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L'Euro: da alternativa al dollaro a businnes della povertà
di Comidad
Il ministro dell'Economia Tremonti ha rilanciato i facili entusiasmi dei suoi supporter della "destra antagonista" ripresentando alla Germania la proposta degli "Eurobond", cioè di titoli emessi allo scopo di sostenere l'euro attraverso un impegno dell'Unione Europea nel suo complesso. La proposta si è qualificata da sé come un nonsenso, dato che è apparsa come andare da uno che ti abbia appena rifiutato di garantirti una cambiale per chiedergli di garantirti addirittura un mutuo.
Il governo tedesco ha avuto infatti facile gioco ad obiettare che il peso della responsabilità di garantire l'affidabilità di questi titoli europei ricadrebbe sui Paesi ad economia forte, come appunto la Germania; Paesi che adesso rivendicano nei media il rango di "virtuosi", dato che la potenza si ammanta di virtù, mentre i Paesi ad economia debole, in base a questo lessico moralistico, vengono etichettati con l'acronimo sprezzante di "P.I.G.S.", poiché la debolezza va considerata come una colpa.
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Un argine a speculazioni e delocalizzazioni
Marco Sferini intervista Emiliano Brancaccio
Stiamo assistendo a una precipitazione della vicenda FIAT e a un inasprimento del conflitto tra i sostenitori e gli oppositori della linea portata avanti dai vertici del gruppo. Qual è secondo lei l’incidenza della crisi economica sulle scelte operate da Marchionne?
La crisi ha rappresentato un acceleratore dei piani di Marchionne. La grande recessione esplosa nel 2008 ha indotto l’amministratore delegato di FIAT ad attuare in termini molto più repentini e dolorosi un programma di ristrutturazione che egli probabilmente coltivava già da tempo, e che in buona sostanza dipende dalla fragile posizione di FIAT all’interno di un mercato automobilistico in profonda transizione. Il punto da comprendere è che in molte branche del manifatturiero, e in particolar modo nel settore automobilistico, registriamo da tempo un eccesso di capacità produttiva a livello mondiale. Conseguenza di questo eccesso è quella che Marx definiva una tendenza alla centralizzazione dei capitali.
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L’assurda ricetta di ‘Frau nein’
Ruggero Paladini
Angela Merkel continua a dire no a qualsiasi politica anticrisi che non sia di tagli ai bilanci dei paesi con forti deficit e ha imposto questa linea all’Europa. Ma in questo modo è tecnicamente impossibile che riescano a risanarsi e si fa concreto il rischio di un loro default o uscita dall’euro. Solo qualche segnale lascia un filo di speranza

Angela Merkel ha sostenuto che l’ESM dovrà prevedere un costo anche per i creditori dei paesi a rischio (gli ormai famigerati “Pigs”). Ed i creditori non sono poi altri se non le banche europee, e principalmente quelle tedesche e francesi; insieme hanno circa 315 miliardi di crediti verso Grecia ed Irlanda (61% in Germania) e 705 miliardi comprendendo anche Portogallo e Spagna (55% in Germania).
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I conflitti svelati nella società della conoscenza
Enzo Modugno
Il ministro Mariastella Gelmini non si sta sbagliando, al contrario, come tutti i suoi predecessori sta portando avanti il lungo processo di razionalizzazione capitalistica dell'istruzione, anche se la crisi ne mostra gli aspetti peggiori. Non sarà quindi una migliore riforma della scuola che potrà arrestarlo. Perché questo processo di razionalizzazione deve rendere permanente l'espropriazione capitalistica dell'intelligenza collettiva che costituisce oggi l'essenza stessa di questo modo di produzione, e non saranno i governi a fermarlo. Ma le lotte degli studenti e dei lavoratori, attaccandolo, possono riuscire a renderlo impraticabile.
Le conoscenze sono ormai le merci più diffuse, algoritmi che si vendono sul mercato mondiale, e anche il sapere, come le ferrovie, è stato privatizzato: è antieconomico produrre conoscenze nelle università statali e l'imprenditoria italiana non ha interesse a svilupparvi la ricerca. Le conoscenze sono merci come le altre, si possono comprare a prezzi migliori.
Il nostro sistema scolastico invece deve produrre qualcosa di più urgente per il buon andamento dell'economia: chi vede solo le cose prodotte non si accorge, ha scritto Marx, che i lavoratori sono un prodotto essenziale del processo di valorizzazione del capitale.
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I tagli allo Stato Sociale? Dannosi e controproducenti
Anna Avitabile intervista Roberto Artoni
Parla Roberto Artoni, docente della Bocconi. "Si usa la crisi per ridurre le spese sociali, ma così facendo non si risolve il problema. Al contrario, lo si aggrava". In certi settori, come la sanità, l'intervento pubblico resta lo strumento migliore
Da qualche tempo si parla di insostenibilità dell'intervento pubblico, asserendo che è necessario tagliare pesantemente una serie di voci di spesa, a partire da quelle delle autonomie locali, dell'istruzione, della sanità, della gestione del territorio. Ma il gettito fiscale non è drasticamente diminuito negli ultimi anni e allora perché quelli che erano livelli normali di spesa oggi sembrano essere diventati insostenibili? Cos'è cambiato? Si apre con questa domanda, forse un po' ingenua, l'intervista a Roberto Artoni, professore di Scienza delle Finanze all'università Bocconi di Milano.
Qualche maligno ha scritto che c'è chi ha guardato alla crisi come a una grande occasione per arrivare a un regolamento dei conti, cioè alla possibilità di tagliare soprattutto le spese sociali. E lei è d’accordo con questa ipotesi?
Ci sono molti indizi che la rendono non così peregrina, soprattutto se si guarda alle politiche proposte dai repubblicani negli Stati Uniti o a quelle praticate dai conservatori inglesi. Ma c’è anche un secondo aspetto da tenere in conto, la speculazione finanziaria degli operatori transnazionali che oggi possono attaccare qualunque valuta, specialmente quelle dei paesi relativamente piccoli, in particolare quando questi ultimi hanno la necessità di rinnovare il loro debito in scadenza.
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Il tramonto della democrazia nell'era della globalizzazione
Danilo Zolo
1. Il declino dei modelli classici e post-classici della democrazia
Oggi non è chiaro che cosa significhi la parola "democrazia". Coloro che usano disinvoltamente il termine "democrazia" lo fanno o per pigrizia intellettuale o per scarsa conoscenza dei problemi. Molto spesso si tratta di retorica politica e di presunzione ideologica occidentale. Negli Stati Uniti d'America, in particolare, i leader politici usano il termine democracy per esaltare il proprio regime e per discriminare sul piano internazionale quelli che essi chiamano "Stati canaglia" (rogue states).
Non c'è dubbio che il significato classico di "democrazia", risalente all'esperienza ateniese, appartiene ad una storia remota che ormai ha ben poco da insegnarci. Oggi, in tempi di espansione globale del potere politico, economico e militare, nessuno studioso serio pensa che il modello della agorà e della ecclesia abbia una qualche attualità. E nessuno oggi crede che i partiti politici siano realmente delle organizzazioni "rappresentative" che trasmettono fedelmente ai vertici del potere statale le esigenze e le aspettative degli elettori.
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L'avvento del "Marchionnismo"
di Alfonso Gianni
Morto un picconatore se ne fa un altro. Dopo la scomparsa di Francesco Cossiga, ecco brillare l’astro di Sergio Marchionne. Se il primo aveva affondato i propri colpi nel ventre molle delle istituzioni e squarciato il velo di ipocrisia che avvolgeva i rapporti politici della Prima Repubblica, il secondo usa il maglio per sconvolgere le relazioni industriali e sindacali del nostro paese al fine di completare quell’opera poco meritoria di americanizzazione della società che finora si era concentrata sullo smantellamento dello stato sociale. “Grazie Fiat” ci dice Giuliano Cazzola. Puro masochismo. In realtà non è difficile capire – se si leggessero i testi degli “accordi” firmati solo da alcuni sindacati, satelliti nell’orbita dell’impresa - che il ciclone Marchionne porta il peggio per l’industria del nostro paese.
Cominciamo dall’oggetto della produzione, di cui sembra che quasi tutti si siano dimenticati. Il progetto Marchionne prevede che lo stabilimento di Mirafiori produrrà Suv.
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I sicari dell'economia globale
di Bruno Amoroso
Nel suo editoriale su La Repubblica del 19.12.2010 Eugenio Scalfari ci informa sull'esistenza di una Cupola finanziaria che gestisce le principali speculazioni mondiali. La sua fonte è il New York Times, che conferma quanto aveva già letto in Marx tempo prima. Da qui alcune sue deduzioni - di Eugenio Scalfari s'intende - sulle quali è bene soffermarsi. La prima, sulla quale concordo, è che le speculazioni non riguardano solo singoli faccendieri e neanche gli Hedge Fund, ma un sistema organizzato il cui cervello è costituito dalle maggiori nove banche mondiali. È vero, come sostiene, che è contro queste ultime che si è appuntata la critica della sinistra per decenni sfociata nella richiesta della nota Tobin Tax. Una visione miope che evade l'ampiezza del problema e che purtroppo resta comune sia agli amici che agli sciocchi.
Che la finanzia mondiale costituisca oggi un sistema di potere globale è stato ampiamente descritto negli ultimi 10 anni da numerosi studi e autori. Basti ricordare il bel testo di J. Perkins - Confessioni di un sicario dell'economia - che illustra come la rete di esperti e di centri di studio internazionali falsifichino i dati economici dei singoli paesi per spingerli ad indebitarsi e poi provocarne una crisi che mette i governi e l'economia nelle loro mani.
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L’“umanitario” diventa militare-civile
di Antonio Mazzeo
Le crisi economiche, sociali e politiche generate dalla diffusione generalizzata delle politiche neoliberiste e la contemporanea crisi ideale e d’identità delle organizzazioni di massa della sinistra (partiti, sindacali, ecc.) - fenomeni che hanno segnato l’ultimo trentennio - non potevano non segnare la mission, i percorsi e l’agire delle Organizzazioni non governative (ONG). Sviluppatesi in buona parte tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 per ripensare i modelli di sviluppo, sostenere le lotte di liberazione nel Sud del mondo e svolgere opera di sensibilizzazione contro le feroci dittature al potere in Asia, Africa e America latina, sono veramente poche le ONG che oggi s’interrogano sugli scopi sempre meno “umanitari” dei donanti e cofinanziatori dei propri programmi e progetti nel Sud del mondo. Complice poi la sempre maggiore dipendenza dalle sempre più scarse risorse finanziarie dei soggetti pubblici (l’Unione Europea e, in Italia, la DGCS Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri), le ONG si sono lasciate trascinare dalle logiche e le strategie di riacquisizione dell’egemonia in alcune aree geografiche ritenute “prioritarie” dai donanti non per l’oggettiva gravità delle condizioni di vita delle popolazioni ma perché sempre più spesso caratterizzate da governi deboli o disponibili alla firma di accordi di “libero commercio” per perpetuare il saccheggio delle transnazionali.
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Un'associazione a sostegno della Fiom
di ***
Abbiamo deciso di costituire un'associazione, «Lavoro e libertà», perché accomunati da una comune civile indignazione.
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall'assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c'è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell'impegno politico e civile.
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Accordo separato a Mirafiori, Fiom e movimenti
di Raffaele Sciortino
Neo vescovo e sindaco torinesi saranno soddisfatti per lo scontato pacco regalo: l’accordo separato – cioé senza firma Fiom – tra Fiat e Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Quadri per il futuro dello stabilimento di Mirafiori. Non c’è stato neanche uno straccio di trattativa tra le “controparti”. Inezie a parte il testo dell’accordo è sostanzialmente quello imposto da Marchionne col ricatto di ventilati investimenti che dovrebbero portare a più del raddoppio (?!) delle auto prodotte nello stabilimento torinese secondo le previsioni di una ripresa del mercato globale dal 2012 (?!). L’accordo ricalca il ricatto imposto ai lavoratori di Pomigliano: 18 turni alla settimana, primi due giorni di malattia non pagati, 120 ore straordinarie obbligatorie, turni “avvicendati” di dieci ore, pause cancellate sulle linee, orario mensa a fine turno quindi con mezz’ora in più di lavoro, misure anti-assenteismo.
In più e di peggiorativo c’è però il piano di costituire una newco (propriamente una joint venture con Chrysler) con la quale la Fiat va oltre le stesse deroghe al contratto nazionale fuoriuscendone in vista di un contratto auto specifico che recepisce in pieno l’accordo di Pomigliano.
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Lo Stato in guerra
di Emilio Quadrelli
Note per una lettura della fase imperialista contemporanea
“La guerra è sviluppata prima della pace: modo in cui certi rapporti economici come lavoro salariato, macchinismo ecc., sono stati sviluppati dalla guerra e negli eserciti, prima che nell'interno della società borghese. Anche il rapporto tra produttività e rapporti di traffico diviene particolarmente evidente nell'esercito.” (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica 1857 – 1858, Volume I)
Forse è ancora presto per dire se il 14 dicembre ha rappresentato un’autentica svolta e le masse sono tornate a essere prepotentemente protagoniste della scena politica. Alcuni indicatori, non solo il non ritiro della “Riforma Gelmini" bensì la sua approvazione ma, soprattutto, la decisione con cui Marchionne ha chiuso la “partita Fiat”, porterebbero a dire che i bagliori del 14 dicembre non sono ancora gli incendi di Mosca 1905. Così come, se non è del tutto certo che, la medesima data, possa passare alla storia come il 23 frimaio di Silvio Bonaparte è per lo meno ipotizzabile che le forze della controrivoluzione non sembrano essere state scosse più di tanto dagli avvenimenti di piazza. Resta, ed è un dato politico di grande importanza, che un movimento di massa, non ascrivibile unicamente al mondo dell’Università, ha rotto gli argini della pacificazione sociale.
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La ricchezza cresce e i salari diminuiscono
di Vicenç Navarro

Leggendo la stampa, non solo quella economica, ma anche quella generica, ci si trova di fronte a un paradosso che richiama l’attenzione. Da un lato vediamo che dalla II Guerra Mondiale a oggi la ricchezza nella maggioranza dei Paesi OCSE (il gruppo dei Paesi più ricchi del mondo) è cresciuta. E nonostante il calo del PIL pro-capite che diversi Paesi hanno vissuto in questi anni di recessione, è più che probabile che per la grande maggioranza dei Paesi dell’OCSE il PIL procapite continuerà a crescere, indicando così che la ricchezza di questi Paesi continuerà ad aumentare. In base a questo si potrebbe concludere che il livello di vita della popolazione crescerà praticamente in tutti i Paesi più sviluppati economicamente.
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L’università e il mito meritocratico
Guglielmo Forges Davanzati
Sulla cosiddetta riforma dell’Università, è bene sgombrare il campo da un equivoco: il suo reale obiettivo non è introdurre criteri di valutazione che premino il merito, bensì operare un depotenziamento del sistema formativo pubblico che non ha precedenti nella storia recente del Paese[1]. Depotenziamento che è già, in parte, passato attraverso la legge 33/2008, con la quale si è provveduto a sottrarre al sistema universitario pubblico circa un miliardo e mezzo di euro, per il biennio 2010-2011, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa di molti Atenei. I fondi recuperabili con la Legge di stabilità non serviranno a ripianare i bilanci degli Atenei italiani, ma, nella migliore delle ipotesi, ad arginare le proteste degli attuali ricercatori in ruolo, che hanno consentito – negli anni passati - la sopravvivenza di corsi di studio, svolgendo attività didattica non retribuita, e ai quali il Ministero offre oggi in cambio la messa ad esaurimento del loro ruolo. Peraltro – e non si tratta di un aspetto marginale – la riduzione dei finanziamenti è ‘lineare’, ovvero non tiene conto delle variabili di contesto (PIL procapite, tassi di disoccupazione) e, dunque, grava maggiormente sulle Università meridionali. La delegittimazione mediatica del sistema universitario pubblico (che regge sulla duplice retorica dei professori ‘baroni’ e ‘fannulloni’) sostiene questo disegno[2].
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Come si costruisce un 7 aprile
di Giuseppe Aragno
C’è chi accenna a rapporti dell’antiterrorismo e accusa studenti e ricercatori: “sovversivi pericolosi”, vanno arrestati. Chi ogni giorno ha tra le mani carte di polizia, note riservatissime e relazioni ignobili di infiltrati e confidenti, sa che la storia ha anche un volto impresentabile, che non riguarda solo i regimi totalitari. Piaccia o no, è il volto del potere. Puoi mettergli a guardia regole e segnare limiti, le zone d’ombra esistono, non le cancelli. Un esempio per tutti: il sindacato. Oggi è normale, per certi versi è addirittura “banale” che esistano confederazioni sindacali. Ci verrebbe da ridere se la Digos le indicasse come “covi di terroristi”. Lo sappiamo. Per loro natura, “raffreddano” il conflitto e sono utilissimi al padronato. Non è andata, però, sempre così.
Napoli, 1893. Nei vecchi rapporti di polizia il sindacato è una minaccia per gli equilibri sociali: l’operaio deve “chiedere”; se rivendica un diritto si ribella.
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Generazione daspo
di Augusto Illuminati
L’agenda politica è cambiata dal 14 dicembre, ce l’abbiamo sotto gli occhi. I bamboccioni per cui passerà alla storia (non oltre i quindici minuti warholiani) un defunto esponente del governo Prodi, i bamboccioni su cui sono inciampati un predicatorio eroe di carta e uno psicolabile ministro-aviatore che voleva gettare bombe sugli afghani e poi si è ristretto ai volantini, i bamboccioni gliel’hanno fatta vedere al partito dell’amore, al partito della nazione e alla bocciofila delle maniche rimboccate. «L’unico boss virile», ovvero Silvio Berlusconi anagrammato in un b-movie da giro malavitoso brianzolo, si dovrà distrarre un attimo dal calciomercato dei moderati per farsi carico di un fenomeno che sfugge alla sua griglia interpretativa e rispetto a cui finora non è riuscito che a balbettare qualcosa sui difetti di comunicazione dei mirabolanti contenuti della legge Gelmini. Non sapendo come affrontare le radici del problema (lui, così bravo a mettere nel sacco i consueti oppositori) dà spago ai fautori del contenimento più cieco, che non spegnerà, anzi attizzerà la protesta ma rischiando di far pagare un prezzo alto a tutta una generazione precaria, a tutta l’Italia.
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All'origine delle crisi: sovrapproduzione o sottoconsumo?
Louis Gill
In un articolo intitolato “La recessione mondiale: momento, interpretazioni e poste in gioco della crisi”, François Chesnais critica l’interpretazione più diffusa della crisi in corso come crisi di sottoconsumo, causata da una contrazione dei salari che si sarebbe cercato di compensare con una forte espansione del credito. In particolare affronta la variante di questa interpretazione presentata da Alan Bihr in un articolo intitolato “Il trionfo catastrofico del neoliberalismo”, ed esprime il suo disaccordo con la tesi di un “plusvalore in eccesso” che vi sviluppa Bihr. La caratterizza come un totale rovesciamento della comprensione del capitalismo ereditata da Marx, secondo la quale il capitale si scontra non con un eccesso, ma con una insufficienza cronica di plusvalore, di cui una manifestazione è la tendenza all’abbassamento del saggio di profitto.
Il fatto che questa penuria di plusvalore sia percepita sotto forma di difficoltà di realizzazione “dimostra la loro cecità di fronte alle contraddizioni del sistema”, scrive Chesnais, che rinvia al mio libro Fondamenti e limiti del capitalismo per “una presentazione molto chiara di queste contraddizioni e di questa cecità”.
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Il casco ti salva la vita
di 99 Posse
Siamo fra i tanti che hanno letto Gomorra. Ci sembrava una lettura delle mafie capace di cogliere il fenomeno nel suo intreccio con la globalizzazione e la struttura capitalistica della società. Il vestito prodotto dal lavoro nero in una piccola fabbrica dell’hinterland napoletano e indossato da Angelina Jolie ci sembrava l’esempio perfetto per cortocircuitare la categoria della legalità, la distanza fra un dickensiano mondo di sotto e lo sfarzo dei vip in mondovisione. Veri o falsi che fossero, a quello e altri episodi descritti nel libro abbiamo attribuito una forte capacità evocativa, una critica esplicita al sistema, lo svelamento di un dispositivo nel quale criminalità organizzata e multinazionali sono dalla stessa parte della barricata.
Per questo non ci siamo mai appassionati alle polemiche sulla novità delle rivelazioni di Saviano, sul loro carattere inedito. E nemmeno alla querelle legata all’autenticità. Quello che ci sembrava interessante era la ricontestualizzazion-e di fatti anche noti dentro una cornice letteraria nuova, capace di esprimere dissenso e critica.
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La piazza e la politica
di Angelo d’Orsi
Possibile che in questo Paese le contestazioni, a un singolo, a un partito, a un governo, si possano fare solo nei salotti televisivi? Che la sola dialettica consentita sia quella di “Porta a Porta”? Che due uova o qualche urlo scagliati contro un dirigente sindacale o un ministro siano da considerarsi alla stregua di un’azione terroristica? Possiamo accettare una reductio della democrazia all’aula parlamentare? Ma non è nell’agorà che essa nacque, nell’antica Grecia? Agorà: piazza, il luogo dove i cittadini si riunivano per discutere e deliberare.
Certo, oggi la democrazia diretta, assembleare, è stata soppiantata da quella rappresentativa, parlamentare; ma nella stessa forma di governo democratica, come ricorda anche la nostra bella Costituzione, i cittadini concorrono a determinare la vita pubblica, attraverso i partiti, ma anche i sindacati, le associazioni e le libere unioni tra singoli in vista di determinati obiettivi, e manifestano liberamente le loro idee in tutti i luoghi idonei (nei limiti della legge): ed è difficile negare che una piazza sia inidonea.
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Il mercato alla base della crisi irlandese
di Domenico Moro
La difficile situazione dell’eurozona, con l’estensione della crisi del debito sovrano all’Irlanda e potenzialmente a Portogallo e Spagna, è il prodotto di quattro tipi di contraddizioni, che si approfondiscono e si intrecciano tra loro.
La prima è interna ai rapporti di mercato. Il debito sovrano è figlio del modo in cui si è tentato dei risolvere la crisi del 2001, attraverso il sostegno artificiale alla domanda. Il costo del denaro, a partire dagli Usa, è stato ridotto quasi a zero, inondando di liquidità i mercati finanziari [1] e spingendo le banche a concedere mutui immobiliari con grande facilità. Il mercato e i prezzi delle case sono lievitati, creando una bolla e permettendo alle famiglie, grazie ai rifinanziamenti dei mutui, di acquistare a credito. In questo modo, si è sostenuta artificialmente la crescita dell’economia di Usa, Spagna, Portogallo e Irlanda, e indirettamente dei grandi paesi esportatori. Con lo scoppio della bolla immobiliare, che ha fatto crollare i prezzi delle case al di sotto dell’indebitamento, le famiglie sono diventate insolventi e, di conseguenza, le banche hanno accusato perdite enormi. Per scongiurare una possibile catena di fallimenti bancari è intervenuto lo Stato, il cui debito è cresciuto repentinamente.
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Gli scenari del teatrino europeo
Sergio Cesaratto
Il 16-17 dicembre si riunisce in Belgio il Consiglio dei leader europei. Quali sono gli scenari che l’Europa ha di fronte?
Alla irrisolta crisi di solvibilità della Grecia si è in questo autunno aggiunta quella dell’Irlanda e a ruota il contagio, che si manifesta con un aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici, è arrivato anche all’Italia via Portogallo e Spagna e ora persino alla Germania. Quali sono le prospettive? Abbiamo di fronte tre scenari: 1) tamponare con un po’ di liquidità la situazione dei paesi periferici chiedendo loro di “aggiustare i propri conti” con “sacrifici” interni;. 2) anticipare la rottura e gestirla evitandone gli aspetti più dolorosi, per quello che si può; 3) attaccare i problemi alla radice nella direzione di costruire una unione politica ed economica funzionante.
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Il fuoco della conoscenza
di Gigi Roggero
É istruttivo ricostruire la giornata del 14 dicembre 2010 attraverso le convulse e affannate cronache del sito di Repubblica. Fin dal primo mattino, fiduciosi nella sfiducia all’ormai impresentabile bubbone Berlusconi, l’attenzione si è concentrata sull’aula parlamentare, sul frenetico inseguimento delle voci di corridoio, sulle ultime compravendite di voti. Le manifestazioni di piazza, dopo essere state accarezzate e coccolate per settimane, sono relegate a metà pagina, eco di contorno di un popolo pronto a inneggiare alla caduta del tiranno. Si capisce: ora, a un passo dall’auspicata uscita di scena del malvagio di Arcore, il problema è ricondurre tutto alla soluzione istituzionale. Ma poco prima dell’ora di pranzo prendono corpo i fantasmi del colpo fallito: al gruppetto capeggiato da Calearo, ultima perla lasciata in eredità dal geniale Veltroni, si aggiungono le futuriste Siliquini e Polidori. Quest’ultima ci restituisce l’immagine simbolo non solo della giornata, ma di un’era politica: la proprietaria del Cepu ha venduto il proprio voto per salvare un’impresa in cui da oggi, oltre alle lauree, si possono comprare anche le fiducie parlamentari.
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La gestione pubblica dell’acqua dopo la sentenza della Corte costituzionale
Carlo Iannello
1. La Corte dichiara legittimo un articolo di cui un milione e quattrocentomila cittadini chiedono l’abrogazione
È di pochi giorni fa la pubblicazione della sentenza n. 325 del 2010 della Corte Costituzionale che ha deciso su una pluralità di ricorsi regionali contro l’art. 23 bis del d.l. 112 del 2008, così come modificato dal cd. decreto Ronchi (art. 15 del d.l. 135 del 2009, convertito in legge n. 166 del 2009).
Non v’è dubbio che la Corte costituzionale con questa sentenza abbia difeso il vecchio, ossia il processo di privatizzazione che è stato intrapreso dall’ordinamento italiano a partire dal 1990. La corte non ha tenuto in nessun conto il nuovo vento antiliberista che soffia nel Paese (ma non solo, come dimostrato dall’esempio del comune di Parigi) e che ha portato alla raccolta di ben 1.400.000 per l’abrogazione della citata normativa, la stessa che era contestata dalle regioni. Certo, si potrebbe correttamente obiettare che un organo di garanzia deve essere immune dalle pressioni politiche. Ed è certamente vero, anche se, occorre dire, in altri casi, si pensi alla decisione del 1993 sull’ammissibilità dei referendum elettorali, la Corte si comportò diversamente, modificando la propria giurisprudenza proprio per andare incontro alla richiesta di cambiamento che proveniva dal Paese. Ma questa volta questo non è avvenuto.
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Il 14 dicembre e la classe che verrà
di Marco Bascetta e Benedetto Vecchi
Le mobilitazioni degli studenti e dei ricercatori hanno raggiunto in questi giorni una intensità e una estensione che non trovano riscontro in nessuno dei picchi di conflitto toccati nell’ultimo ventennio. Una lunga sedimentazione di analisi, di pratiche, di esperienze sembrano addensarsi oggi in un passaggio manifestamente e direttamente politico che, per la prima volta da molto tempo, si rivela in grado di parlare all’intera società e di farsi pienamente comprendere, di incalzare istituzioni e forze politiche, di incidere sul clima sociale e di far traballare i luoghi comuni e i tabù ideologici che da anni impongono, a destra come a sinistra, l’ordine del discorso e l’orizzonte del possibile.
L’aria, insomma, è decisamente cambiata. Perché in questo cambiamento di fase, la questione dell’Università e della formazione riveste un’importanza tanto cruciale? In primo luogo perché proprio su questo terreno l’ideologia e la pratica del neoliberismo e i relativi dispositivi disciplinari hanno allestito il laboratorio in cui si progettava il futuro, approntato le tecniche e le procedure per il controllo delle nuove forme del lavoro (di forza lavoro), teorizzato e messo diffusamente in pratica il precariato come strumento di ricatto, mascherato dalle retoriche dell’efficienza; (e) della meritocrazia e della competizione internazionale.
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I quattro giganti ciechi alla sfida del futuro prossimo*
di Giulietto Chiesa
Dopo un quarantennio imperiale, unipolare, stiamo vivendo una parentesi multipolare. Quanto durerà nessuno può saperlo e non abbiamo una sfera di cristallo in cui guardare. L'unica cosa che sappiamo, con certezza, da molti segnali, è che siamo nella vicinanza relativa di un punto di rottura della continuità storica: quello che si può definire come un “cambiamento di fase”, qualcosa di analogo a quello che in fisica, per esempio, è il passaggio dallo stato liquido a quello gassoso. È per questa ragione che parlo di parentesi multipolare: perché non sarà lunga come la fase storica unipolare che l'ha preceduta, e perché la sua durata equivale alla nostra distanza dal punto di rottura, o cambiamento di fase.
Questa distanza si misura in anni, non in decenni e quello che avverrà in questi anni deciderà le modalità del cambiamento di fase e, in misura decisiva, deciderà anche come l'umanità uscirà dalla transizione.
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