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Il grande bluff europeo
di Guido Viale
A Bruxelles l'Europa non è certo uscita dal coma in cui l'ha gettata la crisi dell'euro. Né le risorse economiche, né - e meno che mai - quelle politiche messe in campo sono adeguate per resistere a una speculazione in buona parte promossa da quelle stesse banche e istituzioni finanziarie che tengono sotto scacco la moneta unica, ma che ne sono anche le principali beneficiarie. I governi degli Stati membri, sia quelli forti che quelli deboli, sono di fronte a un'alternativa secca: o salvare banche, finanza e assetto istituzionale dei cosiddetti mercati; o salvare i diritti: quelli del lavoro, quello al lavoro e al reddito, quelli alla sicurezza, all'esercizio della cittadinanza, alla dignità della persona.
Per alcuni governi l'alternativa si pone in maniera stringente: i soggetti da depredare con i cosiddetti compiti a casa (mai espressione più cretina era comparsa nel lessico politico) sono i propri concittadini. Per altri l'alternativa sembra più mediata: per ora a soffrire devono essere i cittadini di altri Stati: per i quali risanare il bilancio del proprio Stato altro non significa che salvare le banche che gli hanno fatto credito in modo irresponsabile negli anni delle vacche grasse: banche per lo più proprio di quegli Stati che oggi vorrebbero insegnare a tutti la moderazione.
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La storia si ripete
Riflessioni sulle conclusioni del summit europeo del 28-29 giugno 2012
di Andrea Fumagalli
La chiusura del vertice europeo di Bruxelles del 28-29 giugno è stata salutata dalla stampa europea, e in particolare da quella italiana, come una svolta. La conferenza stampa finale ribadiva il cambiamento. Ma siamo certi che sia proprio così?
Due erano i principali punti all’ordine del giorno. Il primo doveva trattare delle situazioni nazionali che vivevano una particolare situazione di crisi, soprattutto nell’ambito del mercato del credito. I riflettori erano puntati su Grecia, Spagna e Cipro. Con riferimento alla Grecia, si trattava di dare una risposta alla richiesta del nuovo governo ellenico, pressato da una crescente opposizione politica, di diluire nel tempo il piano, ancora di lacrime e sangue, di rientro del debito pubblico, in un contesto, comunque, in cui il commissariamento europeo, ledendo la sovranità greca sul solo lato della spesa, garantiva il reperimento della liquidità necessaria al pagamento degli interessi (da usura) alle banche creditrici di Germania e Francia. Ebbene, molto semplicemente tale richiesta non è stata nemmeno presa in considerazione. Si è preferito soffermarsi, invece, sul problema della sostenibilità finanziaria delle banche cipriote e spagnole. Al riguardo, con particolare riferimento alle banche spagnole (declassate più volte dalle agenzie di rating), oltre a confermare l’intervento dell’ammontare di circa 62 miliardi di euro deciso nelle settimane scorse sotto il patrocinio della BCE, si è provveduto a garantire e a definire il processo di ricapitalizzazione di alcune banche, anche attingendo al Fondo Salva Stati (come già dichiarato dal governatore Draghi). Questo aspetto è legato a una delle richieste che da più parti è stata sollevata negli ultimi giorni: quella di procedere a una unione bancaria europea.
L’idea è tanto semplice quanto perversa.
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Le vittorie di Pirro dell'Italia
di Riccardo Achilli
Forse contagiati dalla vittoria della nazionale di calcio sulla Germania, i giornali italiani (come al solito allineati ai poteri forti) oggi sono tutti orientati verso un trionfalismo eccessivo rispetto ai risultati ottenuti da Monti nel Consiglio europeo di ieri. Certo, considerando che la Merkel aveva iniziato questo vertice con l’intenzione di non concedere assolutamente niente, si può anche dire che la miseria che Monti ha strappato (con l’appoggio determinante di Hollande, senza il quale non si sarebbe ottenuto neanche quel poco che si è ottenuto) sia una vittoria. Ma è una vittoria di Pirro.
Cosa avrebbe ottenuto di così strabiliante Monti?
La concessione più importante sembra essere quella del cosiddetto “meccanismo di stabilizzazione dello spread”. In soldoni, si tratta di prevedere che l’Efsf (1) , che sarà presto sostituito dall’ESM (2), acquisti una parte dei titoli pubblici emessi dai Paesi iper-indebitati, che però rispettino alla lettera le politiche di austerità imposte dal fiscal compact, al fine di ridurre i rendimenti. Da quel poco che filtra rispetto ai meccanismi attuativi concreti, che dovranno essere messi a punto entro dicembre, questo meccanismo sembra poco più che una fumosa presa in giro, per tranquillizzare i mercati (che però si faranno tranquillizzare per poco tempo). Perché?
Perché intanto l’ESM non ha i soldi per effettuare una simile operazione di acquisto di titoli pubblici. L’ESM partirà con una dotazione di capitale di 700 miliardi. Con tale dotazione, potrà indebitarsi emettendo titoli, per poi utilizzare la raccolta per i molteplici fini demandatigli, ovvero l’erogazione di prestiti agli Stati membri in difficoltà, l’erogazione di aiuti per la stabilizzazione dei sistemi bancari (in particolare di quello spagnolo, sul bordo del tracollo), ed infine l’acquisto di titoli pubblici dei Paesi “virtuosi”, ma sottoposti ad un particolare stress sui rendimenti.
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"Ai tedeschi va detto chiaro. Pronti a far saltare il banco"
Fabio Sebastiani intervista Vladimiro Giacchè*
Al di là di quello che accadrà nella due giorni di supervertice e dell'andamento dei mercati finanziari, sembra che l'unico punto fermo sia l'attacco al lavoro.
L'attacco al lavoro è una costante ovunque, non soltanto nella zona euro. Le politiche di austerity nel Regno Unito hanno lo stesso segno. C'è il tentativo evidente di recuperare profitti giocando sull'abbassamento del costo del lavoro. Non si tratta di una novità: sono gli stessi trattati europei a far sì che la competitività si giochi sulla riduzione delle tasse alle imprese e abbassando la protezione dei lavoratori. Questo non avviene soltanto nella periferia dell'Europa ma nel centro. Per esempio, la Germania è il paese dell’eurozona in cui il costo del lavoro è maggiormente diminuito in termini reali dal '99 in poi. Adesso però c'è l'attacco definitivo con la scusa del debito pubblico. All’attacco ai salari diretti, direttamente provocato dalla crisi (che riduce il potere negoziale dei lavoratori), si aggiunge l’attacco a servizi sociali e pensioni, ossia ai salari indiretti e differiti. Infine, c'è l'attacco alla regolamentazione del lavoro nella forma delle cosiddette “riforme strutturali per far ripartire la crescita”. È un attacco organico e a 360 gradi.
Tutto questo con quali prospettive?
Anche assumendo il punto di vista di chi teorizza e mette in pratica tutto questo, è evidente che la cosa potrebbe funzionare solo se l'Europa si trasformasse in una grande Germania cioè decidesse di puntare tutte le proprie carte sull'esportazione tralasciando la domanda interna.
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Il vertice di Bruxelles
di Rodolfo Ricci
Secondo la ricostruzione de l’Unità, gli esiti del compromesso raggiunto ieri al vertice decisivo di Bruxelles sarebbero riassumibili come segue: ” L’accordo prevede che i paesi ‘virtuosi’ sotto la pressione di spread ‘eccessivì possano usufruire dell’acquisto di una parte dei loro titoli di Stato da parte dei fondi di salvataggio dell’Eurozona (l’Efsf e il suo successore permanente, l’Esm), senza per questo doversi sottoporre a condizioni aggiuntive rispetto agli impegni già presi con la Commissione e l’Eurogruppo nell’ambito delle cosiddette raccomandazioni ‘country specific’, che applicano il ‘Semestre europeo’, il Patto di stabilità e la ‘procedura sugli squilibri macroeconomici. In sostanza, il paese interessato dovrà comunque fare una richiesta formale di attivazione dell’intervento del Fondo di salvataggio, e sottoscrivere un ‘Memorandum of understanding’ (‘Protocollo d’intesa’) con la Commissione europea. Su questo punto Monti non ha ottenuto quello che voleva (l’attivazione automatica dell’intervento quando gli spread superassero una determinata soglia).
I vari mezzi di comunicazione mainstream stanno accoppiando il risultato raggiunto (attribuito in gran parte a Mario Monti e sostenuto da Spagna e Francia), ad una sorta di semi ritirata dell’area tedesca dal fronte del rigore e dell’austerità e soprattutto di rifiuto di solidarietà nella condivisione dei debiti dei Piigs.
Questo serve a convincere l’opinione pubblica nazionale della validità dell’impostazione montiana e di conseguenza tende a rafforzare l’attuale quadro politico, nelle ultime settimane piuttosto vacillante.
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I quattro eurofalsi
di Sergio Cesaratto, Emiliano Brancaccio, Antonella Stirati, Claudio Gnesutta
1. Per salvare l’euro serve un’Europa politica basata sull’austerity? NO.
Assolutamente no se per Europa politica si intende ciò che ha più volte ripetuto Angela Merkel. L’Europa che ella prefigura è assai inquietante: una definitiva espropriazione della libertà democratica dei cittadini sulle decisioni in materia di bilancio, accentrate a Bruxelles. In cambio la Germania propone un “fondo di redenzione” in cui i Paesi metterebbero in comune il debito eccedente il fatidico 60 per cento del Pil, impegnandosi a restituirlo in una ventina d’anni. Null’altro che un rafforzamento del cosiddetto fiscal compact già imposto da Berlino: due decenni di austerità assicurata in una Europa divisa fra ricchi e poveri. È questa una prospettiva inaccettabile e disastrosa. Più Europa servirebbe, invece, se l’obiettivo fosse quello di assicurare la crescita delle aree più svantaggiate. Qualsiasi soluzione deve rispondere al problema alla base della crisi: la moneta unica ha aggravato i differenziali di competitività fra le economie europee deboli e forti.
Questo ha prodotto una decade di stagnazione e poi la crisi per l’Italia, mentre la Spagna ha mascherato il problema dietro una crescita di carta, anzi di mattone, finanziata da afflussi di capitali tedeschi e si ritrova oggi indebitata sino al collo. In genere coloro che credono nei poteri salvifici dell’Europa politica tralasciano tali problemi e ne trascurano i relativi costi e ostacoli politici, provenienti soprattutto dai tedeschi. Una Europa politica genuina e sostenibile implica infatti principi di riequilibrio economico fra Paesi e di perequazione sociale fra i propri cittadini che possono essere realizzati in due modi.
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Lira sì, lira no, lira forse
A colloquio con Brancaccio, Giacché, Viale
di Tonino Bucci
Christine Lagarde, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, ha pronosticato tre mesi di vita per la moneta europea, se non verranno prese misure adeguate. Anche George Soros, che di finanza s'intende, condivide la stessa previsione. Non sono profezie di sovversivi. Oggi come oggi, la principale causa di instabilità non sono né i movimenti di protesta né le sinistre radicali. Se nel giro di breve tempo la zona euro potrebbe deflagrare, ciò avverrà non per l'incombere di un “nemico esterno", ma per le contraddizioni sistemiche che caratterizzano l'assetto monetario dell'Ue. La valuta europea potrebbe crollare motu proprio, per via delle dinamiche conflittuali che si riproducono al suo interno. Tempo ce n'è poco, fosse pure soltanto per attuare quei correttivi in corso d'opera che anche i difensori dell'Ue ormai invocano. Tutti i provvedimenti attualmente oggetto di studio - fondi salvastati, eurobond, meccanismi blocca-spread, obbligazioni per finanziare grandi opere infrastrutturali, cessioni di sovranità dei paesi membri, integrazione del sistema bancario - richiederebbero riforme tutt'altro che trascurabili dei Trattati europei. E quindi tempo. Che manca.
L'instabilità del sistema è l'effetto delle risposte (inadeguate) che i vertici europei hanno dato nei confronti della crisi. Ed ecco l'interrogativo. Cosa accadrebbe se la zona euro dovesse implodere? A chi toccherebbe gestire l'uscita dall'area valutaria europea? E, soprattutto, sarebbe preparata la sinistra ad affrontare uno scenario del genere. Qualche giorno fa, dal suo blog, in un articolo a commento del voto greco, l'economista Emiliano Brancaccio ha aperto una discussione. «A pensarci bene non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità», quanto piuttosto per «l'assenza di una chiara opzione di uscita dall'euro».
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La paralisi dei potenti e l’altra Europa
di Mario Pianta
C’è poco di nuovo in quanto si è detto al vertice dei quattro maggiori paesi europei chiuso venerdi a Roma, e c’è molto di non detto sull’accelerazione della crisi europea. Tra quattro giorni a Bruxelles la stessa sceneggiatura sarà rappresentata di nuovo, questa volta a ranghi completi con 27 paesi, ma né la trama e né il finale dovrebbero riservare sorprese.
La prima “mezza notizia” è sulla tassazione delle transazioni finanziarie. Alla fine del vertice perfino il “cattivo” ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schäuble ha dichiarato che dieci paesi europei sono ora pronti a introdurla. Sarebbe una vittoria di chi chiede la Tobin tax da vent’anni; per quanto limitata a pochi paesi, aggirabile dalle strategie della speculazione e efficace a colpire sono una piccola parte delle attività della finanza, la tassa avrebbe un significato simbolico fondamentale. Per la prima volta in cinque anni di crisi, la finanza verrebbe colpita dalla politica. Non sarebbero più i governi a subire inermi ogni lunedì l’attacco della speculazione, ma sarebbe la finanza a subire un piccolo colpo. Non più – o meglio, non solo – banche private salvate dai soldi pubblici, ma nuove regole che limitano la speculazione. Il problema è che l’Europa rinuncia a una norma comune e passa a un’iniziativa di “cooperazione rafforzata” tra pochi paesi, e il Regno Unito di David Cameron – l’oppositore più ostinato - può tirare un respiro di sollievo. Vedremo se al Consiglio europeo del 28 giugno quest’iniziativa verrà ufficializzata e introdotta rapidamente.
La seconda è la “non notizia” sulla responsabilità collettiva dell’Europa sul debito pubblico. L’ha chiesta timidamente Mario Monti, proponendo che il “fondo salva-stati” compri titoli spagnoli e italiani.
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BCE versus Costituzione italiana
di Gaetano Bucci*
Le politiche “neoliberiste” imperniate sul mix stabilità istituzionale - stabilità economico-finanziaria stanno ormai compromettendo le forme del vivere civile, la coesione sociale e gli stessi livelli di sicurezza dell’unità nazionale. Sussiste una correlazione stretta tra il declino della democrazia e la crescita delle diseguaglianze e, più in generale, tra la crisi del costituzionalismo e l’involuzione delle forme - dirette e indirette - di redistribuzione del reddito. Questa situazione di decadenza generale è stata provocata dalla disapplicazione del nucleo profondo della Costituzione, ossia dei Principi fondamentali e, in specie, di quelli contenuti negli articoli 1 e 3. La Costituzione è, infatti, la forma giuridica di un patto di convivenza sociale, la cui vigenza dipende dall’esistenza di un congruo equilibrio nei rapporti di forza tra i soggetti sociali in conflitto, che - nel corso dell’ultimo trentennio - è stato manomesso duramente.
L’epicentro della regressione subita dal nostro Paese è, tuttavia, ben oltre i confini nazionali e, specificamente, negli sconvolgimenti della globalizzazione trascinata dai mercati finanziari e coadiuvata da politiche economiche che, sin dalla metà degli anni Settanta, hanno incentivato, sulle due sponde dell’Atlantico, il varo di indirizzi legislativi volti a rimuovere i vincoli alla circolazione dei capitali, a promuovere le attività speculative delle banche e la formazione di una rete inestricabile di dipendenze reciproche tra i sistemi industriali e finanziari dei diversi Paesi, in cui è stata prodotta una massa di strumenti derivati complessi e sempre meno tracciabili.
L’Italia e l’Europa sono entrate in una fase estremamente critica, che pone a rischio i risultati di mezzo secolo di storia. I dati economici dell’ultimo decennio dimostrano come l’andamento del Pil sia caratterizzato da una stagnazione ininterrotta, gli indicatori fondamentali della produttività (innovazione tecnologica; ricerca; istruzione; efficienza delle istituzioni) risultino in picchiata e l’ammontare del debito pubblico ci esponga, costantemente, agli assalti distruttivi della speculazione.
Il trattato di Maastricht
Il meccanismo di funzionamento della moneta unica ha impedito l’utilizzo di due strumenti essenziali di intervento pubblico, ossia la possibilità di determinare il livello e la composizione della spesa pubblica e quella di scegliere le forme più idonee di tassazione e, dunque, di composizione fiscale [Pivetti p. 4].
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"Sinistra,occorre una strategia per uscire dall'euro"
Tonino Bucci intervista Emiliano Brancaccio
Il mio commento alle elezioni in Grecia, dal titolo Syriza paga per la sua ambiguità, ha suscitato un’animata discussione sul web. All’interessante dibattito hanno anche partecipato alcuni esponenti politici della sinistra italiana, tra i quali il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero. Riporto qui di seguito una intervista che ho rilasciato a Tonino Bucci, nella quale tra l’altro riprendo e sviluppo la mia tesi sulla tornata elettorale greca.
DOMANDA. Nonostante le elezioni in Grecia, che si ritenevano fondamentali per il futuro della zona euro, siano state vinte dai conservatori di Nuova Democrazia, gli attacchi speculativi ai titoli di stato continuano. A quanto pare, dunque, a rendere traballante l’euro non sono la sinistra radicale o i movimenti di protesta, bensì una fragilità sistemica interna. Non è così?
RISPOSTA: Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali.
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“Discutiamo della Grecia ma guardiamo alla nostra realtà”
di Mauro Casadio*
Sembrava fatta, sembrava che l’anello debole della catena europea stesse per cedere addirittura a sinistra, invece ancora una volta le profezie funeste per l’Unione Europea non si sono avverate, anzi bisogna dire che la smentita di questo tipo di profezia negli ultimi due anni si è ripetuta più e più volte.
Frequentemente ci siamo trovati di fronte alle notizie giornalistiche che ormai la Grecia era fuori gioco e che con l’effetto domino sarebbe caduto anche l’euro, ci hanno detto che le trattative con l’Europa sul debito erano sul punto di rompersi ma poi alla fine la soluzione balzava fuori come un coniglio dal cappello. I più attivi in questo senso sono stati i filoeuropeisti, alla Amato o alla Scalfari, che ci hanno descritto fin nei minimi particolari, terrorizzanti, il baratro verso il quale stavamo correndo.
Ma nemmeno questa volta le profezie si sono avverate, addirittura il popolo greco ha sostenuto la prospettiva di drastici peggioramenti della propria condizione sociale. Saranno stati tutti dei casi questi salvataggi in extremis, oppure c’è qualcosa che non si riesce o non si vuole vedere? Come Rete dei Comunisti l’abbiamo sempre affermato con chiarezza - anche se con la coscienza che le “previsioni” non sono mai garantite - che il processo di costruzione della Unione Europea è più forte di quanto si faccia “pubblicamente” vedere, in quanto le classi dominanti del continente su questo risultato si giocano il proprio ruolo economico e strategico in un mondo dove contano sempre di più le dimensioni dei poli in competizione ed il livello di sviluppo delle “famose” forze produttive, categoria ormai dimenticata dalla sinistra.
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L’esperimento Grecia
di Raffaele Sciortino
La Grecia è stata usata finora come un vero e proprio laboratorio di “terrorismo fiscale” da parte dei poteri forti europei e internazionali. Bene, l’esperimento non è riuscito: questo il significato principale del voto di domenica.
Una vittoria di Pirro dei fautori del memorandum, così i commentatori ufficiali meno costretti nel ruolo di imbonitori. In effetti, non solo la sinistra avanza di brutto, non solo più del 50% dei voti è esplicitamente contro l’accettazione della politica lacrime e sangue. Lo stesso voto al centro-destra ha per l’elettorato di ceto medio-piccolo -non parliamo ovviamente di borghesia compradora, clientele politiche e apparati di sicurezza- una valenza soft di ricontrattazione verso Bruxelles cui si è tolta l’arma di ricatto “non volete l’euro”. Riconoscendo tutto questo, non a caso il WSJ lamenta che la mancata affermazione odierna di Syriza paradossalmente potrebbe favorirne prossime vittorie.
L’esperimento non è riuscito non perchè la società greca non si sia impoverita enormemente, con rischio di implosione e sconforto, o perché la blanda ricontrattazione del memorandum cui a questo punto sia Berlino che il nuovo-vecchio governo ad Atene potrebbero accedere cambierà di molto le cose. Ma i greci non si sono piegati, e l’hanno manifestato anche sul piano elettorale dopo, attenzione, l’esplosione sociale del 12 febbraio scorso (quando, durante il voto parlamentare per il memorandum, ci fu una vera e propria battaglia di strada intorno a piazza Sintagma portata avanti da un fronte sociale realmente trasversale di mezzo milione di persone solo nella capitale).
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Sette brevi lezioni dal voto in Grecia
nique la police
Il voto greco che ha portato i moderati di Nuova Democrazia alla maggioranza relativa, guadagnando un bonus di 50 seggi, ci regala qualche breve lezione per il futuro. Italiano ed europeo.
PRIMA. Non è vero, come è accaduto in Grecia, che le forti proteste non incidono sul quadro politico istituzionale. In tre anni Pasok e Nuova democrazia sono passate da una percentuale vicina all'80 per cento a poco più del 40. Da partiti alternativi sono stati costretti a coalizzarsi contro il resto della società greca. Oggi in Grecia la rappresentanza politica antiausterità è attorno al 50 per cento dei voti.
SECONDA. Non è vero che alle elezioni i premi di maggioranza garantiscono la governabilità e sono politicamente neutri. Con una legge simile a quella studiata da Violante mesi fa, uno dei due ex partiti reciprocamente alternativi entro schemi di compatibilità sistemica (Nuova Democrazia) ha guadagnato il bonus e si è potuto permettere di attirare in una alleanza l'ex avversario (il Pasok). In Italia questo esempio potrebbe dire qualcosa.
TERZA. I governi neoliberisti e i media europei influiscono sul voto degli altri paesi mentre le sinistre no. La Merkel si è augurata, prima delle elezioni, una vittoria di Nuova Democrazia, i media europei (per tacere di quelli italiani) hanno presentato una eventuale vittoria di Syriza come il caos. Tirando la volata ai grandi fondi speculativi per un'eventuale affossamento di ciò che resta della Grecia. Le sinistre europee, quelle italiane in testa, non hanno fatto presenza nello spazio comunicativo continentale. Quando si vota in un paese che si sente isolato, tutto questo conta e sposta voti. Per esempio, era così impossibile per Vendola, Landini, die Linke, Front de Gauche andare in Grecia a non far sentire solo Tsipras?
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Il teorico (serio) del partito anti-euro
“Uscita dell’Italia dolorosa ma inevitabile”
Marco Palombi intervista Alberto Bagnai
Materiali per servire ad un più consapevole dibattito sull’euro. Avremmo potuto chiamare così questa chiacchierata con uno dei pochi economisti italiani che sulla moneta unica ha sempre espresso quelle che un eufemista definirebbe profonde perplessità.
In realtà, Alberto Bagnai, che insegna politica economica a Pescara e in Francia, pensa che occorra uccidere l’euro proprio per salvare l’Europa e non per disfarla: per questo il nostro – allergico tanto al pensiero economico mainstream, quanto ai fulminati della Spectre massofinanziaria alla Paolo Barnard – ha deciso da un paio d’anni di uscire dalla cerchia dell’accademia per divulgare una verità che per lui è semplice quanto evidente: la moneta unica è stato un brutto affare. Per spiegarlo, riempie il suo blog di articoli chiari e divertenti, numeri e riferimenti bibliografici che lasciano poco spazio ai dubbi. Non bastandogli il blog, peraltro, sta organizzando un convegno scientifico a Pescara per il 22 e 23 giugno. Titolo: Euro: manage it or leave it. Le sue teorie sono spesso spiazzanti per i non addetti ai lavori; per questo non gli abbiamo posto domande in senso stretto, ma l’abbiamo costretto a interagire con un ipotetico europeista un po’ naif e sinceramente democratico, le cui informazioni derivino esclusivamente dagli editoriali pubblicati dai due più grandi quotidiani italiani. Ecco il risultato.
L’euro va bene, è che c’è la crisi dei debiti sovrani.
I maggiori economisti internazionali, a partire da Paul Krugman e Paul De Grauwe, non la pensano così. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil). Ma i mercati puniscono prima Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), solo dopo Grecia e Italia.
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I nodi gordiani dell'Europa
di Claudio Gnesutta
L’incertezza sul futuro dell’euro si accentua di giorno in giorno per l’assenza, o meglio per i pericolosi ritardi, che l’attuale dirigenza politica europea manifesta nel trovare soluzioni che diano respiro ai paesi più deboli dell’eurosistema a superare le difficoltà finanziarie in cui sono coinvolti.
È paradossale che un sistema monetario immaginato per consolidare la società europea in un progetto di Unione sovranazionale operi invece come moltiplicatore delle tensioni politiche interne quando viene investito da uno shock proveniente dall’esterno. La crisi finanziaria si è infatti diffusa a diversi livelli (produttivo, occupazionale, di finanza pubblica, del sistema bancario ecc.) evidenziando la sua natura “sistemica” che rende molto problematiche le politiche di stabilizzazione di molti paesi dell’eurozona. Se le istituzioni della moneta unica hanno dimostrato di poter contenere gli effetti della crisi sul sistema bancario, esse si sono invece dimostrate ampiamente inefficaci nel fronteggiare le difficoltà del settore pubblico e del suo debito. Anzi, la linea di austerità imposta dalle autorità di Bruxelles, volta a privilegiare il riequilibrio dei conti pubblici in un contesto di conclamata recessione, ha ovviamente reso ancor più complessa la situazione dei paesi più deboli.
L’inadeguatezza istituzionale dell’eurozona si manifesta nell’asimmetria dei suoi meccanismi. Essi hanno richiesto (e richiedono) ai paesi-membri di rinunciare a importanti strumenti di politica economica (monetaria e valutaria) per favorire lo sviluppo dell’Unione, ma, nel momento delle difficoltà, li lascia soli nel risolver da sé i propri problemi. Se tutti si sono sottoposti a una regola comune, logica vorrebbe che tutti dovrebbero sentirsi compartecipi nella gestione delle difficoltà che sono accentuate da questo squilibrio istituzionale dell’euro.
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