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€uropa e welfare: tra rimedio al pauperismo, ong e legalità costituzionale
di Quarantotto
Introduzione
Forniremo un breve reminder che riguarda il concetto di welfare e la sua accezione fondativa del modello "legale-costituzionale", irriducibilmente alternativa a quello irresistibilmente sospinto dal vincolo esterno (in realtà, l'intero blog è rivolto a questa precisazione di paradigmi, come pure i due libri che traggono dal materiale emerso dal blog il loro contenuto di ricostruzione della legalità costituzionale).
Cercherò di integrare, per punti essenziali, il contenuto di vari post e di alcuni importanti commenti che ne sono scaturiti e che ci riportano a "fonti" che potremmo assumere quale interpretazione "quasi-autentica" del testo costituzionale.
1. Premessa definitoria dei paradigmi alternativi interni alle moderne società ad economia capitalistica.
Esistono due tipi di welfare. Perchè esistono due modelli di società che poi sono due diversi modelli di capitalismo: uno è quello costituzionale e l'altro è quello "internazionalista-oligarchico-finanziario".
E infatti esiste un welfare "costituzionale", chiaramente identificabile in base alle previsioni della Carta fondamentale e un welfare "euro-trainato", che tende a orientare la società verso il modello finanziario-oligarchico del mainstream neo-classico.
Questi, sul piano economico, corrispondono a un ulteriore dualismo qui più volte evidenziato, che si incentra su due concetti diversi e incompatibili di "piena occupazione".
Questo dualismo era in realtà ben chiaro ai nostri Costituenti, che, nelle (forse irripetibili e purtroppo transitorie) condizioni in cui si diede vita all'Assemblea Costituente, non ebbero esitazione nella scelta tra le due opzioni.
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Sinistra: estinzione o rinascita?
di Riccardo Achilli
La sinistra, nel nostro Paese, rischia l’estinzione politica finale. Ancora negli anni Novanta, le forze politiche che potevano a giusto titolo richiamarsi ad una tradizione socialista e comunista rappresentavano il 15% circa dell’elettorato, in un contesto in cui, peraltro, il Pds, pur avendo già avviato la sua parabola di degrado, poteva ancora vantare una linea politica vagamente socialdemocratica. Oggi ci troviamo con un PD strutturalmente schierato sulle posizioni del liberalismo caritatevole, e l’area alla sua sinistra, frammentata in un pulviscolo, vale si e no il 5%. Quando si tornerà a votare, in queste condizioni, quanto rimarrà? La base elettorale del Pd, negli ultimi venticinque anni, è cambiata strutturalmente, ingoiando dosi crescenti di liberismo in cambio dell’agognato arrivo dentro la stanza dei bottoni, e, invecchiando, in una società sempre più diseguale, molti militanti di quello che fu il glorioso PCI, si sono ritrovati a stare dalla parte dei più garantiti, accettando di buon grado una piattaforma politica sempre più destrorsa, un filo-europeismo ritenuto (a torto) custode dei propri risparmi e dei propri asset patrimoniali. D’altra parte, segmenti di sinistra radicale, soprattutto provenienti dalla storia dell’Autonomia e della sinistra extraparlamentare, sono stati risucchiati in modo stabile dal M5S. Lo stesso sindacato fatica sempre di più a fornire rappresentanza unitaria al lavoro, e si rifugia nella rappresentanza di pensionati ed élite di lavoratori ristrette ed ancora legate stabilmente al proprio posizionamento nel modo di produzione.
Il punto di fondo è che non si riesce più a dare rappresentanza unitaria alle istanze del lavoro perché tali istanze sono frammentate e spesso conflittuali l’una con l’altra. I cambiamenti strutturali delle forme di produzione, accompagnati dalle riforme continue delle normative del mercato del lavoro, hanno fatto perdere consistenza alla centralità conflittuale degli operai.
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Va cambiato il sistema. La crisi italiana lo dimostra
Alexander Trentin intervista Paul De Grauwe
Paul De Grauwe da tempo ricorda come in una unione monetaria non esista altro modo per un paese che perde competitività se non attuare una dolorosa svalutazione interna, ovvero schiacciare i salari. In questa intervista riconosce lucidamente che lo stato di cose oggi è insostenibile e che la mancanza di collaborazione dei paesi nord-europei rischia di far crollare l’intero eurosistema. Non auspica però un’uscita immediata e unilaterale dell’Italia dall’euro, ma piuttosto una ripresa degli investimenti pubblici, se necessario anche in violazione degli stringenti parametri dell’eurozona, da lui stesso definiti insensati. Ovviamente, la questione aperta rimane: che fare se l’Ue non dovesse concedere all’Italia la flessibilità necessaria ad attuare le politiche espansive di investimento che oggi sono così urgenti?
* * * *
Professor De Grauwe, come si spiega che i partiti populisti abbiano vinto le elezioni in Italia?
È il risultato delle difficoltà di ripresa dei paesi della periferia dell’Euro dopo la crisi finanziaria. Molti paesi hanno perso competitività. Per cercare di ristabilire un equilibrio economico hanno ridotto i prezzi e i salari al fine di essere competitivi, un meccanismo chiamato dagli economisti “svalutazione interna”. Si tratta di un processo molto doloroso, in cui ai paesi viene imposta l’austerità. La svalutazione interna ha intensificato la recessione, aumentato la disoccupazione e causato sofferenze a molte persone. Ci sono stati contraccolpi politici, in particolare in Italia. Il paese ha decisamente esagerato nell’imporre misure di austerità. Questo ha causato uno scontento diffuso, che i partiti politici hanno saputo incanalare. Una certa responsabilità di ciò ricade sui paesi del Nord Europa. Questi paesi avrebbero potuto alleviare l’onere dell’Italia stimolando la propria economia. Invece essi stessi hanno adottato politiche di austerità. Questo ha creato fino a tempi recenti una tendenza deflazionistica nella zona euro. Tutti i costi sono ricaduti sui paesi in deficit, mentre i paesi creditori non erano disposti a condividere la loro parte. C’è un errore nel sistema.
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Ambivalenze della maturità
di Romano Màdera*
Comincerò con un aneddoto autobiografico. Quarta Ginnasio, liceo classico Cairoli di Varese, anno 1962, il professore di italiano-latino-storia-geografia che non voglio nominare qui, entra in aula e si avvia subito alla lavagna, è una delle prime lezioni. Scrive versi, ci dice che sono esametri, anche se non aggiunge gli schemi dei piedi, annuncia che dovremo imparare a leggere senza gli accenti segnati e, naturalmente, traducendo a prima vista. Un compito improbabile, almeno per noi. Fioccano votacci, all’inizio. Ma il professore, si scopre, è totalmente incapace di tenere una qualsivoglia disciplina, nonostante in quegli anni il liceo somigliasse da vicino a una caserma. Così i disastri nella traduzione all’impronta alla lavagna vengono presto pareggiati da interrogazioni e compiti in classe con ottime votazioni. Si copiava da dio e si suggeriva qualsiasi cosa. Però il succo della storiella non è questo: dopo qualche settimana si scopre l’autore del poema per autodichiarazione del professore, nuovo poeta latino del XX secolo ancora sconosciuto – in realtà il poema è ancora inedito e incompiuto e noi siamo le prime cavie. Dopo varie allusioni e poi aperti attacchi al cristianesimo a favore di una rinascita del paganesimo, il professore che usava dirci, quando non ne poteva più dell’infernale baccano che accompagnava ormai le sue lezioni, «tremenda è l’ira dei miti», cominciò a scrivere i versi più importanti del poema, il centro del suo messaggio. Quello strano, mite signore fuori dal tempo, sposato con diversi figli, era l’annunciatore di una religione la cui caratteristica fondamentale era il “paidocentrismo”: al centro del suo cielo stava un bimbo, circondato dagli altri dei, intenti a svariati giochi amorosi. Insomma, anche se lui non la chiamava così, una bella orgia.
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Alle origini della lotta armata: la “banda Cavallero”
di Eros Barone
Come diceva Bertold Brecht? È un crimine più grande fondare una banca o rapinarla? Bene, io a quella domanda come tutti sanno ho dato una risposta. Ma guardandomi intorno oggi, sai cosa mi colpisce? Che quarant'anni fa, Milano era più cupa, più sporca. Ma ad avere paura era solo chi aveva il grano. Le porte delle case restavano aperte. Gli operai che tiravano la lima alla Marelli lasciavano i ragazzini alla vicina o in cortile. Oggi chi ha il grano paura non ne ha più. La paura è dei disgraziati. Paura di essere scippati, violentati, accoltellati. E sai cosa trovo ancora più incredibile? Che a dire «Al lupo, al lupo», però, sono rimasti sempre quelli che hanno il grano. Oggi uno che fa una rapina prende quindici anni. Chi manda sul lastrico qualche decina di migliaia di famiglie succhiandosi i loro risparmi, va bene se fa un mese ai domiciliari. Il senso della comunità è andato a farsi fottere. E se non c'è comunità, non c'è mito. Guardia o ladro che tu sia1.
Renato Vallanzasca
Il 25 settembre 1967 le vie di Milano furono teatro di una sanguinosa sparatoria tra un gruppo di rapinatori che, dopo aver dato l’assalto a due banche, stavano fuggendo a bordo di un’automobile, e le volanti della polizia che li inseguivano. Al termine di quella folle corsa durata quasi un’ora, corsa che si era snodata attraverso le vie della città coprendo una distanza di dodici chilometri, vi furono quattro morti e quattordici feriti tra i passanti e otto feriti tra le forze dell’ordine. Aveva così termine, con un furibondo conflitto a fuoco e l’arresto di tutto il gruppo nei giorni successivi, l’attività della “banda Cavallero”, che aveva operato tra Milano e Torino mettendo a segno i suoi colpi per quasi nove anni. I suoi componenti rispondevano ai nomi di Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Donato Lopez e Danilo Crepaldi. Il processo si concluse con la condanna all’ergastolo dei tre principali imputati e pene minori per gli altri due coimputati.
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L’uso politico dello spread: come la BCE ha messo in riga l’Italia
di coniare rivolta
Negli ottantotto giorni che hanno portato alla formazione del nuovo governo giallo-verde si sono giocate tante partite. La più importante è stata senza dubbio quella sull’Europa. In una specie di percorso di rieducazione dei partiti populisti che hanno vinto le elezioni, il Presidente della Repubblica Mattarella si è incaricato di orientare, con singolare protagonismo, le forze politiche verso la costituzione di un governo amico dell’Europa. Movimento 5 Stelle e Lega si sono dimostrarti straordinariamente sensibili ai richiami all’ordine, piegandosi al primo schiocco di spread. Al termine dei balletti, una maggioranza parlamentare a parole euroscettica e populista ha infatti formato un esecutivo che vede nelle posizioni chiave dei Ministeri dell’Economia e degli Esteri le figure di Tria e Moavero Milanesi, una vera e propria garanzia per l’Europa: l’Italia farà la brava, resterà all’interno dei vincoli che stanno massacrando la nostra economia e non metterà mai in discussione gli equilibri che ci vedono condannati al declino.
Mentre questo teatrino andava in scena sotto i nostri occhi, qualcosa di importante si è mosso dietro le quinte condizionando in maniera decisiva il corso degli eventi, qualcosa che può spiegare come agisce il potere ai tempi della globalizzazione e dell’Unione Europea. La storia infinita della formazione di questo governo ha infatti avuto una svolta nell’ultima settimana di maggio, quando il premier incaricato Conte presenta a Mattarella una lista dei ministri che prevede Paolo Savona nel ruolo chiave del dicastero dell’Economia. Savona incarnava un atteggiamento critico ma dialogante nei confronti dell’Europa. Recentemente severo con la direzione presa dalle istituzioni europee, ree secondo lui di favorire troppo la Germania rispetto all’Italia, l’anziano docente universitario viene dai vertici di Banca d’Italia e Confindustria, ed è quindi un uomo delle istituzioni, assolutamente interno alla gestione di quel potere che oggi viene amministrato da Bruxelles e Francoforte.
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Tutti contro il “governo più a destra della Repubblica”
di Fulvio Grimaldi
Sarà mica perché, con questi chiari di luna, parrebbe il meno di destra dal ’48?
Premessa fuori tema. La più bella partita da quando c’è il calcio? Quella non giocata tra Argentina e Israele a Gerusalemme, capitale della Palestina. Il rigore più decisivo? Quello mai tirato da Messi, ma che ha fatto il più bel gol della storia.
Ci sono degli analisti, osservatori, esperti, accademici, sapienti talmente acuti nel penetrare la realtà e tirarne fuori la verità nascosta che neanche un trapano, neanche un martello pneumatico riuscirebbero meglio a scovare che c’è davvero, contro le credenze e superstizioni del popolino, dietro la parete e sotto l’asfalto. Tutti Tiresia, tutte Cassandre i nostri profeti di sventure, pioggia di rane, scenari post-atomici. Da queste assonanze tra affini, sodali, compari, fratelli, soci azionisti del Quieto Esistente all’ombra della Cupola che regge l’edificio mondo, e che ora si teme messo a repentaglio, si ergono con cipiglio coloro che la sanno essere lunga e profonda come trapani n.5.
Sono le volpi che hanno capito come, dietro tutta la manfrina dei due mesi di helzapoppin al Quirinale, quello che ha mosso , scompigliato, ricomposto le figurine sul proscenio non era altro che Draghi. Però in seconda battuta. Perché in prima chi può essere il battitore se non un campione della patria del baseball? E fin qui c’eravamo arrivati anche noi: direi che si tratta quasi di un’ovvietà, un luogo comune. Solo che, dopo che il trapano era arrivato a Draghi e da lì ha puntato verso la Statua detta della Libertà, trovatici tutti d’accordo sugli attori in scena, invece sul loro copione e sul finale del dramma farsesco, o della tragicommedia, noi, umili e anche un po’ grezzi curiosoni della geopolitica, ci siamo trovati isolati.
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Riduzione orario di lavoro e/o reddito di cittadinanza?
di Renato Caputo
Perché la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro non è conciliabile con quella per il reddito di cittadinanza
Come ha osservato a ragione Lenin: “dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una ‘terza’ ideologia, e, d’altronde, un una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese” [1].
Dal punto di vista del marxismo, dal momento che le macchine, in quanto lavoro morto, non possono che riprodurre in media il valore corrispondente al tempo di lavoro impiegato a produrle, il plus-valore è interamente prodotto dal lavoro umano. Quest’ultimo, nella società capitalista, è tendenzialmente sfruttato dal capitalista a cui il proletario, non avendo altri mezzi per riprodursi, cede la propria capacità di lavoro. È, dunque, evidente che il reddito di cittadinanza, o qualsiasi forma di retribuzione slegata dallo svolgimento di una prestazione lavorativa, non può che essere attinto dal plus-valore prodotto essenzialmente mediante lo sfruttamento del lavoro salariato.
Quindi, per quanto privi di coscienza di classe i lavoratori, costretti a ritmi e orari di lavoro sempre più massacranti per arrivare alla fine del mese, non considerano generalmente con favore che una parte più o meno consistente di quanto è prodotto venga dato in cambio di nulla a chi non si impegna nell’attività produttiva. Tanto è vero che, nei paesi in cui tali forme di reddito slegate dal lavoro sono state elargite, hanno generalmente approfondito la frattura fra lavoratori e percettori del reddito.
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Populismo, sovranismo e neoliberalismo
di Alessandro Somma
Negli ultimi anni Carlo Formenti ha confezionato alcuni saggi che affondano il coltello nelle piaghe del dibattito della sinistra: si occupano tra l’altro di sovranismo, per individuare i caratteri di una sua declinazione a sinistra, di populismo, per ridefinire il perimetro di un conflitto sociale capace di interrompere una lunga serie di sconfitte, e ovviamente del modo di essere del capitalismo attuale, anche per verificare la reale portata delle trasformazioni cui rinviano alcune sue declinazioni (in particolare come capitalismo cognitivo)[1]. L’ultimo libro di Formenti riprende tutti questi temi, ma lo fa in modo più leggero: è una raccolta di brevi interventi apparsi su testate online che nel complesso offrono un quadro delle posizioni dell’autore, descritte in modo semplice ma non semplicistico e pertanto utile a riassumere la trama del suo pensiero.
Populismo
Il libro è significativamente intitolato “Oligarchi e plebei”[2], con l’evidente intento di attribuire centralità alla riflessione sul populismo: tipicamente il conflitto tra popolo ed élites, intesi come totalità compatte tendenzialmente non attraversate da conflitti.
Proprio questa caratteristica, ovvero il sostanziale interclassismo, costituisce comprensibilmente il principale ostacolo alla diffusione del populismo come paradigma di cui può servirsi la sinistra. Anche se assistiamo al crescente diffondersi di forze che lo praticano, e che tuttavia non possono essere ascritte nel novero delle formazioni di destra: non si può cioè nascondere che “fra partito unico dell’austerità e populisti non c’è il vuoto” (72).
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L’alternativa tra Antropocene e Capitalocene: chiamare il sistema con il suo nome
di Jason W. Moore
In vista del seminario tenutosi all’Istituto italiano per gli studi filosofici il 9 giugno a Napoli, Ecologie politiche del presente, pubblichiamo un primo testo come materiale preparatorio: si tratta della prefazione all’edizione italiana del libro Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, scritta dallo stesso Jason W. Moore (introduzione e cura di Emanuele Leonardi e Alessandro Barbero, Ombre Corte, Verona 2017)
Quello di Antropocene è diventato il concetto ambientalista più importante, ma anche più il pericoloso, del nostro tempo. La sua pericolosità sta nel fatto che proprio mentre mostra con chiarezza i “passaggi di stato” [state shifts] delle nature planetarie esso mistifica anche la loro storia (Barnosky et al. 2012). L’espressione che meglio cristallizza questo stato dell’arte è cambiamento climatico antropogenico. Naturalmente si tratta di una colossale falsificazione. Il cambiamento climatico non è il risultato dell’azione umana in astratto – l’Anthropos – bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale. Il cambiamento climatico è capitalogenico (Street 2016).
La popolarità dell’argomento-Antropocene non deriva soltanto dall’impressionante mole di ricerche su cui si basa. È piuttosto legata alla potenza della sua narrazione, alla sua capacità di unificare umanità e sistema-Terra all’interno di un unico orizzonte. Il modo con il quale si compie questa unificazione costituisce precisamente la debolezza dell’argomento-Antropocene, la fonte del suo potere falsificante. Perché si tratta di un’unità non dialettica; è l’unità del cibernetico – un insieme idealistico di frammenti che ignorano i rapporti storici costitutivi che hanno condotto il pianeta sul baratro dell’estinzione.
Nei tre anni che ci separano dalle mie prime riflessioni sul concetto di Capitalocene (Moore 2013a, 2013b, 2013c), quello di Antropocene è diventato virale[1]. Per me il Capitalocene è in parte un gioco di parole, una forma di geopoetica (Last 2015), una reazione alla straordinaria popolarità dell’Antropocene.
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Rousseau o Lenin?
Il M5s e la «legge ferrea dell’oligarchia»
di Damiano Palano
Con la formazione dell'esecutivo presieduto da Giuseppe Conte, il Movimento 5 stelle è entrato nella stanza dei bottoni. La prova di governo, oltre al problema di mantenere le promesse elettorali, implicherà probabilmente anche trasformazioni organizzative interno al partito fondato da Beppe Grillo. "Maelstrom" ripropone a questo proposito un articolo, apparso sul quotidiano "il foglio" il 26 marzo 2018
Ormai più di un secolo fa, nel 1911, Robert Michels dava alle stampe il suo libro più famoso, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, destinato ad aprire un intero filone di studi. In quel libro il politologo tedesco illustrava quella che, da allora, sarebbe stata conosciuta nell’ambito delle scienze sociali come la «legge ferrea dell’oligarchia». Osservando da vicino la fisionomia e il funzionamento del Partito socialdemocratico tedesco, Michels si rese conto (prima come militante e poi come studioso) di un paradosso inquietante. Proprio quel partito – che, più di ogni altro, aveva inalberato la parola d’ordine dell’uguaglianza e che dichiarava di lottare per la realizzazione di una piena democrazia – al suo interno era tutt’altro che democratico. Dietro un’apparenza democratica, le decisioni venivano infatti sempre prese da una ristretta oligarchia di dirigenti, alcuni dei quali occupavano le cariche di vertice da decenni. Gli iscritti, i militanti e anche buona parte degli stessi funzionari avevano invece un ruolo del tutto marginale. E l’organizzazione assomigliava dunque a una piramide, che concentrava tutto il potere alla sua sommità.
Un aspetto cruciale che Michels metteva in luce riguardava soprattutto le cause della formazione dell’oligarchia. Non si trattava infatti di un consapevole tradimento ordito da una ‘casta’ di dirigenti. L’oligarchia nasceva piuttosto da meccanismi ‘oggettivi’, legati alle caratteristiche immutabili della «natura umana» e soprattutto alle esigenze della lotta. Il politologo chiamava in causa infatti fattori ‘psicologici’, come il «misoneismo» delle masse o la tendenza dei seguaci a venerare i loro capi. Ma sottolineava anche come l’oligarchia scaturisse soprattutto da fattori tecnici. Ogni movimento che puntava a raggiungere degli obiettivi doveva infatti dotarsi di un’organizzazione efficiente, ma questa scelta aveva un costo.
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Le “due sinistre”
Dialogo con un compagno di Potere al Popolo
di Alessandro Visalli
Il testo che segue è la traccia di un dialogo insieme reale ed immaginario tra due posizioni per la ricostruzione della sinistra (o di una prospettiva socialista, che non è necessariamente la stessa cosa) in Italia. L’occasione è una lettura congiunta di un testo (“Dalla parte del lavoro”) proposto da un gruppo, il Network per il Socialismo (NSE), nel suo recente convegno di Fiuggi, che al momento aderisce a Liberi ed Uguali, anche se in posizione critica e provenendo da Sinistra Italiana (da ora SP, da “sinistra politica”), e la replica a questo di un compagno di Potere al Popolo (da ora SS da “sinistra sociale”). Il dialogo cerca di focalizzarsi più sulle dimensioni che uniscono rispetto a quelle che dividono, ma nel farlo non può evitare di individuare delle differenze nella prospettiva e nella cultura di provenienza.
La sinistra è sempre stata una costellazione di movimenti e tradizioni differenti. La principale differenza focalizzata è quella descritta nel libro “Insieme” di Richard Sennett: tra la “sinistra politica”, figlia del Marx che combatte Lassale, e la “sinistra sociale”, la cui tradizione risale agli sconfitti del socialismo (Kropotkin, Owen, Proudhon). Il movimento socialista ha sempre avuto diverse anime, il socialismo francese e quello tedesco, Proudhon e Robert Owen o Marx ed Engels. Il sindacato come occasione di aggregazione sociale o macchina da guerra a servizio del partito rivolto alla conquista della macchina dello stato, per farne lo strumento di una contro-dittatura (Lenin). Semplificando brutalmente linee che sono molto meno nette (lo stesso Marx contiene idee opposte, in particolare ai due estremi della sua vita), la “Critica al programma di Gotha” o i “Principi di Rochdale” di Owen. Secondo l’immagine che propone Sennett:
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L’imperialismo colpisce ancora
di Paolo Paesani
Ha ancora senso parlare di imperialismo? E se la risposta è sì, che forma assume l’imperialismo, inteso come forma organizzata di sfruttamento, nel mondo post-coloniale, post-moderno e globale di oggi? Queste domande hanno animato due incontri che hanno avuto luogo, pochi giorni fa, presso le Facoltà di Economia dell’Università Roma3 e di Scienze Politiche della Sapienza.
A fornire l’occasione per questi incontri è stata la recente pubblicazione, per i tipi della casa editrice Routledge, di un volume dal titolo “The changing face of Imperialism”. Il volume, curato da Sunanda Sen (Jawaharlal Nehru University) e Maria Cristina Marcuzzo (Sapienza Università di Roma), raccoglie quattordici saggi che analizzano la teoria e la prassi dell’imperialismo e i suoi legami con l’idea di potere, adottando una prospettiva multidisciplinare, indubbiamente “di sinistra”, ma fondata sull’analisi rigorosa dei fatti e sulla costruzione di modelli interpretativi , non su semplici slogan.
Dal confronto fra le curatrici del volume e alcuni colleghi, tra i quali chi scrive, è emerso tutto il disagio della teoria economica contemporanea nei confronti del tema del potere e la tendenza a relegarlo tra il fallimenti del mercato (potere di monopolio, Big business, potere dei manager nelle grandi tecnostrutture) o a nasconderlo dietro la cortina di fumo della teoria dei giochi.
Il libro, adotta un approccio diverso e tratta l’imperialismo, il potere e i conflitti che ne accompagnano l’esercizio come aspetti essenziali del capitalismo e dei rapporti economici fra le nazioni e al loro interno, partendo dalla premessa che il capitalismo industriale e post-industriale è ormai diffuso dovunque e che la globalizzazione lancia una sfida all’idea tradizionale di un mondo in cui i paesi sviluppati sfruttano sistematicamente quelli intrappolati nel sottosviluppo.
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Lettera da lontano ai sinistrati
di Gigi Roggero
Commento su crisi istituzionale, crisi sociale e crisi della soggettività
Che siamo nella tragedia o nella farsa, meglio cominciare con una battuta. Gioite sinistrati impauriti e indignati: finalmente con il governo Tarella-Tarelli commissionato dal B&B (Bruxelles & Berlino) avremo finalmente il vero reddito non workfarista, la fine della precarietà, l’abbattimento delle frontiere, il welcome ai migranti, il disarmo della polizia. E poi basta con il teatrino delle sparate a cui non si dà seguito: il Tav verrà bloccato senza se e senza ma e l’acqua diventerà pubblica, anzi diventerà vino. È l’Europa che ce lo chiede, viva l’Europa!
Torniamo seri, si fa per dire, e tranquillizziamo le anime belle. Le scrupolose analisi sul contenuto workfarista della proposta di reddito a cinque stelle sono scientificamente ineccepibili e non fanno una piega, ma per noi non è questo il punto, e in fondo non lo è mai stato neppure quando molti compagni si immaginavano nelle vesti del legislatore che deve scrivere dettagliate proposte a cui purtroppo mancava un’unica cosetta, cioè i rapporti di forza per imporle. Il problema, cioè, non è avere o non avere il reddito ideologicamente corretto, il problema è quanto il reddito diventa possibile campo di battaglia, cioè di controsoggettivazione, conflitto, autonomia, rottura. Con i governi di centro-sinistra questo spazio non si è mai aperto né “dal basso” (termine orribile) né “dall’alto” (orribili sono in questo caso quelli che ci stavano e che voi adesso rimpiangete).
E ancora, sempre per fermare la vostra agitazione e conseguente caccia alle streghe rosso-brune (etichetta che, come populismo, ha perso ogni connotazione storica e viene scriteriatamente appiccicata a chiunque non si professi convinto europeista o si sottragga al frontismo democratico): non pensiamo (ma bisogna sempre ripeterlo?) che tra le politiche del razzismo materialista salviniano e le politiche dell’“anti”-razzismo umanitario e strumentale del centro-sinistra non vi siano differenze.
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Sul Salvimaio piomba il destabilizzatore globalista
Maidan e fake news per tutti
di Fulvio Grimaldi
Cosa unisce Italia e Nicaragua, Soros e il manifesto?
Presstitute di vocazione e di occasione
C’è la callgirl, ragazza-squillo, che tra le tante professioni possibili sceglie quella che le risulta più connaturata, o facile, o remunerativa, o perché non ha gli strumenti per fare altro. E c’è la signora irreprensibile che, pissi pissi bau bau, la molla a Weinstein e affini, anche in altri campi, per fare quel film, quella carriera, ottenere quella celebrità, quella promozione, mettere all’angolo quella collega. Per poi magari arruolarsi tra le #me too per la guerra al maschio in quanto tale (sia detto con ogni rispetto per chi ha subito violenza). Le due categorie, ma storicamente di più la seconda, possono anche essere interpretate al maschile.
Qualcuno di lessico anglosassone, sempre fertile di azzeccati neologismi, riferendosi al mondo del giornalismo, ha coniato “presstitute”, dove la desinenza che richiama il termine con cui si definisce il cosiddetto più antico mestiere del mondo è preceduta dalla scritta che, di questi giorni, vediamo stampata sui giubbetti antiproiettile di coloro che si avvicendano tra tiratori scelti israeliani e infermiere palestinesi da squarciare sghignazzando. Il lemma si carica di peso specifico maggiore quando riferito alla categoria delle fraschette amatoriali e di peso minore nel caso della battona professionale. La prestatrice d’opera amatoriale, mimetizzata da vergine dei sette veli, invece, vanta un indice di presstitutismo più alto, giacchè, ci frega: passata per Weinstein,.giura di aver lavorato esclusivamente con Ermanno Olmi.
La metafora sarà arzigogolata, ma calza. Parliamo con ogni evidenza dei giornaloni e delle televisionone di regime, nel primo caso e, nel secondo, di chi si presenta in edicola inalberando il vessillo della critica, della diversità, del fuori-dai-giochi-del-potere.
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Il “governo del cambiamento”: cambiare tutto per non cambiare niente
di coniarerivolta
Dopo giorni concitati e continui ribaltamenti di fronte, la crisi di governo si è risolta in un governo Cinque Stelle – Lega. Nel giro di poche settimane è accaduto di tutto e non è accaduto nulla. Il teatrino a cui abbiamo assistito potrebbe essere riassunto in un titolo: storia di una normalizzazione. Le forze politiche intenzionate a formare un governo insieme avevano inserito nella lista dei ministri un nome, quello di Paolo Savona, in passato associato a un fantomatico “piano B”, un piano per l’uscita dell’Italia dall’Euro. Il piano B, più che essere applicato alla lettera, doveva servire, nelle intenzioni degli autori, come strumento di contrattazione per ottenere un ampliamento dei margini di manovra dei governi nazionali rispetto agli stringenti vincoli dei Trattati europei. Si è ben presto capito che anche la semplice minaccia dell’uscita dall’euro come strumento di leverage nei confronti della Commissione e delle altre istituzioni europee era ostativa alla formazione di un governo. Alla fine, pur di ottenere l’incarico, Cinque Stelle e Lega si sono piegati agli ordini di Mattarella, delle Istituzioni europee e dei mercati. Una manifestazione di forza dei guardiani dello status quo e di debolezza dei finti ribelli giallo-verdi, ma anche la conferma che la messa in discussione dei dogmi dell’austerità è ciò che i primi temono di più. Questo il punto dal quale partire per costruire una vera alternativa alla stagnazione e alla precarietà che l’Europa ci impone.
Al di là dei toni da farsa, la telenovela politica messa in scena nei giorni scorsi lascia emergere una serie di nodi sostanziali che vale la pena sciogliere per aver chiara la trama di quanto accaduto e di quanto potrà accadere da qui al futuro prossimo:
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Governo di cambiamento o governo di attesa?
di Piotr
Difficilmente sarà un governo che farà rimpiangere quelli a guida PD o a guida FI, ma sarà un governo vulnerabile
In un post che ho scritto il 30 maggio e ho inviato solo a pochi corrispondenti personali prendevo in considerazione la possibilità di un rientro in gioco di Conte ma lo ritenevo un evento un po' farraginoso.
Ad ogni modo, sia che fosse andato in porto un tentativo numero due di Conte, o che si fosse andati a nuove elezioni, traevo la conclusione che Di Maio, che non ha esperienza degli intrighi e dei giochi di Palazzo e non ha dietro di sé un partito ma un qualcosa di difficilmente definibile, si era fatto prendere per i fondelli dalla vecchia volpe Salvini che aveva usufruito dell'assist di Mattarella (che infatti Salvini ha subito difeso dall'attacco, un bel po' maldestro, dei 5 Stelle).
Salvini sembrava voler puntare dritto alle elezioni in settembre, sapendo che fino ad allora avrebbe avuto il vento in poppa e sarebbe uscito dalle urne come padrone del Centrodestra e forse con una percentuale di voti pari se non superiore a quella del M5S. A quel punto si sarebbero aperti vari scenari, di cui però per adesso non ha senso parlare.
Ma, a quanto pare, il leader della Lega ha giudicato troppo rischioso politicamente rifiutare il rilancio di un governo Lega-M5S che Di Maio ha proposto una volta che si è reso conto del suo errore. Da una parte sarebbe stato un rifiuto poco giustificabile, dall'altro le difficoltà sperimentate dal M5S nei due giorni seguiti all'uscita di scena di Conte permettevano a Salvini di pensare ad un governo a “trazione” leghista.
Il leader leghista potrebbe così fin da subito imprimere al governo quella “cifra” securitaria (praticamente a costo zero) che sta a cuore a buona parte del suo elettorato. E' facile a quel punto prevedere polemiche e reazioni a non finire che metterebbero in ulteriore difficoltà Di Maio col suo elettorato e si creerebbe una situazione difficile per l'attuazione di quanto di sensato il M5S ha voluto mettere nel programma.
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4 marzo - 1 giugno 2018: un primo bilancio
di Leonardo Mazzei
Dunque il governo gialloverde ha visto la luce. Frutto di un voto e di una spinta popolare, le èlite non hanno certo rinunciato a condizionarlo. Di più: il Quirinale ha tentato perfino di impedirne la nascita, fino a cacciarsi in un vicolo cieco che ha poi imposto il successivo compromesso. Che bilancio trarre dalle vicende degli ultimi tre mesi? Cosa aspettarsi adesso? Quale iniziativa per le forze della sinistra patriottica?
Onde non disperdersi troppo nei meandri di una crisi politico-istituzionale senza precedenti, procediamo per punti.
1. Dal voto del 4 marzo al giuramento del 1° giugno - Può piacere, oppure no, ma bisogna prendere atto che la spinta popolare espressasi nel voto del 4 marzo una via per consolidarsi, per farsi governo, alla fine l'ha trovata. Ha avuto dunque ragione P101 nello scommettere su questa ipotesi già a metà marzo. Certo, si è trattato di un percorso accidentato e controverso, con una conclusione pasticciata assai, ma l'esito è questo a dispetto del parere di tanti. Chi si aspettava una qualche riedizione delle "larghe intese", cioè di un governo imperniato sulle forze sistemiche battute nelle urne (Pd e Forza Italia) allargato ad una pattuglia di "responsabili" (cioè di quei parlamentari voltagabbana che hanno caratterizzato le ultime legislature) è rimasto deluso. Idem chi vedeva all'orizzonte un governo "tecnico" al servizio dei desideri di Bruxelles, Berlino e Francoforte. E sbaglia ora chi ritiene che il governo Conte non si discosterà dalla politica di quelli precedenti, che esso sia già stato normalizzato dal sistema. Che se così fosse non si capirebbe la violenta campagna anti-governativa dell'intero sistema mediatico in corso in questi giorni.
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Caos Italia, ovvero la rivolta del ceto medio
di Michele Castaldo
Con pazienza cerchiamo di spiegare le cause e i possibili sbocchi dell’attuale caos. Lo facciamo partendo dall’interrogativo che si poneva Boccia, presidente della Confindustria, all’Assemblea annuale di quella potente associazione: «possiamo hic et nunc vincere la sfida della competitività con i nostri partner/concorrenti […] con un blocco sociale sul quale poggia la stessa idea della modernità italiana. Il guaio è che», recita il salernitano don Vincenzo, «questa constitiency dell’impresa e del lavoro, nonostante valga almeno 15-16 milioni di voti, si scopre fragile». Come a dire: perché quello che può essere non è? E’ la classica domanda dell’impotenza dell’individuo che non vuol capire le ragioni vere, cioè le cause dei fenomeni e cerca di rincorrere i propri desideri.
Ora, i 15-16 milioni di voti del bacino cui Boccia fa riferimento è rappresentato da un ipotetico blocco sociale comprendente grosso modo la grande borghesia industriale e tutto il ceto medio. Ma, si domanda la Confindustria, cosa sta succedendo, perché quell’unità che dovrebbe essere del tutto naturale evapora piuttosto che condensarsi e addirittura si presenta in blocchi contrapposti? Perché avanza il populismo di un ceto medio ribelle che mette a rischio le residue forze del nostro capitalismo nazionale? La grande industria ed i poteri forti, cioè le banche, i finanzieri interni e internazionali, quei famosi “mercati”, i pescecani della speculazione finanziaria che vanno in giro a prestar soldi vivendo di usura, non accettano di essere messi a rischio dalle rivendicazioni democratiche di settori cresciuti all’ombra di uno sviluppo dell’accumulazione di una fase che ormai abbiamo definitivamente alle spalle.
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Mattarella, la Costituzione e il vincolo esterno
di Luigi Sica
L’affidabilità finanziaria dello Stato ed i vincoli all’indirizzo politico governativo nella crisi del compromesso democratico-sociale. Perché la vicenda della mancata nomina del professor Savona a Ministro dell’Economia e delle Finanze ci dice di più sulla forma di Stato che sulla forma di Governo
Dopo il giuramento del Governo Conte si può dire che c’è mancato veramente poco che la XVII legislatura si concludesse senza essersi sostanzialmente mai aperta, con un conflitto istituzionale dirompente in atto e con delle elezioni anticipate che avrebbero avviato il paese verso una ristrutturazione forse inevitabile del quadro politico.
Nella serata di domenica 26 maggio il Presidente del Consiglio incaricato era arrivato a rimettere nelle mani del Capo dello Stato il mandato che gli era stato assegnato quattro giorni prima, avanti all’indisponibilità del Quirinale a nominare Paolo Savona, già ministro del Governo Ciampi, autore in passato di alcune riflessioni tecniche possibiliste rispetto ad una uscita dell’Italia dall’euro, alla carica – ormai cruciale – di Ministro dell’economia e delle finanze. La presenza alla guida del ministero di Via XX Settembre di Paolo Savona era stata fino ad allora prospettata come irrinunciabile dalla Lega, influentissimo partner di minoranza della nascente coalizione governativa. Il Presidente della Repubblica aveva considerato – come poi risultato chiaro nel breve intervento avanti agli organi di stampa – la semplice nomina di un Ministro che si era espresso in passato in maniera possibilista rispetto all’uscita dell’Italia dall’euro, come suscettibile di compromettere la affidabilità finanziaria dello Stato. Questa compromissione veniva in quella sede considerata già un elemento di violazione dei principi costituzionali riguardanti l’equilibrio di bilancio, la partecipazione italiana alla moneta unica e all’Unione europea, la tutela del risparmio.
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Donne, razza e classe
Ginestra Bacchio intervista Cinzia Arruzza
In occasione della recente uscita in Italia di un classico del femminismo contemporaneo come Donne, razza e classe di Angela Davis (trad. it. di M. Moïsee A. Prunetti, a cura di C. Arruzza, Edizioni Alegre, Roma 2018, 304 pp.) abbiamo colto l’opportunità di porre alcune domande sul libro alla curatrice dell’edizione italiana, prof.ssa Cinzia Arruzza, attualmente Associate Professor of Philosophy presso la New School for Social Research di New York.
* * * *
D: Il testo di Angela Davis da lei recentemente curato in edizione italiana, Donne, razza e classe, è stato pubblicato per la prima volta in America nel 1981. Come lei stessa attesta nell’Introduzione, il suo nucleo programmatico era già contenuto e in parte delineato nell’omonimo articolo che la Davis scrisse durante la sua prigionia nei primissimi anni ’70. Il periodo storico in cui quest’opera è stata elaborata è quindi, non solo temporalmente, estremamente distante da quello odierno. Secondo lei è corretto rapportarsi a quest’opera esclusivamente come importante documento storico femminista o in esso è ancora possibile ritrovare delle linee guida per interpretare un contesto storico e sociale come il nostro?
R: Il libro di Angela Davis ha rappresentato uno dei testi fondativi del femminismo nero e, a partire dagli anni ’90, del femminismo dell’intersezionalità. In questo volume Davis offre una ricostruzione storica e un’interpretazione della nascita e dello sviluppo del femminismo statunitense, a partire dall’emergere del movimento suffragista e dei suoi rapporti con l’abolizionismo. All’interno di questa ricostruzione Davis analizza alcuni momenti chiave che determinarono frizioni e rotture tra il movimento femminista e il movimento Nero di liberazione e, soprattutto, tra un certo femminismo liberale bianco e gli interessi e i bisogni della grande maggioranza delle donne di colore e di classe lavoratrice.
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Il franco tiratore
Bellocchio: intellettuali e riviste della sinistra eterodossa
di Giuseppe Muraca
Esce oggi nelle librerie, per le edizioni ombre corte, Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa, di Giuseppe Muraca. Ne anticipiamo qui un estratto. Piergiorgio Bellocchio fa parte di una generazione di intellettuali che si sono formati nel corso degli anni Cinquanta e che nei decenni successivi hanno offerto un contributo determinante al rinnovamento della sinistra italiana e della cultura contemporanea. Ha fondato e diretto le riviste «Quaderni piacentini» (1962-1984) e «Diario» (1985-1993), e ha pubblicato vari libri, tra cui Dalla parte del torto (1989), L’astuzia delle passioni (1995) e Al di sotto della mischia (2007)
Quando alla fine degli anni ottanta Piergiorgio Bellocchio ha pubblicato Dalla parte del torto (Einaudi, Torino 1989) per molti è stata una sorpresa, una rivelazione: ad esempio, tra i giovani lettori del libro quanti conoscevano la singolare esperienza politico-culturale dei «Quaderni piacentini», la rivista che lui insieme a Grazia Cherchi aveva fondato nel 1962 e che era diventata nel giro di pochi anni il principale punto di riferimento della nuova sinistra italiana? Nel ’66 Bellocchio aveva sì pubblicato il volume di racconti I piacevoli servi, però quello era rimasto per più di vent’anni il suo unico libro, e chi lo conosceva e lo aveva frequentato si era abituato a questa lunga pausa.
Se ciò a prima vista può destare meraviglia in realtà si giustifica col fatto che lo scrittore di Piacenza ha ben poco del tipico intellettuale alla moda, delle vedettes della cultura che fanno a gomitate per farsi notare e affollano le giurie dei premi letterari, le redazioni radiotelevisive, dei giornali e delle case editrici. In fin dei conti ancora oggi lui ama considerarsi un dilettante, un «testimone secondario» (secondo una calzante definizione di Cesare Cases che ha fatto sua), e non per semplice vezzo bensì per un desiderio congenito di tenersi lontano dalle risse e dal blà blà, di lavorare ai margini o fuori dai grandi circuiti culturali.
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Governo del cambiamento? Solo se avrà il coraggio di scontrarsi con l’Ue
Giacomo Russo Spena intervista Sergio Cesaratto
L’economista ha un giudizio interlocutorio, ma anche preoccupato, sul nuovo esecutivo: “C’è un problema di coperture finanziarie, fare sia la flat tax che il reddito di cittadinanza, oltre alla riforma della Fornero, sarà impossibile”. E per farlo, nel caso, è necessario battere i pugni a Bruxelles: “Manca una visione macroeconomica, non ci si può limitare all’alternativa secca che o si obbedisce ai vincoli europei o si rompe con l’Ue. Bisogna articolare una proposta di mezzo per rinegoziare il quadro”. Infine, come Piano B, crede non si possa morire per l’Europa: “Come extrema ratio sono per il recupero della piena sovranità monetaria, ciò ha a che fare con la nostra democrazia”.
“Non è certamente un governo progressista però sono curioso di capire se andrà a scontrarsi con Bruxelles. È lì che si gioca la partita”. In questi anni Sergio Cesaratto, economista e professore all’università di Siena, ha scritto libri, interventi e relazioni contro l’attuale assetto dell’Unione Europea. Adesso ha un giudizio interlocutorio, ma anche preoccupato, sul nuovo esecutivo. Se pensa che la cancellazione della riforma Fornero sulle pensioni sia giusta, dall’altra critica la flat tax: “È una redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto: una misura che accresce l’ingiustizia sociale e, persino, la crisi finanziaria perché penalizza la domanda interna”. In sospeso rimane poi la battaglia cardine, quella con l’Europa.
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Professore, partiamo dal contratto di governo siglato tra Salvini e Di Maio. Sono state fatte varie promesse ma, secondo lei, esistono le coperture finanziarie?
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Taylorismo digitale e lavoratori della conoscenza
di Lorenzo Cattani
Verso la fine degli anni Cinquanta, Peter Drucker introdusse per la prima volta il termine “lavoratore della conoscenza”[1]. Drucker riteneva che nel futuro sarebbe stata l’informazione a determinare i più grandi cambiamenti della società e di conseguenza il gruppo più importante, per numero e rilevanza, all’interno della forza lavoro sarebbero stati proprio i lavoratori della conoscenza. In un libro successivo, Drucker arrivava ad affermare che, all’interno di una data organizzazione, ogni lavoratore avrebbe potuto essere un dirigente, qualora, in virtù della sua posizione o conoscenza, fosse stato responsabile di fornire un contributo che potesse influenzare la performance dell’organizzazione, nonché la capacità della stessa di raggiungere gli obiettivi[2].
Negli ultimi decenni i lavoratori della conoscenza sono stati riconosciuti come un attore chiave all’interno del mercato del lavoro e, anche nel dibattito pubblico, l’interesse attorno a questa categoria di lavoratori è indubbiamente aumentato. La gestione dei lavoratori della conoscenza è quindi un passaggio fondamentale nella vita di un’azienda, specialmente in questa fase storica in cui le imprese si preparano ad affrontare la “quarta rivoluzione industriale”.
Il punto fondamentale sta nella scelta di quale principio adottare per gestire questi lavoratori e, ad oggi, questa scelta oscilla sostanzialmente fra due poli. Da una parte vi è la strategia di dare più autonomia ai lavoratori della conoscenza, dall’altra vi è invece la possibilità di “strutturare” il loro lavoro “esternamente”, determinando a priori le modalità con cui dovrebbero svolgere i loro compiti, opzione che va nella direzione opposta rispetto a quella di una maggiore autonomia. Thomas Davenport ha definito questi due approcci alla gestione strategica dei lavoratori della conoscenza come il free-access approach e lo structured approach[3].
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Memoria. Tre sessantottini
di Ennio Abate
Pubblico le riflessioni che Paolo Rabissi e Franco Romanò hanno fatto leggendo il racconto del mio ’68 ( qui ). [E. A.]
Il mio '68 era cominciato nel '66
di Paolo Rabissi
Caro Ennio
non sono uno dei vecchi cui poter passare le tue domande così cariche di problemi, non ho capito meglio di te il significato di quell’anno. Di più, io festeggio il ’68 tutti gli anni il 7 dicembre non perché a S. Ambrogio in quell’anno Capanna strigliava i compagni poliziotti davanti a La Scala ma perché più o meno nella stessa piazza (c’era un Motta) io e Adriana facevamo un piccolo rinfresco dopo il matrimonio della mattina. Non voglio essere irriverente, è che se riuscirò a parlare di quegli anni ( mi sono un po’ arenato nei miei biograffiti) come fai tu (apprezzo il tono che dai alla tua narrazione) verrà sicuramente fuori 1) che il mio ’68 era cominciato nel ’66 (perché ho cominciato a insegnare da studente e che non aveva una lira in tasca, perché ho conosciuto Adriana, perché ho conosciuto quelli di ‘Classe operaia’) e 2) che in realtà per me non è mai finito. Anche a me interesserebbe un po’ di più interloquire con un giovane, precario e disoccupato se proprio vuoi. Ma neanche tanto. Quando arrivano in casa i giovani di Amazon o di altri servizi, postali e non, mi confessano che amano il loro lavoro, durissimo ma pagato abbastanza e non si preoccupano per niente di futuri e di pensioni e di cassa malattia. Tutti a dire poveretti come sono sfruttati e c’è un po’ di miserabilismo intorno a loro e invece poi scopri che fanno lotte non da poco. Ma un amico della logistica ci sta dentro bene, lavora come nessun operaio fordista avrebbe accettato di fare. Però nella logistica fanno lotte non da poco e scoprono daccapo il mutuo soccorso, la solidarietà di un tempo.
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