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Fuori dal cerchio
di Andrea Sartori
Negli Stati Uniti, le università sono diventate uno degli obiettivi privilegiati del populismo conservatore. Questo attacco si configura come una vera e propria strategia di delegittimazione culturale, ma sarebbe miope considerarlo unicamente frutto di propaganda reazionaria. Occorre infatti riconoscere – senza per questo fare dell’odioso victim blaming – una responsabilità implicita della cultura accademica liberal-progressista, che negli ultimi decenni ha finito per sviluppare una visione autoreferenziale, o un “pensiero conforme di gruppo”, come lo definisce Sasha Mudd (Prospect Magazine, 28 Maggio 2025), sempre più scollegato dai problemi reali delle persone comuni (in termini non dissimili si era espressa poco meno di tre anni fa la scrittrice e critica americana Margo Jefferson).
La sinistra accademica, da sempre teoricamente contraria alle élite, si è trasformata nella considerazione dell’opinione pubblica proprio in un’élite: chiusa, linguisticamente impenetrabile, moralmente sospettosa verso chiunque non ne condivida codici e automatismi. Si è passati pertanto dal pensiero conforme di gruppo al “tribalismo accademico” – così lo inquadra Mudd in dialogo per The Philosopher con Alexis Papazoglou (min. 10:30 ca.) – ovvero a una chiusura delle menti, al cospetto della quale nessuno è innocente. Era sufficiente, per esempio, non attenersi pedissequamente all’uso del neologismo latinx, coniato allo scopo di includere le identità di genere non-binarie dei latino-americani, per macchiarsi della colpa morale del razzismo e del sessismo (min. 25 ca.).
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A Pechino gli Stati sovrani “cospirano” contro il dominio USA
di Ottolinatv
A poche ore dal trionfale summit SCO di Tianjin, Pechino mette sul tavolo il piatto forte: la colossale parata che si è tenuta stamattina a Pechino è costellata da una serie infinita di fatti ed eventi di portata storica, a partire dal fatto che, come ricorda il South China Morning Post, è “la prima volta che Kim, Xi e Putin, tutti considerati rivali degli Stati Uniti, si sono riuniti nello stesso luogo, inviando un forte segnale di unità contro l’Occidente guidato dagli Stati Uniti”. “Oggi ci riuniamo solennemente per commemorare l’80° anniversario della vittoria della Guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della Guerra mondiale antifascista” ha ricordato nel suo breve, ma intenso, intervento Xi Jinping; un atto dovuto “per ricordare insieme la storia e onorare la memoria dei martiri”, ma anche per “coltivare la pace e creare il futuro”. “La guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese” ha sottolineato Xi “è una parte importante della guerra antifascista mondiale. Il popolo cinese ha compiuto grandi sacrifici a livello nazionale e ha contribuito in modo significativo alla salvezza della civiltà umana e alla salvaguardia della pace mondiale”; “Oggi, l’umanità si trova nuovamente di fronte alla scelta tra pace o guerra, dialogo o scontro, vittoria per tutti o somma zero. Il popolo cinese si schiera fermamente dalla parte giusta della storia e del progresso della civiltà umana, aderisce al percorso dello sviluppo pacifico e lavora fianco a fianco con i popoli di tutti i paesi per costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità”. “Il grande rinnovamento della nazione cinese è inarrestabile! La nobile causa della pace e dello sviluppo per l’umanità trionferà sicuramente!”. Se volete una rassegna piuttosto esaustiva di tutto quello che è stato messo in mostra dal punto di vista militare, vi consiglio questo lungo articolo su Guancha o il canale Telegram della nostra Clara Statello, che stamattina era particolarmente in forma e su di giri.
Mi vorrei concentrare piuttosto sul significato politico e sulle reazioni: “Il significato della parata militare del 3 settembre”, scrive su Guancha Shen Yi, professore di Politica Internazionale all’Università di Fudan, “sta diventando sempre più evidente”:
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Salario Minimo: il punto della situazione
di Federico Giusti e Emiliano Gentili
Negli ultimi anni in Europa stanno circolando due proposte politiche di grande impatto, che vengono considerate proficue sia per il lavoro dipendente che per l’impresa. Stiamo parlando della riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e di produttività e del salario minimo orario. Sulla prima abbiamo già scritto[1], mentre ora proveremo a fare il punto sulla seconda – quella sul salario minimo –, sulla quale ultimamente sembra starsi concentrando il dibattito politico.
Il dibattito degli ultimi anni
Nel 2022 l’Unione Europea promulgò una Direttiva[2] – ossia una dichiarazione d’indirizzo che impone agli Stati nazionali di affrontare certe tematiche e perseguire determinati obiettivi a esse inerenti, lasciandoli però liberi di scegliere le modalità con cui farlo – che chiedeva il «miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo». Quindi: non direttamente il salario minimo, bensì l’accesso alla tutela che questo garantisce. Inoltre, «qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva [in uno Stato membro dell’Unione] sia inferiore a una soglia dell’80%», la Direttiva avrebbe imposto la costruzione di «un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime» e, quindi, la messa a punto di «un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva». In caso si fosse adottato un salario minimo legale (e solo in questo caso), poi, si sarebbe dovuto ricorrere a dei «valori di riferimento indicativi (…). A tal fine, si possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio». Considerando che il salario lordo medio italiano è attualmente di 15,57€/ora e, il netto, di 11,25€/ora[3], appare chiaro che la Direttiva Ue sia semplicemente un timido atto d’indirizzo volto a uniformare il mercato del lavoro comunitario soprattutto per quanto riguarda i Paesi economicamente meno sviluppati, non l’Italia.
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Reorient, il nuovo cuore del mondo
di Pino Arlacchi*
Allarmistica e faziosa. Così m’è apparsa l’attenzione che i media italiani hanno riservato al meeting della Shanghai cooperation organization (Sco) tenutosi in Cina nei giorni scorsi.
Allarmistica perché non c’era alcun pericolo in vista. La Sco esiste da quasi trent’anni. È una presenza tranquilla, ben nota chiunque mastichi un po’ di politica estera, e solo degli occidentalisti faziosi potevano dipingerla come una specie di sinistra macchinazione di Cina e Russia contro l’Occidente.
Ma riflettiamo su ciò che la Sco rappresenta sullo sfondo della grande storia: quest’associazione è l’espressione di un mega trend epocale: il ReOrient. Movimento parallelo, quasi ortogonale rispetto al più noto mega trend del Grande Sud che si riflette nei Brics.
La Sco è formata solo da paesi eurasiatici e si sviluppa lungo l’ isola-mondo che va dall’Atlantico al Pacifico e all’Oceano indiano. Parliamo di un corridoio terrestre che parte dalla Cina e raggiunge le coste della penisola iberica e del Mediterraneo attraverso la Via della Seta, che è stata per secoli la strada maestra tra le grandi civiltà dell’Eurasia. I paesi della Sco sono gli attori di una silenziosa “grande riconnessione euroasiatica”, un asse strategico che collega Turchia, Iran, Russia, Cina, India e paesi centro-asiatici. Temporaneamente offuscato dallo scontro tra la Russia e l’Unione europea via Ucraina, quest’asse rappresenta una potente forza connettiva del tessuto economico e politico del mondo.
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Perché Pechino mostra le sue armi
di Redazione Contropiano - Michelangelo Cocco
In tanti parlano della Cina da molto lontano. Noi preferiamo ascoltare chi ci vive e lavora, che sicuramente ha il polso della situazione e non risponde alle esigenze del «datore di lavoro» (una qualsiasi testata occidentale). Magari si possono avere presupposti diversi, visioni non collimanti, ma almeno si possono avere informazioni non manipolate.
E’ il caso di questo articolo di Michelangelo Cocco, da Shangai, ex caporedattore de il manifesto, pubblicato sul suo spazio Substack («Rassegna Cina»), che consigliamo caldamente come abbonamento «anti-droga» (i media mainstream, in tempi di guerra, diventano letteralmente spacciatori in senso stretto).
Sulla parata di Pechino si possono elaborare molti giudizi, ma a partire da qui, e non da «intenzioni» attribuite ai leader cinesi (sulla falsariga degli articoli che promettono di spiegarci «cosa c’è nella testa di Putin» o di qualsiasi altro capo di stato classificato come «nemico»).
E che la Cina di oggi sia una potenza economica e tecnologica, quindi anche militarmente «solida», era chiaro anche prima della parata.
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La resistenza dei piccoli passi
di Nevio Gambula
Ci sono frasi che ti avvolgono, quasi ti abbracciano, e ti costringono a guardare dove non vorresti. Ieri sera mi è successo con un libro dal titolo profetico. È stata un’esperienza viscerale, qualcosa che mi ha attraversato nel profondo del corpo. La frase era questa:
«Quando si sta normalizzando un genocidio, ogni deragliamento della normalità conta».
Quella frase ha acceso in me una strana inquietudine, una raffica di domande. Che cos’è, davvero, la normalità? Quali sono le sue coordinate invisibili? Come riconoscerla, come fissarla in un’immagine per poterla comprendere fino in fondo? E da cosa, o da chi, occorre prendere le distanze?
Ogni volta che credevo di aver trovato una risposta, quella frase sollecitava altre domande, tutte decisive.
Esiste un gesto, anche il più piccolo, un frammento di azione, una mossa azzardata, capace di incrinare la superficie liscia e terribile della normalità? E in che modo un atto di resistenza individuale può connettersi a qualcosa che trascende il singolo, trasformandosi in un impegno collettivo?
La frase mi ha colpito come una frusta, lasciandomi dolente e intrappolato in una consapevolezza agghiacciante. La volontà genocidaria appare troppo vasta, e la rete delle sue complicità troppo ramificata, per immaginare un cambiamento significativo. Da lì nasce un senso profondo di inutilità: la percezione di essere impotente, ridotto a mero spettatore.
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Sui rapporti falsi
di Giorgio Agamben
Una buona definizione del potere politico è quella che lo caratterizza come l’arte di mettere gli uomini in rapporti falsi. Questo e non altro fa innanzitutto il potere, per poterli poi governare come vuole. Una volta che si sono lasciati introdurre in rapporti obliqui in cui non possono riconoscersi, gli uomini sono infatti manipolabili e orientabili a proprio piacimento. Se essi credono così facilmente nelle menzogne che vengono loro proposte, è perché false sono innanzitutto le relazioni in cui, senza che se ne accorgano, si trovano già sempre.
La prima mossa di una strategia politica degna di questo nome è pertanto la ricerca di un via d’uscita dai rapporti falsi in cui il potere ha posto gli uomini per poterli governare. Ma proprio questo non è facile, perché un rapporto falso è precisamente quello dal quale non si vede una via d’uscita. Qualcosa come una via d’uscita diventa possibile solo se comprendiamo che il rapporto falso è la forma stessa del potere, che trovarsi in un rapporto falso significa essere in una relazione di potere. Che falso, cioè, il rapporto è non perché mentiamo, ma perché manca la coscienza del suo carattere essenzialmente politico.
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Per un'analisi scientifica del potere nel capitalismo contemporaneo
di Andrea Pannone
Alla luce delle trasformazioni strutturali del capitalismo contemporaneo Andrea Pannone scrive che oggi è necessario ridefinire il concetto di potere, superando la concezione che lo intende come semplice capacità di influenzare l’azione altrui tipica dell'economia mainstream e ampliando la prospettiva marxista. Pannone in quest'articolo definisce potere come la capacità differenziale di agire sulla sfera economica, politica e sociale attraverso la centralizzazione del controllo di risorse materiali, umane e finanziarie.
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L’analisi scientifica del potere: un vuoto da colmare
Nel panorama dell’analisi economica, il concetto di potere — inteso come capacità di plasmare relazioni sociali e controllare risorse — rimane sorprendentemente marginale, specialmente nell’economia mainstream. I paradigmi neoclassici, focalizzati su equilibrio di mercato, efficienza e razionalità individuale, tendono infatti a ridurre il potere a un effetto secondario di dinamiche competitive, trascurando il suo ruolo strutturale nelle asimmetrie tra capitale e lavoro, o tra grandi corporation e interessi collettivi. Sebbene però le scuole eterodosse, come l’economia marxista, riconoscano il potere come intrinseco alle relazioni di produzione, le loro analisi, pur ricche di profondità teorica, spesso mancano di un approccio sistematico che combini rigore analitico con una chiara validazione empirica. Questo paper rappresenta un primo passo verso la costruzione di un quadro metodologico scientifico che integri il potere come categoria centrale nello studio delle dinamiche dell’economia contemporanea, dalla finanziarizzazione, alla centralizzazione del capitale, fino alla formazione di temibili oligarchie transnazionali.
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Furedi: sacrosanta critica del politicamente corretto o apologia dell'imperialismo occidentale?
di Carlo Formenti
Riprendo a scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è purtroppo dipesa dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono dedicato a tempo pieno a completare la prima stesura di un libro che uscirà dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi contemporaneamente a un lavoro di Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto sono parte di un unico progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di seguito, soprattutto per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per commentare.
* * * *
Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore).
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Trump alla resa dei conti contro la FED
di Alex Marsaglia
L’istrionico presidente americano da quando è riuscito miracolosamente a farsi rieleggere lo scorso novembre, scampando a numerosi attentati, è stato decisamente imprevedibile. Davvero in pochi hanno azzeccato la sua linea, ammesso e non concesso ne abbia davvero mai delineata una. Dalla politica estera isolazionista con l’attacco ai siti nucleari iraniani, alla vendita di armi per il fronte ucraino come via per la pace, le contraddizioni sono risultate veramente forti.
Su una cosa Trump si è dimostrato coerente: il rilancio della crescita economica degli Stati Uniti come priorità a qualsiasi costo. E quando un personaggio come lui mette in campo l’extrema ratio
si può essere certi che non cerca mezze misure.
Infatti, sul piano commerciale ha avviato un piano di dazi verso il mondo senza alcun precedente, seppellendo di fatto la globalizzazione e rendendo superfluo in un batter d'occhio il WTO.
Il piano tuttavia gli è finora riuscito a metà e proprio il Deep State americano, che tanto ha avversato senza mai riuscire a vincerlo, sembra essersi attivato per il sabotaggio della marcia indietro dalla globalizzazione.
Oltre alle spaccature politiche nel MAGA, nell’ultima settimana è arrivata la tegola sulla testa della Corte d’Appello di Washington che ha dichiarato illegali i dazi, confermando una sentenza della Corte del Commercio internazionale, rimandando di fatto alla Corte Suprema la decisione sulla sospensione definitiva del sistema tariffario entro il 14 ottobre.
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Non esistono israeliani buoni
di Gideon Levy*
Israele è guidato da un governo crudele e da un Primo Ministro senza cuore, come non se ne sono mai visti prima. Le vite umane, che si tratti di abitanti di Gaza, ostaggi o soldati, non interessano a questo governo. Sta Massacrando gli abitanti di Gaza e abbandonando ostaggi e soldati con la stessa equanimità.
A opporsi c’è un piccolo movimento extraparlamentare, umano e coraggioso, che dà lo stesso valore a tutte le vite umane.
Tra questa manciata di persone e il governo malvagio si trova il campo di centro. La maggior parte di loro lotta contro la crescente perdita di Umanità e l’inganno dimostrato dal governo. Le persone in questo campo sono scioccate da ogni video, perdendo il sonno per la sorte degli ostaggi pelle e ossa e dei soldati morti. Ma quando sentono i resoconti di un orribile Massacro in un ospedale, sbadigliano, disinteressati.
Sono migliori del governo e dei suoi sostenitori. Sono umani e mostrano solidarietà, ma solo in modo selettivo. Non esiste una moralità a metà. Proprio come la moralità a due pesi e due misure non è moralità, così lo è la moralità a metà. È l’opposto della vera moralità. È così che sono le persone in questo campo. Si preoccupano per la vita di 20 ostaggi, ignorando il fatto che il loro Paese uccide in media 20 innocenti all’ora.
Per loro, l’Umanità si ferma ai confini della nazionalità. Non lasceranno nulla di intentato per aiutare un israeliano, ma distoglieranno lo sguardo con disinteresse per il caso di un palestinese il cui destino è spesso molto peggiore.
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I mezzucci per deridere gli artisti che si schierano su Gaza
di Daniele Luttazzi - Nonc'èdiche, Fatto Quotidiano
E ora, per la serie “Che i rimorsi seppelliscano i rimorsi”, la posta della settimana.
Caro Daniele, dire “stop al genocidio” non serve a risolvere nulla ai palestinesi. (Sonia G.)
Questo è il sofisma utilitaristico caro ai sionisti, già renziani, de Linkiesta, che però si vantarono d’aver contribuito ad annullare il concerto di Gergiev (due pesi e due misure, da bravi propagandisti: chi ragiona da tifoso, e non in base a dei principi, cade sempre in contraddizione). 1500 artisti (fra loro Ken Loach, Roger Waters, Alba e Alice Rohrwacher, Valeria Golino e Mario Martone) si sono esposti contro il genocidio a Gaza e loro li sbertucciano insinuando opportunismi (“Vogliono essere cagati, cercano il consenso social, il posizionamento giusto è un ottimo rifugio se non hai talento, le opinioni degli attori sono irrilevanti, fingono che gli importi qualcosa della gente che muore”). Dimenticano che è una questione di coscienza. Il più è avercela. In realtà ai sionisti scoccia che la gente apra gli occhi grazie ai vip che boicottano Israele e i suoi propagandisti; e che ne scrivano New York Times e Guardian. Poi c’è il fuoco amico (“inaccettabile censura”, “eroi di una presunta rivoluzione morale ipocrita e vanitosa”, “esibizione vanagloriosa di una qualche forza del bene”) di chi da un po’ argomenta anche contro gli “antifascisti immaginari”. Questo era un sofisma di Buttafuoco (“l’antifascismo in assenza di fascismo”; ma forse era modestia, dato che è fascistissimo, come ammise gongolando Giuliano Ferrara). Intervistato dal Fatto (domanda:
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Al vertice in Cina si cerca la transizione a un mondo multipolare, l’Occidente invece resta guerrafondaio
di Paolo Ferrero
I media mainstream presentano i paesi del Sud del mondo che richiedono una giustizia su scala globale come una minaccia alla nostra esistenza
Nei giorni scorsi si è tenuto in Cina un doppio evento: la riunione della Shanghai Cooperation Organisation (Sco), che raggruppa i principali paesi dell’Asia continentale oltre a Russia e Bielorussia, e dall’altra i festeggiamenti per la vittoria della Cina nella guerra antifascista contro il Giappone. Si sono così trovati a discutere allo stesso tavolo i leader della Cina, della Russia, dell’India, del Pakistan e così via.
Il vertice è stato un fatto di grande rilevo per vari motivi. Il primo è che ha riunito anche paesi che storicamente hanno avuto buoni rapporti con l’occidente – basti pensare all’India – segnalando così il declino dell’egemonia occidentale sui paesi del sud del mondo. In secondo luogo il vertice ha messo attorno allo stesso tavolo paesi che hanno vari contenziosi anche militari (Pakistan, India, Cina, ecc.). Importante che questi paesi invece di accentuale il conflitto preferiscano avere luoghi di mediazione, evitando che il singolo conflitto determini una situazione di conflitto totale.
Il terzo motivo che segna l’importanza di questa riunione riguarda il peso degli interlocutori: che Cina, Russia e India si trovino a discutere di sicurezza comune, di sviluppo di una banca comune e convengano sulla necessità di una modifica della governance mondiale che porti alla democratizzazione delle relazioni tra le nazioni attorno alla proposta di rilancio e di riforma delle Nazioni Unite e delle istituzioni a esse connesse, costituisce un fatto di grande momento.
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Il settantismo malattia senile del reducismo
di Gigi Roggero
Una decina di anni fa affrontavamo la questione della «generazione scomparsa», composta da quei militanti «di movimento» nati negli anni Settanta. Da quel decennio, più ancora che indiscutibili ricchezze, tali militanti hanno ereditato innanzitutto un complesso: «quello dell’essere arrivati tardi». La fonte di ispirazione è diventata mitologia, i rapporti intergenerazionali si sono non di rado trasformati in accettata subalternità pedagogica, la venerazione di una memoria iconica è sfociata nel torcicollo politico, cioè nell’incapacità di guardare alle complessità del presente per fuggire in un passato spesso caricaturale. D’altro canto, molti di coloro che hanno vissuto politicamente quel decennio, con il passare del tempo, sono stati vittime della nostalgia canaglia, in primo luogo quella per la trascorsa gioventù: così, anziché mettere al servizio dell’oggi i limiti della loro esperienza, l’hanno trasfigurata in metro di misura della verità, in memorialistica picaresca, o in uno spaghetti western. Come se bastasse lo spirito d’avventura o l’eroismo combattentistico individuale a cambiare le sorti di un mondo senza tempo, indipendentemente dal contesto storico e dalle composizioni sociali. Questo articolo spiega come la necessità di lottare contro la dominante rimozione degli anni Settanta sia stata sublimata nell’ideologia del «settantismo». E in alcuni ambienti la toppa è stata forse peggiore del buco.
Oggi il problema del settantismo riguarda bolle sempre più residuali e anagraficamente connotate, orfane di quello che fu il Movimento (con la maiuscola, portato dell’anomalia italiana) e nello sfarinamento del «noi», che di epoca in epoca esiste solo come prodotto di un processo collettivo.
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Jason Moore oltre la giustizia climatica. Contro il discorso catastrofista dell’ambientalismo borghese
di Antiper
Commento alla lettura del brano Oltre la giustizia climatica (titolo originale: Beyond Climate Justice, in Ekaterina Degot e David Riff (a cura di), The Way Out of…, Hatie Cantz Verlag, Berlino, 2022, pp. 105-130) in Jason W. Moore, Oltre la giustizia climatica. Verso un’ecologia della rivoluzione
Il libro [1] di Jason W. Moore raccoglie una serie di testi (alcuni dei quali inediti) dedicati al rapporto tra lotta “ambientalista” e lotta “politica”. Uno di questi testi – Oltre la giustizia climatica – dà anche il titolo al libro e sviluppa una dura critica nei confronti dell’ambientalismo americano per come si è sviluppato dalla fine degli anni ‘60 fino ad arrivare a quello che Moore chiama Antropocene popolare, caratterizzato da un approccio depoliticizzato e interclassista verso i problemi ecologici.
Moore inizia la propria riflessione con una critica nei confronti di certe dichiarazioni catastrofiste di Roger Hallam, fondatore dell’organizzazione ambientalista internazionale Extinction Rebellion
“Sto parlando del massacro, della morte e della fame di 6 miliardi di persone in questo secolo” [2]
Moore mostra come tale approccio non sia per nulla nuovo e sia stato utilizzato consapevolmente, sin dalla fine degli anni ‘60, per produrre un discorso politico di non contrapposizione nei confronti del sistema e di spostamento dell’attenzione dei giovani dal terreno delle lotte sociali e politiche, a cominciare dalla lotta contro la guerra in Vietnam (che in quella fase era un terreno di vasta mobilitazione e un punto politico di coagulo), per orientarli verso un certo tipo di denuncia ambientalista, non solo non anti-sistemica, ma addirittura per molti versi collaborativa con l’establishment politico.
Nel 1967 Martin Luther King tiene un discorso intitolato “oltre il Vietnam” nel quale propone la “teoria dei tre mali” e spiega come le questioni dello sfruttamento, del razzismo e della guerra non siano scollegate, ma siano piuttosto tre diversi aspetti di uno stesso meccanismo.
Martin Luther King ha ragione: l’imperialismo americano ha bisogno della guerra per imporre la propria supremazia a livello internazionale e ha bisogno del razzismo per tenere soggiogato il proletariato nero e costringerlo ad accettare condizioni di inferiorità materiale e culturale; e ovviamente ha bisogno dello sfruttamento dei lavoratori perché è proprio sulla base di questo sfruttamento che funziona l’accumulazione di capitale.
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Il vertice del nuovo ordine mondiale
di Dante Barontini
Ci sono molti modi guardare al vertice dello Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shangai), che si è tenuto a Tjanjin e prosegue di fatto oggi, a Pechino, con le celebrazioni per l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il più diffuso, nell’establishment occidentale (riflesso integralmente dalla schiera dei media mainstream) è la paura. Paura “militarizzata” chiamando in causa la guerra in Ucraina o le armi che – come in ogni parata militare in qualsiasi angolo del mondo – la Cina esibisce per l’occasione.
Ma la paura vera è quella di trovarsi alla fine del lungo ciclo storico in cui l’Occidente “anabolizzato” dal modo di produzione capitalistico ha tenuto il resto del mondo sotto un tallone di ferro occasionalmente rivestito di velluto.
I vantaggi economici e tecnologici del capitalismo hanno ora molti altri protagonisti, irrobustiti fra l’altro dal non aver seguito l’ubriacatura neoliberista euro-atlantica degli ultimi 40 anni, avendo conservato tutti – chi in un modo, chi in un altro – un ruolo centrale per lo Stato.
Campione indiscusso di questa sorta di “keynesismo” capace di combinare programmazione, piani quinquennali, semi-libertà di impresa, politiche salariali che hanno fatto crescere la retribuzioni più velocemente del Pil, ecc, è sicuramente il padrone di casa.
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Il dominio USA al capolinea. L'occidente risponde con militarizzazione ed escalation
di Vincenzo Brandi
In una interessante intervista resa due giorni fa (29 agosto) all’accademico norvegese Glenn Diesen, l’ex diplomatico britannico Alistair Crooke, fondatore del Forum Conflitti con sede a Beirut, illustrava come la crescente opposizione al progetto di dominio occidentale guidato dagli USA provocasse da parte occidentale un processo di militarizzazione crescente e di escalation.
L’intervista partiva dall’assedio occidentale alla Russia e dalla crisi ucraina -come riportato anche nel titolo: ”La pazienza della Russia è finita. L’escalation inizia”- per poi allargarsi ai massacri e alle guerre scatenate da Israele con l’appoggio degli USA e di tutto l’Occidente.
In effetti gli Occidentali, riuniti nella NATO sotto la direzione degli USA, hanno portato negli ultimi 30 anni i confini di questa alleanza fin dentro i confini dell’ex Unione Sovietica, nel tentativo di minacciare e indebolire la Russia, con l’obiettivo finale di sottometterla o frantumarla e di impossessarsi delle sue enormi ricchezze naturali. Sono stati organizzati colpi di stato e “rivoluzioni colorate” in Serbia - alleato della Russia, e già attaccata militarmente- in Georgia, in Ucraina, oltre alla guerra per bande scatenata in Siria, altro alleato della Russia.
La Russia ha però reagito con grande consapevolezza del pericolo ed energia a queste pressioni, e questo causa un tentativo di escalation del conflitto, in cui però il compito di rimanere in prima linea viene affidata dagli USA ai masochisti europei, che avrebbero invece tutto l’interesse ad avere buoni rapporti economici e politici con la Russia.
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E dalla Mostra del cinema di Venezia, come stronzi, restarono a guardare
di Max Renn e Guy van Stratten
L’indifferenza e la pochezza culturale che avvolgono il nostro presente fanno capolino anche in quella che si dovrebbe definire come cultura cinematografica: basta leggere le dichiarazioni di alcuni registi e attori italiani presenti a Venezia per la Mostra del cinema che definiscono come stronzate, inutili e scadenti gli appelli per Gaza. Qualcuno di loro ha distrattamente firmato una petizione, probabilmente più per conformismo con la categoria che per altro, salvo poi pentirsene o accorgersi che questa, strada facendo, ha avuto l’ardire di chiedere di starsene a casa a chi pubblicamente ha sostenuto e sostiene la deportazione e lo sterminio per armi e per fame del popolo palestinese. Un vero e proprio atto di “censura”, per carità! Non sia mai.
Altri sono al Lido per passeggiare sul tappeto rosso e per farsi vedere a qualche patetico ricevimento sponsorizzato indossando il vestito buono sulla barba di tre giorni e i capelli un po’ spettinati – che fa sempre tanto “gente di cinema” – per promuovere il loro nuovo filmettino senza nemmeno preoccuparsi che esca nelle sale, confidando al massimo, quando sarà il momento, in qualche autoreferenziale Donatello di consolazione per soddisfare l’ego artistico. Ma in cosa si sta trasformando la Mostra del Cinema? In un sovraffollato centro commerciale di una domenica di fine estate, in cui le opere in concorso sono trattate alla stregua di oggetti di consumo, di merci esposte pronte per essere apprezzate dal primo ricco acquirente, mentre ai confini d’Europa si sta consumando un terribile genocidio? Ma sì, certo, cosa importa ai ricchi e colti ‘artisti’ bianchi europei e italiani dello sterminio del popolo palestinese?
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Come impedire a Israele di affamare Gaza
di Jeffrey Sachs e Sybil Fares, scheerpost.com
Israele, con la complicità degli Stati Uniti, sta commettendo un genocidio a Gaza attraverso la fame di massa della popolazione, nonché omicidi di massa diretti e la distruzione fisica delle infrastrutture di Gaza. Israele fa il lavoro sporco. Il governo degli Stati Uniti lo finanzia e fornisce copertura diplomatica attraverso il suo veto all’ONU. Palantir, tramite “Lavendar“, fornisce l’intelligenza artificiale per un efficiente omicidio di massa. Microsoft, tramite i servizi cloud di Azure, e Google e Amazon tramite l’iniziativa “Nimbus“, forniscono l’infrastruttura tecnologica di base per l’esercito israeliano.
Questo segna i crimini di guerra del XXI secolo come un partenariato pubblico-privato tra Israele e Stati Uniti. La carestia di massa da parte di Israele nei confronti della popolazione di Gaza è stata confermata dalle Nazioni Unite, da Amnesty International, dalla Croce Rossa, da Save the Children e da molti altri. Il Consiglio norvegese per i rifugiati, insieme a 100 organizzazioni, ha chiesto la fine dell’uso militare degli aiuti alimentari da parte di Israele. Questa è la prima volta che la carestia di massa è stata ufficialmente confermata in Medio Oriente.
La portata della carestia è sconcertante. Israele sta sistematicamente privando di cibo oltre 2 milioni di persone. Oltre mezzo milione di palestinesi affrontano una fame catastrofica e almeno 132.000 bambini sotto i cinque anni rischiano di morire per malnutrizione acuta. La portata dell’orrore è ampiamente documentata da Haaretz in un recente articolo intitolato “La fame è ovunque”. Coloro che riescono in qualche modo ad accedere ai siti di distribuzione alimentare vengono sistematicamente presi di mira dall’esercito israeliano.
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“La Sumud Flotilla vuole aprire un corridoio per Gaza”
di Alessio Ramaccioni intervista Maria Elena Delia
Tra qualche giorno inizierà il viaggio della Global Sumud Flottilla, la più grande missione marittima civile coordinata della storia per sfidare il blocco illegale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza. Imbarcazioni di ogni dimensione salperanno da più porti, convergendo verso Gaza per aprire un corridoio umanitario e chiedere la fine del genocidio.
Con una serie di interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, Radio Città Aperta seguirà questi ultimi giorni di preparazione, gli eventi, la partenza ed il viaggio. Sulle nostre piattaforme social e sul sito potrete ascoltare i podcast e seguire gli approfondimenti.
In questo primo episodio dello Speciale Maria Elena Delia, portavoce del Global Sumud Flottilla, spiega come è nato il progetto, che obiettivi si pone di raggiungere e racconta cosa sta succedendo in questi ultimi giorni di preparativi.
L’intervista è a cura di Alessio Ramaccioni.
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Come annunciato dalle nostre piattaforme social e dal sito, inizia oggi il racconto di Radio Città Aperta, il contributo al racconto da parte di Radio Città Aperta, del viaggio della Global Sumud Flottiglia, che vuole rompere il blocco israeliano a Gaza, aprendo un corridoio umanitario. Questa prima puntata avrà come protagonista Maria Elena Delia, che è la portavoce italiana di Global Sound Flottiglia. Da qui ai prossimi giorni proporremo interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, nel corso della traversata. Entriamo nel merito con Maria Elena: vi aspettavate la visibilità, il consenso, le adesioni che stanno arrivando numerose in queste settimane?
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L'ascesa cinese: Boldrin guarda il dito e non vede la luna
di Paolo Baldi
Ho visto il video di Michele Boldrin “Le cause della crescita cinese”. L’ho visto una sola volta, senza l’intenzione di scriverci qualcosa sopra ma condividendo i miei pensieri nella chat di amici in cui il video era stato inoltrato. Non voglio fare una risposta puntuale del video: guardare i video di Michele Boldrin può causare forte emicrania e reflusso gastrico, figuratevi guardare due volte lo stesso video!
Tralasciando le battute, voglio solo gettare luce su ciò che Michele Boldrin ha omesso per due motivi:
- Michele Boldrin è un opinion leader. La sua opinione trascende la sua persona. Le sue opinioni hanno una certa rilevanza in quel poco di dibattito pubblico che esiste in Italia. Sarebbe interessante instaurare un dialogo sul come dobbiamo rapportarci con la Cina. Michele Boldrin - per quanto guardi il dito e non veda la luna - ha intavolato il discorso con un approccio realista e concreto. Quest'approccio può portare a una maggiore comprensione reciproca, il che è fondamentale di questi tempi. Questo è l’aspetto positivo del video e dobbiamo lavorare per approfondire dibattiti sul tema.
- È importante capire che spesso la falsa coscienza e le narrazioni parziali vengono costruite attraverso certi frame interpretativi che, seppur senza ricorrere a menzogne, non mostrano la realtà complessiva. Omissione e ripetizione sono le parole d’ordine della falsa coscienza.[1]
Michele Boldrin è un economista. Il suo frame interpretativo è economicistico e omette (volontariamente) la sfera politica, sociale e ideologica. Ma ciò che rende l’ascesa economica cinese unica è il suo rapporto con la sovrastruttura politica e ideologica. Per questo dico che Michele Boldrin guarda il dito (economia) ma non vede la luna (politica).
L’argomentazione di Michele Boldrin si può riassumere così: l’ascesa economica cinese non ha nulla di speciale. La leadership cinese ha usufruito dei vantaggi comparati derivati dall’avere un enorme forza lavoro estremamente povera e quindi disposta a essere sfruttata dai capitalisti occidentali (in quanto lo stipendio da loro offerto era comunque molto maggiore rispetto alle altre opportunità di lavoro).
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La violenza della ‘buona madre’. La guerra cognitiva al tempo degli LLM
di Alessandro Visalli
Viviamo in tempi gonfi di aggressività. Tutto intorno a noi cerca di organizzarla, dirigerla, deviarla. Ci viene continuamente ricordato che ci sono all’opera forze maligne che tralignano nell’ombra, ‘orchi’, li ha recentemente chiamati un Presidente della Repubblica Francese. A seconda degli orientamenti questi possono essere posti nelle alte torri delle city finanziarie, o sotto le guglie dorate di una remota e antica capitale, ovvero entro moderni palazzi di vetro di una capitale orientale. L’importante è che non siano abbastanza vicini da poterli contestare, da organizzare un’azione concreta[1].
Tutto questo è parte della guerra, oggi.
Per vederlo più da vicino, partiamo da dove si combatte sul campo. Sempre più l’esperienza della guerra ad alta intensità che si combatte in Ucraina ha mostrato una verità: ciò che è essenziale non è la quantità di esplosivo, di armi, di vettori, neppure di uomini; quanto la capacità di governare l’informazione.
Questa esigenza si articola su più strati:
- Ad un primo livello troviamo la necessità di dominare lo ‘spettro elettromagnetico’[2], per cui si sviluppano sistemi in grado di tracciare e controllare centinaia di bersagli anche molto piccoli allo stesso momento, viceversa vengono messi in campo droni da guerra elettronica sempre più sofisticati, anche personali, come il sistema russo nel casco dei soldati per accecare i droni a guida immersiva ucraini. Qui lo scopo è disturbare i radar, neutralizzare ed accecare i droni, deviare i missili intervenendo sui loro sistemi di guida e puntamento, proteggere le proprie comunicazioni e saturare quelle del nemico di falsi segnali.
- Ad un secondo, però, diventa cruciale dominare la percezione, anticipare le mosse, nascondere le proprie e manipolare i contesti operativi.
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Bye bye occidente: Lo SCO vara la sua Banca di Sviluppo
di Giuseppe Masala
Uno dei punti pratici più importanti del vertice dello SCO a Tianjin in Cina è la creazione della Banca di sviluppo dell'organizzazione. A prima vista può apparire come un evento burocratico nell'ambito dell'organizzazione, ma che nella realtà si tratta di una decisione che può avere conseguenze strategiche molto importanti sia in ambito finanziario che in ambito geopolitico in generale.
Innanzitutto vi è un tema fondamentale legato ai pagamenti transfrontalieri tra paesi facenti parte dell'organizzazione. Infatti il commercio tra i paesi della SCO supera complessivamente ormai i 2000 miliardi di dollari ma dove la stragrande maggioranza dei pagamenti sono ancora legati a infrastrutture controllate dall'Occidente. Una evenienza questa che crea una vulnerabilità strategica esiziale perché - in un contesto di guerra sanzionatoria dove ormai si parla apertamente anche di sanzioni secondarie – potrebbe comportare un rischio sistemico per la sopravvivenza dell'organizzazione stessa.
È importante sottolineare subito un concetto fondamentale: per chi scrive la Banca di sviluppo della SCO non nasce come un analogo del FMI e dunque in sua concorrenza. Il FMI è certamente uno strumento figlio di un epoca ormai sul viale del tramonto sia perché fondata sul dollaro sia perché incentrata sul concetto di equilibrio della bilancia commerciale e del saldo delle partite correnti. Concetti questi fondamentali ma che, essendo applicati rigidamente, hanno evidentemente tagliato le ali allo sviluppo dei paesi del Sud Globale.
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Il bluff europeo per Trump: "Se abbandoni l'Ucraina, abbandoniamo israele"
di Leonardo Sinigaglia
Trump è stato chiaro con Zelensky:
“La NATO vuole proteggere l'Ucraina. Li aiuteremo in questo”, aggiungendo anche che “non diamo nulla all'Ucraina, vendiamo solo armi. Vendiamo equipaggiamento alla NATO, e loro ci pagano per questo”. Per dirla con Vance: "Le garanzie di sicurezza all'Ucraina sono compito principale europeo”.
La “coalizioni dei volenterosi” - ovvero i guerrafondai europei capeggiati da Regno Unito e Francia - comprerà armi dagli Stati Uniti per trasferirle all’Ucraina. Trump, ponendosi come mediatore - di “dubbia” imparzialità - scarica i costi del sostentamento dello Stato fallito Ucraino e del proseguimento della guerra con la Russia sugli europei.
Il riposizionamento statunitense mette in grande difficoltà i falchi europei. Vance ha raccontato di come alla fine dell’incontro tra i vertici europei e Trump quest’ultimo abbia telefonato Putin. Gli europei pensavano che la telefonata sarebbe avvenuta la settimana seguente, ma Trump aveva già il telefono in mano e “la necessità di rispettare procedure e consuetudini diplomatiche” invocata dagli europei non l’ha fermato da chiamare il Presidente russo all’una di notte.
Per quanto Trump voglia mostrarsi come l’uomo della pace, i russi non hanno la memoria corta e Il deputato della Duma Aleksej Zuravlev ricorda: “Si può dare la colpa all'amministrazione Biden quanto si vuole, ma Washington ha iniziato massicce forniture di armi a Kiev durante il primo mandato di Trump.
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India, istinto suicida dell’Occidente
di Fabrizio Casari
Le sfuriate quotidiane di Trump contro le istituzioni statunitensi e gli avversari politici interni - ai quali assegna premi e castighi in maniera del tutto arbitraria - viaggiano in parallelo con la quotidiana individuazione di un nemico estero verso il quale minacciare sanzioni o guerre. In questo contesto, che serve al tycoon per distrarre gli statunitensi dai suoi scandali di natura sessuale, dal suo insider trading e dai tragici risultati dell’economia, s’inseriscono tanto le provocazioni aperte (come nel caso del Venezuela) quanto alcune decisioni di rottura che, per il loro impatto assumono natura globale. La rottura con l’India di Modi è una di queste e rappresenta uno dei peggiori autogol mai realizzati dagli Stati Uniti.
La natura delle sanzioni all’India è interamente politica: non riguarda infatti sbilanciamenti commerciali negli scambi bilaterali ma si argomenta con il commercio di Modi con Putin e Xi. In questo senso appare ulteriormente ricattatoria e grave rispetto ad altre verso altri paesi più squisitamente commerciali.
E’ evidente come l’introduzione dei dazi al 50% cerchi di colpire lo sviluppo poderoso dell’India che, da due anni a questa parte, conta sulla maggiore crescita del PIL nel globo. Una crescita anche demografica (ha superato la Cina in abitanti) che ha però un suo limite: Nuova Delhi non dispone delle risorse energetiche in grado di sostenere l’imperiosa crescita economica della quale è protagonista. In qualche modo è lo stesso handicap del quale ha sofferto lo sviluppo cinese. Non a caso, dal 2022 a oggi, indifferenti alle sanzioni occidentali, India e Cina hanno acquistato oltre il 50% delle esportazioni russe di gas e petrolio.
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