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Sciopero SDA e ruolo strategico della logistica
di Carmine Tomeo
Le lotte della logistica stanno scoprendo la zona franca che il padronato sta costruendo. Occorre un nuovo approccio strategico di lotta a partire dalla logistica
“Zitto e lavora!”
“Mandateli a casa sti asini!”, “Io giuro che vi darei tante di quelle legnate”; “se per caso per colpa degli scioperi l'appalto in sda và a puttane e mi ritrovo per strada io tiro fuori il 357magnum dalla cassaforte e vi vengo a prendere a uno a uno”. Sono alcuni commenti che si possono leggere sui social nei post che raccontano la vertenza in corso alla SDA di Carpiano, in provincia di Milano. Una avversione alimentata anche dai giornali nazionali e dalle posizioni politiche che nascondendosi dietro un finto buon senso, manifestano ostilità nei confronti dello sciopero del sindacato di base.
Il quotidiano Libero, lo scorso 24 settembre titolava “Oddio, adesso scioperano anche gli immigrati”. Con quel titolo, Libero, sintesi della peggiore destra liberista e della peggiore destra reazionaria, si scagliava contro lo sciopero dei lavoratori SDA che non accettano l'imposizione di cambi d'appalto utilizzati per azzerare i diritti dei lavoratori e fare maggiori profitti sul peggioramento delle condizioni di lavoro.
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Addio al lavoro?
di Alessandro Mantovani
Ricardo Antunes, Addio al lavoro? Le trasformazioni e la centralità del lavoro nella globalizzazione, Venezia, Edizioni Cá Foscari, 2015
“Un cataclisma, e il suo lucido narratore” si intitola la bella introduzione di Pietro Basso alla nuova edizione del volume del brasiliano Ricardo Antunes. La prima uscì nel 1992 per le edizioni BFS (Biblioteca Franco Serantini) di Pisa. Rispetto a quella, la recente edizione è notevolmente arricchita e gode di una traduzione completamente rivista, e di una nuova, densa Prefazione dell’autore. Ordinario di Sociologia presso l’Università di Campinas, non molto conosciuto e tradotto in Italia, Antunes è ben noto, a livello internazionale, a quanti abbiano seguito il dibattito, ormai pluridecennale, intorno al lavoro e alla marxiana legge del valore nel contesto della globalizzazione.
Il cataclisma in questione è, appunto, quello che – con l’affermarsi del “neoliberismo” o del “post-fordismo” che dir si voglia – ha violentemente investito la condizione dei proletari; d’un lato mutandone radicalmente lo “statuto” nei paesi fino al secolo scorso patria quasi esclusiva del capitalismo, dall’altro estendendone e allargandone la presenza a livello internazionale, nell’area asiatica soprattutto.
I due sviluppi, nel libro di Antunes, già tradotto in molte lingue, sono posti sotto il comune orizzonte teorico della globalizzazione, giacché, giustamente, essi sono complementari e si spiegano e sostengono a vicenda.
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Rivoluzione contro il lavoro
La critica del valore ed il superamento del capitalismo
di Anselm Jappe
L'idea della rivoluzione sembra essersi dissolta nell'aria, insieme ad ogni critica radicale del capitalismo. Di certo, in generale viene ammesso che ci sarebbero da cambiare molti dettagli nell'ordine del mondo. Ma uscire semplicemente dal capitalismo? E per poi sostituirlo con cosa? Chiunque ponga questa domanda rischia di passare sia per un nostalgico dei totalitarismi del passato, sia per un ingenuo sognatore. Tuttavia, non mancano delle teorie critiche che si propongono di mettere a nudo il carattere distruttivo, e storicamente delimitato, del capitalismo, e tutto ciò fin nelle sue strutture di base. Una simile impresa di critica fondamentale viene portata avanti dal 1987 dalla tendenza internazionale della «critica del valore», e soprattutto dalle riviste tedesche "Krisis" ed "Exit!" e dall'autore principale Robert Kurz (1943-1912). Il loro approccio è stato parallelo, sotto molti aspetti, al lavoro svolto da Moishe Postone, di cui recentemente sono stati pubblicati molti libri in Francia.
Il punto di partenza della critica del valore consiste in una rilettura dell'opera di Marx. Tale rilettura non pretende di ristabilire il "vero" Marx ma - piuttosto che supporre una tensione fra la parte economica e la parte politica della sua opera, o fra una parte giovanile che mira alla rivoluzione immediata ed un "evoluzionismo" tardivo che si rivolge alla scienza, oppure tra un idealismo hegeliano iniziale ed una analisi scientifica successiva dei rapporti di classe - assegna un peso alla distinzione fra un Marx "essoterico" ed un Marx "esoterico". Il Marx "esoterico" può essere trovato in una parte piuttosto ristretta dei suoi lavori della maturità e, nella sua forma più concentrata, nel primo capitolo del primo volume del Capitale: Marx esamina le forme di base del modo di produzione capitalista, vale a dire la merce, il valore, il denaro ed il lavoro astratto.
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Giorgio Agamben. Innocenza radicale
Antonio Lucci
Sebbene Giorgio Agamben abbia dichiarato chiuso, nel 2014, il suo progetto ventennale di un’archeologia della politica e del diritto, che ha preso il nome di Homo sacer, con la pubblicazione del volume l’Uso dei corpi, la sua produttività non è affatto diminuita, e il nuovo testo dell’autore romano, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, uscito recentemente per i tipi Bollati Boringhieri, ne è – non lo fossero stati abbastanza i testi usciti in precedenza, dedicati, tra gli altri, a Majorana, a Pulcinella, e alle proprie vicende biografiche – l’ulteriore riprova.
Se si volesse speculare, si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che questo volume potrebbe occupare il posto vuoto lasciato enigmaticamente da Agamben nella posizione II.4 del suo progetto.
In Karman Agamben presenta al contempo una summa dei motivi portanti del suo pensiero e una loro evoluzione in una direzione inedita. Come il sottotitolo indica, l’azione, la colpa e il gesto sono le tre grandi categorie oggetto dell’analisi agambeniana.
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Democrazia e momento populista: dall'America Latina all'Europa
di Carlo Formenti
Relazione di Carlo Formenti alla Scuola Estiva “Crisi della democrazia? Lessico politico per il XXI secolo” dell'Università di Trieste
In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel novembre del 2016 il direttore del “Wall Street Journal”, Gerard Baker ha detto che, in futuro, lo scontro politico non sarà più fra progressisti e conservatori, ma fra globalisti e populisti. Riletta oggi, l’affermazione suona come una dichiarazione di guerra. Eventi come la Brexit, l’elezione di Trump, la disfatta di Renzi nel referendum sulle riforme costituzionali, e le preoccupazioni suscitate dall’ascesa di leader politici come Tsipras (prima della resa ai diktat della Troika), Bernie Sanders, James Corbyn, Pablo Iglesias, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen , hanno fatto sì che si costituisse un poderoso fronte mondiale antipopulista. I media hanno orchestrato una massiccia campagna propagandistica in sostegno dei governi guidati dalle forze politiche tradizionali (conservatori, liberali e socialdemocratici), invitandole a coalizzarsi contro la minaccia di forze genericamente definite populiste – senza distinguere fra le radicali differenze reciproche - in quanto sovraniste, protezioniste, stataliste e antiglobaliste, contrarie cioè alla libera circolazione di merci e capitali e dunque nemiche del sistema democratico, identificato tout court con il mercato. La sostanziale adesione delle sinistre europee – non di rado anche le radicali – a questo appello antipopulista delle élite politiche ed economiche liberiste e dei media mainstream, introduce uno dei temi di fondo che intendo affrontare: l’appello ha funzionato perché le sinistre considerano il sovranismo come un’ideologia ancora più pericolosa del neoliberismo. Prima di esaminare questo atteggiamento, occorre però decostruire il senso del termine populismo.
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Oltre il Capitale, di István Mészáros
Recensione di Matteo Bifone
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1/2017, dal titolo "L'egemonia dopo Gramsci: una riconsiderazione" a cura di Fabio Frosini, pp. 435-442. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1045/971
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
István Mészáros: Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione, a cura di R. Mapelli, Punto Rosso, Milano 2016, pp. 1000, ISBN 9788883511967 (ed. orig. Beyond Capital: Toward a Theory of Transition, Merlin Press, London 1995).
È stato da poco pubblicata da Punto Rosso un’opera molto importante di István Mészáros, uno dei principali seguaci di Lukács ancora in vita, edita per la prima volta nel 1995.
Fin dall’introduzione l’autore afferma che il mondo è ormai pienamente globalizzato e l’espansione del capitale può dirsi conclusa. Le alternative sembrano dunque essere tutte interne ad esso, che esercita ormai il proprio dominio attraverso una piena subordinazione del lavoro. Essendo l’opzione socialdemocratica destinata al fallimento, visto che riconosce il dominio del capitale ma anche quello delle società post-rivoluzionarie nelle quali i mezzi di produzione non sono stati socializzati e si sono imposte sia una gerarchizzazione del lavoro che un’aspra repressione interna (l’autore non concepisce la categoria di capitalismo di Stato né quella di socialismo di mercato), queste alternative possono però giungere solo da movimenti extra- parlamentari dei lavoratori.
Si capisce allora il triplice significato del titolo: andare oltre il Capitale di Marx, andare oltre il capitale come sistema di dominio (e non come sistema economico), andare oltre l’originario progetto marxiano.
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Caute scalate
Balzac e Dostoevskij tra capitalismo e potenza del «non»
Augusto Illuminati
Con l’età il fiato si perde. Mi sembra inverosimile essermi inerpicato per anni sulle le ripide piole di Urbino o, ancora poco fa, sbrigato un’ascensione a freccia dall’alberata riva del Darro alla spoglia sommità del Sacromonte, per non sfigurare davanti al nipote erasmiano cui nel frattempo somministravo, in vista di un esame, sintetiche nozioni sul secolo breve. Allo stesso modo, diventa faticoso misurarsi con romanzi e poesie contemporanee e uno ripiega a rileggere i classici, cercando di scovare quanto gli era sfuggito nelle frenetiche incursioni dell’adolescenza. Così, usando i tempi vuoti dell’estate, mi sono rivolto a due notevoli scrittori d’appendice, scrocconi e prolifici a cottimo, perennemente indebitati e pure controrivoluzionari: il legittimista Balzac e il calunniatore dei naròdniki Dostoevskij. Qualche piccola sorpresa, magari è ignoranza mia della copiosa letteratura critica che di certo mi avrà preceduto.
Balzac, un visionario post-industriale
Non è proprio una novità scoprire che sotto il policromo affresco dell’aristocrazia e del sottobosco parigino il «realista» Balzac abbia delineato i rapporti di classe della Francia e l’ascesa irresistibile della borghesia nella prima metà dell’Ottocento – inutile ricordare Marx, Engels, Lukács.
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Lo sfruttamento capitalista in Internet
Note sul testo di Gugliemo Carchedi
di Collettivo Genova City Strike
Nei giorni scorsi una fotografa naturalista negli Stati Uniti ha fotografato un enorme pesce spiaggiato su un litorale. Si trattava di una grossa anguilla marina che vive nelle profondità dell’Oceano Atlantico. Comprensibilmente incuriosita dalle dimensioni dell’animale, la fotografa non ha consultato nessuna enciclopedia o atlante naturalistico (ve ne sono anche online fruibili gratuitamente). Ha semplicemente postato la foto su un social network chiedendo agli amici di rispondere al quesito su che tipo di animale fosse. Dopo poco rispondeva un biologo marino del Smithsonian Institute degli USA svelando l’arcano. Questa notizia, curiosa ma decisamente minore, ha fatto però il giro delle agenzie internazionali e ha campeggiato a lungo sulla home page del principale quotidiano online italiano. Ovviamente, era ben specificato il nome del social network in questione. Che otteneva quindi un bel po’ di pubblicità.
Lo stesso social network è poco sviluppato in Italia, battuto da un suo concorrente con molti più utenti. Nonostante questo, la maggior parte dei politici, dei giornalisti e degli opinion maker ci scrive sopra. Questo fa sì che, negli articoli di informazione, il nome del social network continui a essere presente. Eppure, la logica imporrebbe di far circolare il più possibile le proprie opinioni e quindi sarebbe apparentemente più logico utilizzare altre piattaforme.
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Samir Amin, “Per un mondo multipolare”
di Alessandro Visalli
Il libro del 2006 di Samir Amin indica una prospettiva che porta ad un maggior livello di chiarezza la sua interpretazione dell’internazionalismo socialista da lungo tempo elaborata e che abbiamo ritrovato, dopo dieci anni, espressa nell’intervista “La sovranità popolare unico antidoto all’offensiva del capitale”. In quel recente intervento l’economista egiziano propone un’interpretazione della crisi aperta nel 2007-8 e giunta al suo decimo anno, come esaurimento e insieme radicalizzazione del modello monopolista ed estrattivo, intrinsecamente imperialista e insieme completamente impersonale, che prende strada a partire dalla crisi di valorizzazione nella quale incappa il capitalismo del dopoguerra a partire dagli anni sessanta.
Nel 2016 Amin dirà che immaginare che “di fronte ad una crisi del capitalismo globale la risposta debba essere egualmente globale” è solo una “tentazione”, ed sorta di ingenuità, causa di sicura sconfitta. Questo libro si chiuderà sulla stessa questione: il superamento deve avvenire punto per punto, e partendo, come è sempre avvenuto, dai luoghi in cui il controllo è più debole, o da quelli in cui le contraddizioni e le conseguenze inaccettabili sono più forti. Per superare, in ogni singolo luogo (ovvero nazione) la tendenza del capitalismo a schiacciare le periferie ed estrarre da esse le risorse, bisognerà fare politica e prendere il potere. Bisognerà costringerlo a fare i conti con le forze popolari, i progressi si potranno poi propagare.
Come avevamo scritto nel commento del bel libro di Carlo Formenti “La variante populista”, bisogna “riconquistare la sovranità popolare”, cosa che passa anche per il tentativo di articolare “un’idea postnazionalistica di nazione”.
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Tra moltitudini e populismi1
di Salvatore Muscolino
Un’altra tipologia di critiche nei confronti del liberalismo e del capitalismo è quella propria di quegli autori i quali, con strategie e punti di riferimento diversi, hanno provato a rovesciare la logica liberale dominante in favore di una critica sociale che parta dal basso e che valorizza l’attivismo, la creatività, l’autenticità dei “popoli” o delle “moltitudini” in ordine alla rottura o, meglio, alla resistenza nei confronti del paradigma liberale dominante. Nel corso del Novecento è possibile distinguere, per linee generali due varianti di questa sensibilità antiliberale, una di destra e una di sinistra. Inoltre, è giusto ricordare che vari regimi politici antiliberali hanno talvolta trovato un alleato in settori interni al mondo cristiano i quali, seppur con finalità e motivazioni diverse, nutrivano un’analoga ostilità nei confronti dei nuovi valori capitalistici e liberali.
Pertanto, nei prossimi sottoparagrafi proverò a fornire un quadro sintetico, ma spero esaustivo sul piano concettuale, di queste varie forme di critiche “dal basso” della tradizione liberale e capitalistica.
1. Fascismi, populismi di destra e cattolicesimo antiliberale
L’esperienza storica del nazismo e del fascismo rappresenta una lotta radicale, dagli esiti tragici, contro l’affermazione dei valori liberal-democratici.
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Il sintomo-Antropocene
di Emanuele Leonardi e Alessandro Barbero
Jason W. Moore: Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell'era della crisi planetaria, Ombre Corte, 2017
L’uomo del XX secolo si è emancipato dalla natura come quello del XVIII dalla storia. Storia e natura ci sono diventate altrettanto estranee, nel senso che l’essenza dell’uomo non può più essere compresa con le loro categorie.D’altronde, l’umanità che per il XVIII secolo non era, in termini kantiani, più che un ideale regolativo, è oggi diventata un fatto inevitabile. [Nel]la nuova situazione […] l’umanità ha effettivamente assunto il ruolo precedentemente attribuito alla natura o alla storia. Hannah Arendt (2004: 413)
Il libro che avete tra le mani rappresenta uno degli interventi più significativi all’interno del dibattito sul concetto di Antropocene, coniato dal microbiologo Eugene Stoermer negli anni Ottanta del XX secolo e reso celebre dal Nobel per la chimica Paul Crutzen a partire dal 2000 (Crutzen e Stoermer 2000). Ultimamente il termine è divenuto una sorta di moda, una parola accattivante, in particolare nell’ambito delle scienze sociali – come dimostra il lancio di tre influenti riviste internazionali esclusivamente dedicate: Anthropocene, The Anthropocene Review ed Elementa. Anche il mondo della stampa generalista ha reagito con entusiasmo: Guardian, New York Times ed Economist hanno frequentemente trattato del tema, rimbalzato di tanto in tanto anche in Italia sulle pagine di manifesto, Repubblica e Corriere della sera.
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Le (false) promesse di Industria 4.0
Birgit Mahnkopf
Ci sono buone ragioni per prevedere che l’irregolarità, la flessibilità, l’incertezza e l’imprevedibilità saranno la nuova ‘condizione normale’ del mondo del lavoro nell’era imminente del capitalismo digitale globale
Siamo circondati da entusiasti che pubblicizzano un meraviglioso nuovo mondo di “fabbriche intelligenti”. Tra questi vi sono rappresentanti dei governi come i ministri dell’industria del G7, le associazioni di imprenditori e datori di lavoro e gli amministratori delegati di grandi aziende, ma anche molte personalità del mondo accademico e addirittura sindacalisti. Cercano di convincerci che in un prossimo futuro una digitalizzazione del settore manifatturiero e persino dell’economia in generale accresceranno, in primo luogo, l’efficienza e la flessibilità di tutto il processo produttivo; in secondo luogo, cambieranno la catena del valore nella misura in cui le specifiche richieste del cliente potranno essere incorporate in tutte le fasi del processo di produzione unitamente ai relativi servizi. In terzo luogo, la digitalizzazione dell’industria dovrebbe offrire metodi di produzione supplementari alle piccole e medie imprese e, in quarto luogo, creare nuove opportunità di lavoro qualificato. Alla fine, tutti questi sviluppi contribuiranno a stimolare una nuova ondata di consumo di massa che porterà crescita economica ma anche uno sviluppo sostenibile.
In Germania sia le agenzie governative che le organizzazioni imprenditoriali sono molto favorevoli a ciò che chiamano “Industria 4.0”, ma anche i sindacati concordano con questa visione.
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PostModerni e TransModerni
di Miguel Martinez
Il commentatore Moi, gran collezionista di bizzarrie, ci segnala un episodio avvenuto l’altro giorno a Londra.
I media di destra italiani, molto compiaciuti, parlano in sostanza di una rissa tra femministe “militanti del movimenti TERF” e transessuali/transgender, a proposito dell’uso dei bagni delle donne.
Cerco di approfondire, e trovo che la faccenda ha risvolti interessanti.
Innanzitutto, non esiste alcun “movimento TERF”, che è semplicemente un insulto (trans-exclusionary radical feminists, oppure più retoricamente, trans-exterminationist radical feminists).
Poi scopro che non c’è stata una rissa, c’è stata un’aggressione da parte di un militante trans (uso l’abbreviazione per non dover scegliere tra “transessuale” e “transgender”) contro una signora sessantenne.
Cerco la signora in rete, e scopro che non si tratta di una persona con fissazioni ideologiche: Maria MacLachlan è una donna lucida, colta, molto anglosassone che sa ragionare e si è fatta un sacco di nemici criticando l’omeopatia.
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Un battitore libero si aggira per l’Europa
di Andrea Ventura
La sera del 15 aprile 2015 il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha un incontro riservato con Lawrence Summers. Nella penombra del bar di un albergo di Washington, davanti a un bicchiere di whisky, l’ex consigliere economico di Obama pone a Varoufakis la seguente alternativa: deve decidere se essere un insider, oppure un outsider. Se sceglie la prima strada, oltre all’accesso alle informazioni rilevanti ha la possibilità di partecipare a importanti decisioni sulle sorti dei popoli. Deve però rispettare una regola fondamentale: non ribellarsi agli altri insider, né denunciare agli outsider quello che gli insider dicono e fanno. Se invece sceglie di essere un outsider, mantiene la libertà di esprimere le proprie opinioni, ma paga questa libertà con l’essere ignorato dagli insider, dunque con l’irrilevanza delle sue posizioni. L’apertura del libro di Varoufakis Adults in the Room, è illuminante. Quello che molti intuiscono, fin dalle prime pagine del volume è raccontato con precisione: il meccanismo di costruzione del potere è costituito da reti e canali d’informazione all’interno dei quali politici ed economisti, ma anche opinionisti e mezzi di comunicazione, sono costretti a coprire la verità, oppure, se scelgono di dirla, pagano questa scelta con l’esclusione dai circuiti informativi e dal potere. L’opacità e la copertura delle informazioni rilevanti, o più semplicemente l’attitudine alla menzogna, sono in sostanza la naturale condizione di ogni insider.
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Come fare la rivoluzione senza prendere il potere ...a luglio
di Daniel Gaido (*)
Nel 1917 la Russia contava 165 milioni di cittadini, dei quali solamente 2 milioni e 700 mila vivevano a Pietrogrado. Nella capitale abitavano 390.000 operai – un terzo erano donne –, tra i 215.000 e i 300.000 soldati di guarnigione e circa 30.000 marinai e soldati di stanza nella base navale di Kronstadt.
Dopo la Rivoluzione di Febbraio e l’abdicazione dello zar Nicola II, i Soviet, guidati dai Menscevichi e dai Socialisti Rivoluzionari, cedettero il potere a un governo provvisorio non eletto che era deciso a mantenere la Russia belligerante nella Prima Guerra Mondiale e a ritardare la riforma agraria fino all’elezione dell’Assemblea Costituente, rimandata a data da destinarsi.
Inoltre i Soviet avevano richiesto la creazione di commissioni di soldati e avevano dato istruzioni di disubbidire a ogni ordine ufficiale che andasse contro gli ordini e i decreti del Soviet dei Deputati, degli Operai e dei Soldati.
Queste decisioni contraddittorie provocarono una duplice e precaria struttura di potere, caratterizzata da crisi di governo ricorrenti.
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Corea del nord, questa sconosciuta quasi normale
di Luigi Pandolfi
Oltre l’escalation militare, c’è un Paese in movimento, oggettivamente lontano dal nostro sentire ma non per questo meno normale
Il risalire della tensione lungo il 38° parallelo ha riacceso i riflettori dei media internazionali sulla Corea del Nord. Salvo qualche eccezione, tuttavia, a prevalere sono gli argomenti di sempre: minaccia nucleare e (presunte) bizzarrie del regime. Beninteso: la corsa agli armamenti di Pyongyang è un dato reale, così come non mancano aspetti della società e del sistema politico nordcoreano che si prestano a sguardi sbalorditi ed a letture sensazionalistiche. Niente a che vedere, però, con bufale del tipo: tutti i coreani sono costretti a portare i capelli come Kim Jong Un. Ad ogni modo, quando si osservano determinati fenomeni, che siano di natura politico-sociale o culturale, religiosa o di costume, riconducibili a specifiche (e differenti) forme di civilizzazione o di modernizzazione di un paese, sarebbe buona regola togliere dagli occhi le lenti dei propri - altrettanto specifici e differenti - statuti identitari. Così, forse, si riuscirebbe a cogliere perfino quanto c’è di normale in una società oggettivamente lontana dai propri luoghi e dal proprio sentire.
Una “via nazionale” al socialismo
Quante volte abbiamo sentito parlare di “regime stalinista”, ovvero di “ultimo bastione marxista-leninista” a proposito della Corea del Nord? Sempre. Cosa c’è di vero? Poco.
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Solidarietà a Jacques Sapir
di Alberto Bagnai
Mi ero sempre chiesto cosa fosse quell'"hypothèses" che compariva nell'URL del blog di Jacques Sapir: http://russeurope.hypotheses.org/, ma questo dubbio non era esattamente in testa alla lista delle mie priorità, e quindi non avevo mai approfondito.
Hypothèses, con Calenda, Revues.org, OpenEdition Books, è una piattaforma informatica inserita nel portale francese Open Edition, un progetto il cui scopo è quello di promuovere la pubblicazione e la discussione di risultati scientifici nell'ambito delle scienze umane e sociali secondo i criteri dell'open access. Tanto per placare subito i lettori fallaciati, chiarisco che qui Soros non c'entra molto: anch'io ho pubblicato in open access, tant'è vero che se cliccate qui potete leggere uno dei miei ultimi articoli. Quindi placate i vostri riflessi pavloviani: la open society è un'altra cosa, e andiamo avanti.
Il portale si articola su quattro assi: pubblicazione di riviste on line (Revues.org), pubblicazione di ebook (OpenEdition), una bacheca di eventi scientifici (Calenda), e un aggregatore di blog, appunto, Hypothèses. Quest'ultimo comprende 2408 blog, fra cui anche LEO (L'Edition électronique ouverte), blog di Open Edition che informa sugli sviluppi del progetto. Il 28 settembre questo blog annunciava che il Comitato scientifico di Hypothèses e quello di Open Edition sospendevano il blog di Sapir, aperto cinque anni or sono, a causa della pubblicazione di post privi di attinenza con il contesto scientifico e accademico del blog.
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2 Ottobre in Catalogna
di Leonardo Mazzei
Otto note sintetiche sul referendum per l'indipendenza
Ci sarà tempo per riflettere più a fondo sui possibili sviluppi della crisi catalana. Intanto però il referendum è alle nostre spalle e alcune cose già le possiamo dire.
1. L'autoritarismo centralista del governo di Madrid ha finito per rafforzare l'indipendentismo filo-eurista di quello di Barcellona.
Non era un esito difficile da prevedere. Aver mandato la polizia a disturbare il referendum, senza peraltro riuscire ad impedirlo, è stato un segno di grande debolezza, un atto repressivo figlio di una concezione parafranchista. Fondamentalmente un atto stupido, sia in considerazione del fatto che i sondaggi davano gli indipendentisti in minoranza, sia perché la contestazione della legalità del voto avrebbe potuto essere comunque sostenuta politicamente senza bisogno di ricorrere alla magistratura ed alla polizia. Ma la stupidità ha da sempre un certo ruolo nella storia. Vedremo alla fine quale sarà stato il suo peso stavolta. Intanto, però, la gestione della vicenda da parte di Rajoy ha regalato agli indipendentisti catalani un indubbio successo propagandistico.
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Lombardia e Veneto: referendum inutile? No, utilissimo…a loro!
di Pierluigia Iannuzzi
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Chi non è leghista o grillino o piddino si trova oggi nella condizione (facile e comoda!) di sostenere che snobbare il referendum astenendosi sia il modo migliore per non legittimare un referendum consultivo inutile. I sostenitori dell’astensione ritengono il referendum inutile perché consultivo e ritengono la partecipazione con un NO dannosa perché la sconfitta del NO sarebbe inevitabile e legittimerebbe l’inesorabile vittoria del SI. Ma davvero possiamo pensare che tutti i partiti più forti in Italia e Lombardia abbiano deciso di sostenere un referendum se questo fosse davvero inutile? Davvero possiamo accontentarci di considerare tali partiti così sciocchi? Scusate, cari compagni (perché gli astensionisti sono spesso cari compagni!), ma non è credibile questa posizione. Credo invece che le valutazioni fatte dalle segreterie di tali partiti siano purtroppo opportunistiche. Assumersi la responsabilità di dire NO significherebbe confrontarsi con una bruciante ed inevitabile sconfitta determinata dalle diverse forze in campo in questa difficile fase storica. Ma la pochezza delle forze comuniste dipende, a sua volta, da anni di opportunismo elettorale e istituzionale che hanno determinato uno scollamento dalla classe di riferimento e, quindi, se consideriamo da leninisti la classe come l’elemento più avanzato, dalla possibilità di uno scientifico approccio alla realtà.
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Eccesso di risparmio causa della crisi economica?
di Andrea Pannone
Nel mio articolo pubblicato a febbraio 2017 su questa rivista affermo esplicitamente che l’ipotesi di un eccesso non temporaneo di risparmio sul volume degli investimenti privati, adottata da molti economisti per spiegare la persistente fase di debolezza dell’economia mondiale[1], sia teoricamente insostenibile nella realtà dei sistemi di produzione moderni. Per comprensibili ragioni di spazio, la dimostrazione formale dell’argomento era relegata nell’appendice dell’articolo stesso. Lo scopo di questo scritto è chiarire meglio i leciti interrogativi lasciati aperti da quella rapida trattazione (si vedano ad esempio alcuni dei commenti dei lettori alla fine del paper).
- 1. L’ammissibilità dell’ipotesi di eccesso di risparmio
Come noto, la relazione tra risparmio, produzione e investimento è uno dei fondamenti della macroeconomia. In un’economia chiusa con risparmio pubblico nullo (ossia con tasse uguali alla spesa pubblica) il risparmio (S) è la parte del prodotto totale (reddito) non destinata ai consumi privati (famiglie e imprese). Gli investimenti privati (ossia la variazione netta dello stock di capitale fisico a disposizione delle imprese, indicata con I) sono invece, insieme ai consumi privati, una componente della domanda totale del prodotto.
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La crisi europea e la sua ideologia
Riflessioni a partire da Slavoj Žižek
di Giorgio Astone
- Introduzione
Col termine ideologia si era soliti indicare, nel XX secolo, una congerie di credenze fasciate insieme, provenienti da campi eterogenei del sapere e del sentire e volte ad orientare un gruppo sociale o la società in toto. Eppure nella fase che stiamo vivendo, dove ormai appare inappropriato attribuire il termine «congiunturale» alla depressione economica e la crisi sembra diventata una caratteristica del nostro modo di vivere (ancor prima della crisi economica giungeva alle nostre orecchie, in elegie meste o marce trionfali, la formula di «fine della storia»), è presente un’ideologia? Difficile credere che aspetti caratteristici di questo frangente temporale ci orientino verso qualcos’altro: la tendenza a rivolgersi al passato si accompagna per la prima volta ad un’immaginazione futura che è sempre la stessa (il futuro che ci aspettiamo messianicamente è mutatis mutandis quello dell’evoluzione tecnologica sognato già nel dopoguerra e nel boom economico degli anni ’60). Sicuramente, e questo lo vedremo accompagnandoci alle riflessioni del filosofo sloveno Slavoj Žižek, emerge una nuova visione, un codice mentale che ci permette di adattarci sia nell’interpretazione della realtà socio-politica sia nella nostra stessa sopravvivenza in questo orizzonte. Ma è, l’adattamento, il modo migliore d’affrontare una simile condizione?
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La forza creativa della Costituzione*
di Paolo Ciofi
Il programma economico della Costituzione: un confronto con Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro. I problemi che nascono dallo svuotamento dello Stato nazionale e dalla possibilità reale di incidere dei lavoratori nella vita pubblica. La questione centrale della proprietà. Dall'impianto costituzionale emerge una visione culturale e politica che va al di là delle ricette di Keynes
Cosa vuol dire, nelle condizioni del mondo di oggi, lottare per l'applicazione della Costituzione del 1948, che fonda sul lavoro la nostra Repubblica democratica? Il tema, ignorato per anni e colpevolmente messo in sonno dai partiti subito dopo il clamoroso risultato del referendum del 4 dicembre 2016, che ha respinto la controriforma renziana orientata a deformare l'assetto costituzionale secondo gli interessi del capitale finanziario e di un'oligarchia di comando, è stato con efficacia riproposto all'attenzione del dibattito pubblico dall'Assemblea per la democrazia e l'uguaglianza, organizzata da Anna Falcone e Tomaso Montanari al teatro Brancaccio di Roma il 18 giugno scorso.
In questo nuovo contesto indubbiamente suscita interesse il saggio di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro dal titolo La Costituzione come programma economico, pubblicato sul numero 4/2017 di Micromega in un almanacco di economia che esplicitamente propone di «tornare a Keynes». Una visione che, sebbene gli autori non lo dichiarino in modo esplicito, sul terreno politico inevitabilmente ci riconduce al compromesso socialdemocratico, e dunque alla pratica politica del riformismo.
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Il ménage à trois della lotta di classe
Prologo e primo episodio
di B. A. e R. F.*
Diamo qui inizio a un nuovo «feuilleton»1, dedicato alla classe media nella lotta di classe. La classe media è l'oggetto di una sovrabbondante produzione nell'ambito della letteratura politica e sociologica borghese, ma è ampiamente trascurata dalla teoria comunista attuale. Cercheremo di rimediarvi. Dato che la questione è proteiforme, ci limiteremo al campo della classe media salariata (CMS) nel capitalismo odierno. Le sue lotte sono numerose, talvolta spettacolari e violente, e scoppiano ovunque nel mondo. Ma non è questa la ragione principale per cui pensiamo sia necessario affrontare la questione. La nostra preoccupazione centrale non è in effetti la quantità, ma la natura di queste lotte e il loro rapporto con quelle del proletariato. In definitiva, dalle numerose analisi parziali che dovremo sviluppare, speriamo di trarre una visione d'insieme del problema della CMS nel contesto di una rivoluzione comunizzatrice. I risultati ai quali perverremo devono essere considerati come provvisori e aperti alla discussione.
In un primo tempo, cercheremo di definire il campo e l'oggetto delle nostre investigazioni (episodio 1), di porre le basi per una teoria della classe media (episodio 2), e di servirci di questi risultati per analizzare il caso del movimento francese del 2016 contro la riforma El Khomri (episodio 3).
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Ricchi per caso? Un’agenda terapeutica per l’Italia
di Sergio Cesaratto
L’Italia si avvia alle elezioni politiche senza che alcuna formazione politica avanzi un progetto per il Paese, un’idea di dove esso debba dirigersi. Si va dalla continuità del “io speriamo che me la cavo” del PD al governo al vuoto programmatico del M5S, passando per l’incubo del ritorno berlusconiano. La sinistra vaga fra il cosmopolitismo e le trivelle. Lo scarso spessore politico e culturale dei gruppi dirigenti delle varie compagini è palese. Per esplicitare l’ordine di problemi che una politica all’altezza dovrebbe affrontare, torna assai utile la lettura del volume “Ricchi per caso” curato da Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta (il mulino, 2017, 319 pp. 19€), due affermati storici economici. Il volume intraprende una sorta di percorso psicoanalitico delle ragioni profonde del drammatico passaggio storico, fra benessere e declino, che l’Italia sta da anni attraversando. Al centro dell’analisi vi sono infatti le istituzioni socio-politiche che costituiscono l’ossatura del Paese, la sua costituzione reale – spesso vero ostacolo alla realizzazione dei nobili intenti della Costituzione formale. In questo gli autori - sette nel complesso [1] - si rifanno a un importate filone della letteratura economica che vede nella qualità e appropriatezza storica delle istituzioni l’anima dello sviluppo economico.
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Lo spazio del politico nel mondo multipolare
Nuovi Stati, secessioni, sovranità
di Pierluigi Fagan
Politico, com’è noto, si riferisce alle questioni relative alla comunità o società che nell’Antica Grecia si chiamava polis e che oggi si chiama Stato. Non ha cambiato solo il nome, la polis greca era una città (o al più un’isola), la più grande e famosa, Atene, contava al suo massimo forse 130.000 abitanti ma non tutti erano soggetti politici di diritto. Oggi, uno Stato medio, secondo una brutale operazione che divide la popolazione terrestre per i poco più di 200 stati accreditati, conta poco più di 35 milioni di abitanti. Chiaramente, se la dimensione di Atene sosteneva ancora il concetto di comunità, lo Stato moderno contemporaneo verte sul concetto di società che, a sua volta, può basarsi o meno su una rete di comunità. Queste, possono a volte coincidere con etnie che i greci ritenevano una istituzione barbara, una istituzione imposta perché subita alla nascita[1].
Lo spazio del politico nel mondo, sembra attraversato da due correnti potenti. Da una parte, la popolazione mondiale è cresciuta di due volte dal 1950 e fra trenta anni, ad un secolo dalla data posta, risulterà cresciuta di tre volte. Fatte le debite proporzioni, per dare una approssimata idea della vistosità del fenomeno, è come se l’Italia, nel prossimo secolo, diventasse una nazione di 240 milioni di persone dai 60 che ne conta oggi.
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