ancora lunga’?
La metafora della luce in fondo al tunnel fu utilizzata dal generale William Westmoreland nel 1968, durante un’audizione al senato degli Stati Uniti per la guerra in Vietnam. Quattro anni dopo le sue truppe fuggivano a gambe levate dal tetto dell’ambasciata di Saigon. Nel caso di Monti – e dell’Italia – è sbagliata perché non stiamo avanzando velocemente dentro un tunnel, ma precipitando dentro un pozzo senza fondo. La speranza è che ci si aggrappi a qualcosa per poter poi risalire. Questo qualcosa è distruggere le istituzioni della finanza e della politica che hanno preparato questa crisi – la finanza con scopi predatori e la politica per partecipare al “dividendo” della rapina – e ricostruire un nuovo sistema nazionale e internazionale dove i criteri di giustizia sociale e di sovranità popolare siano rimessi al centro.
• E’ ancora realistica e imminente l’ipotesi di un default di alcuni stati del sud Europa? E l’ipotesi di un crac bancario generalizzato?
Le politiche attuate dall’UE e dalla Banca Centrale Europea preparano la nuova ondata di speculazioni che stanno di fatto foraggiando e dando soldi alle grandi banche, e cioè ai centri della finanza speculativa, e facendo riacquistare ai cittadini europei i titoli spazzatura per rimmetterli poi in circolazione.
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La Germania contro tutti
di Giorgio Gattei
1. Se la Grande Germania ritorna.
Quando i giornali raccontano la speculazione finanziaria in atto come un attacco dei “mercati” contro l’Europa, non la dicono giusta. Innanzi tutto, cosa sono mai questi “mercati”? «Hanno fisionomia giuridica, un portavoce, un responsabile, un legale rappresentante, qualche nome e cognome al quale, all’occorrenza, presentare reclamo? Qualcuno ha mai votato per loro? Se sbagliano, si dimettono? Quando e dove è stato deciso che il loro giudizio (il famoso “giudizio dei mercati”) conta di più dell’intera classe politica mondiale?» (M. Serra, “La Repubblica”, 19.6.2012). E poi, siamo proprio sicuri che essi si muovano contro l’Europa od il suo omologo monetario, l’euro, e non piuttosto contro qualcosa di ben più specifico e nazionale come la Germania? Per capirlo, bisogna partire da lontano.
Si è ormai costituito da tempo a livello planetario un vero e proprio partito della finanza che comprende tutti coloro che guadagnano dai movimenti dl capitale speculativo. Stimabile attorno ai 90 milioni di persone, questo vero e proprio “blocco sociale” opera sui mercati di Borsa «come un partito informale ma solidissimo, in grado di determinare l’andamento dell’economia e di condizionare in modo determinante la politica» (A. Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Milano 2012, p. 43).
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Tecnica e politica
di Alberto Bagnai
Caro professor Bagnai,
anch'io ho l' impressione che lei tenda, forse inconsapevolmente, ad eludere alcuni nodi politici la cui soluzione sarebbe secondo me prioritaria rispetto ad ogni soluzione tecnica. Alla questione se la creazione di moneta produca inflazione non c'è una risposta univoca ( e negativa ) come lei sembra suggerire. Credo sia ovvio, anche per un non economista, che se si impiegasse la moneta creata per foraggiare ulteriormente il sistema clientelare siciliano, abolire l'imu sulle seconde case e abbassare le tasse ai milionari, oppure ancora per fornire alla mia modesta persona un vitalizio di 100.000 euro mensili, questa nuova moneta circolante creerebbe inflazione e basta.
Viceversa se si impiegasse la nuova moneta per finanziare un serio programma di lavori pubblici o di formazione l'effetto sarebbe probabilmente un aumento del pil e non dell' inflazione. Dunque, a mio modesto avviso, la questione dell’indipendenza della banca Centrale non è tecnica ( come lei sembra suggerire) ma eminentemente politica e precisamente è un una questione di fiducia : "si può avere fiducia che la classe politica cui verrà affidato l'enorme potere di creare moneta userà questo potere per il bene del paese e delle classi meno abbienti ?"
Per quanto riguarda me ( e,credo, milioni di altri cittadini )la risposta è "no !", assolutamente "no!". Se permette aggiungerei che personalmente preferirei eleggere George Soros dittatore italiano a vita piuttosto che affidare a tipi come Berlusconi o a quello della carriola la fase di transizione e il successivo potere di creare moneta. Insomma, professor Bagnai, dando per scontata la correttezza e brillantezza tecnica della sua analisi vorrei che lei si fermasse a riflettere sul fatto che ci sta sostanzialmente chiedendo di fidarci di Bersani, di Berlusconi e di Monti (ovvero, ma è lo stesso, dei loro epigoni).
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Inflazione, svalutazione e quota salari
di Alberto Bagnai
Parliamo di cose serie.
Nel dibattito che si sta (forse) svolgendo a sinistra circa l'opportunità di uscire dall'euro, un argomento che viene portato avanti è quello secondo il quale dall'euro ci sarebbero due uscite: una a destra, e una a sinistra. Il che attribuisce all'euro un vantaggio, rispetto ad altri posti dai quali si usciva in un modo solo.
Ho un po' polemizzato su questo con Emiliano Brancaccio, anche perché, come avrete capito, mi ero risentito (ma ingiustamente) per un suo articolo nel quale pareva che dividesse gli economisti italiani in tre categorie: da una parte lui, e dall'altra due categorie di fessi: quelli che "fuori dall'euro c'è la guerra" e quelli che "usciamo e tutto si risolve per magia". D'altra parte, che ho un carattere di merda non riesco a nasconderlo. Nel frattempo abbiamo raggiunto un accordo sul fatto che la tassonomia degli economisti italiani è un po' più articolata, e possiamo tornare serenamente al lavoro.
Come credo sappiate, personalmente non ho mai sostenuto né che l'uscita sarà una passeggiata, né che risolverà tutti i problemi. L'uscita sarà costosa, ma i costi non saranno quelli che il terrorismo mediatico suggerisce. L'uscita non risolverà tutti i problemi, perché bisognerà gestire bene la sovranità riacquistata. Su questo ultimo punto il blog abbonda di spunti che sto sistematizzando nel mio libro. Diciamo che praticamente tutto quello che la sinistra propone per tenere in vita l'euro va bene, purché lo si applichi dopo l'uscita dall'euro. Ma di questo parliamo un'altra volta.
Tornando alle due uscite, io trovo il dibattito relativamente poco rilevante per due motivi. Il primo è che purtroppo questo dibattito si è già svolto, in Francia, con le critiche di Jacques Sapir al piano di Marine Le Pen. Sono critiche che hanno più che altro portato fortuna alla Le Pen, come sapete. Il secondo motivo, più serio, è che certo, bisogna pensare al dopo.
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Lo spread che vale una legislatura
Carlo Clericetti
Uno dei più persistenti dibattiti sui vari aspetti della crisi è quello che verte sul fatto che l’Italia sia costretta o no a chiedere l’intervento del Fondo salva-Stati per ridurre il costo del debito. E’ ormai universalmente accettato – visto che l’hanno affermato anche istituzioni internazionali oltre che politici ed economisti italiani e stranieri – che questo costo, assai più elevato per i paesi del sud Europa rispetto a quelli del centro-nord, dipenda per una parte rilevante non dalla sfiducia nella capacità dei vari Stati di ripagare i debiti, ma dall’ipotesi non del tutto improbabile di una rottura dell’euro. Se si tornasse alle monete nazionali quelle del sud subirebbero una svalutazione e le altre una rivalutazione, generando rispettivamente perdite o guadagni per i possessori dei titoli denominati nelle nuove valute. I rendimenti elevati richiesti alle monete del sud incorporano dunque il rischio di quelle perdite, mentre la possibilità di un extra-guadagno fa sì che gli investitori nelle monete del nord si accontentino di rendimenti bassissimi o addirittura negativi.
Il problema più grave non è comunque la maggiore spesa per il servizio del debito, ma il fatto che anche i tassi sui prestiti all’economia seguano l’andamento di quelli sui titoli pubblici, rendendo ancora più difficile alle imprese di questi paesi la competizione sui mercati. Così queste imprese subiscono un doppio strangolamento: quello della recessione indotta dalle misure di austerità, ulteriormente inasprite per i maggiori costi del debito; e quello di un costo del denaro doppio o triplo rispetto ai concorrenti esteri.
Una banca centrale veramente indipendente dalla politica avrebbe dovuto intervenire già da tempo per porre riparo a queste disastrose distorsioni.
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Replica a Randall Wray
di Sergio Cesaratto
Ecco tradotto in italiano l'intervento di Sergio Cesaratto in risposta a Randall Wray nel dibattito MMT/eterodossi, dove viene affrontato il punto se la piena sovranità monetaria sia condizione sufficiente per evitare le crisi di bilancia dei pagamenti.
"Il fatto che i singoli paesi non hanno più le loro valute e le banche centrali metteranno nuovi vincoli alla loro capacità di attuare politiche fiscali indipendenti. ... Ma ancora più inquietante è l'idea che con una moneta comune 'il problema della bilancia dei pagamenti' venga eliminato e, pertanto, che i singoli paesi siano sollevati dalla necessità di pagare le loro importazioni con le esportazioni. Al contrario: l'esistenza di una moneta comune rende un paese più direttamente dipendente dalla sua capacità di esportare, più di quanto non lo fosse prima ... ". Godley 1991
Ci sono due aspetti del dibattito che ha avuto luogo nelle ultime settimane (qui, qui, qui, e qui). Il primo riguarda principalmente il mio primo post e concerne la questione se la sovranità monetaria sia una condizione necessaria e sufficiente per qualsiasi paese per perseguire politiche di sviluppo e di piena occupazione; il secondo riguarda la crisi dell'Eurozona (EZ) che è stata oggetto del mio secondo post. Wray si concentra principalmente sul secondo tema, e io farò lo stesso. Nella parte 1 della mia risposta, però, mi soffermo brevemente sul primo aspetto che è in ogni caso preliminare e che comunque ci porterà a toccare i problemi dell'EZ. Le due questioni di cui ci occupiamo nella parte 1 saranno, rispettivamente, le seguenti: le preoccupazioni sulla bilancia dei pagamenti (BdP) sono irrilevanti per i paesi dotati di piena sovranità monetaria? Una unione monetaria può soffrire di problemi interni di bilancia dei pagamenti? La parte 2 sarà quindi dedicata alle spiegazioni di Wray della crisi dell'EZ.
Parte prima
1. Born in the USA
L'argomento principale del mio primo post era che la sovranità monetaria, anche se è una condizione necessaria per lo sviluppo e le politiche di piena occupazione, non è la bacchetta magica che può risolvere il vincolo estero a quelle politiche.
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Il manifesto politico di Mario Draghi (e i suoi limiti)
di Vladimiro Giacchè
È un segno dei tempi che sia un banchiere, anzi IL banchiere europeo per eccellenza, Mario Draghi, a proporre all’opinione pubblica europea il più importante manifesto politico di questi mesi. Perché l’articolo del presidente della BCE pubblicato sul settimanale tedesco “Die Zeit” (con un titolo cretino che la dice lunga sulle ossessioni monomaniacali dell’establishment di quel paese: “Così l’euro resta stabile!”) è un vero e proprio manifesto politico.
Certo, tutti i commentatori sono andati a cercare, in fondo al testo di Draghi, le parole sulla BCE e su quello che intende fare per evitare l’implosione dell’area valutaria. E non sono stati delusi. Draghi infatti afferma, a beneficio dei lettori tedeschi, che la BCE “farà quanto necessario per garantire la stabilità dei prezzi. Resterà indipendente. E opererà sempre nell’ambito del proprio mandato”. Ma aggiunge, a beneficio dei lettori di quasi tutti gli altri paesi europei, che “la fedeltà al proprio mandato può richiedere di andare oltre le consuete misure di politica monetaria”.
Questo avviene quando “nei mercati dei capitali predominano paura e irrazionalità, quando il mercato finanziario comune torna a suddividersi lungo le linee tracciate dai confini nazionali”: ossia quando, come sta accadendo in questi mesi, il mercato europeo dei capitali si balcanizza, con gli stati finanziariamente più solidi che riportano i soldi a casa e diventano rifugio di capitali in fuga dagli altri.
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Il Viale del tramonto... porta all'Alba dorata
di Alberto Bagnai
(sì, ho capito, mi faccio un culo come un secchio tutto il giorno... e allora vorrete privarmi di un quarto d’ora di sano divertimento? Suvvia, ho capito che la crisi è una cosa seria, ma non facciamone una malattia. A rilassarci ci aiuta l’ironia involontaria di tanti orecchianti, e anche quella, volontaria, lucida, disperata, del buon Basilisco.... per non parlare di quella buona pezza di santo subito che mi ha fatto modificare il titolo...).
Caro Alberto, non so se ricordi una fantastico film di Elio Petri del 1973 "La proprietà non è più un furto" dove Flavio Bucci interpreta un personaggio che si definisce marxista-mandrakista. Come sai io sono decrescista-leninista. Non si tratta di una scelta ma di una condanna inflittami dalla mia fede nelle leggi della termodinamica e dall'importanza che attribuisco all'epistemologia (non posso non stimare uno che dovendo fare la rivoluzione d'ottobre si preparava studiando l'empiriocriticismo di Mach). E tu sai bene quante discussioni abbiamo fatto e quante ne faremo su questi temi. Sono però costretto a riconoscere che gli ambientalisti di sinistra in Italia generano in me il più profondo sconforto (al di là dei casi estremi come Chicco Testa e Nichi Vendola per i quali forse la psicoanalisi può dare una risposta). Va bene, vogliamo fate la rivoluzione e farla verde. Avanti compagni! Ma cosa facciamo in attesa dell'ordine nuovo che verrà? Per esempio sull'euro che scelta bisogna fare? A me pare che su queste questione ci sia il più grande caos tattico mascherato con visioni epicamente strategiche (come tu stai facendo vedere nel blog). Qualche giorno fa ho mandato una lettera al Manifesto che non mi sembra sia stata pubblicata. Te la mando, magari ti può interessare. Marco Basilisco Aspetta, Marco: prima permettimi di dirti una cosa. Ci sono in Italia due partiti, o meglio due movimenti (più o meno riferiti a partiti), fautori di politiche pinochettiane di riduzione del “government footprint”, due schieramenti di nemici dello Stato e dell’intervento pubblico nell’economia. I loro orientamenti politici sembrano diversi, sembrano opposti: pensa, uno sembra di sinistra, e l’altro sembra di destra. Ma sono entrambi di destra. Li accomuna una cosa: l’incomprensione strumentale di cosa ha veramente detto Keynes (e di cosa ha veramente detto Keynes ci siamo occupati qui e qui), e, naturalmente, l’odio ideologico verso la contabilità nazionale. Oggi non voglio parlarti dei pinochettiani di destra, lasciamoli ragliare in pace perché non abbiamo bisogno di loro. Avremmo bisogno dei pinochettiani di sinistra, se gli si riuscisse a far capire due cose:
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Inutile vendere palazzi
Occorre una strategia di uscita dall'euro
Gianluca Roselli intervista Emiliano Brancaccio
«Da questa crisi si esce riformando profondamente l’Unione europea oppure diventerà inevitabile uscire dall’euro». L’economista Emiliano Brancaccio (docente di Economia politica alla Facoltà di Scienze economiche e aziendali dell’Università del Sannio, a Benevento) non è ottimista sul futuro della moneta unica. Che, a suo parere, sta favorendo l’economia tedesca e impoverendo tutti gli altri Paesi, a cominciare dall’Italia.
Brancaccio, davvero quello che era considerato impossibile fino a qualche mese fa, ovvero l’uscita dall’Italia dall’euro, ora è una possibilità reale?
«Sì, perchè l’euro non ha raggiunto gli obiettivi per cui è stato creato. L’auspicato compromesso tra i paesi forti come la Germania da un lato e la Francia e l’area mediterranea dall’altro non si è mai realizzato. Gli Stati hanno interessi divergenti che non si riescono a ricomporre. E ognuno va per la sua strada. Così l’euro si configura sempre di più come un vestito tagliato su misura per l’economia tedesca. Che ne trae vantaggi a livello di competitività delle sue imprese a scapito dei Paesi periferici. Così la zona euro è fortemente sbilanciata in favore degli interessi dell’economia più forte. E la crisi lo dimostra, perché colpisce in modo asimmetrico: La Germania è toccata in misura minore, mentre altri vanno a picco».
Insomma, l’euro ha fallito la sua missione?
«Nell’attuale configurazione sì. E lo dimostra il fatto che l’area euro si è dimostrata la più fragile del mondo di fronte all’onda di crisi che veniva dagli Stati Uniti».
Quindi si va verso la fine della moneta unica?
«Il problema è che in Germania non sembrano convinti che convenga salvare l’euro.
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