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Iperturismo, il lato oscuro di un’industria globale da 11 trilioni di dollari
di Alberto Burba
Il 27 settembre è la Giornata mondiale del turismo. Ma dietro ai lustrini si nascondono sfruttamento, precarizzazione e distruzione dei territori
Industria da 11 trilioni di dollari, 357 milioni di posti di lavoro e 1,4 miliardi di viaggiatori: il turismo è una miniera d’oro globale. Ma dietro le celebrazioni Onu e gli slogan sulla sostenibilità si nasconde un flagello, l’iperturismo. I dati sono impressionati: ad Andorra ci sono 52 turisti per abitante, nell’isola greca di Zakynthos 150 e nel centro storico di Venezia 520. Le conseguenze? Crisi ambientale (Maya Bay in Thailandia), erosione culturale (Dubrovnik svenduta a Instagram), speculazione immobiliare (Napoli espugnata da Airbnb). Governi e multinazionali concentrano i profitti, mentre i territori vengono devastati, come in Albania dove la cementificazione selvaggia distrugge le coste.
* * * *
Dà lavoro a 357 milioni di persone. Genera un volume d’affari pari al 10% del Prodotto interno lordo mondiale. Sposta 1,4 miliardi di anime ogni anno. Ha un tasso di crescita tra il 3 e il 6 percento. E in cinque anni si è ripresa con grande agilità dalla crisi del Covid.
È l’industria del turismo, una miniera d’oro che ogni anno sforna 11 trilioni di dollari. Venerata ai quattro angoli del pianeta, nel 1979 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha pensato bene di dedicarle un giorno tutto suo: il World Tourism Day, la giornata mondiale del turismo, che si festeggia ogni 27 settembre. Ma dietro ai lustrini dei summit internazionali e alla retorica sulla «sostenibilità» si nasconde il rovescio della medaglia, che alimenta sfruttamento, precarizzazione, concentrazione dei profitti in mano a pochi e distruzione dei territori.
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A che punto siamo
di WS
L’ analisi dei fatti, sempre ben riportata da Simplicius, ci sollecita sempre la domanda: dove stiamo andando?
Ho già spiegato a iosa il mio punto di vista: i banksters ci stanno portando in una WW3 che avrà come sempre l’epicentro in Europa. Quindi ogni volta si tratta solo di chiederci: a che punto siamo?
A questo ho risposto in altra occasione che siamo in uno “stallo”; nel momento in cui i “piani A” dei due contendenti, NATO e Russia, sono sostanzialmente falliti ma esiste ancora, in realtà esisteva fino a due settimane fa, una “finestra” per una “transazione” che, fosse anche solo un “pastrocchio”, comportasse quantomeno la “deescalation” da “ guerra esistenziale” a semplice “conflitto”.
Bisogna però qui precisare la differenza tra “tregua” e “armistizio”, tra quel trucchetto che la NATO vuole imporre alla Russia per fermare l’usurante pressione russa sulla NATO-Ucraina e così guadagnare tempo onde rinforzare il proprio “baluardo”, e l’ “armistizio”, cioè un qualunque tipo di accordo scritto e vincolante a certe reciproche condizioni immediatamente concesse, condizione richiesta dai russi per cessare il fuoco.
La differenza è enorme: le “tregue” infatti non risolvono nulla e hanno una valenza meramente tattica; gli “armistizi” invece “deescalano“ il conflitto e possono definire le condizioni della eventuale pace successiva che comunque non potrà essere quella di una “resa incondizionata”.
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Chi punta all’escalation nel Baltico?
di Gianandrea Gaiani
Il Cremlino è tornato a sfidare l’Europa” titolano più o meno con questi termini quasi tutti i giornali in Italia e in Europa dopo le supposte violazioni dello spazio aereo estone da parte di 3 Mig-31 russi, “abbattuti” o forse solo “intercettati” (a seconda dei giornali e dei TG) dagli F-35 italiani basati ad Amari (Estonia) nell’ambito della NATO enhanced Air Policing (eAP) nella regione baltica dove, a rotazione con altre forze aeree NATO, difendono lo spazio aereo delle tre repubbliche prive di aerei da guerra e di difesa antiaerea missilistica.
La vicenda è nota e si inserisce nel filone della drammatizzazione della minaccia russa già (male) espressa negli ultimi tempi in modo indecoroso con diverse raffazzonate iniziative propagandistiche: l’attacco russo al GPS dell’aereo di Ursula von der Leyen, l’offensiva dei droni russi contro le conigliere in Polonia, il drone russo penetrato in Romania e le “minacciose” esercitazioni Zapad in Bielorussia a cui hanno presenziato anche ufficiali americani, turchi e ungheresi (cioè di nazioni aderenti alla NATO).
Tutti pretesti mal costruiti per lanciare allarmi e chiamare gli alleati a raccolta evocando l’Articolo 4 della NATO (dopo la Polonia lo ha fatto anche l’Estonia) nel macabro e sempre più fallimentare tentativo di mobilitare l’opinione pubblica a favore di un riarmo massiccio che non possiamo permetterci e contro i russi pronti a marciare sull’Europa dopo aver divorato qualche prigioniero ucraino, come ha scritto La Stampa riprendendo una velina dell’intelligence/propaganda ucraina.
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La solitudine dei palestinesi
di Ahmed Frenkel
L’attacco da parte dell’esercito israeliano deciso unilateralmente dal governo Netanyahu contro Gaza City assomiglia sempre più a una sorta soluzione finale di tragica memoria.
Avviene nella totale complicità e indifferenza non solo del mondo occidentale (con sporadiche eccezioni, vedi Spagna e Irlanda) ma anche del mondo arabo.
In questi giorni a Bruxelles si è riunita la Commissione Esteri della UE, che ha approvato un pacchetto di misure, che viene definito dalla stampa, “senza precedenti nei confronti di Israele: si va dalla sospensione di alcune concessioni commerciali alle sanzioni ai ministri estremisti” (Ansa Europa).
Più nel dettaglio, le sanzioni prevedono la sospensione del supporto finanziario dell’UE a Israele, garantito dallo strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale – Europa globale (NDICI – Europa globale), adottato il 9 giugno 2021, secondo il quale Israele riceve in media circa 6 milioni di euro all’anno nel periodo 2025-2027. Si sospendono anche i progetti di cooperazione istituzionale, inclusi programmi gemelli e progetti nell’ambito della Regional EU-Israel cooperation facility a beneficio di Israele per un valore di circa 14 milioni di euro. A tali misure si aggiunge l’introduzione di dazi che colpirebbero il 37% delle esportazioni israeliane verso l’Europa, principalmente prodotti agricoli come datteri e avocado, prodotti chimici e macchinari industriali. Su questi beni, che valgono circa 16 miliardi di euro all’anno, verrebbero reintrodotti dazi tra l’8% e il 40%, con un costo aggiuntivo stimato in circa 220 milioni di euro per le aziende israeliane.
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Dopo l’assassinio di Charlie Kirk, negli USA è scontro tra “America First” e “Israel First”
di Roberto Iannuzzi
Le politiche di Netanyahu hanno scavato un solco tra Israele e la base trumpiana. Una parte consistente di quest’ultima ora accusa lo Stato ebraico di complicità nell’uccisione di Kirk
L’assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk dà un’ulteriore accelerata alla crisi che sta disgregando il tessuto socio-politico americano. L’intensificarsi della violenza politica è un sintomo del declino statunitense.
Essa ha colpito esponenti repubblicani e democratici, e non ha risparmiato neanche il presidente Donald Trump, vittima di due falliti attentati.
Ma quella fra repubblicani e democratici non è l’unica contrapposizione che interviene nel caso Kirk. Non va sottovalutata quella interna all’area conservatrice, e in particolare al movimento MAGA (Make America Great Again) che costituisce la base di Trump.
Questa seconda contrapposizione ruota attorno al ruolo di Israele, soprattutto nel trascinare gli Stati Uniti in avventurismi militari all’estero che contrastano con il principio “America First” tanto caro ai trumpiani.
La relazione con il caso Kirk si comprende ripercorrendo l’evoluzione politica del giovane attivista. Egli lanciò il suo movimento Turning Point USA (TPUSA) quando era ancora giovanissimo, finanziato da istituzioni neocon e filoisraeliane come il David Horowitz Freedom Center.
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Scuola: le nuvole di settembre
di Enrico Manera
Settembre è di nuovo qui. Da giorni il ritmo nelle strade si è intensificato e per chi ha a che fare con il mondo-scuola – studenti, docenti, genitori – ci sono tutti i segni del ritorno alla piena attività. L'anno scolastico è iniziato il 1° di settembre e con il primo giorno di scuola si riavvia il sistema. Un sistema che comincerà ad accelerare per frequenza, intensità e densità dell'impegno; ora è ancora lento, anticipato dagli esami di riparazione nelle secondarie superiori, un momento non privo di amarezze, e dalle prese di servizio nelle sedi di destinazione e dalle riunioni di funzionamento e programmazione. Ci sono nuovi inizi per docenti (ma anche studenti), trasferimenti e promesse di serenità per chi è in fuga da qualcosa, il ritrovarsi per chi riprende la routine e si ripromette di evitare errori e trappole dell'anno precedente, di migliorare le condizioni e aumentare le soddisfazioni. Simile a un capodanno, settembre porta bilanci, previsioni e propositi, commenti, analisi e annunci. L'anno scolastico passato è finito senza finire, lasciando in sospeso questioni che hanno aspettato, come uccelli neri sui cornicioni delle case e delle strade.
Polemiche sull'esame di Stato e annunci del nuovo assetto della maturità hanno caratterizzato il dibattito pubblico tra giugno e luglio: i rifiuti di sostenere l'orale per protesta (di cui si è letto), pur nella semplificazione e sovrarappresentazione, testimoniano un clima di sfiducia che alimenta il conflitto, vero o presunto, tra studenti e docenti e rafforzano il partito trasversale della scuola più severa e la linea ministeriale che ne ha fatto una questione di principio. Il precedente tipo di esame era senz'altro ambiguo, stanco e consunto: come per ogni cosa, quando non ha funzionato è perché le regole di svolgimento non sono state condivise o adeguatamente messe in atto. Sottolineo quando, perché le esperienze sono molto diversificate e ve ne sono anche di positive, oscurate dalla dominanza dei discorsi di lamentazione. La scuola con il suo carattere iperonimo non è squadrabile da ogni lato, non lo è mai stata e ora lo è meno che mai, e penso possa essere raccontata con onestà solo per storie e frammenti che non abbiano pretesa di universalità.
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Il tramonto del diritto internazionale nel nuovo disordine globale
di Elena Basile
C’era una volta il Diritto internazionale. Nel dopoguerra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale hanno dato vita a un sistema di organizzazioni internazionali che traduceva in norme i rapporti di forza politici. Il diritto, com’è noto, non è avulso dalla politica e dalla società. Il Consiglio di Sicurezza, formato da 5 membri permanenti detentori del potere di veto, contraddice l’uguaglianza degli Stati sovrani, che pure è un principio onusiano. L’ostilità nata nell’immediato dopoguerra tra USA e URSS ha minato alla base l’efficacia di un’Organizzazione che aveva l’ambizione dell’utilizzo della forza legittima. Le mediazioni tra Mosca e Washington nel sistema bipolare hanno tuttavia permesso in alcuni casi all’ONU di funzionare. Cito spesso la crisi di Suez oppure quella del Kippur, al fine di evidenziare come il Cds sia riuscito, dato l’accordo tra le principali potenze, a temperare la violenza e a porre le condizioni per una mediazione.
Nel 1991, con la dissoluzione dell’URSS e l’inizio dell’unipolarismo, gli Stati Uniti, rimasti soli sulla scena internazionale, avrebbero potuto dare inizio a un sistema basato sul rispetto tra gli Stati, l’applicazione del diritto, la cooperazione in sostituzione della competizione e del dominio. Non mi sembra che così sia stato. Mi piacerebbe ascoltare in proposito i tanti politici e intellettuali che hanno interpretazioni differenti di quanto è accaduto. È ormai noto come le guerre di esportazione della democrazia, le rivoluzioni colorate, le primavere arabe, l’invasione della Libia siano state violazioni aperte dell’ordine internazionale creato nel dopoguerra.
In breve, potremmo sostenere che, a partire dal 1997, l’OSCE e l’ONU (nei suoi aspetti di organizzazione della sicurezza internazionale, non in quelli settoriali che continuano a funzionare) siano state sostituite dalla NATO. L’Occidente poteva permettersi di applicare le norme “à la carte” e di affermare di farlo a nome della Comunità internazionale, concetto piuttosto ambiguo, in quanto gli sviluppi delle dinamiche internazionali, con la nascita dei BRICS e del Sud Globale, hanno dimostrato come il cosiddetto “Western World” sia divenuto una minoranza politica, economica, tecnologica e demografica. Gli USA continuano a detenere un potere riconosciuto, basato sulla supremazia militare e su una governance economica costruita a loro vantaggio. L’egemonia tuttavia è crollata.
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Frammenti di pensieri, speranza e lotta
di Silvia Guerini
Viviamo in una società della novità perpetua e della continua rincorsa a standard ridefiniti di volta in volta dagli algoritmi della cosiddetta Intelligenza Artificiale che a loro volta ridefiniscono l’essere umano e lo stare al mondo. Una ridefinizione che precede il reale e che lo plasma, lo sostituisce. Il mondo del reale si deve adeguare a quello che viene considerato come vero, desiderabile, migliore.
I contesti critici a loro volta non sono immuni da determinate dinamiche e caratteristiche che dovrebbero contrastare. Viene inseguita l’ultima sensazionale notizia, scivolando sulla superficie senza mai addentrarsi nel profondo di acque scure e melmose per il timore di affrontare questioni scomode e impopolari, pena la perdita di ascolti e di incassi nelle serate. Si rincorre il teatrino del mainstream, discutendo di ciò che ci si aspetta di discutere, si creano dibattiti che rimangono ai margini, attorno a dettagli, senza porre le domande giuste rimanendo dentro confini prestabiliti. Nel mentre passano sviluppi tecno-scientifici a cui attorno c’è il deserto della critica. Critici che restringono appositamente la critica, scelte di campo che denotano solo disonestà intellettuale.
La grande marcia della distruzione prosegue e le parole non contano più, le narrazioni si pongono non solo al di là dei significati, ma anche al di là dei fatti e ciò che viene detto perde aderenza con la realtà. Tutto può diventare il contrario di tutto, venire stravolto e risignificato senza che ci sia memoria di quello che significava un attimo prima. In questo scenario perde senso stare a rincorrere l’ultima dichiarazione estraendola non solo da un contesto ben più ampio, ma da questa operazione di cancellazione e risignificazione della realtà trasformata in un processo fluido, proteiforme rimodellabile a piacimento. E il “fatto tecnico”, come insegna Bernard Charbonneau, diventa “la carne stessa del reale e del presente” e quando veniamo travolti dalle sue conseguenze altri sviluppi, applicazioni, lasciapassare bioetici e passaggi legislativi sono già oltre… Ci si scandalizza di fronte a eccessi, ma al contempo, di fatto, si sostiene ciò che è alla loro radice.
In tutto questo influencer del pensiero concorrono a sgretolare la possibilità di costruire un reale pensiero critico. Sfuma il senso e chi costruisce pensiero critico e libero fatica a far capire tutto questo.
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7 ottobre: Giornata della resistenza palestinese
Proposta di proclamazione
«Quest’uomo nuovo comincia la sua vita d’uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza. Sarà ucciso: non è soltanto che ne accetta il rischio, è che ne ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i suoi figli; ha visto tante agonie che vuol vincere piuttosto che sopravvivere»
Frantz Fanon
Il 7 ottobre del 2023 è stata scritta una pagina di Storia da parte della Resistenza arabo-palestinese. L’Operazione Diluvio di al Aqsa è stato un atto rivoluzionario per la liberazione della Palestina, che ha mostrato come una popolazione indigena, da quasi 80 anni espropriata da una entità colonizzatrice di ogni diritto all’esistenza sociale e politica, possa tentare l’impossibile, ovvero mettere in ginocchio una potenza nucleare, avamposto dell’imperialismo occidentale.
Quell’assalto “Ha insegnato che ci si può tirare fuori dalla fossa più profonda del pianeta – quella dove i palestinesi sono stati sepolti dai sionisti e dagli occidentali – senza alcun punto d’appoggio. I combattenti di Gaza sui deltaplani sono diventati folate di vento e grida che hanno sovvertito il tempo, hanno dipinto un’immagine di liberazione tra le più elevate della recente storia dell’umanità. Un quadro immortale di gioia che nessun palestinese, nessuna donna, nessun uomo schiavizzato dal totalitarismo liberale, si leverà mai dallo sguardo. L’atterraggio sul suolo violentato dai colonizzatori è una nascita per i combattenti. E non si viene alla luce senza coprirsi di sangue. Non ci si libera da un’eterna brutalità senza violenza”*.
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Mossad: assassinare, ma senza rinunciare al gossip
di comidad
Si dice che Trump non sia stato consultato e neppure avvertito dell’attacco dell’aviazione israeliana a Doha. Dato che l’attacco non avrebbe potuto avvenire senza la piena connivenza e la costante assistenza delle forze armate statunitensi, se ne dovrebbe concludere che ormai Trump sia diventato un Biden 2.0, un presidente di facciata, sempre meno capace di intendere e di volere. Ma il vero scoop relativo all’attacco a Doha è stato la notizia secondo la quale il Mossad avrebbe espresso la propria contrarietà, tanto da non partecipare all’operazione. Secondo la stampa israeliana Netanyahu avrebbe addirittura scavalcato un preciso impegno preso dal direttore del Mossad, David Barnea, nei confronti dell’emiro del Qatar.
L’ultimo incontro tra Barnea e l’emiro è avvenuto nell’agosto scorso, perciò quanto discusso tra i due si riferiva appunto all’ultima trattativa con Hamas in corso a Doha, in una pausa della quale è avvenuto l’attacco israeliano. Ma le relazioni tra il capo del Mossad ed alti esponenti del regime del Qatar sono sempre state intense. Un altro incontro è avvenuto a Roma lo scorso anno con il primo ministro del Qatar. L’anno precedente, il 2023, un altro incontro con l’emiro si era svolto a Varsavia. Durante i colloqui a Roma e a Varsavia era presente anche il direttore della CIA, Bill Burns. Saranno servizi “segreti” ma ogni loro movimento è stato seguito dalla grancassa della stampa. Ma la cosa ancora più strana è che un direttore dei servizi segreti faccia direttamente politica estera incontrando di persona ministri e capi di Stato stranieri.
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Gaza brucia
di Gennaro Avallone
A Gaza, capitalismo, imperialismo, colonialismo e i gruppi umani che concretamente ne incarnano e realizzano le logiche di funzionamento si mostrano per quello che storicamente sono: modi di produzione e governo che tendono a distruggere tutto ciò che ritengono inutile o di ostacolo al proprio dominio. È questo che il Governo e l’esercito di Israele, in complicità con quello degli Stati Uniti e di tutte le imprese e gli stati che con essi collaborano, stanno facendo da decenni, con un’accelerazione radicale, giunta fino alla forma del genocidio-ecocidio, da ottobre 2023. E che in questi giorni stanno cercando di portare a compimento a Gaza city.
Dico la verità: è difficile scrivere e pensare mentre sono in corso sfollamenti forzati, devastazioni continue, esplosioni con centinaia di morti ogni giorno, cancellazione di ogni traccia di vita, in assenza di una risposta dei governi a livello internazionale all’altezza della gravità assoluta di ciò che sta accadendo. I sentimenti portano soprattutto all’azione, alla denuncia pubblica, al sostegno, anche economico, a chi è in fuga a Gaza e a chi sta cercando di portare soccorsi. Tuttavia, scrivere aiuta a concentrare l’attenzione, ma anche a non lasciarsi andare alla disperazione. Non ce lo possiamo permettere: come ci insegna l’intera storia palestinese, come ci stanno insegnando le persone a Gaza che continuano a resistere, a cercare di vivere, per sé e per chi verrà.
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Il trionfo del moralismo fuorviato sulla precisione descrittiva
di Lorenzo Forlani*
Io davvero non riesco a capire come siamo finiti in questo tombino dialettico permanente, fatto di dicotomie e polarizzazioni inutili, stupide, anti logiche, di timore reverenziale nei confronti della argomentazione, anzi della precisione delle parole, dell’utilizzo assennato dei loro significati, del vittimismo costante, del mal riposto riflesso d’indignazione, della sudditanza verso il vuoto conformismo del silenzio, oppure della frase di circostanza a corollario del lutto, della perdita, dello shock.
Un intellettuale di nome Odifreddi dice una cosa elementare, banale, del tutto circostanziata dalla sua accuratezza terminologica: “uccidere Kirk non è la stessa cosa rispetto a uccidere Martin Luther King”. Voglio dire, è ovvio che non sia la stessa cosa. Letteralmente non lo è, perché uno promuoveva l’opposto dell’altro in merito alla violenza della società stessa.
“Non è la stessa cosa” nella misura in cui lascia una diversa eredità e diverse premesse, nella misura in cui stimola riflessioni differenti su come un omicidio possa essere maturato nella mente di una persona, e su come un omicidio possa verificarsi più facilmente se concepito all’interno di una società più violenta, che incidentalmente veniva promossa dalla vittima.
In che frangente o mediante quale interpretazione questa frase di Odifreddi può essere considerata sinonimo di “uccidere Martin Luther King sarebbe stato ingiusto, uccidere Kirk no”? [anche Martin Luther King è stato ucciso, ma da un suprematista bianco non troppo distante dal mondo di Kirk, ndr]
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Gli Stati Uniti e il «capitalismo fascista»
di Maurizio Lazzarato
Siamo dentro a una nuova accumulazione primitiva, a un nuovo ciclo strategico innescato da Trump. È questo il fulcro, il significato politico del nuovo governo USA, le cui decisioni politiche, arbitrarie e unilaterali, mirano a espropriare la ricchezza di alleati e nemici. Trump sta imponendo i rapporti di potere con la forza; una volta stabilita la divisione tra chi comanda e chi obbedisce, si possono ricostruire le norme economiche e giuridiche, gli automatismi dell’economia, le istituzioni nazionali e internazionali, espressione di un nuovo «ordine». In un certo senso, Trump politicizza ciò che il neoliberalismo aveva cercato di depoliticizzare: non è più l'«oggettività» del sistema di mercato, delle leggi finanziarie a comandare, ma l'azione di un «signore» che decide in modo arbitrario le quantità di ricchezza che ha diritto di prelevare dalla produzione dei suoi «servi».
Così, oggi, il capitalismo non ha più bisogno, come un tempo, di affidare il potere ai fascismi storici, perché la democrazia è utilizzata a propri fini, fino a produrre e riprodurre guerra, guerra civile, genocidio. I nuovi fascismi sono marginali rispetto ai fascismi storici e, quando accedono al potere, si schierano immediatamente dalla parte del capitale e dello Stato, limitandosi a intensificare la legislazione autoritaria e repressiva e agendo sull’aspetto simbolico-culturale.
Un articolo importante, da discutere approfonditamente.
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«L’accumulazione originaria, lo stato di natura del capitale,
è il prototipo della crisi capitalista»
Hans Junger Krahl
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Robert Skidelsky sulle narrazioni contrastanti riguardo alla guerra in Ucraina
di Thomas Fazi, substack.com
Un tentativo di confrontare direttamente i due argomenti, pro e anti-Putin e pro e anti-Trump, con lo spettatore imparziale come immaginario giudice del “processo”
Post di Lord Robert Skidelsky
Qualche giorno fa, a cena, la discussione si è spostata (come a volte accade di questi tempi) sull’Ucraina. Il dibattito – perché di dibattito si trattava – è durato tre ore. Mi sono trovato, come spesso mi capita su questo argomento, in una piccola minoranza. Riproduco qui il succo della discussione, perché è molto raro, nella mia esperienza, che le due parti si confrontino direttamente: ognuna preferisce attenersi alla propria versione della verità. Animata, ma contenuta, la discussione si è concentrata sui due poli di Putin e Trump – le loro personalità, le loro motivazioni e, date queste, la possibilità di una pace in Ucraina a breve termine. Per ciascuno dei due protagonisti, c’è un argomento a favore dell’accusa e uno a favore della difesa. In due punti della discussione che segue, invito al giudizio dello “spettatore imparziale” di Adam Smith.
Cominciamo da Putin. Perché ha invaso l’Ucraina? Cosa sperava di ottenere? E quale giustificazione, se ce n’era una, aveva per le sue azioni?
La tesi dell’accusa è semplice: l’invasione russa è stata un attacco illegale e immotivato a uno Stato sovrano, in violazione della Carta delle Nazioni Unite. Nello specifico, la Russia ha violato il Memorandum di Budapest del 1994, una serie di garanzie che aveva fornito (insieme ad altri firmatari) per rispettare l’indipendenza, la sovranità e i confini esistenti dell’Ucraina, come contropartita per la restituzione alla Russia dell’arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica. Putin, abitualmente descritto come un misto tra Machiavelli e Hitler, è stato l’unico artefice della guerra.
Ma, un attimo, risponde la difesa. L’accordo di Budapest del 1994 era un memorandum d’intesa, non un trattato, quindi non giuridicamente vincolante.
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Draghi dall’agenda alle lamentazioni
di Francesco Piccioni
E’ bastato un anno per verificare che “l’agenda Draghi” era una tigre di carta. O, più precisamente, che si trattava di mega-piano costruito sul wishful thinking, una sfilza di desideri messi nero su bianco, ma sostanzialmente privo di programmazione, direzione politica e operativa, connessione stretta tra mezzi e obiettivi. Irrealistico, insomma.
Parlando di nuovo a Bruxelles, nella conferenza della Commissione Ue sul primo anno del suo report sulla competitività, ieri “superMario” ha recitato come sempre la parte del guru che saprebbe come mettere a posto le cose, ma non può. Un super-consigliere che vede le sue parole perdersi nei corridoi, citate da tutti, messe in pratica da pochi, con risultati inevitabilmente nulli.
La lettura del suo discorso, però, mette in evidenza anche i difetti strutturali che rendono quel mega-piano una costruzione che comunque non potrebbe produrre risultati.
Tutte le indicazioni concrete, non a caso, risultano anche ai suoi occhi difficili da realizzare, tardive, ostacolate non solo da “egoismi nazionali” ma da una struttura dell’economia globale che ha dimostrato l’inconsistenza strategica del mercantilismo europeo a trazione tedesca. Ovvero di quel “modello” fatto di bassi salari, austerità nei bilanci pubblici, rifiuto dell’intervento dello Stato nell’economia, privatizzazioni a raffica e produzione per l’esportazione extra-UE che è stato l’alfa e l’omega della costruzione europea “a trazione tedesca”.
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L'influenza di Netanyahu negli Usa: Trump è incastrato?
di Davide Malacaria
Netanyahu “mi sta fottendo”. Così Trump ai suoi collaboratori dopo il bombardamento israeliano del Qatar. Lo riporta il Wall Street Journal, secondo il quale il presidente, pur frustrato per l’ennesima volta dall’iniziativa del premier israeliano, non può rompere pubblicamente.
Secondo il WSJ si spiega con la sua stima per gli uomini forti. Una seconda spiegazione, più convincente, è per “l‘influenza del leader israeliano sul Congresso e sui media repubblicani“…
Altra spiegazione, che potrebbe sommarsi a quest’ultima, l’ha data l’ex funzionario dell’intelligence israeliana Ben-Menashe: “Il governo americano è intrappolato dagli israeliani. Jeffrey Epstein era uno dei loro strumenti per intrappolarli. Hanno intrappolato diversi presidenti degli Stati Uniti usando Jeffrey Epstein. Non era solo una questione di sesso, ma anche di soldi”.
“Trump può porre fine al genocidio a Gaza subito se smette di avere paura degli israeliani”, ha aggiunto. Infatti: “Cosa diranno di lui? Quante ragazze ha abusato? Quanti miliardi di dollari ha preso? Lasciateli dire quello che vogliono. Dovrebbe fermare il genocidio e lasciare che Israele reagisca come vuole, la moralità dovrebbe prevalere”.
La dichiarazioni di Ben-Menashe dal web sono approdate a un media mainstream, il Daily Telegraph NZ, che aggiunge l’ovvio, cioè che Ben-Menashe non ha provato le sue dichiarazioni e che, se dovessero diventare qualcosa di più di un’intervista, attirerebbero smentite incrociate da Israele e Stati Uniti (immaginare che la Casa Bianca o Tel Aviv possano confermare è sciocco).
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Iniziativa delle lavoratrici e dei lavoratori delle Università italiane a sostegno del popolo palestinese
Gentili Rettori e Rettrici delle Università italiane, in qualità di lavoratrici e lavoratori delle Università italiane vi scriviamo questa lettera per chiederVi un posizionamento più deciso rispetto a quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Riteniamo che questo sia fondamentale per il nostro ruolo nelle istituzioni in cui lavoriamo o con le quali collaboriamo, i cui statuti sono ispirati ai valori costituzionali di ripudio della guerra che oggi, però, sono del tutto disattesi.
In tal senso,
PREMETTENDO CHE:
La corte Internazionale di giustizia (CIG) il 26 gennaio del 2024, in risposta alla richiesta presentata dal Sud Africa, ha emesso un’ordinanza nella quale si riconosce che vi è un rischio plausibile che Israele stia commettendo il crimine di genocidio a Gaza, e ha indicato sei misure cautelari urgenti atte a impedire che questo avvenga;
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) con il Parere consultivo No. 2024/57 del 19 luglio 2024 ha affermato che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi viola le norme del diritto internazionale, concludendo che la continua presenza di Israele nei Territori palestinesi occupati è illegale;
La Camera preliminare della Corte penale internazionale (CPI) ha riscontrato fondati motivi per accusare il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, e che di conseguenza la CPI a novembre del 2024 ha emesso i mandati di arresto nei loro confronti;
La Commissione d’inchiesta internazionale indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel rapporto del 16 settembre 2025 conclude che le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso e continuano a commettere quattro dei cinque atti previsti dall’articolo II della Convenzione del 1948 sul genocidio e che l’unica inferenza ragionevole è l’esistenza di un intento genocidario;
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Guerra e controrivoluzione: i conti con Lenin
di Mimmo Porcaro
1. Dalla pace alla guerra
Viviamo in tempi tumultuosi, tempi di guerra. Qui non servono più le idee maturate durante la lunga, ipocrita e sanguinosa “pace occidentale”, l’epoca del presunto unipolarismo Usa, della vantata globalizzazione. Oggi, quando gli stati capitalistici di cui si era profetizzata l’irrilevanza si militarizzano verso l’esterno e verso l’interno, chi intende superare l’attuale organizzazione sociale non può cavarsela con una politica fatta solo dell’affermare la propria identità via social media, senza preoccuparsi di convincere chi la pensa diversamente; o fatta solo del convivere pur conflittualmente con gli attuali apparati di stato, senza mai preoccuparsi di accumulare le forze per modificarli da cima a fondo.
In tempo di guerra non si può agire e pensare come in tempo di pace. E bisogna riprendere il confronto con chi nella guerra ha agito e pensato: in particolare con Lenin, che ha colto proprio il nesso tra guerra e trasformazione sociale, tra guerra e rivoluzione. Certo, non siamo più nel 1917, e “l’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria” si è trasformata (per tentare una definizione provvisoria), in epoca dell’imperialismo triadico[1] e della rivoluzione antiliberista. Una rivoluzione che ha per oggetto il controllo politico (fino alla pubblicizzazione) dei grandi gruppi capitalistici e della stessa circolazione mondiale dei capitali, e che può avere forme diversissime, tra cui quella socialista e lato sensu proletaria. Ma in ogni caso, sempre di imperialismo e rivoluzione si tratta: è utile quindi rileggere Lenin ben oltre la santificazione o la dannazione, superando la rimozione del suo pensiero operata per decenni sia da coloro che lo hanno ripetuto astrattamente, e quindi sterilizzato, sia da coloro che lo hanno messo da parte perché era un ingombro per chi voleva eludere la questione del potere politico per meglio negoziare con esso[2].
Non si può dunque che accogliere con favore articoli come quello che Emiliano Brancaccio ha pubblicato qualche tempo fa, col titolo “Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra”[3], nel quale si sostiene che il tempo presente mostra la validità della tesi dell’inevitabile esito bellico delle contraddizioni intercapitalistiche, tesi centrale del famoso (e inutilmente esorcizzato) saggio leniniano sull’imperialismo[4].
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“Sono nella lista nera di Charlie Kirk”
di Stacey Patton - Vincenzo Morvillo - Alfredo Facchini
Il delirio si è diffuso a livello internazionale, anche se solo nell’Occidente strettamente inteso. L’omicidio a Salt Lake City del giovane influencer “Maga” è stato promosso subito, grazie ai suprematisti bianchi al governo o all’opposizione nel blocco euro-atlantico, ad evento di portata mondiale. Fino a chiedere un minuto di silenzio all’assemblea dell’Onu dove non si riusciva a scrivere la parola “genocidio” nella mozione sulla Palestina.
Il governo nostrano, come sapere, ha colto la palla al balzo per dichiararsi “vittima dell’odio”, nonostante sia sufficiente una rapida scorsa ai morti seminati dai fascisti in Italia, nel solo dopoguerra, per avere un quadro esauriente del background culturale – peraltro rivendicato – del quadro dirigente della destra italica. Nonché dell’abnorme carico “numerico” di omicidi, stragi, attentati verificati giudiziariamente “di matrice fascista”. Con la complicità-copertura di organi dello Stato, certo, ma da loro direttamente compiuti.
Così il giovane bianco suprematista bianco è stato in poche ore elevato a “martire delle idee”, come se avesse promosso un “dialogo socratico” anziché incitare – a volte implicitamente, più spesso esplicitamente – a eliminare chi aveva e professava idee diverse, progressiste, pacifiste, universaliste (che riconoscono cioè l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, qualunque sia il colore della loro pelle, il credo religioso o la passione politica).
Le ricostruzioni, le analisi, gli sguardi sulla realtà sociale e ideologica dell'”America profonda” sono diventate una valanga in cui è facile perdersi e cadere ne volgare trucco fascista che descrive le loro “idee” come di pari dignità rispetto a quelle democratiche o d’altra matrice, rivendicando quello spazio che proprio le loro “idee” e soprattutto le pratiche negano agli altri. Chiunque siano.
Abbiamo raccolto alcuni di questi interventi, testimonianze, analisi, iniziando con quella che ci è parsa più significativa dello spirito mortifero suscitato dal fu Kirk nei suoi blog e/o comizi.
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Mediobanca Finanziarizzazione SSN: considerazioni e sollecitazioni
di Gianluigi Trianni* e Aldo Gazzetti**
Lo scorso 8 luglio Mediobanca ha dato notizia dell’aggiornamento 2025 del suo Report 2024 sui maggiori operatori sanitari privati in Italia (con fatturato superiore a 100 milioni) nel 2023. (1)
Il report è una vera miniera di dati e meriterebbe un seminario ad hoc, soprattutto per una analisi della finanziarizzazione della sanità in Italia, problema politico ed economico sottovalutato.
L’impostazione analitica utilizzata è quella dei settori merceologici o di settore e la finalità è la descrizione degli indicatori aziendali “classici”.
Rispetto alle precedenti edizioni vengono forniti maggiori informazioni riguardo l’internazionalizzazione espansiva di alcuni e l’origine dei finanziamenti
Rimandando ad altre occasioni l’analisi del predetto rapporto in funzione della finanziarizzazione della sanità in Italia, di seguito segnaliamo, e brevemente commentiamo, alcune evidenze a supporto dell’unico modo per sottrarsi alla progressiva privatizzazione della Sanità in Italia e della sua progressiva finanziarizzazione: il deciso investimento dello Stato sul SSN, da decenni sotto/de finanziato dalla politica neoliberale (austerity) dei governi succedutisi negli anni, oggi, per di più, in versione neoliberismo /economia di guerra.
Evidenze e Commenti
Aumento del giro di affari (quindi dei ricavi) e della redditività
Nel 2023 la “spesa sanitaria privata è stata pari a circa 74 miliardi di euro tra accreditamento (contratti del SSN con erogatori privati), spesa intermediata (mutue ed assicurazioni) e spesa diretta delle famiglie, ovvero 59 miliardi al netto degli acquisti di farmaci e altri presidi sanitari a carico delle famiglie. “(I)
“L’accreditamento è cresciuto dell’1,7%, grazie alla possibilità concessa alle Regioni di avvalersi di operatori accreditati per ridurre le liste d’attesa “.
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I destini dell'Europa si decideranno a Parigi (e non è una buona notizia)
Crisi francese, conflitto europeo e natura della EU
di Giuseppe Masala
Uno degli insegnamenti fondamentali della storia è che per comprendere i destini dell'Europa bisogna guardare alla Francia. Una verità questa che probabilmente è vera sin dai tempi della nascita dello stato nazione francese, ma che è diventata sempre più vera con il passare dei secoli nei quali si sono verificati – proprio in Francia - fenomeni peculiari come l'Illuminismo, la Rivoluzione Francese e l'epopea napoleonica.
Ancora oggi è così, la Francia è l'unico paese dell'UE ad avere il deterrente nucleare e a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu dando a Parigi un ruolo fondamentale nei delineare i destini dell'Europa continentale. Ciò non dimeno, in questa fase storica, questo paese sta vivendo una profondissima crisi industriale, economica e politica, che però ormai si è trasformata in una crisi politica e, sempre di più, sociale.
Lo snodo fondamentale per comprendere la genesi dell'attuale crisi della Francia va ricercato - come al solito! - nella nascita dell'Euro. Come Roma, anche Parigi non è riuscita a reggere la concorrenza dei paesi nord europei e delle loro ben congegnate global chain value. Anche la Francia infatti ha vissuto il dramma della deindustrializzazione, al quale si è anche aggiunta la fine della Françafrique, ovvero del dominio di Parigi sulle ex colonie africane che garantiva un sicuro mercato di sbocco per le merci francesi e anche un flusso continuo di capitali verso Parigi grazie al meccanismo del Franco CFA.
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Sparta o Masada
di Enrico Tomaselli
In qualsiasi conflitto, le parole sono utilizzate per velare la realtà – se non per mistificarla. E, ovviamente, l’ennesimo divampare cinetico della lunga guerra di liberazione della Palestina non fa eccezione. Quando Netanyahu e la sua gang di fanatici messianici parlano di Grande Israele e di “ridisegno del Medio Oriente”, stanno ammantando con un linguaggio trionfalistico e ambizioso quello che è, in effetti, un disegno strategico che nasce da profonde preoccupazioni.
Israele ha sempre avuto, sin dalla sua fondazione, l’imperativo di mantenere una netta superiorità militare sui paesi vicini. Obiettivo riaffermato con la guerra dei sei giorni (1967) e dello Yom Kippur (1973). Questo quadro strategico si stabilizzerà con gli Accordi di Camp David (1978), gettando le basi per una duratura messa in sicurezza dei confini israeliani, e lasciando come unica preoccupazione il contrasto alla Resistenza palestinese.
Ma già solo qualche mese dopo interveniva un elemento destinato a stravolgere gli equilibri geopolitici della regione: la Rivoluzione Islamica in Iran. Che, tra l’altro, deponendo lo Scià Reza Pahlevi, priverà gli Stati Uniti ed Israele di un importante alleato. Da quel momento in poi, la politica israeliana è sempre stata caratterizzata dalla necessità di contenere la crescita di paesi e forze ostili, sia attraverso l’azione militare diretta, sia attraverso la destabilizzazione, sia indirizzando in tal senso la politica statunitense. Quanto rivelato dal generale Wesley Clark, ex comandante supremo delle forze alleate della NATO, all’indomani dell’11 settembre 2001,ovvero il piano del Pentagono per attaccare sette paesi nell’arco di 5 anni (Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran), rientra precisamente in quest’ultimo ambito, ovvero convincere le amministrazioni USA che gli interessi israeliani siano in realtà anche interessi degli Stati Uniti.
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Qatar, omicidio Kirk: l'11 settembre di Trump
di Davide Malacaria
L’assassinio di Charlie Kirk rischia di diventare un altro 11 settembre americano, e forse mondiale se ripeterà l’effetto domino di allora. Per ora ha scatenato una reazione durissima in ambito repubblicano, dal presidente Trump in giù, contro l’estremismo cosiddetto di sinistra.
Reazione che sembra poter dar vita a un maccartismo di ritorno, ma più estremo del precedente, che vedrebbe indebite convergenze tra la lotta contro i movimenti cosiddetti “antifa” a quella contro l’immigrazione clandestina e, soprattutto, quella contro la causa palestinese, già oggetto di dura repressione.
E dire che, nel mega raduno di luglio del suo movimento politico, il Turning Point, cruciale per avvicinare la generazione Z al Maga, Kirk, in nome della libertà di espressione, aveva invitato diversi oratori più che critici del genocidio palestinese, tra cui Tucker Carlson, Megyn Kelly e Dave Smith.
Un’apertura che aveva irritato non poco certi ambiti, tanto che Kirk “fu bombardato da messaggi di testo e telefonate infuriate da parte dei ricchi alleati di Netanyahu negli Stati Uniti”, riporta Greyzone, tra cui donatori della sua piattaforma, come ricorda un un amico del leader Maga che accenna a come questi ne fosse rimasto destabilizzato e “spaventato”.
’apertura suddetta avveniva dopo che Kirk, come ricordava sempre l’amico, aveva rifiutato l’offerta di Netanyahu di una donazione consistente per la sua piattaforma, di fatto un’Opa sulla stessa (l’articolo di Greyzone è stato rilanciato in America dal Ron Paul Institute).
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La UE vuole legalizzare il “Grande fratello”
di Dante Barontini
Conosciamo ormai a memoria il ritornello della propaganda euro-atlantica secondo cui “noi” (tutti?) occidentali vivremmo in un “giardino” circondato da una giungla oscura e ostile. Qui ci sarebbe la “libertà”, mentre al di là del muro (sempre più alto e spesso) vivrebbero sotto una dittatura feroce che controlla tutti dalla mattina alla sera e magari anche mentre sognano.
Come sempre bisogna chiedersi: quando parlate della “libertà”, esattamente, alla libertà di chi vi state riferendo? Di sicuro non a quella di tutti gli abitanti di questa parte del mondo. E non serve neanche scomodare tutte le visioni – e i relativi dati numerici – che mostrano come, ad esempio, un cittadino povero o ignorante non è affatto “libero”, perché le sue possibilità reali (di movimento, pensiero, azione, ecc) dipendono da mezzi che non possiede né può farsi “prestare”.
Il concetto di “libertà” che viene spacciato da queste parti è insomma necessariamente vago, indefinito, vuoto. Un’immaginetta rassicurante come una madonnina su un santino, e altrettanto usa-e-getta.
A questo punto si alza il liberale scemo di turno a dire: ma qui abbiamo la libertà politica di dire quello che vogliamo! Lasciamo per un attimo da parte l’obiezione “strutturale” per cui la “libertà di parola” – nel senso politico del termine, ossia la possibilità di entrare e “pesare” nel dibattito pubblico quantomeno nazionale – dipende dalla potenza dei mezzi di comunicazione di cui si dispone (chi controllo tre televisioni sicuramente è più libero di chi ha soltanto la sua voce, per farsi sentire).
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Droni russi sulla Polonia: dall’allarme rosso all’ennesima farsa di guerra
di Gianandrea Gaiani
L’infiltrazione di uno sciame di droni russi Gerbera nello spazio aereo polacco la notte tra il 9 e 10 settembre ha suscitato molto allarmismo per la supposta iniziativa di Mosca e qualche preoccupazione per la scarsa reattività delle difese aeree polacche e alleate, capaci di intercettare 3 o forse 4 dei 19 Gerbera segnalati sulla Polonia.
Analisi Difesa si è occupata della vicenda (peraltro venendo ripresa e citata da molti altri media in Italia e all’estero) evidenziando tre possibili opzioni: un tentativo russo di intimidire gli europei e testare la reattività delle difese aeree polacche (ipotesi che preso subito piede in Europa), uno sconfinamento dovuto a errore o agli effetti delle contromisure elettroniche ucraine (ipotesi accreditata negli Stati Uniti) oppure un finto attacco orchestrato con scopi propagandistici da ucraini e polacchi per evidenziare che la minaccia russa incombe su Europa e NATO.
Immagini e notizie emerse successivamente rendono molto probabile che la terza ipotesi si riveli la più plausibile. Non solo perché Mosca ha sempre negato di aver inviato droni verso lo spazio aereo polacco ma anche perché negli ultimi tempi in Ucraina ed Europa si sono moltiplicate le operazioni propagandistiche tese ad accentuare la percezione dei russi come una minaccia spietata per tutta l’Europa.
Molte di queste operazioni propagandistiche sono sprofondate nel ridicolo come nel caso dell’attacco elettronico al GPS dell’aereo del presidente della Commission e europea Ursula von der Leyen in atterraggio in Bulgaria, Un’operazione così raffazzonata da venire smentita da tutti gli esperti di navigazione aerea e persino dalle autorità di Sofia.
Non meno ridicola la notizia dell’attacco contro il palazzo del governo a Kiev, dove è davvero scoppiato un incendio ma non vi sono prove né video o foto che documentino l’impatto di un drone russo. Purtroppo (per la credibilità complessiva di UE, NATO e dei singoli governi), anche la drammatica storia dell’attacco dei droni Gerbera alla Polonia sta trasformandosi in una patetica farsa.
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