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"La sconfitta dell'occidente"
di Gennaro Scala
Recensione del libro di Emmanuel Todd, La défaite de l’Occident, Gallimard 2024 / La sconfitta dell’occidente, Fazi Editore 2024
Gli USA vivono in una fase di nichilismo avanzato, prodotto dalla scomparsa del protestantesimo che è stata la religione che ha dato vita al capitalismo moderno. Secondo Todd, vi è una prima fase in cui la religione viene osservata ed è determinante nel formare la mentalità collettiva. Seguita da una seconda, la fase “zombie”, che vede venir meno l’influenza morale della religione e il ruolo della formazione di una mentalità collettiva viene coperto dalle ideologie politiche. Vi è infine un grado zero della religione che corrisponde a quello attuale in cui la scomparsa dei valori è totale.
Il libro in oggetto che è uscito in Francia lo scorso gennaio, fornisce al mondo occidentale forse la descrizione più completa della sua reale condizione. Il libro parte dal conflitto tra Ucraina e Russia, che, naturalmente, Todd descrive quale esso è, cioè un confronto tra l’Occidente e la Russia, ma poi il discorso si allarga a un’ampia analisi della condizione reale degli Usa e dell’Occidente di carattere economico, sociale, antropologico, e anche filosofico, visto il ruolo centrale che ha nel libro il concetto di nichilismo.
Vi sono state varie analisi critiche della politica occidentale, ma il pregio del libro, unico nel panorama attuale, è quello di fornire un quadro generale delle condizioni reali dell’Occidente che sono agli occhi di Todd disastrose. Per questo non esito a dire che si tratta di un libro fondamentale, e mi auguro che il libro scritto da un intellettuale del livello di Todd possa cambiare il dibattito in corso, e riportarlo a termini più realistici, poiché i grossolani errori di valutazione nel caso di un conflitto con una potenza nucleare come la Russia possono essere molto pericolosi, ma non c’è molto da sperare, dato lo stato pietoso del mondo politico, mediatico e culturale occidentale.
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La moneta comune dei BRICS sta arrivando?
di Karsten Montag
Prima del vertice BRICS di fine ottobre, dalla Russia giungono sempre più notizie su un nuovo sistema di pagamento internazionale e sull’introduzione di una moneta comune per l’alleanza economica. Tuttavia, le speranze in tal senso vengono ridimensionate da diversi attori. Un calcolo del volume delle valute utilizzate nel commercio internazionale mostra che lo yuan è diventato la terza valuta più forte del mondo dopo il dollaro e l’euro, cosa che le statistiche precedenti ancora nascondono
Nell’agosto di quest’anno, il quotidiano russo Kommersant ha riferito, sulla base di fonti anonime, che potrebbero essere creati due scambi di criptovalute a San Pietroburgo e Mosca per “sostenere le attività economiche straniere”. Gli scambi di criptovalute sono piattaforme di scambio per valute digitali che non funzionano come moneta a corso legale. Lo sfondo è la creazione di stablecoin — valute digitali legate alla performance di asset specifici — che dovrebbero essere garantite dalla valuta cinese Yuan (pronunciata “Ü-en”, nota anche come “Renminbi”), oppure da un paniere delle valute dei paesi BRICS, continua il giornale. Già a marzo il consigliere del Cremlino Yuri Ushakov aveva annunciato che i paesi BRICS stavano lavorando a un sistema di pagamento indipendente basato su valute digitali e blockchain – contabilità decentralizzata. Anche l’ambasciatore russo in Cina, Igor Morgulov, ha confermato a luglio che i membri del BRICS stanno negoziando una moneta unica. Tuttavia, una creazione nel prossimo futuro è improbabile.
La differenza fondamentale di una valuta blockchain è che tutte le transazioni vengono registrate in modo decentralizzato e quindi, in linea di principio, non è necessaria un’autorità centrale per garantire la correttezza della contabilità e controllare il valore e l’offerta di moneta. A differenza della valuta blockchain Bitcoin, che è liberamente scambiabile e il cui valore oscilla notevolmente, le stablecoin, come suggerisce il nome, sono destinate ad essere più stabili in quanto possono essere scambiate approssimativamente uno a uno con una valuta esistente. Ciò avvicina le stablecoin alla moneta digitale della banca centrale.
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La “Guerra di Putin” rende felici gli operai russi (e invidiosi quelli europei)
di OttolinaTV
Le sanzioni fanno il solletico alla Russia: bilancio pubblico dello Stato di nuovo in attivo titolava ieri Nino Nusneri su La Verità: “Secondo i dati preliminari pubblicati dal ministro delle Finanze, Anton Siluanov, la Russia ha registrato un attivo di bilancio di 0,2 trilioni di rubli (1,88 miliardi di euro) nei primi nove mesi del 2024” si legge nell’articolo; e non è l’unica buona notizia per Putin, tanto che nel 2024, per la prima volta dal 2015, la Russia è stata indicata dalla Banca Mondiale nel gruppo dei Paesi ad alto reddito, con un reddito pro capite superiore ai 14mila dollari l’anno. In fondo le entrate tributarie con cui finanziare la guerra sono assicurate da petrolio e gas che Alexander Dyukov, gran capo di Gazprom, continua a vendere in giro per il mondo in quantità (in barba alle sanzioni occidentali), naturalmente a India, Cina e Turchia, ma anche Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia; non a caso Mosca ha rivisto al rialzo di 17 miliardi di dollari le sue previsioni sugli incassi provenienti dalle esportazioni di petrolio nel 2024: secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, il Cremlino si attende ora di incassare poco meno di 240 miliardi di dollari (13 miliardi in più del 2023), entrate che – oltre a finanziare la guerra – vanno a finire nell’economia reale del paese e, a quanto emerge da numerosi dati, ad aumentare il benessere delle classi popolari russe e, di conseguenza, il consenso per il governo. Insomma: un processo esattamente opposto a quanto stiamo assistendo in Occidente, come mostra anche l’analista Ekaterina Kurbangaleeva in un bell’articolo pubblicato da Carnegie Politika (ripreso poi da Fulvio Scaglione per Insideover): “I redditi reali in Russia” scrive la Kurbangaleeva “sono aumentati del 5,8% nel 2023 e allo stesso ritmo nel primo trimestre del 2024, secondo il Servizio statistico statale russo (Rosstat).
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Perché l'occidente perde
Il realismo geopolitico di Emmanuel Todd
di Carlo Formenti
A mano a mano che le guerre provocate dal blocco occidentale per puntellare la sua crescente incapacità egemonica si rivelano un rimedio peggiore del male, aumenta il numero degli intellettuali liberal democratici che criticano “dall’interno” le scelte delle élite euro-americane (più americane che euro, vista la totale sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti, anche a costo di risultare la prima vittima del dominus d’oltreoceano). In generale si tratta di eredi dell’approccio “realistico” ai conflitti geopolitici che ha un illustre precursore nell’autore della teoria del “contenimento”: quel George Kennan che invitava gli Stati Uniti e i loro alleati ad affrontare la minaccia sovietica attraverso il confronto diplomatico, evitando lo scontro militare aperto. Tale strategia comportava, in primo luogo, un’attenta e approfondita analisi dell’avversario (interessi economici e geopolitici, cultura e valori ideali, potenzialità industriale, scientifica e tecnologica, potenza militare, ecc.) per poterne prevedere mosse e intenzioni. A questa tradizione si iscrive lo storico, sociologo e antropologo francese Emmanuel Todd, autore di un libro, La sconfitta del’Occidente, appena uscito in edizione italiana per i tipi di Fazi, un testo che sta ottenendo una sorprendente attenzione dai media italiani, di solito solleciti nel silenziare qualsiasi critica, ancorché moderata, nei confronti della politica imperiale a stelle e strisce.
E’ probabile che ciò che ha consentito al libro di Todd di infrangere la “spirale del silenzio” (1), sia, oltre all'andamento della guerra, che rende sempre più insostenibile lo tsunami di balle propagandistiche che ha invaso giornali, televisioni e social negli ultimi due anni, l’impeccabile curriculum occidentalista dell’autore, scevro da sospetti di inclinazioni “putiniane” o, Dio non voglia, socialcomuniste, così come da simpatie “terzomondiste” nei confronti delle nazioni e dei popoli che manifestano la volontà di sganciarsi da un’area imperiale ormai ridotta a Stati Uniti, Ue, Giappone e “anglosfera” (Inghilterra, Canada, Australia e Nuova Zelanda).
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La caduta di Israele
di Scott Ritter
Un anno fa Israele era seduto al posto di comando. Oggi guarda in faccia la sua fine
Avevo scritto dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, definendolo “il raid militare di maggior successo di questo secolo“.
Avevo descritto l’azione di Hamas come un’operazione militare, mentre Israele e i suoi alleati l’avevano definita un’azione terroristica della portata di quella avvenuta contro gli Stati Uniti l’11 settembre 2001.
“La differenza tra i due termini”, avevo osservato, “è come tra la notte e il giorno: etichettando gli eventi del 7 ottobre come atti di terrorismo, Israele trasferisce su Hamas la colpa delle enormi perdite dai suoi servizi militari, di sicurezza e di intelligence. Se Israele, invece, riconoscesse che ciò che Hamas ha fatto è stato, in realtà, un raid – un’operazione militare – allora la competenza dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani sarebbe messa in discussione, così come la leadership politica responsabile della supervisione e della direzione delle loro operazioni”.
Il terrorismo impiega strategie che cercano la vittoria tramite l’indebolimento e l’intimidazione – per logorare e creare un senso di impotenza nel nemico. I terroristi per natura evitano un conflitto esistenziale decisivo e cercano battaglie asimmetriche, che contrappongano i loro punti di forza alle debolezze dei loro nemici.
La guerra che sconvolge il Levante dal 7 ottobre 2023 non è una tradizionale operazione antiterrorismo. Lo scontro Hamas-Israele si è trasformato in un conflitto tra Israele e il cosiddetto Asse della Resistenza che coinvolge Hamas, Hezbollah, Ansarullah (gli Houthi dello Yemen), le Forze di Mobilitazione Popolare, cioè le milizie di Iraq, Siria e Iran. Si tratta di una guerra regionale in tutto e per tutto, che deve essere valutata come tale.
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La guerra alle porte
di Enrico Tomaselli
Un errore facile da commettere, se si pensa all’attuale situazione mondiale, è quello di sopravvalutare l’importanza delle scelte opzionabili dalle varie leadership; o per meglio dire, non si tiene sufficientemente conto di quanto l’accumulo delle scelte pregresse (e delle loro conseguenze) finiscano per limitare sempre più lo spettro delle opzioni possibili, e quindi – di fatto – spostino il baricentro decisionale dalla volontà delle élite politiche all’incastro oggettivo degli elementi in campo.
Se prendiamo ad esempio in considerazione il conflitto ucraino, che ormai si avvia verso il suo terzo anno, dovremmo – con maggiore razionalità – riconoscere che le chance di una soluzione non militare sono ormai decisamente esigue, e ovviamente tendono a ridursi assai velocemente. E ciò, appunto, non dipende più tanto dalla mancanza di volontà di giungere a una composizione diplomatica, quanto dal fatto che i margini per una possibile soluzione di tal genere sono effettivamente minimi.
Ci sono, ovviamente, interessi contrapposti di non facile conciliazione, o tra i quali non è facile anche solo trovare una mediazione, sia che ci riferiamo all’interesse ucraino di mantenere/recuperare la propria integrità territoriale, sia che ci riferiamo a quello statunitense di destabilizzare la Russia – e naturalmente, agli opposti interessi russi.
Si è detto più volte che la guerra ha una logica propria, che conduce le cose verso esiti spesso assai diversi da quelli desiderati, e soprattutto imprevisti. E ciò vale, naturalmente, anche sul piano delle conseguenze politiche. Ora è chiaro che i calcoli con cui i due principali player della partita – Stati Uniti e Russia – sono entrati nel conflitto, non solo si sono rivelati (in misura diversa) errati, ma proprio in virtù della loro erroneità hanno determinato un mutamento degli obiettivi strategici.
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Umiliata in Ucraina e impantanata nel Pacifico, Kabala Harris dichiara guerra all’Iran
di OttolinaTV
Intervistatore: “Quale paese straniero considera sia il nostro principale nemico?”
Kabala Harris: “Credo ovviamente ne venga subito uno in mente, che è l’Iran. l’Iran ha sangue americano sulle sue mani“
Ottoliner buondì. Dopo due anni e mezzo vi cominciavate ad annoiare a sentir sempre parlare degli schiaffi che quotidianamente l’Occidente collettivo raccatta nella guerra per procura in Ucraina? Nessun problema: la guerra mondiale dell’imperialismo a guida USA contro il resto del mondo è pronta ad arricchirsi di un nuovo, entusiasmante capitolo! Per mesi, un po’ tutti (e noi per primi) ci siamo fatti mille pippe su come a volere una regionalizzazione dello sterminio di Gaza fosse Israele, mentre gli USA erano titubanti; la motivazione è nota e a chi ci segue ormai gli uscirà dalle orecchie: aprire un altro fronte, oltre a quello caldo in Ucraina e a quello in via di preparazione nel Pacifico, non è alla portata della superpotenza USA e dei suoi alleati. E visto che – da quando hanno raso al suolo l’intero paese per diventare energeticamente indipendenti e da quando la Cina è diventata la leader globale indiscussa delle rinnovabili – il Medio Oriente aveva cominciato a perdere la sua centralità, indebolire la deterrenza su uno dei due fronti principali per rimettere a ferro e fuoco l’Asia occidentale non sembrava avere molto senso, fino a quando qualcosa non è cominciata a cambiare piuttosto rapidamente. Le prime avvisaglie le abbiamo cominciate a registrare a inizio estate quando, mano a mano che Biden rincoglioniva sempre di più, Trump, da underdog ostracizzato dal sistema, cominciava a incassare il sostegno di pezzi sempre più consistenti di Stato profondo (a partire dai peggio sociopatici miliardari della Silicon Valley) e addirittura, cosa più unica che rara, cominciava a surclassare in donazioni la campagna dem.
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Regalo di Mazzucco a Israele
di Fulvio Grimaldi
Un video del giornalista investigativo denuncia Hamas creatura consapevole di Israele. Peccato che i file di Wikileaks e l’evidenza politica e materiale dicano il contrario
Massimo Mazzucco è un valido giornalista-regista investigativo. I suoi lavori, Il presunto allunaggio, l’autoattentato dell’ 11 settembre, il mega-imbroglio Ucraina, meritano le nostre standing ovations. E’ un amico, per quanto distanziatosi, forse in seguito ad alcune divergenze su interpretazioni dei fatti. Con il video sul 7 ottobre dell’attacco di Hamas ha, a mio avviso, indebolito la sua credibilità. Volente o nolente, il suo è stato il ricorso a uno dei classici sistemi messi in campo per demolire l’onorabilità e la verità di un protagonista della lotta contro il Potere.
E aggiungo una considerazione cruciale. Fosse anche fondata la tesi di un Hamas prezzolato a suo tempo e poi lasciato fare il 7 ottobre e quindi spinto nella trappola – e NON lo è - , diffonderla ora, per amore di scoop alla Fracassi, a detrimento dell’onorabilità e dell’integrità del cuore della resistenza palestinese e umana, significa assumersi una pensate responsabilità
Lo si è fatto molte volte e io ne sono stato testimone, in particolare al tempo delle guerre all’Iraq. Saddam Hussein, da sempre l’antagonista più coerente e pericoloso per americani e Israele, andava distrutto moralmente ancora prima che militarmente.
Si fece credere a un’opinione pubblica, che ne stava sostenendo la causa antimperialista e antisionista e costituiva massa critica nell’opposizione internazionale a contrasto della guerra (ricordate i milioni in piazza detti “La Terza Potenza Mondiale”?), che, dopotutto, il presidente iracheno aveva delle vergogne da occultare: era stato “l’uomo degli americani” i quali lo avevano armato per decenni e, in particolare, contro l’Iran. Quindi, agli occhi del suo popolo e dei suoi sostenitori internazionali, doveva risultare un inaffidabile doppiogiochista, al quale non andava concessa nessuna solidarietà.
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A un anno dall’attacco di Hamas, Israele spinge il Medio Oriente verso l’abisso
di Roberto Iannuzzi
L’assassinio di Nasrallah e l’offensiva israeliana in Libano potrebbero innescare una spaventosa destabilizzazione regionale. I missili iraniani su Israele ne costituiscono solo la prima avvisaglia
Il 27 settembre 2024 ha segnato uno spartiacque nella storia mediorientale. L’uccisione di Hassan Nasrallah (guida storica e carismatica di Hezbollah) a seguito di un violentissimo bombardamento israeliano ha scosso gli equilibri regionali con conseguenze difficili da prevedere.
In questo sanguinoso episodio sono rimasti uccisi anche centinaia di civili – un bilancio preciso è reso difficile dall’impossibilità di recuperare corpi letteralmente polverizzati dalla potenza delle esplosioni.
A quasi un anno da quel fatidico 7 ottobre che vide l’attacco di Hamas ad avamposti militari e insediamenti israeliani, l’eliminazione di Nasrallah ha segnato un’ulteriore escalation in un conflitto che ha ormai assunto una dimensione regionale.
Nel quadro dell’irrisolto e dimenticato conflitto israelo-palestinese, e della durissima occupazione militare israeliana, l’inaspettata azione di Hamas del 7 ottobre (la cui dinamica rimane tuttora avvolta da misteri e interrogativi) fu all’origine della devastante reazione militare di Tel Aviv che ha portato alla totale distruzione di Gaza provocando oltre 41.000 morti.
Perfino una catastrofe di queste dimensioni era stata però trasformata in routine dalla copertura parziale e insufficiente dei media occidentali, e declassata a quarta o quinta notizia sui telegiornali (quando viene citata).
Ora vi è il rischio che anche la portata dell’operazione israeliana che segna il definitivo coinvolgimento del Libano nel conflitto venga sottovalutata in Occidente. L’uccisione di Nasrallah, in particolare, e la decapitazione della leadership di Hezbollah, è ciò che ha portato i missili di Teheran nei cieli israeliani.
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La strategia iraniana e il futuro del Medio Oriente
per "Egemonia" Alessandro Bianchi intervista Alberto Bradanini
"La strategia iraniana, dunque, sembra aver scelto la pazienza e il tempo lungo della storia. Israele è oggi un paese in seria difficoltà, diviso e in profonda crisi, un’economia in sofferenza (due declassamenti in poche settimane da parte di Moody’s), 5-600.000 israeliani usciti dal paese (molti non torneranno più) e altri lo faranno alla luce degli sviluppi."
La reazione dell'Iran ai crimini di Israele si è manifestata con 200 missili nella sera di martedì 1 ottobre. Decine hanno colpito obiettivi israeliani con Teheran che ha dato al mondo una dimostrazione pratica di come sia in grado di aggirare i sistemi di difesa israeliana e di come possa infliggere danni enormi alle infrastrutture civili e militari del regime di Tel Aviv. Si è trattata di una risposta moderata, mirata e in pieno rispetto della normativa di ritorsione nell'ambito del diritto internazionale. Con il regime di Israele che ha minacciato risposte sul territorio iraniano e con il tentativo di invasione in corso in Libano, i rischi di una ulteriore escalation nella regione sono enormi.
Nella "guerra mondiale a pezzetti" che stiamo vivendo, ogni teatro è strettamente interconnesso e il riscaldarsi di uno determina l'acuirsi di tensioni e apertura di altri. Per questo sono molti gli interrogativi che si manifestano oggi, nei drammatici tempi che viviamo, e abbiamo cercato risposte in una guida sicura per i lettori di "Egemonia": l'ex ambasciatore italiano a Teheran Alberto Bradanini.
Buona lettura.
* * * *
Ambasciatore dopo l'assassinio dello storico leader di Hezbollah Nasrallah, la possibile operazione di terra da parte di Israele in Libano e il lancio di razzi dell'Iran di martedì primo ottobre, come sono cambiati gli scenari nella regione?
È chiaro come il sole che l’escalation cui punta Israele attraverso massacri, aggressioni, omicidi mirati, bombardamenti da terra e dall’aria senza alcuna differenza tra militari e civili è un agire lontano anni luce dalla civiltà etica e giuridica del XXI secolo, che viola la Carta delle Nazioni Unite e i valori esistenziali di ogni essere umano.
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“State tranquilli…”, disse la rana mentre bolliva
di Dante Barontini
La frittata è fatta. Ora tutti i protagonisti, spalleggiati dai loro alleati, rimuginano sulle prossime mosse e lanciano bellicose minacce perché “gli altri” si fermino. E’ una danza tra soggetti che hanno bisogno di mostrarsi fortissimi, ma che sanno bene cosa rischiano. Eppure la logica di guerra, da sempre, spinge ad andare un passo oltre quel che si vorrebbe e potrebbe fare…
Stavamo camminando sul bordo del baratro da almeno tre anni, ma gli opinion maker dell’establishment – tutti o quasi, senza grandi distinzioni – ci dicevano ogni giorno di non preoccuparci. “Il nemico” c’è, è cattivissimo e crudele, ma in fondo “noi” (l’Occidente collettivo) siamo troppo forti e gli facciamo paura. Ergo, la sua faccia feroce è solo un bluff da andare a vedere, come a poker. Non c’è un vero pericolo se “agiamo subito”, perché se si aspetta troppo quel nemico può diventare molto più forte.
Non ci vuole una grande perspicacia per riconoscere in questo filo di “ragionamento” la narrazione di un guitto come Zelenskij o di un genocida come Netanyahu. Lo schema è identico, il “suggeritore” anche: l’imperialismo degli Stati Uniti.
Facile anche riconoscere nel “ragionamento” il riflesso narrativo di una condizione reale: l’Occidente neoliberista è in declino, sia sul piano economico (i suoi tassi di crescita sono ormai surclassati da oltre 20 anni, se non di più) che su quello “valoriale” (il doppio standard sistematico ha reso una barzelletta la pretesa di ergersi a “faro di civiltà”). La sua superiorità tecnologica è azzoppata, e sempre più spesso deve ricorrere alle sanzioni o dazi (o peggio, come ha mostrato per anni la vicenda Huawei) per proteggere i propri marchi dalla concorrenza. E neanche questo basta più (vedi la crisi dell’auto).
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Ucraina, Libano, Cina: l’incredibile fenomeno editoriale che racconta la sconfitta dell’Occidente
di OttolinaTV
“Perché l’Occidente non accetta la propria sconfitta?”; eh, già: perché? A porsi la domanda nella prefazione della sua ultima fatica, La sconfitta dell’Occidente, è Emmanuel Todd, uno degli intellettuali francesi più originali e controversi degli ultimi decenni; celebre per aver previsto l’implosione dell’universo sovietico nel suo Il crollo finale del 1976 – come, d’altronde, di essersi completamente illuso sul crollo dell’impero USA e la rinascita europea nel suo Dopo l’Impero del 2003 – Todd ha l’innegabile pregio di porsi le domande fondamentali e di avere il coraggio di proporre delle risposte che, anche quando non sono del tutto condivisibili, danno un contributo fondamentale al dibattito. E lo fa da vero ottoliner: “La pace alle condizioni imposte dai russi” scrive infatti Todd “significherebbe una caduta di prestigio per gli Stati Uniti, il che significherebbe la fine dell’era americana nel mondo, il declino del dollaro, e quindi della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta”, un lusso che gli USA, oggettivamente, non si possono concedere; secondo Todd, infatti, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 “Gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo” e da allora “l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan”. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la finanza USA via paradisi fiscali, tutti rigorosamente sotto giurisdizione statunitense o, al limite, britannica. Ecco, così, che “La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dal controllo dei propri vassalli”: “dal punto di vista statunitense quindi, la guerra deve continuare non per salvare la democrazia ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente”.
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Il «ritorno del rimosso». Dalla guerra imperialista al conflitto nucleare?
di Gianmarco Pisa
Una riflessione sulle dinamiche del mondo contemporaneo, i recenti sviluppi dello scenario internazionale, le contraddizioni aperte e le sfide poste ai movimenti di lotta contro l’imperialismo, contro la guerra imperialista, e per la pace
Le coordinate dell’imperialismo
Se, riprendendo la celebre espressione di Jean Jaurès, “il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta”, e cioè la guerra è fattore intrinseco del modo di produzione capitalistico e naturale conseguenza della logica dell’accumulazione, della massimizzazione del profitto e dell’esasperazione della competizione su scala planetaria, che sono le fondamenta della logica e della struttura del capitalismo stesso, allora è a maggior ragione vero che l’imperialismo, in quanto «fase suprema del capitalismo», è sinonimo non solo di primato del capitale finanziario, ma anche, nuovamente, di guerra. Cosa significa, in tal senso, «fase suprema», è presto detto, tenendo a mente la fondamentale lezione di Lenin: l’imperialismo non è la fase “più avanzata” o “più evoluta”, quanto piuttosto la fase “terminale”, estrema e radicale, del modo di produzione capitalistico, nella sua evoluzione storica e sociale, giunto alla fase attuale del proprio sviluppo.
Ci allontaneremmo dal nucleo della riflessione se ci dilungassimo nella letteratura dedicata all’imperialismo e ai diversi modi di configurare la categoria stessa di imperialismo: seguendo ancora la traccia (teorica e politica) indicata da Lenin (1917), e quindi l’esigenza di una lettura e di un’interpretazione della categoria che siano, al tempo stesso, teoricamente solide (capaci di intercettare la sostanza del modo di produzione nella fase contemporanea del suo sviluppo storico) e politicamente efficaci (adeguate a fornire non solo categorie di interpretazione ma anche strumenti di lotta), vale la pena soffermarsi sui ben noti cinque “contrassegni”, vale a dire sulla caratterizzazione dell’imperialismo e su una possibile proiezione nell’attualità.
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"Le tensioni mondiali sono frutto della resistenza dell’ordine coloniale contro il nuovo ordine multipolare"
intervista a Stephen Brawer
“Il pensiero neomalthusiano è una delle cause principali di guerre e conflitti, e persino del possibile scoppio di una guerra nucleare globale. Il suo obiettivo rimane quello di mantenere il mondo coloniale e imperiale”, ha dichiarato a Magyar Demokrata Stephen Brawer, filosofo newyorkese e presidente del Belt and Road Institute in Svezia.
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Signor Brawer, mentre un nuovo ordine mondiale multicentrico continua a dispiegarsi davanti ai nostri occhi, il termine “élite globalista” viene spesso usato per descrivere il potere mondiale contestato. Come definirebbe questo gruppo, chi sono queste persone e da dove vengono?
Grazie per l'opportunità di condividere con voi il mio punto di vista e le mie intuizioni. L'idea di base a cui lei si riferisce è spesso indicata come ordine mondiale unipolare o ordine mondiale basato su regole, che è stato un fattore dominante nella struttura del potere globale. Al momento credo sia molto chiaro che la situazione si sta muovendo verso una situazione molto pericolosa in cui il mondo sarebbe nuovamente diviso in blocchi, come ai tempi della cosiddetta Guerra Fredda. Credo che se ci impegniamo a fondo possiamo sperare di evitarlo. Per quanto riguarda la domanda su chi siano queste élite, esiste una struttura di potere che ha una base storica. Di solito ciò a cui mi sono riferito richiede la necessità di comprendere il lungo arco della storia. In questo contesto, credo sia molto importante identificare l'idea di quella che è la struttura di potere anglo-americana, che è stata fondamentalmente la potenza dominante dalla fine della Seconda guerra mondiale.
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Gli USA dichiarano l’inizio della terza guerra mondiale e invocano lo stato di guerra permanente
di OttolinaTV
L’Europa che dà il via libera all’impiego dei suoi missili a lungo raggio per colpire direttamente il territorio russo; Israele che, col sostegno incondizionato degli USA, si prepara ad attaccare il Libano e prova in ogni modo ad allargare il conflitto all’intero Medio Oriente; Africa e America Latina che tornano a incendiarsi tra golpe tentati, golpe riusciti, guerre per procura e guerre ignorate; e tutti gli alleati occidentali che insieme appassionatamente, come se non avessero già abbastanza guai sugli altri quattro fronti, trovano anche il tempo per andare a stuzzicare i cinesi nel loro giardino di casa, tra gite in barca di tedeschi e italiani nello stretto di Taiwan e sistemi d’arma Typhon installati in pianta stabile nelle isole settentrionali delle Filippine. Vista superficialmente, sembra una caotica guerra mondiale a pezzi, come la definiva il compagno Papa Ciccio; in realtà, però, è tutto meno caotico e improvvisato di quanto non appaia: lo spiega chiaramente e con dovizia di particolari questo lungo documento licenziato nel luglio scorso dal Congresso degli Stati Uniti e che, molto stranamente, era passato sostanzialmente inosservato. E’ il rapporto finale della commissione sulla National Defense Strategy, il documento che mette nero su bianco la strategia complessiva dell’impero a stelle e strisce; il rapporto ufficiale, che abbiamo descritto in lungo e in largo negli anni passati, era stato pubblicato nell’ottobre del 2022 con oltre un anno di ritardo perché, nel frattempo, con l’inizio della fase 2 della guerra per procura in Ucraina il mondo era cambiato. Evidentemente, però, il mondo continua a cambiare molto più rapidamente di quanto gli analisti del dipartimento della difesa USA impiegano a comprendere questi cambiamenti e a dire come andrebbero affrontati; ed ecco così che, a meno di due anni di distanza, una commissione di altissimo livello è costretta a rimettere mano all’intero dossier per arrivare ad ammettere, nel modo più chiaro possibile immaginabile, quello che da mesi continuiamo a ribadire in ogni occasione: gli Stati Uniti sono, a tutti gli effetti, già in guerra contro il Sud globale.
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