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L’Europa è una provincia

Raffaele Sciortino

È da tempo che quasi ogni incontro dei vertici della Ue o della Banca Centrale viene spacciato come quello decisivo per la moneta unica giunta all’ultima spiaggia. Contano qui i ritmi parossistici e ultimativi dettati dall’informazione-spettacolo e dai “mercati”, ma anche una strategia di pressione che ogni volta di più deve ribadire le coordinate ammesse della scenografia della crisi. Sul banco degli imputati chi non vuole aprire i cordoni della borsa per “salvare” l’euro a rischio di riportare l’economia mondiale nelle secche della recessione; tutto intorno i questuanti della “periferia” europea che avendo imparato da bravi a svolgere i loro compiti a casa meritano di non essere immolati come la Grecia sull’altare dell’austerity proprio ora che hanno riscoperto la crescita; a lato lo zio d’America, saggio democratico e multiculti, che forse in gioventù ha vissuto un po’ troppo a credito ma ora riscopertosi verace keynesiano sta salvando il mondo con i più grossi stimoli monetari della storia se non fosse per… È possibile un’analisi di quanto accade restando dentro questo tipo di lettura semicaricaturale che va per la maggiore?

La riunione della Bce del due agosto ha rappresentato l’ennesimo momento di scontro e ridefinizione tra spinte contrastanti nel quadro di una crisi che è ben lontana dal vedere qualunque luce in fondo al tunnel. Ma per decifrarne attori e fattori determinanti bisogna disfarsi della narrazione che vuole l’eurocrisi come prodotto innanzitutto degli squilibri intraeuropei aggravati dall’egoismo di Berlino.

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Roubini vs. Prodi: l’euro (non) ci ha salvato

di Alberto Bagnai

(Oggi per voi un’autentica chicca per palati raffinati. Qualcuno se la ricordava? Era un po’ che l’avevo sul telaio, aspettavo che ve lo meritaste: e ve lo siete meritato, oh, quanto ve lo siete meritato. rockapasso si rotola in terra dalle risate ogni volta che apre la pagina del FQ...) Lasciamo da parte l’ironia, il sarcasmo.

Dimentichiamoci Swift e Sterne (e pure quante cose ho imparato dal gesto dello zio Tobia).  Ci potrà tornare utile, come sempre, il Gaddus, quello che diceva di non avere “a' numeri, ai chiari e veri e istruttivi numeri della statistica [...], quell'orrore che hanno taluni sofi o sofoni solo immersi nella categoria qualitativa” (Eros e Priapo, VIII). E sì che i sofoni sono sempre in eccesso di offerta (nomen omen)... Qui si tratta di arbitrare un incontro che fa tremar le vene e i polsi, lo scontro finale fra due autentici colossi dai piedi di balsa, inventori di una storia falsa (anzi, in realtà di due storie false, ma così non farebbe rima). Facciamo così: organizziamolo come il classico duello alla pistola: un colpo a distanza di cinque... passi? No, anni: comincia Roubini nel 2006. Lo spettacolo è cruento e se ne sconsiglia la visione ai piddini non accompagnati dai padri e dalle madri nobili del Manifesto (esiste ancora?), nonché alle merlettaie cerchiobottiste e bandwagoner. Si tratta infatti dell’ennesima dimostrazione del fatto che come sarebbe andata a finire (tagli dei salari) era chiaro, a tutti e da sempre, e che quindi “comunisti” (inclusi i quotidiani) e “sindacalisti” che hanno appoggiato questo progetto o sono persone dalla limitata capacità di comprensione, o sono assi da 30 denari (lascio decidere a loro, il problema non mi appassiona: sono comunque politicamente morti. Quanto mi piaccio quando esercito la sapiente arte della mediazione! Ma qual è il termine medio fra un fesso e un Giuda? Schneider, hai un’idea?)  

 

Attacca Roubini (2006)

Il 30 gennaio 2006, su lavoce.info, Nouriel Roubini preconizzava per l’Italia la fine dell’Argentina.

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Verso l'addio all'Eurozona?

di Christian Marazzi

Gli scenari possibili della crisi della "moneta unica" di fronte alle scelte della Banca Centrale Europea, il dibattito degli economisti tedeschi e la ricerca di una "moneta comune" per i movimenti

1. Il 2 agosto, la Banca Centrale Europea (BCE), malgrado le roboanti esternazioni del suo presidente Mario Draghi sulla difesa ad oltranza dell’euro di pochi giorni prima, ha in parte “deciso di non decidere”, almeno fino a metà settembre, quando la Corte costituzionale di Karlsruhe emetterà la sentenza sulla costituzione del Meccanismo di Stabilità Europeo (EMS), che si sostituirà all’attuale Fondo Salva-Stati, quest’ultimo dotato di 100 miliardi di euro, una cifra irrisoria per poter intervenire efficacemente contro gli assalti ai debiti sovrani dei paesi cosiddetti del Sud (ce ne vorrebbero 300 solo per salvare la Spagna).Questo significa che nelle prossime settimane, in mancanza di una autorità veramente in grado di “fare qualunque cosa per preservare l’euro”, i mercati saranno probabilmente soggetti a forti oscillazioni determinate dal “calcolo delle probabilità” sulla fuoriuscita o meno dall’euro di Spagna e Italia. La questione di fondo è: quanta sovranità i paesi del Sud sono di nuovo pronti a concedere per “tirare avanti” con i loro debiti crescenti?

Prima della riunione del board della BCE i paesi in sofferenza avevano chiesto che l’istituto di Francoforte si mettesse ad acquistare direttamente e in modo illimitato i titoli pubblici spagnoli e italiani in modo da favorire una diminuzione dei tassi ed evitare che il loro accesso al mercato fosse precluso. Spagna e Italia non hanno solo un problema di liquidità, ma anche di solvibilità: l’intervento della BCE non dovrebbe essere solo quello di calmierare i mercati  facendo scendere a livelli sostenibili i tassi di interesse, ma anche quello di sostituirsi eventualmente agli investitori che non vogliono più sottoscrivere questi stessi titoli.

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La Germania incomincia a fare i conti sull’Euro

di Vladimiro Giacché

Da tempo l’interpretazione dei discorsi dei governanti europei non ha nulla da invidiare, quanto a complessità, all’interpretazione dei discorsi dei leader sovietici ai quali si dedicavano dei veri e propri specialisti, i sovietologi. Da mesi, ormai ogni giorno, stuoli di eurologi si rompono la testa per capire il senso dell’ultima intervista della Merkel o dell’ultimo intervento di Draghi: e in base a quello che hanno capito comprano o vendono titoli di Stato. Anche in questo fine settimana gli eurologi hanno avuto il loro bel da fare con l’intervista rilasciata da Wolfgang Schäuble alla “Welt am Sonntag”.

L’impressione generale è che il ministro delle finanze tedesco si barcameni con difficoltà, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Da una parte Schäuble insiste sul fatto che l’impossibilità per la Grecia di conseguire gli obiettivi fissati dalla troika dipenda dal fatto che i programmi imposti da FMI, BCE e Unione Europea sono stati applicati male e non dalla loro insensatezza. Aggiunge poi che non ci sono spazi “per ulteriori concessioni” (sic) alla Grecia. Sulla Spagna tenta senza grande fortuna uno slalom, prima minimizzando l’entità del problema dei rendimenti – ormai elevatissimi – dei titoli di Stato spagnoli (“non viene giù il mondo se a un’asta di titoli di Stato si deve pagare un paio di punti percentuali in più”), poi dichiarando che gli aiuti sinora offerti sono sufficienti e negando, contro ogni evidenza, che ci sia del vero nei rumors di un’ulteriore prossima richiesta di aiuto da parte della Spagna. Queste parti dell’intervista di Schäuble sono di per sé tali da alimentare lo scetticismo sulla concreta possibilità per Draghi di intervenire “sino a dove necessario” per contrastare l’esplosione dei rendimenti dei titoli di Stato spagnoli e italiani. E da questo punto di vista non c’è niente di nuovo: è almeno da un anno e mezzo che i governanti tedeschi ci hanno abituato a dichiarazioni che gettano benzina sul fuoco, alimentando la convinzione che non potrà esserci alcun intervento risolutivo da parte europea nei confronti dei paesi che hanno difficoltà di approvvigionamento sui mercati dei capitali.

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La svolta di Draghi è comunque inutile (quindi dannosa)

di Alberto Bagnai

“La svolta di Draghi”… Come “La scelta di Sophie”… Il solito fottuto genitivo soggettivo, quello che nei titoli si porta molto (ricordate “Le obiezioni del piddino”?)Vi offro un lungo post della lunga, lunghissima serie intitolata “ma dde che ssamo a parla’?”

cnt5Ho in comune con il prof. Santarelli il fatto di avere un percorso accademico piuttosto variegato. Come lui ha preso il PhD in Anatomia finanziaria comparata ai Bagni Luigi 93 di Cattolica, così io ho preso un master in Pragmatismo concettuale al Dopolavoro Ferroviario di Roma. Ricordo con affetto tutti i miei insegnanti. Questa storia della svolta di Draghi mi ha fatto tornare in mente Giuliano. Quale fosse il suo lavoro non l’ho mai capito troppo bene: agente assicurativo? Rappresentante? Intermediario? Chissà. Certo che però lui ogni mattina era lì, sul pontile. Di lavori di intermediazione che lasciano le mattinate libere, ecco, ora, a posteriori, me ne viene in mente uno solo, e devo dire che lui il physique du rôle, per quel mestiere, ce l’aveva. Parlo nella quasi certezza che non mi legga, perché allora, trent’anni or sono, aveva passato la cinquantina, tanto che io, in un accesso di classicismo, solevo chiamarlo Giuliano l’aprostata, confondendo ad arte l’apostasia con l’adenoma (che poi son due cose che iniziano entrambe per “a”, come apolitico, apartitico e anfame – per chi se lo ricorda…).

Insomma, un bel giorno Giuliano arriva tutto in tiro (visita a un cliente?), e il commento mi affiorò spontaneo alle labbra: “Ammazza Giulia’, quanto sei fico oggi! Hai svortato?”. Rispose scanzonato, da vero romanaccio: “Sì, ma ho pure ‘nfrociato!” (Per i non romani: “svorta’” significa dare una svolta in senso positivo a una situazione – ad esempio economica – ma anche cambiare direzione con l’automobile; “infrociare” significa andare a sbattere – con l’automobile. La risposta di Giuliano giocava sull’ambiguità della “svorta”).

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L’arsenale della Bce

di Domenico Mario Nuti

La crisi attuale dell’euro è stata definita da Nouriel Roubini ed alcuni bloggers come “uno scontro ferroviario al rallentatore”. Negli ultimi dodici mesi i treni hanno continuato nella loro corsa verso lo scontro, addirittura accelerando la loro velocità, ma lo scontro non va dato per scontato. Ci sono ancora delle misure – sia pure problematiche a dire il vero – che possono ancora evitare la collisione.

I tedeschi sono contrari alla cosiddetta “mutualizzazione del debito pubblico europeo”, mediante l’emissione di obbligazioni per le quali tutti i membri dell’EMU sarebbero responsabili individualmente e collettivamente (jointly and severally). Un’opposizione ragionevole, come ho argomentato nel post precedente sul mio Blog Transition, perché inevitabilmente sarebbero i tedeschi e i pochi paesi rimanenti che godono di un rating AAA a finire col pagare per tutti.

I tedeschi inoltre si oppongono ad un aumento dei fondi del cosiddetto Meccanismo Europeo di Stabilizzazione (MES), detto anche Fondo Salva-stati, molto meno ragionevolmente in vista dell’ingente esposizione della Germania alla crisi dell’euro. Per di più l’impiego del MES come scudo anti-spread, che pareva essere stato approvato dal Consiglio Economico del 28-29 giugno e che avrebbe consentito di guadagnare un po' di tempo per trovare altre soluzioni, viene ritardato proprio nel momento in cui esso è più urgente proprio dalle tattiche di temporeggiamento della Corte Costituzionale Tedesca.

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Un timido guerrafondaio

di Emiliano Brancaccio

I miei ultimi interventi sulla crisi della zona euro hanno suscitato alcune interessanti reazioni. Gli articoli e le interviste sulle ambiguità di Syriza, sul fatto che c’è modo e modo di abbandonare la moneta unica e sulla necessità che la sinistra inizi a dotarsi di una exit strategy dall’euro hanno animato dibattiti ai quali hanno partecipato vari studiosi ed esponenti politici.

Il segretario del PRC, ad esempio, ha ritenuto opportuno criticarmi sostenendo che della “bomba atomica” si può discutere solo dopo che sia esplosa, non prima. Questo atteggiamento tattico è prevalente tra gli attuali esponenti della sinistra, ma sembra trascurare un piccolo dettaglio: i tempi di innesco e la specifica traiettoria della “bomba” in questione non saranno affatto irrilevanti per i destini di coloro ai quali il PRC e il resto della sinistra vorrebbero chiedere voti. Eludere la questione sperando che nessuno si accorga dello stallo in cui versano le forze di sinistra temo sia illusorio, e potrebbe compromettere persino obiettivi modestissimi come la mera autoriproduzione di qualche residuo gruppo dirigente.

Ma non è finita qui. Nel corso di un seminario organizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, uno stimato collega economista, della scuola di Federico Caffé, si è lanciato in un’animosa invettiva contro il sottoscritto. Il collega mi ha sostanzialmente dato del “guerrafondaio” semplicemente perché ho sostenuto che i tempi dovrebbero ritenersi maturi affinché le forze di “sinistra” elaborino un autonomo punto di vista sulle diverse, possibili modalità di deflagrazione dell’eurozona.

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Caro Emiliano ti scrivo...

di Alberto Bagnai

Caro Emiliano,
ho letto con interesse il tuo intervento su Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro. Poi lo ho riletto contando le “i”. Ce ne sono 888 (me lo dice Word): manca però qualche puntino. Se me lo consenti, lo metto io (libero tu di toglierlo, se ti sembra sia messo male).


Due (o tre) premesse


Faccio due premesse, anzi tre. Credo a te interessi solo la prima, le altre sono cose che sai e che affermo solo per collocare il nostro scambio, che è uno scambio fra professionisti, nella giusta prospettiva scientifica, a beneficio dei profani.

Premessa prima

La prima premessa è che non ti conosco personalmente. Da quando ho iniziato la mia attività divulgativa, che necessariamente implica un risvolto politico, ho capito una cosa fondamentale: in politica le persone bisogna guardarle negli occhi. Sarà per evitare questo compito non sempre piacevole che ho preferito, fin da piccolo, dedicarmi alla ricerca. Ma ora c’è urgenza, non ci si può sottrarre alle proprie responsabilità. E allora bisogna guardare la gente negli occhi. Ripeto: con te non è stato possibile, e può essere quindi che quanto segue sia, come dire, sfuocato. Ma servirà comunque a capire se varrà la pena (in futuro) di guardarsi negli occhi.

Premessa seconda
La seconda è che conosco e apprezzo la tua attività scientifica nel campo che oggi interessa tutti.

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La fine dell'euro

Dibattito sul Manifesto

Interventi di Pitagora, Cesaratto e Halevi

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La fine di una moneta

di Pitagora

Il disordine regna sovrano in Europa. Se il presidente della Bce Mario Draghi asserisce in un'intervista al quotidiano Le Monde che l'euro è irreversibile, il cancelliere tedesco Merkel si dichiara «ottimista» ma non sicura della sopravvivenza dell'euro. La scorsa settimana l'Eurosistema ha deciso di non accettare titoli di stato emessi o garantiti dalla Repubblica ellenica come collaterale per ottenere prestiti fino alla «conclusione dell'esame condotto dalla Commissione europea, in raccordo con la Bce e l'Fmi, sui progressi compiuti dalla Grecia»; il Fondo Monetario Internazionale, a sua volta, secondo quanto riportato da autorevoli fonti di stampa, starebbe valutando l'idea di bloccare gli aiuti alla Grecia. Il mese di luglio è ormai trascorso senza che siano state avviate misure concrete per rendere operativo il cosiddetto «scudo anti spread» che era stato approvato alla fine di giugno, con grande risalto mediatico, dai capi di stato e di governo dell'Unione europea.

La prolungata assenza di indicazioni precise, convergenti e realizzabili, oltre che di misure concrete, da parte di coloro che hanno il potere di prendere decisioni rilevanti per i mercati finanziari ha favorito l'attuale drammatica situazione.

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Caro Polito, l'Italia non è keynesiana

di Guido Iodice e Daniela Palma*

L'editoriale di Antonio Polito pubblicato sul Corriere della Sera del 18 luglio 2012 (Le risorse immaginarie) purtroppo non si distingue nel panorama degli articoli che, almeno da due anni a questa parte, ripropongono i luoghi comuni sull'eccessiva spesa pubblica italiana e sulle ragioni della crisi. Tuttavia è interessante che Polito abbia esplicitamente accusato l'Italia di "politiche keynesiane". Ma partiamo dall'inizio.

Polito esplicitamente assume come vero il punto di vista di Berlino: «In Germania - scrive il giornalista - sono convinti che l'Italia di oggi sia proprio il frutto di un lungo ciclo di politiche keynesiane. E in effetti è legittimo pensarlo di un Paese che ha accumulato la bellezza di duemila miliardi di euro di debiti». Ma la crisi che oggi porta lo spread vicino a quota 500 è davvero originata da ciò? Un confronto con gli altri Piigs dice esattamente il contrario.

Prima della crisi del 2007/2008 il rapporto debito/Pil di Spagna, Irlanda e Portogallo era decisamente basso. La Spagna, ad esempio, aveva ridotto il rapporto dal 67% del 1997 al 36% nel 2008. Un record. L'Irlanda nel 2008 presentava un rapporto del 25%, il Portogallo, meno "virtuoso", del 68%. Per fare un confronto è utile ricordare che nel 2007 la Germania aveva un rapporto debito/Pil del 67%. Se guardiamo poi i deficit annuali ci accorgiamo che la Spagna ha avuto deficit minuscoli (minori dell'1%) dal 2000 al 2005.

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Italia, Ratificato il Fiscal Compact

Ora non ci resta che uscire dall’Euro

di Rodolfo Ricci

Nel più ampio silenzio mediatico che si sia mai registrato (assenza di servizi radiotelevisivi pressoché totale, autocensura  della quasi totalità dei giornali), la Camera dei Deputati ha ratificato oggi, con grande zelo e senza alcun dibattito significativo, con l’opposizione di 65 parlamentari di Italia dei Valori e Lega e con l’astensione di altri 65 parlamentari, il cosiddetto “Fiscal Compact”, che entrerà in vigore il prossimo gennaio a condizione che almeno 12 paesi lo abbiano ratificato (al momento erano solo 9, Cipro, Danimarca, Grecia, Irlanda, Lituania, Lettonia, Portogallo, Romania e Slovenia).

L’Italia è quindi il decimo paese. Come si vede non ci sono ancora né Francia, né Germania, paese in cui la Corte Costituzionale si è riservata di emettere, entro Settembre, la propria sentenza sulla compatibilità o meno con la Grundgesetzt (Legge fondamentale) di questo provvedimento che limita definitivamente e rende permanente, almeno per i prossimi 20 anni, la sovranità dei singoli paesi che lo accettano, in materia di politica economica e sociale.

Il «fiscal compact» prevede infatti, come punti centrali, “l’impegno delle parti contraenti ad applicare e ad introdurre, entro un anno dall’entrata in vigore del trattato, con norme costituzionali o di rango equivalente, la ‘regola aurea’ per cui il bilancio dello Stato deve essere in pareggio o in attivo”.

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Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro

di Emiliano Brancaccio

Man mano che la crisi della zona euro si aggrava, tra gli imprenditori italiani e persino negli ambienti della destra “rispettabile” inizia a far capolino l’ipotesi di una uscita dell’Italia dalla moneta unica. Come quasi sempre accade, allora, per riflesso pavloviano anche gli intellettuali e gli economisti di “sinistra” si vedono costretti a uscire dalle consuete ambiguità retoriche e ad assumere posizioni più chiare sul da farsi. Vari articoli pubblicati di recente, così come un seminario sulla crisi organizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, hanno dato conto di questa tendenza.

Semplificando al massimo, tra gli intellettuali di sinistra, inclusi gli economisti, possiamo riconoscere due posizioni prevalenti.

Alcuni di essi ritengono che una deflagrazione della zona euro determinerebbe una catastrofe economica talmente violenta da condurre l’intera Europa sull’orlo di un conflitto bellico. La loro tesi è che l’Unione economica e monetaria rappresenta una condizione necessaria per garantire la pace tra i popoli europei. Chiunque si azzardi a evocare la possibilità di un’uscita dall’euro viene quindi immediatamente considerato un avventuriero irresponsabile, potenzialmente un guerrafondaio. In verità questi studiosi non forniscono chiare evidenze a sostegno dei loro anatemi. Nel libro L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Il Saggiatore, Milano 2012) abbiamo rilevato che la tesi secondo cui le unioni economiche e monetarie - e più in generale il liberoscambismo - garantirebbero la pace tra le nazioni, non trova adeguati riscontri storici. Abbiamo ricordato, in proposito, che alla vigilia del primo conflitto mondiale sussisteva piena libertà di circolazione dei capitali e vigeva un sistema di cambi fissi vincolante quasi quanto l’euro.

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L’ultima proroga dell’euro

di Joseph Stiglitz

Non è solo la fiducia nei paesi periferici dell’Europa ad essere in declino, ma è la stessa sopravvivenza dell’euro ad essere ora in dubbio

Proprio come un prigioniero nel braccio della morte, l’euro ha ottenuto un ultimo minuto di sospensione dell’esecuzione. Potrà sopravvivere ancora un po’. I mercati stanno festeggiando, come hanno fatto dopo ciascuno degli ultimi quattro vertici sulla “crisi dell’euro”, finché non si renderanno conto che i problemi fondamentali devono ancora essere affrontati.

Ci sono state delle buone notizie in questo vertice. I leader europei hanno finalmente capito che l’operazione “fai da te” in base alla quale l’Europa presta i soldi alle banche per salvare i paesi sovrani e ai paesi sovrani per salvare le banche, non funzionerà. Allo stesso modo, riconoscono ora che i prestiti di salvataggio, che garantiscono ai nuovi prestatori un grado di superiorità sugli altri creditori, non fanno altro che peggiorare la posizione degli investitori privati che finiranno per pretendere tassi di interesse ancora più alti.

E’ profondamente sconcertante che ai leader europei ci sia voluto così tanto per comprendere un concetto così ovvio (e già evidente più di un decennio e mezzo fa con la crisi dell’Asia orientale). Ma ciò che manca nell’accordo è ancor più significativo di ciò che contiene. Già un anno fa, i leader europei avevano infatti riconosciuto che la Grecia non avrebbe potuto riprendersi senza crescita e che non era possibile ottenere la crescita solo attraverso una politica di austerità. Ciò nonostante, hanno fatto molto poco.

Ora è stata avanzata la proposta di una ricapitalizzazione della Banca Europea per gli Investimenti quale parte di un pacchetto di crescita di circa 150 miliardi di dollari.

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Lo strano siparietto degli eurobond

di Domenico Mario Nuti

Sulla questione dei titoli a garanzia europea tra Monti e Merkel si è svolto un siparietto, utile a entrambi. Meglio pensare alle cose concrete plausibili e utili: fondi per la stabilizzazione e reflazione tedesca

Un sempliciotto, o un truffatore, potrebbero cercare di persuadere i membri più ricchi di un club, come i tedeschi, gli olandesi e i finlandesi nella zona dell’euro, ad accettare la mutualizzazione del debito pubblico dei governi europei attraverso l’emissione su larga scala di Eurobond, intesi come soggetti a responsabilità individuale e collettiva di tutti i membri. Poiché inevitabilmente quei membri più ricchi finirebbero col pagare per tutti. Nessun altro tipo di Eurobond risolverebbe la crisi dell’euro, che si tratti di project bonds o mini-Euro-bills su piccolo scala, o Eurobond soggetti a responsabilità pro-rata, o emessi da una qualsivoglia agenzia europea diversa dalla Banca centrale europea (Bce, che è impossibilitata ad emetterli da trattati e statuti) e che in vista delle minuscole dimensioni del bilancio dell’Eu sarebbero necessariamente trattati come titoli spazzatura. Queste proposte forniscono un alibi per il rifiuto di suggerimenti più plausibili e utili, quali l’aumento del fondo del Meccanismo Europeo di Stabilizzazione (Ems), o il riequilibrio e la reflazione dell’economia tedesca.

Perché, allora, Mario Monti e François Hollande hanno fatto pressioni così insistenti e persistenti, per non dire ossessive, per l’emissione di tali Eurobond, ignorando ripetuti rifiuti? Che l’abbia fatto Hollande non deve sorprendere: egli è un socialista dalle buone intenzioni, e un mal-consigliato principiante senza previa esperienza di governo. Ma perché Monti, l’accorto economista ed eurocrate di grande esperienza? C’è una spiegazione razionale. Avanzando richieste chiaramente inaccettabili, Mario Monti dava al cancelliere tedesco una meravigliosa opportunità di prendere una posizione spettacolare: “Non finché vivrò!”. Non è a caso che secondo un sondaggio condotto subito dopo il vertice EU la sua popolarità è salita al livello più elevato registrato negli ultimi tre anni. Il sondaggio confermava un forte appoggio per la sua posizione sulla crisi del debito nell’eurozona, mostrando che il 66% dei tedeschi erano soddisfatti della sua performance, un aumento di otto punti percentuali rispetto al mese precedente e il livello più elevato dal 2009 all’epoca della sua rielezione. “Circa il 58% dei tedeschi credono che la posizione della Merkel nella crisi dell’euro sia corretta e decisiva, anche se l’85% degli interpellati si aspetta che la crisi peggiori” (Eurointelligence.com, 7 luglio).

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Uscire dall'euro, una scorciatoia*

Marco Bertorello e Danilo Corradi

La crisi dell'Euro trascina con sé una molteplicità di problemi e potenziali soluzioni. L'economia politica condotta a livello continentale svela tutte le sue contraddizioni, facendo precipitare il contesto e rendendo urgenti scelte di cambiamento radicale. Alla crisi ha corrisposto il riemergere di un'opzione nazionale, che viene interpretata come una prospettiva adeguata ai problemi che abbiamo di fronte. Il rischio è che l'opposizione al rigore e all'austerità slitti verso un progetto di ripiegamento statual-nazionale che non fa i conti con i problemi di ordine globale, rinviando un approccio sistemico e fondamentalmente alternativo. In ogni caso il punto di partenza è rappresentato dal caso greco.

La Grecia esce oppure è fuori?

In un recente interventoEmiliano Brancaccio dava come chiave di lettura della sconfitta di Syriza la sua posizione «palesemente contraddittoria» nel chiedere una rinegoziazione del famoso memorandum, senza affrontare in maniera esplicita le possibili conseguenze derivanti da un eventuale fallimento di tale richiesta. É possibile che Syriza sia stata reticente nel ragionare in dettaglio sulle conseguenze derivanti da una risposta negativa della Troika, ma era piuttosto chiaro che le conseguenze di una chiusura della trattativa avrebbero condotto alla ristrutturazione unilaterale del debito da parte della Grecia. L'atteggiamento di Syriza, dunque, è stato tattico, dato che erano gli avversari a denunciare pesantemente il suo presunto profilo anti-europeista, ma non si può dire che non agitasse l'unico potere di contrattazione di cui disponeva la Grecia: il suo debito e persino la libertà di circolazione di capitali e merci sul proprio territorio. La pesantezza con cui è stata affrontata la campagna elettorale in Grecia, anche con bordate dal resto del continente, è stata all'insegna dell'isteria euro-si euro-no, come se vi fosse stato un referendum sulla moneta unica, piuttosto che su come uscire dalla crisi europea in generale e nello specifico dei suoi debiti sovrani.

La critica di Brancaccio, seppur fondata, appare un po' ingenerosa. Indubbiamente la ristrutturazione unilaterale del debito pubblico greco avrebbe potuto implicare l'abbandono della moneta unica.