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33780 battute contro la teoria della classe disagiata
di Valerio Mattioli
Sei in volo verso Berlino o per la precisione verso Neukolln, che come tutti sanno è il quartiere dove le cose succedono. O forse stai andando a Peckham? Magari Ménilmontant? Poble Sec? Miera Iela? Mariahilf, Exarchia, Bairro Alto? Comunque: è uno squallido volo Ryanair con partenza da Ciampino, ma tuo nonno si poteva permettere al massimo un biglietto del tram per la gita fuori porta della domenica, quindi lo sai bene che quel tuo low cost da pezzenti vale tanto quanto un posto in prima classe. Ti aspetta un mondo di cocktail esotici miscelati da estrosi bartender tatuati, dotte disquisizioni sul rapporto tra Captain America: Civil War e guerra al Terrore, concerti indie per elettronichetta innocua e chitarrine intimiste, apericenacoli con focus su affinità & divergenze tra Lena Dunham e l’adattamento tv del Racconto dell’ancella, e pettegolezzi di quarta mano su Semiotext(e) che chi se ne frega che pubblica Paolo Virno (anche perché chi cazzo è costui?), l’importante è sapere chi scopa con chi perché hai visto I Love Dick? ecc ecc. Ti aspettano giorni di arte, di stile, di IPA, di spunti per sei o sette longform e di tanta, tanta Cultura.
Solo che a un certo punto ti viene in mente che altro che business class: il volo da Ciampino partiva alle 5 del mattino, per poco non sei dovuto restare in piedi per quanto era affollato, e quando è arrivato a destinazione ti ha lasciato a un aeroporto a dodici ore dal centro.
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Splendore e miseria dell’antiautoritarismo
di Robert Kurz
Introduzione
Ciò che Mao-Tse-Tung affermò con un certo gusto del paradosso a proposito della Rivoluzione francese può valere, e a maggior ragione, per le vicende del ’68: a quasi mezzo secolo da quel periodo la distanza storica non è ancora sufficiente per formulare un giudizio definitivo. Malgrado tutto però è innegabile che la grande contestazione sociale degli anni Sessanta – un fenomeno pressoché inaspettato, che non lasciò indenne nessun paese industrializzato dell’Occidente (USA, Messico, Giappone, Francia, Germania Occidentale, Italia, Inghilterra, etc. perfino la Spagna franchista) nonostante la diversità dei contesti politici e sociali, il cui riflesso nel blocco socialista fu l’impulso per la liberalizzazione politica in Cecoslovacchia e, più in generale, una nuova stagione della dissidenza intellettuale – rappresentò una cesura epocale. Ma quale ne fu il significato? E, in particolare, che rapporto c’è tra la dimensione soggettiva e la funzione oggettiva di quel movimento? Astraendo dall’interpretazione manichea di chi vede nelle vicende del 1968 il vaso di Pandora che ha scatenato tutti i mali della post-modernità, l’assassinio della civiltà e del decoro borghese e di chi invece, all’opposto, liquida la contestazione di quegli anni come l’ennesima occasione rivoluzionaria mancata, da addebitare a una «coscienza di classe» deficitaria o all’«opportunismo» dei suoi dirigenti, possiamo distinguere essenzialmente due posizioni divergenti:
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Elezioni tedesche: un risultato scontato dalle conseguenze scontate
di Alessandro Somma
Il partito della Cancelliera vince ma viene ridimensionato (33%), i Socialdemocratici crollano (20,5%), mentre la destra xenofoba diventa il terzo partito (12,6%): è questo l’esito delle elezioni tedesche, che probabilmente porteranno al governo una coalizione di Cristianodemocratici, Liberali (10,7%) e Verdi (8,9%). Per i primi commentatori si tratta di un risultato inatteso, addirittura di una cesura storica, preludio di un periodo di incertezze e instabilità. Con il rischio concreto di scenari inediti e potenzialmente drammatici per la Germania e l’Europa, che perde la sua ancora di salvezza, così come per la il Socialismo europeo, a questo punto avviato verso l’estinzione.
Così i principali commenti. Ma a bene vedere quanto è successo era ampiamente prevedibile, e non porterà nessuna particolare novità negli scenari politici né a Berlino, né a Bruxelles.
Non è un risultato imprevedibile
Erano innanzi tutto prevedibili i risultati elettorali delle forze politiche in campo, a partire da quelli di Alternativa per la Germania (AfD): la formazione nata nel 2013 su posizioni euroscettiche, poi cresciuta durante la crisi dei migranti sulla scia di parole d’ordine xenofobe.
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Quale antifascismo nell'epoca dell'euro e della democrazia oligarchica?
di Domenico Moro
Sul fascismo e sulla polemica sui recenti provvedimenti di legge credo sia necessaria qualche precisazione. Ogni provvedimento formale di legge che vada contro simboli e organizzazioni fasciste, più o meno espliciti, va accolto con favore e anzi caldeggiato. È in atto una rinascita di questo tipo di organizzazioni, che rappresentano, comunque e sempre, un grave pericolo. Queste organizzazioni, anche se hanno, almeno per il momento, prospettive limitate, possono prosperare nel clima di crisi e di peggioramento delle condizioni sociali che si sta affermando. Di fatto, esse non rappresentano agli occhi di chi ha il potere vero, quello economico, una opzione credibile di gestione complessiva del sistema, ma sono sempre un pedone della scacchiera che si può usare, e si usa già oggi strumentalmente, per distrarre l’attenzione delle masse verso pericoli fittizi, creare confusione e accentuare le contraddizioni presenti all’interno delle classi subalterne. Premesso questo, il termine fascismo è usato da tempo estensivamente, per definire varie forme di autoritarismo e/o violenza politica. Se questo è più o meno comprensibile sul piano della polemica politica, tuttavia non mi sembra molto utile ai fini della comprensione della realtà, delle sue specificità attuali e quindi della capacità di sviluppare una lotta efficace sulla distanza.
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Gramsci e la rivoluzione d'ottobre*
di Guido Liguori
Il saggio di Guido Liguori che pubblichiamo è tratto dall’ultimo numero della rivista Critica Marxista. Chi desideri acquistare la rivista o abbonarsi, può chiedere informazioni alle Edizioni Ediesse (06.44870283, This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)
La peculiare formazione di Gramsci gli fece scorgere nelle due rivoluzioni russe del 1917 l’inveramento delle sue concezioni soggettivistiche.
La successiva comprensione della differenza tra “Oriente” e “Occidente” lo portò a una rivoluzione del concetto di rivoluzione, senza fargli rinnegare l’importanza storica dell’Ottobre né la solidarietà di fondo con il primo Stato socialista della storia.
A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e a ottant’anni dalla morte di Gramsci non è inutile tornare sulla lettura che nel 1917 l’allora ventiseienne socialista sardo diede dei fatti di Russia e anche su cosa poi rimase di tale interpretazione nel suo bagaglio teorico-politico più maturo. La rivoluzione guidata da Lenin, infatti, costituì per il giovane sardo trapiantato a Torino un punto di svolta politico, teorico ed esistenziale a partire dal quale iniziò la maturazione del suo pensiero e la sua vicenda di comunista. Per comprendere come Gramsci si rapportò alla Rivoluzione d’Ottobre occorre dunque partire in primo luogo dalla consapevolezza che Gramsci fu sempre, dagli anni torinesi alle opere del carcere, non solo un teorico della rivoluzione, ma un rivoluzionario.
È quanto ebbe a sottolineare Palmiro Togliatti, nell’ambito del primo dei convegni decennali dedicati al pensiero di Gramsci, che ebbe luogo a Roma nel gennaio 1958, affermando: «G. fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioè un combattente [...]. Nella politica è da ricercarsi la unità della vita di A.G.: il punto di partenza e il punto di arrivo»1.
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Deglobalizzare o accettare la sfida della complessità?
P. Bartolini intervista Matteo Vegetti
Intervista al prof. Matteo Vegetti sul suo saggio 'L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria' (2017)
1) Prof. Vegetti, nel Suo recente volume “L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria” (Einaudi, 2017) ha scelto di trattare il tema della globalizzazione utilizzando una prospettiva molto interessante. Il passaggio dalla dialettica Terra-Mare (studiata in modo accurato da Carl Schmitt) alla dinamica tripartita Terra-Mare-Aria segna, dal punto di vista geostorico e antropologico, una vera e propria rivoluzione spaziale. In che senso il terzo elemento, quello dell’aria, è diventato decisivo per comprendere l’ipermodernità e i suoi nodi critici?
Vi sono vari modi per rispondere a questa domanda, e in fondo l'intero volume è l'esplorazione di questi modi. In ogni caso, cominciando proprio da Schmitt, l'aria presenta alcune caratteristiche tipiche della spazialità globale: è un spazio liscio e illimitato, che estremizza alcune caratteristiche del mare (velocità, connettività, isotropia, anomia, utopia) e che porta con sé specifiche potenzialità trasgressive dei limiti del moderno Nomos della terra. Alcune di queste caratteristiche hanno effettivamente forgiato lo spazio ipermoderno delle telecomunicazioni e dell'aeronautica, generando una nuova condizione storica nei campi dell'economia, dell'informazione, della politica.
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L’uso politico dei migranti e la spoliazione dell’Africa
di Cristina Quintavalla
La tragedia umanitaria che si sta consumando sotto i nostri occhi, acuita dall‘inarrestabilità dei processi migratori, è resa tanto più drammatica quanto più viene utilizzata a fini politici e sociali, in Italia e in Europa. La questione della fuga di milioni di uomini, donne, bambini dai loro paesi d’origine e l’approdo di molte migliaia di essi sul territorio europeo viene presentata come la conseguenza del sottosviluppo, legato ad economie non industrializzate, rurali, primitive, imputabili ad arretratezza, o a regimi dittatoriali, a guerre intestine e fratricide. Insomma imputabili a storie e responsabilità loro.
Viene messa in scena una sorta di concezione della storia, fondata su una dialettica contrappositiva tra civili/civilizzati/sviluppati/benestanti/capaci/meritevoli e incivili/sottosviluppati/incapaci/poveri/immeritevoli: l’assalto di questi ultimi alla nostra ricchezza, prosperità, sicurezza, civiltà si configurerebbe come una minaccia gravida di insidie e pericoli, causa della disoccupazione, della precarizzazione delle vite, della crisi economica, dell’imbarbarimento sociale.
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Europa, alla ricerca del sesto scenario
Claudio Gnesutta
Il documento di Jean-Claude Juncker propone 5 scenari alternativi per l’Unione Europea. Ma ora più che mai è necessario mettere in campo un altro scenario, radicalmente diverso, in cui l’autoriforma delle istituzioni europee sia volta a sostenere lo sviluppo e la stabilità sociale all’interno e tra i paesi membri
Il primo marzo di quest’anno, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha presentato il “Libro bianco sul futuro dell’Europa: le strade per l’unità nell’UE a 27”. Di fronte a un passaggio incerto dell’istituzione europea dopo la Brexit, ma soprattutto in presenza della crescente ostilità popolare nei confronti delle politiche europee, il documento veniva presentato come la base di discussione delle linee di sviluppo dell’Unione e fissava le possibili alternative cui sarebbero soggetti i paesi nello scegliere il loro percorso verso la futura Europa. È lo sfondo sul quale si regge anche il suo recente discorso sullo Stato dell’Unione 2017.
Il documento prospetta cinque scenari alternativi con i quali i paesi dell’Unione dovranno confrontarsi prossimamente, superate le ormai prossime elezioni tedesche. Appare quindi tempestivo e di grande interesse il contributo di Alessandro Somma – Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione Europea, Imprimatur 2017 – che offre una ampia e ragionata esposizione del significato e delle implicazioni dei cinque scenari che – secondo la Commissione – delineano «quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025 ». Merito di Somma è interpretare una tale proposta istituzionale in connessione con le altre deliberazioni della Commissione in merito alla difesa, alle finanze, all’inclusione sociale e qualificare così il senso delle diverse alternative in maniera più precisa di quanto non indicasse la rapida presentazione di marzo.
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Elettori o consumatori? Il deficit democratico nell’Unione Europea
di Domenico Cortese
Due tematiche parallele sono, ad intervalli regolari, al centro delle polemiche sui media quando si tratta di essere scettici riguardo all’assetto socio-politico dell’Unione Europea. La prima è l’approccio intrinsecamente neo-liberista codificato in maniera definitiva nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea: i pilastri su cui si fonda la costruzione comunitaria sarebbero la libera circolazione di merci e capitali e gli stretti parametri sulla gestione del bilancio pubblico. Ha causato diatribe, poi, il recente tweet della Bce secondo la quale il compito che spetta ad essa, in quanto indipendente dalle finalità politiche, sarebbe semplicemente la stabilità dei prezzi e non la “crescita” o la “creazione di occupazione”. La seconda tematica è il così detto deficit democratico dell’Ue, la nota tesi secondo cui il potere legislativo comunitario sarebbe nelle mani di enti e persone non “direttamente elette dal popolo” e, perciò, mancante di legittimità.
In questo articolo cercheremo di spiegare le ragioni e le sfaccettature della seconda tematica tramite un’interpretazione filosofica delle problematiche di cui il primo tema si occupa.
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Per disegno o per errore? Il neoliberismo e la politica economica
Riflessioni su un recente libro di Alessandro Vercelli
di Massimo Di Matteo
Massimo Di Matteo riflette sulle idee eterodosse di Alessandro Vercelli contenute in un suo recente volume. Dopo aver sottolineato l’importanza della distinzione tra libertà positiva e libertà negativa nella lettura di Vercelli, Di Matteo si sofferma sulla critica che egli muove alle riforme neoliberiste, sul nesso fra di esse e la crisi economica e sui limiti che le regole dell’Unione Europea pongono all’adozione delle misure più adeguate di politica economica per affrontare gli effetti deteriori della globalizzazione e della finanziarizzazione
“Crisis and Sustainability. The Delusion of Free Markets”, pubblicato da Palgrave, è una summa del lavoro di Alessandro Vercelli, studioso originale ed eterodosso. Il libro – che ripropone,collocate in maniera appropriata, alcune delle sue idee elaborate precedentemente in contesti diversi – è ampio (329 pagine) e complesso ma la sua architettura è lineare e la ricchezza delle argomentazioni non fa perdere di vista il filo conduttore dell’analisi. E’ un libro impegnativo che spazia da argomenti filosofici e metodologici a quelli economici e ambientali e propone una visione sulla cui base è possibile costruire una teoria economica alternativa a quella dominante. Tale visione si incentra sulla piena valorizzazione del concetto di libertà positiva in tutti i suoi aspetti. Quest’ultima si può definire come la libertà di un soggetto di agire per conseguire i propri scopi, mentre la libertà negativa è semplicemente la libertà da specifici vincoli che gravano sulle azioni di un individuo. Vercelli solleva altresì in questo lavoro alcuni cruciali nodi interpretativi che aggiungono ricchezza al volume. Lo scopo principale del lavoro è quello di dar conto del grande cambiamento intervenuto nella politica economica a seguito dell’avvento del neoliberalismo e delle sue conseguenze.
Il volume è articolato in tre parti. Nella prima, composta sua volta da tre capitoli, si esaminano criticamente alcune tesi fondanti del paradigma dominante che Vercelli definisce neoliberalismo. Successivamente viene criticata la fiducia che la maggior parte degli economisti ripone negli effetti benefici del libero commercio.
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Siria e Venezuela: trionfalisti morganatici
di Fulvio Grimaldi
Gira da sempre nella sinistra, specie in quella che cerca di restare autentica, rivoluzionaria, la tendenza che Mao esemplificò con la definizione della “tigre di carta”. Quanto fossero di carta capitalismo e imperialismo s’è visto da allora ad oggi, con il capitalismo che, a parte l’URSS, s’è addirittura mangiato il paese di Mao, Cuba, il Vietnam e con il socialismo che, per vederlo ancora sognato e auspicato, tocca aggirarsi per El Alto di La Paz, o in qualche quartiere proletario di Caracas, tipo il “23 De Enero”.
Nell’attualità questa realtà travisata in prodotto del desiderio si manifesta con grande evidenza in Siria e in Venezuela. Una storicamente incrollabile fiducia nella Russia, URSS o Federazione che sia, trascura completamente la realtà sul terreno in Siria e anche davanti alle evidenze di compromessi al ribasso, rispetto alla riconquista della sovranità e integrità territoriale da parte di Damasco, formula ardite e volontaristiche teorie che lascino intendere scaltre manovre di Putin di aggiramento del nemico. Si torna a sentire l’antico mantra: tempo al tempo. Intanto Netaniahu bombarda impunemente siti strategici e trasporti cruciali, senza che entrino in funzione i celebrati S300 o S400 russi o siriani, vaste zone di confine e nel cuore del paese sono affidate (pro tempore, ad perpetuum?) a coloro che hanno eseguito il mandato di sgozzare o espellere il maggior numero di siriani e di frantumarne l’unità,
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«Il popolo è una costruzione»
Intervista a Jacques Rancière
Questa intervista, rilasciata prima delle recenti elezioni presidenziali francesi, è stata pubblicata sul numero 3 della rivista Ballast, che ringraziamo per avere concesso l’autorizzazione a tradurre.
Con la consueta radicalità, Il filosofo francese affronta qui i temi del popolo e della democrazia già discussi in libri come La Haine de la démocratie o il più recente En quel temps vivons-nous. Rancière sostiene qui che “il popolo non è la massa della popolazione”, ma “una costruzione”. Il popolo “non esiste, è costruito da discorsi e atti. Occupy, le Primavere arabe, gli Indignati, piazza Syntagma a Atene, i movimenti dei sans-papiers – continua l’autore de La Mésentente -, tutto ciò fabbrica un certo popolo di anonimi. E questo popolo è quello della democrazia: un popolo che manifesta il potere di non importa chi”. (Traduzione di Alessandro Simoncini).
La nozione di democrazia è onnipresente nel suo lavoro. Blanqui pensava tuttavia che democrazia fosse una parola “di gomma”, estremamente vaga e recuperabile. Perché lei tiene tanto a questo termine?
Perché esista politica, bisogna che ci sia un soggetto specifico della politica. Questa è la mia idea fondamentale. Non bastano persone che governano e altre che obbediscono. È la grande separazione iniziale tra l’arte dell’allevamento e la politica: quest’ultima presuppone che la stessa persona che governa sia governata. È questo che mi è sembrato importante per definire il rapporto tra democrazia e politica. Perché ci sia politica bisogna che ci sia qualcosa che si chiama popolo: il popolo deve essere l’oggetto su cui verte l’attività politica e, al contempo, il soggetto di questa stessa attività. In tutti i modelli ordinari dell’“arte di governare” si presuppone una certa asimmetria: c’è una massa da gestire e coloro i quali hanno la capacità di gestirla – la legittimazione del potere funziona così. All’origine, “Democrazia” non è il nome di un regime politico ma un insulto: è il governo delle nullità, della canaglia.
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Diego Fusaro, Pensare altrimenti
di Giovanni Dursi
Il recente volume “Pensare altrimenti” di Diego Fusaro va letto, discusso collettivamente, soprattutto con i giovani, interpretato e commentato. Perché, in questo contesto storico e sociale turbolento e gravido di serie minacce che possono ulteriormente far regredire verso forme tecnocratiche neo-autoritarie l’ordine capitalistico mondiale, esprimere questa necessità? Prioritariamente, perché è un libro chiaro nell’esposizione; è un testo didascalico. Non è da trascurare lo stile con il quale l’autore argomenta «l’annullamento del dissenso, con annessa uniformazione integrale del sentire e del pensare» (op. cit. pag. 29), mentre «sotto il cielo domina graniticamente il pensiero unico del consenso di massa [ … ]» il quale «predica in maniera compulsiva l’intrasformabilità del mondo [ … ]» (op. cit. pag. 46); la foggia della scrittura è tale da rendere comprensibile a tutti il ragionamento, anche a chi è in fase evolutiva e necessita d’apprendere (in questo caso, il target ideale della comunicazione culturale veicolata da “Pensare altrimenti” è costituito dagli studenti delle scuole secondarie di secondo grado ed universitari – guidati filologicamente nella lettura – che necessitano di imparare a guardare in modo critico e fondato alla condizione umana ed al mondo attuale) ed incrementare l’abilità che consente d’analizzare in modo oggettivo le informazioni disponibili, valutare e interpretare dati e esperienze al fine di giungere a conclusioni chiare e solide.
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La retorica dell'eccellenza
di Alberto Bagnai
Il dibattito cui non avete potuto assistere a Maratea, per il quale ringrazio ancora la MADEurope Summer School e in particolare Riccardo Realfonzo, ha toccato in relativamente poco tempo (nonostante fosse quasi il doppio di quello inizialmente previsto: ma il pubblico non si è annoiato) una serie di temi cruciali. Io ho poca memoria, ma due osservazioni di Roberto Pizzuti mi sono rimaste particolarmente vivide in testa, se non altro perché le aveva già fatte in occasione della presentazione del mio primo libro a Roma.
La prima non merita una discussione molto ampia (anche se ovviamente sono disposto a confrontarmi con Roberto su questo laddove lui lo desideri): è l'idea che siccome "fuori" ci sono i mercatoni cattivi (per definizione), abbiamo bisogno di uno Statone buono che ci protegga, che li contenga, e questo Statone sarebbe l'Europa (in attesa di essere, si presume, il Mondo). In questo blog abbiamo dato spazio alle riflessioni di scienziati politici e ai dati di fatto. Il dato di fatto è che concentrare a Bruxelles poteri politici facilita i compiti delle lobby, e che nulla ci garantisce che lo "Statone" che creiamo operi nel nostro interesse, piuttosto che nell'interesse delle diverse decine di burocrati tedeschi che lo infestano.
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Foto dal finestrino
di Il Lato Cattivo
Introduzione
Nel corso dei quattro incontri dedicati alla presentazione del secondo numero de «Il Lato Cattivo», abbiamo tentato di delineare a larghi tratti i contenuti della rivista, nonché l'orientamento generale da cui questi discendono, nel modo il più possibile sintetico e adeguato all'esposizione orale. La forma stessa dell'incontro pubblico ha imposto un lavoro di scrematura sui materiali di partenza; ne è risultato un digest sicuramente schematico e alquanto impoverito: per dire tutto ciò che avremmo voluto, sarebbe occorso un giorno intero; e per dirlo nella maniera più soddisfacente, avremmo dovuto ricorrere ancora una volta alla parola scritta, che avrà pur tanti difetti, ma permette un margine di riflessione e una ricerca della giusta formulazione, che la parola parlata non concede. L'esercizio si è rivelato comunque stimolante. Sicuramente lo è stato per chi ha preparato ed esposto, e – si spera – anche per chi ha avuto la pazienza di ascoltare. Ad ogni modo, la traccia iniziale è stata ulteriormente rielaborata tenendo conto, da un lato, delle evoluzioni più recenti avvenute a vari livelli e, dall'altro, degli interventi fatti da alcuni compagni nel corso degli incontri – domande e osservazioni per le quali ci è parso di dover apportare ulteriori chiarimenti e precisazioni, o semplicemente ribadire per iscritto le risposte già date in sede di presentazione. Ciò che segue è quindi un piccolo condensato degli incontri di novembre 2016 (Torino e Milano) e marzo 2017 (Roma e Viterbo), di ciò che vi è stato detto e delle reazioni suscitate. In definitiva, ci auguriamo che risulti fruibile tanto per chi c'era, quanto per chi non c'era.
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Industria 4.0, una lettura controcorrente
Roberto Romano
Il processo indotto dalla trasformazione di Industria 4.0 è bidirezionale e non unidirezionale. La robotica è solo un pezzo del paradigma. E la politica economica e industriale giocheranno un ruolo fondamentale
Industria 4.0 e la Storia
Il capitalismo è una particolare organizzazione della società; questa (società) evolve e cambia nel tempo perché con il passare “del tempo” muta la domanda, il salario di sussistenza, la tecnica e, infine, il contenuto del capitale e del lavoro. Sebbene Industria 4.0 possa sembrare qualcosa di inedito e paradigmatico, la storia del capitale e dello sviluppo ci ricordano che “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”(Marx[1]). Più in particolare, “La borghesia non potrebbe sopravvivere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali”.
Sebbene l’elenco delle potenziali innovazioni afferenti a Industria 4.0 sembrino rivoluzionarie, queste lo sono nella misura in cui adottano tecniche che nella classificazione (aggiornata[3]) di Freeman e Soete (1997) precedono il paradigma della Green Economy che, nel silenzio più assordante, sembra scomparsa dal dibattito economico e politico.
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L’illusione di essere élite
di Anna Momigliano
Ritratto della classe aspirazionale, tra meccanismi di compensazione, negazione e lotta di classe anagrafica
Quando mia figlia ha finito la prima elementare, un genitore della classe ha proposto di fare la cena di fine anno in un all you can eat: che bella idea, ho risposto, non avendo io mai messo piedi in un all you can eat. Poi, però, giunta al ristorante, mi sono bastati pochi minuti per sentirmi fuori posto: tutto mi sembrava triste e pacchiano e insensato. Abbiamo mangiato del pessimo sushi e ogni adulto ha sborsato trenta euro, più o meno la stessa cifra che spendo per mangiare decentemente. Prima, quando uscivamo con qualche compagno di classe, andavamo in qualche hamburgheria nobilitata (nella nostra zona ce ne sono tre, di cui due in aree pedonali dove si possono sguinzagliare i bambini) oppure a farci un brunch domenicale, tutte operazioni altrettanto economiche e meno alienanti. Il fatto è che nell’ultimo anno abbiamo cambiato scuola, spostandoci molto più lontano dal centro di Milano, ed è stato un cambiamento antropologico prima ancora che geografico.
Nella materna all’interno della cerchia dei navigli che frequentavamo, le mamme giovani vestivano Muji e Petit Bateau, le tate dispensavano gallette di riso e frutta biologica, e all’uscita si affollavano curatissime nonne in bicicletta. Nella nuova scuola il tasso di babysitter è calato, i bambini fanno merenda con le Camille del Mulino Bianco, le mamme più curate sfoggiano fondotinta opachi e bauletti firmati. È cambiato il contesto socio-economico, ma non è soltanto una questione di reddito: certo, le famiglie del centro tendono a essere più benestanti, però non è sempre così.
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Capitalismo concreto, femonazionalismo, femocrazia
George Souvlis intervista Sara R. Farris*
George Souvlis: Potresti presentarti descrivendo le esperienze formative (accademiche e politiche) che più ti hanno influenzato?
Sara Farris: Sono cresciuta in un piccolo paese di 12.000 persone in Sardegna. Lì mi sono politicizzata ed è sicuramente in quel periodo – tra i 12 e i 18 anni di età – che ho vissuto alcune delle più importanti esperienze politiche ed accademiche della mia vita. Vengo da una famiglia di operai; come molti della loro generazione, i miei genitori hanno investito molto nell’educazione per assicurare mobilità sociale alle loro figlie. Inoltre, sono cresciuta in una famiglia in cui il dibattito politico – o meglio – i monologhi di mio padre su avvenimenti di politica interna ed internazionale erano di routine durante la cena. Mio padre era in qualche modo socialista, credeva fermamente nella giustizia sociale ma era molto scettico circa la possibilità che i lavoratori – per come li conosceva lui – sarebbero stati in grado di apportare qualche tipo di cambiamento sociale.
Ad ogni modo, quel che cerco di dire è che l’ambiente familiare mi ha sicuramente esposto all’importanza dello studio e alle idee di sinistra. Successivamente ho frequentato il liceo classico nel mio paese.
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Filosofia della precarietà del filosofo odierno
Recensione di ‘Filosofia precaria’ di G. Stamboulis
di Francesco Brusori*
Giorgio Stamboulis, Filosofia precaria, il Vicolo, Cesena 2017
Il saggio di Giorgio Stamboulis introduce subito un quesito stringente, che richiede un ingresso ex abrupto del cogito:«cos’è oggi la filosofia?» (p. 13). E altrettanto violentemente si scarica la risposta: «una grande assenza» (ibid.). Infatti sembra che eminentemente ‘contemporaneo’ sia il problema della filosofia, ovvero il fatto che la filosofia stessa costituisca una grande problematica.
Seguendo l’autore, è evidente che lo status proprio della filosofia versi in una condizione critica. Essa, oggigiorno, si presenterebbe quasi del tutto schiacciata dall’immane peso del suo aulico passato e pronta a soccombere dinnanzi all’orizzonte futuro. Forse perché d’altronde un sapere troppo vasto annienta con la stessa naturalità con cui una tradizione troppo venerabile finisce per immobilizzare ogni intento. In una tale situazione non resta che il naufragio. O meglio: di fronte alla grandezza vincolante del trascorso, risulta – per parafrasare un celebre verso di G. Leopardi – «dolce il naufragar» nel mare magnum dell’avvenire, nel quale però si penetra senza alcuna guida capace di indicare la via nel nuovo stato di cose. E la perdizione della coscienza filosofica non può che avvenire nella persona del filosofo.
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“Prima bisogna vincere nel senso comune della gente”
Pablo Iglesias intervista Alvaro Garcia Linera
Pubblichiamo questa lunga intervista di Pablo Iglesias, portavoce di Podemos, con il Vicepresidente della Bolivia, Alvaro García Linera nella nota trasmissione “Otra vuelta de tuerka”. Un’intervista con molte idee e contributi per chi osa guardare, vedere e modificare la realtà. Un viaggio tra esperienze rivoluzionarie concrete e formazione delle idee necessarie per cambiare le cose, senza schematismi ma tenendo la barra dritta sul progetto rivoluzionario. Una intervista-conversazione che aiuta a comprendere come si sono formati i gruppi dirigenti rivoluzionari in America Latina negli anni ’90 e che oggi, in Bolivia come in Venezuela, sono uomini alla guida di governi popolari.
* * * *
Pablo Iglesias: Il nostro ospite di oggi è matematico, è stato guerrigliero, è stato in carcere ed è uno dei pensatori marxisti più dotati dell’America Latina. È anche vicepresidente della Bolivia. A “Otra Vuelta de Tuerka” : Álvaro García Linera. Álvaro García Linera, grazie per essere venuto a “Otra Vuelta de Tuerka”, compagno.
Álvaro García Linera: Pablo, grazie per l’invito. Per me è un gran piacere partecipare al tuo programma.
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Paradossi del mondo attuale: l’impraticabilità dei trattati globali nell’era della mondializzazione
di Gianfranco Greco
“Immagino l’economia mondiale come qualcosa
di simile a un’auto in corsa senza
conducente e bloccata su una corsia lenta.”
(David Stockton, ex burocrate della FED)
Stando alle considerazioni di Stockton è giocoforza ritenere come la narrazione propinata a suo tempo al mondo tutto non abbia retto alla verifica dei fatti; dal che consegue che la mitica spinta propulsiva della globalizzazione pare essersi già esaurita. Destino infame quello delle “spinte propulsive” destinate – come ogni cosa terrena, d’altronde – all’usura del tempo.
Erano di tutt’altro avviso tuttavia, a suo tempo, gli apologeti della New Economy per i quali la progressiva abolizione delle barriere commerciali, la crescente mobilità internazionale dei capitali, la liberalizzazione del mercato del lavoro, in una: le politiche di deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazione si sarebbero tradotte in una progressiva integrazione economica tra paesi, unitamente all’ineludibile corollario di una crescita senza fine a livello globale . Una visione ottimistica e semplificante prendeva il posto della complessità irriducibile delle cose.
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Le cronache del nostro scontento II
2013, il bis di “re Giorgio” e quell’austerità “che fa male”
di Giorgio Gattei
Qui la prima parte
1. Le elezioni politiche del 2013 non hanno fatto vincere il PD che, pur risultando il primo partito, per formare un nuovo governo in sostituzione di quello dimissionario di Mario Monti si dovrebbe accordare col PdL oppure col Movimento5Stelle. Ma con quale dei due? E’ una situazione inedita che Jim O’Neill della Goldman Sachs si azzarda ad interpretare a pro’ del “partito” di Grillo, il che potrebbe anche essere «l’inizio di qualcosa di nuovo» (R., 2.3.2013). Però, a gelar subito l’entusiasmo, provvede Mediobanca in un rapporto ai suoi investitori, dal titolo esemplare La tempesta perfetta, invitandoli a non trasformare «la commedia all’italiana in una tragedia greca». Forse è meglio stare alla finestra in attesa che se la sbrogliasse il Capo dello Stato, dando una probabilità del 15% all’accordo PD-M5S, del 10% al ritorno alle urne e del 70% all’alleanza PD-PdL (R., 27.2.2013).
Contemporaneamente va in scadenza il settennato di Giorgio Napolitano e si apre un vuoto di presenza al Quirinale. Si decide che dapprima si sostituisca il Presidente della Repubblica e poi sia lui a indicare il successore di Monti, il cui governo nel frattempo viene congelato. Però non è una cosa facile far salire al Colle il candidato prescelto dal PD se il primo, Franco Marini, viene “impallinato” il 18 aprile al primo scrutinio dal suo stesso partito.
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Una scuola militante
di Girolamo De Michele
Nei giorni scorsi, Alberto Asor Rosa ha scritto un breve, ma denso elzeviro sullo stato presente del sistema scolastico, il cui titolo è inequivoco: “La scuola nelle mani dei barbari”.
Dopo aver stigmatizzato nel merito e nelle motivazioni la sperimentazione del “liceo breve” che prende l’avvio in questi giorni – «la riprova che siamo nelle mani dei barbari. Anzi, più esattamente, di barbari incolti» –, ricordato che «la spesa d’investimento nella cultura e nella formazione è drammaticamente sempre più bassa in Italia», e sottolineato come sia incongruo il presupposto che l’accorciamento del percorso scolastico troverebbe giustificazione in un raccordo col mercato del lavoro, Asor Rosa va al cuore del problema, chiedendosi a cosa serve la scuola media superiore.
Dopo anni nei quali prima si ridimensionava la scuola, e poi la si accusava di non riuscire a svolgere il proprio compito – ragione per ulteriori ridimensionamenti punitivi, in un circolo vizioso nel quale non distingui più ministro e governo “di destra” e “di sinistra” – è rinfrescante, quantomeno per la mente, vedere che qualcuno è ancora capace di rimettere il problema sui propri piedi, e questi su un suolo saldo.
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La ragione neoliberista e i suoi critici
Al tempo della Globalizzazione
di Giorgio Mele
La fine del compromesso socialdemocratico e il mercato globalizzato mettono in discussione uguaglianza e democrazia. La crisi aperta dal 2008 svela i limiti del modello, ma non emerge ancora un'alternativa di sistema. Le diverse analisi critiche e le proposte di intervento elaborate da Picketty, Stiglitz, Rosanvallon, Streeck, Dardot e Laval
Quali sono gli elementi che caratterizzano questa epoca detta della globalizzazione neoliberista?[1].
A me sembra che si possano riassumere in questo modo: a) il dominio del mercato; b) l'eclissi della uguaglianza; c) la crisi della democrazia; d) la scomparsa di un disegno alternativo allo stato di cose presente.
Come evidente i quattro elementi non possono essere presi singolarmente, ma sono profondamente intrecciati fra loro e tutti concorrono al dominio del neoliberismo che si presenta non solo come la potenza, dominante, ma come la struttura naturale del mondo, o meglio, la ragione[2] del mondo.
Marx nella Ideologia tedesca nel 1845 scrive con qualche capacità previsionale e come se parlasse a questo secolo: "Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto Spirito del mondo, Weltgeist, etc.) a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale".[3]
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Il referendum catalano svela le ambiguità di Podemos e Colau
di Marco Santopadre
Dopo aver incubato per alcuni anni, nei giorni scorsi la maggioranza indipendentista del Parlament – i liberal-conservatori del PDeCat, i socialdemocratici di Erc e la sinistra radicale della Cup – ha dato avvio ad un processo di ‘disconnessione’ politica ed istituzionale da Madrid e dalla sua legalità attraverso l’approvazione di due importanti leggi.
La prima convoca il Referendum per il 1 Ottobre, istituisce una commissione elettorale catalana, formula il quesito (che sarà in tre lingue: catalano, castigliano e aranese) e chiarisce i criteri di selezione degli aventi diritto al voto. Il secondo provvedimento stabilisce invece i caratteri e le forme della fase di transizione che seguirebbe ad una eventuale affermazione dei Sì: la proclamazione di una Repubblica Catalana e poi l’entrata in vigore di una Costituzione provvisoria improntata ad una sostanziale continuità con quanto stabilito dall’attuale Statuto di Autonomia, prima che un’Assemblea Costituente ne approvi una versione definitiva.
Ovviamente i partiti nazionalisti spagnoli – popolari, socialisti e Ciudadanos – e gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di permettere la celebrazione del voto popolare, non riconoscono ai catalani il diritto all’autodeterminazione.
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