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Intelligenza artificiale: dannazione o liberazione del lavoratore?
di Carlo Lozito
Si annuncia la rivoluzione dell'IA, peraltro già avviata da oltre 20 anni con lo sviluppo di Internet e del web. Sarà una rivoluzione che peggiorerà le già deteriorate condizioni di vita dei lavoratori aprendo scenari sociali di potenziali conflitti i cui esiti sono al momento imprevedibili. Essa fa intravedere, per la prima volta nella storia, la possibilità concreta di far lavorare le macchine al posto degli uomini e di liberarli dalla dipendenza dal lavoro coatto
Meno si è meno si esprime la propria vita;
più si ha e più è alienata la propria vita.
Karl Marx
Siamo alla quarta rivoluzione industriale. Il capitalismo, finora, è riuscito a dare un impulso senza precedenti allo sviluppo delle forze produttive che, in poco più di due secoli, ha trasformato profondamente la società. Se guardiamo oltre l'apparente progresso, tanto sbandierato dagli apologeti del capitalismo, constatiamo un disastro sociale ed ambientale senza precedenti storici. Oggi le più colpite sono le giovani generazioni addirittura private della possibilità di progettare il loro futuro tanto è precaria la loro condizione lavorativa ed esistenziale. I fenomeni di karoshi e ikikomori, presenti in Giappone e sempre più frequentemente in Occidente, sono un segno dei tempi che viviamo1.
Mentre si realizzano le strabilianti nuove macchine dell'intelligenza artificiale (in seguito IA), rese possibili dallo sviluppo sviluppo scientifico senza eguali, viviamo contraddizioni spaventose. Alcuni uomini, le ricerche ci dicono siano otto (!), possiedono una ricchezza pari a quella della metà della popolazione mondiale più povera mentre la maggior parte dell'umanità vive la condizione di un'esistenza minacciata quotidianamente dalla precarietà, dall'incertezza, dalla faticosa lotta per conquistare il minimo vitale.
Ora si annuncia la rivoluzione dell'IA, peraltro già anticipata da oltre 20 anni con lo sviluppo del mercato globale, di Internet e del web, destinata nel volgere di un paio di decenni a porre sfide decisive all'intera società.
IA: una breve panoramica.
Non possiamo fare un'estesa disamina delle nuove macchine dotate di IA. Diciamo solo che esse incorporano e svolgono molte delle funzioni umane, anche complesse. Ne accenneremo solo, indicando nelle note all'articolo i link ai video in rete che le mostrano.
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La storia della terza rivoluzione industriale
3 - L’abdicazione dello Stato
di Robert Kurz
Pubblichiamo il terzo capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Se paragonato all’oggettività della «crisi della società del lavoro», delineatasi negli ultimi due decenni del XX secolo, il «consenso globale sull’economia di mercato», costituitosi con forza in quello stesso periodo, andrebbe giudicato solo come un sintomo della sempre più grave incapacità mentale delle istituzioni capitalistiche e dei relativi rappresentanti ideologici. Questa cecità di fronte alla realtà, un vero e proprio flagello collettivo, può essere spiegata in parte con la specifica costellazione della storia del dopoguerra.
Sul piano della teoria economica e su quello politico la dottrina keynesiana era riuscita ad imporsi con forza come reazione alla Grande depressione dell’epoca tra le due guerre; nella contrapposizione tra i sistemi con il blocco orientale essa caldeggiò la concessione di misure sociali. Inoltre perlomeno un settore delle élite funzionali capitalistiche era giunto alla conclusione, collegata più o meno saldamente al keynesismo, che il «consumo di massa di investimento» di beni di consumo durevoli fosse ormai un’architrave del sistema e dovesse quindi essere garantito dallo Stato. per questa via fu certamente possibile procrastinare il boom fordista oltre i suoi limiti interni. Ma come si intervenne allorché divenne chiaro che il sistema monetario iniziava nuovamente ad essere afflitto da un’inflazione drammatica e che quindi anche il keynesismo aveva fallito? Si ritornò al passato definendolo progresso.
Infatti il pensiero capitalistico, accanto al classico liberalismo economico – che risaliva ai fisiocratici, a Smith, Ricardo e Say – aveva prodotto solo la dottrina di Keynes (oltre che, in un ramo collaterale, il capitalismo di Stato integrale della «modernizzazione di recupero») come sintesi delle tendenze verso l’economia controllata dallo Stato a partire dal tardo XIX secolo, e in questo modo aveva esaurito ogni freccia al suo arco. Sul terreno del modo di produzione capitalistico non esiste una terza possibilità.
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Le Tesi agrarie di Lenin al II congresso del Komintern
di Enrico Galavotti
Premessa
Rivolte al II Congresso dell'Internazionale comunista, le Tesi agrarie1 furono scritte da Lenin nel giugno 1920, quando ormai gli restavano pochi anni di vita. I destinatari sono quindi i delegati dei partiti comunisti del mondo intero, i quali rappresentavano, in quel momento, gli interessi del proletariato urbano e industriale. La rivoluzione socialista, contro le sue aspettative, era risultata vincente solo in Russia, il Paese più debole di tutti quelli capitalistici.
Lenin non può più considerare il proletariato urbano come una classe che in sé è migliore dei contadini, altrimenti sarebbe difficile spiegare il motivo per cui in Europa occidentale, dopo l'Ottobre, non sono stati compiuti analoghi rivolgimenti contro il sistema dominante (i pochi realizzati furono facilmente travolti dalla reazione borghese). Ormai è in grado di vedere anche i forti limiti di questa classe (almeno di una sua parte) e soprattutto i limiti, ancora più grandi, di chi rappresenta il peggio di questa classe, i parlamentari e i sindacalisti socialdemocratici, politicamente riformisti. Sta cominciando a capire che per realizzare il socialismo non basta appartenere alla classe degli sfruttati: ci vuole anche una forte volontà emancipativa e una chiara consapevolezza dei veri problemi della società. E queste cose possono averle anche i contadini, gli impiegati, gli intellettuali, ecc., i quali, anche se oggettivamente sono piccolo-borghesi, possono elevarsi ideologicamente al di sopra dei limiti della loro classe d'appartenenza.
Sono sfruttati tutti coloro che non dispongono di proprietà privata, ma come distinguere, tra questi nullatenenti, quelli che hanno atteggiamenti davvero rivoluzionari? È sufficiente prendere in considerazione i livelli degli stipendi e dei salari? Più sono bassi, infimi, e più uno dovrebbe maturare uno spirito eversivo? Purtroppo non c'è un nesso logico, oggettivo, tra le due cose. Non è detto che le rivoluzioni socialiste vengano fatte da chi sta peggio economicamente.
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Le contraddizioni del governo giallo-verde e del suo blocco sociale
di Domenico Moro
Relazione al convegno Eurexit, Roma 13 aprile
La situazione politica europea risulta profondamente mutata rispetto soltanto a pochi anni fa. Anche se le modifiche sono particolarmente evidenti in Italia, in quasi tutti i Paesi dell’area euro si è assistito alla crisi del sistema bipolare/bipartitico, che ha caratterizzato l’assetto politico continentale per parecchi decenni.
I partiti europei afferenti alle due principali famiglie politiche continentali, quella dei popolari (Partito popolare europeo) e quella dei socialisti (Partito socialista europeo), hanno subito un declino più o meno grave. I voti sono andati in parte all’astensionismo, che è cresciuto a livelli quasi statunitensi, e in parte al cosiddetto populismo. Il termine di populismo, però, è a mio parere poco preciso e direi anche fuorviante, perché al suo interno sono comprese forze politicamente e ideologicamente in alcuni casi diverse tra loro, e con basi di massa e di classe anche diverse. Per questa ragione preferisco usare il termine di terze forze, ad indicare la loro terzietà rispetto al tradizionale bipolarismo/bipartitismo.
La crisi del bipartitismo è il risultato del combinato disposto della cosiddetta “stagnazione secolare” e dell’austerity imposta dall’Ue, che ha distrutto il compromesso tra capitale e classi subalterne che esisteva dal secondo dopoguerra. Va, però, sottolineato che non si tratta di effetti automatici dei rapporti di produzione, perché quella in atto è una riorganizzazione, soprattutto mediante l’integrazione europea, del sistema delle imprese (centralizzazioni proprietarie, riposizionamento su settori più profittevoli e internazionalizzazione della produzione), nonché della struttura sociale e del sistema politico. Queste trasformazioni vanno a colpire pesantemente, trasformandola, anche la composizione di classe della società italiana.
Classi e crisi
Ad essere colpito, si dice, è il cosiddetto ceto medio. Per la verità anche questo termine è ambiguo e portatore di confusione perché comprende al suo interno classi diverse che hanno una diversa collocazione all’interno della divisione del lavoro sociale – criterio cardine dell’appartenenza di classe.
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Sull'autonomia del politico di Tronti
di Toni Negri
Debbo confessare il mio imbarazzo nel discutere questo volume di scritti di Mario Tronti, complessivo della sua vita di studioso e militante. Quando ero giovane, non troppo tuttavia, attorno alla trentina, Mario m’insegnò a leggere Marx. Assunse molte responsabilità, facendolo – ed io gliene sono ancora grato. A partire da questa lettura, mi dedicai ad una vita militante. Ma nel 1966, sei o sette anni dopo quell’incipit, consegnandoci Operai e capitale, Mario ci lasciò – non dico “mi” ma “ci”, perché nel frattempo erano divenuti tanti gli “operaisti” presenti non solo nelle università quanto, soprattutto, nelle grandi fabbriche del nord Italia. Ci disse, nel 1966, che il decennio dei Sessanta era finito prima del suo termine e con esso il tempo dell’autonomia operaia, che bisognava trovare un livello più alto per le lotte che avevamo condotto e conducevamo, che bisognava portare la lotta nel Partito comunista italiano. Non era quello che già facevamo? Gli rispondemmo. Non fummo infatti, né allora né più tardi, insensibili al problema ed al compito di sviluppare politicamente le lotte operaie. Il fatto è che il Partito non lo gradiva affatto. Nel crescendo delle lotte operaia che doveva condurci al ‘68/‘69, non capimmo dunque perché lasciare a se stessa l’autonomia delle lotte. Mario disse allora che il ‘68 ci aveva definitivamente confuso. Secondo lui, avevamo preso per un’alba quello che invece era un tramonto. Ma quale tramonto? Certo, si annunciava la fine dell’egemonia dell’operaio-massa ma potevamo confonderla con quella della lotta di classe proletaria? Nel prolungarsi durante tutti gli anni ‘70 del lungo ‘68 italiano, quella conversione di Mario non poteva convincerci. Fu allora che smisi di leggere Tronti. Quando questo volume mi arrivò, mi accorsi che ne avevo già letto solo il primo terzo, due terzi mi restavano da leggere.
Certo, anche se non lo leggevo, Tronti non era assente dal mio quotidiano. In maniera stizzosa, ad esempio, lessi in quegli anni un saggio di storia del pensiero politico moderno che Mario pubblicò allora e che, ad uno spinozista quale stavo diventando, parve parziale e non certo grato nell’esaltazione senza riserve che ivi era fatta della teoria hobbesiana del potere.
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Divagazioni intorno al 25° capitolo del I Libro del Capitale
di Edoarda Masi (1927 – 2011)*
Abstract: This paper deals with Marx’s theory of colonization. It is argued that – in constrast with E.G. Wakefield’s view – Marx proposed a complete a consistent approach to the role of colonization in the dynamics of capital reproduction. In particular, he emphasized the transformation of free men in “underdeveloped” economies into wage workers.
1. Una lettura
Non riassumo il capitolo 25°, che è abbastanza breve e – mi sembra – di facile lettura. Marx è interessato a indagare come il capitale agisca sempre secondo la sua logica interna, e si propone qui di mostrare che nelle colonie si riproducono i suoi meccanismi fondamentali: specificamente, nella trasformazione di uomini liberi in salariati sfruttati. Per semplificare il discorso utilizza polemicamente un testo di E.G. Wakefield, un teorico della colonizzazione. Il discorso è chiaro e coerente, la sua logica incontestabile, una volta che si accettino i presupposti – per la verità non tutti accettabili (come quello che nelle terre da colonizzare il capitale trovi, all’inizio, liberi produttori).
Partire dal massimo livello di astrazione può valere contro la realtà storica? Al di là di questa logica, mi limiterò ad alcune osservazioni in certo senso fuori tema.
Quando Marx scrive queste righe, siamo in pieno Ottocento – il secolo nel corso del quale le terre emerse colonizzate degli europei passano dal 35% all’85%. È quanto meno singolare che un osservatore acuto (diciamo pure, un genio) come lui non si curi di questo evento macroscopico, una volta che abbia deciso di scrivere un capitolo sulla colonizzazione. Né si domandi per quali motivi tale fenomeno sia in corso, da dove parta e quali risultati produca nella madrepatria (cioè nel luogo centrale della sua indagine sul capitale).
Non solo. Come esempio di colonia sceglie gli Stati Uniti d’America, che da un pezzo hanno raggiunto l’indipendenza; anche se – come si precisa in nota – «economicamente parlando […] sono ancora terra coloniale dell’Europa».
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Quattro interventi sul fenomeno "Greta"
In direzione ostinata e contraria
di Pierluigi Fagan
Sulla questione ecologia-Greta, mi trovo in dissenso profondo con molti amici ed amiche con i quali, di solito, si hanno punti di vista comuni. Che fare? Lasciar perdere per non sfilacciare ulteriormente le già sparute file del pensiero critico, o far di questo dissenso un momento di dialettica interna al nostro stesso pensiero critico? La domanda è retorica in tutta evidenza, la scelta è già fatta. Perché?
Ho l’impressione, forse sbaglio e chiedo in sincerità di dibattere la questione tra noi con la ponderazione ed intelligenza tipica dei frequentatori di questa pagina, che noi si sia finiti in un setting di pensiero la cui matrice per altri versi siamo molto lucidi a criticare. Per ragioni che qui non possiamo affrontare, ad un certo punto del secolo scorso, già ai suoi inizi, si è andata manifestando nel pensiero, uno spostamento di asse. Tra la relazione soggetto – oggetto fatta dal pensiero, è emerso il problema dello strumento che ci fa comporre e scambiare il pensiero: il linguaggio.
Tralasciamo i riferimenti più o meno colti e passiamo al momento successivo, quando un filosofo francese minore, pone all’attenzione la natura narrativa di ogni discorso, narrazioni fatte di linguaggio. Il linguaggio è materia della forma discorsiva che influisce, limita, indirizza il discorso stesso ed in più, tutto è discorso. Penso nessuno possa sottovalutare l’importanza di queste osservazioni ormai patrimonio della nostra conoscenza. Per altro ci era già arrivato anche Eraclito, e non solo lui, qualche secolo fa.
Danno da pensare due cose. La prima è il venirsi a formare di una sorta di monopolio concettuale di questo fatto, tutti ormai parlano più o meno solo di questo, tutto è narrazione e contro-narrazione.
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Il sindacato complice
di coniarerivolta
Il poeta francese Charles Baudelaire affermava che “la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste”. I padroni hanno storicamente fatto tesoro di questa lezione, tanto da dotarsi di una teoria economica – il paradigma economico oggi dominante – che ha tra i suoi principali obiettivi quello di convincerci che, alla fine della fiera, non c’è alcuna contrapposizione e inconciliabilità tra gli interessi dei lavoratori e dei capitalisti. Ora, chiunque abbia lavorato anche solo una settimana in vita sua, chi è disoccupato o sottoccupato, sa benissimo che questa è una menzogna bella e buona, utile solamente a tenere al riparo proprio i capitalisti da noiose rivendicazioni. Una cosa apparentemente così banale e di buon senso deve essere sfuggita ai sindacati confederali i quali, dopo tanto parlare di partito del PIL ed armonia sociale, decidono finalmente di fare il grande passo e lanciano un ‘Appello per l’Europa’ insieme alla principale organizzazione padronale italiana, Confindustria.
Un quadro idilliaco si apre di fronte agli occhi del lettore dell’appello, un universo dove siamo tutti sulla stessa bella barca, padroni e lavoratori, tutti con la fortuna di risiedere in una Unione Europea che viene presentata come “il progetto […] cruciale per affrontare le sfide e progettare un futuro di benessere per l’Europa che è ancora uno dei posti migliori al mondo per vivere, lavorare e fare impresa”.
La premessa dice già tutto. L’architettura europea è un valore di per sé e non necessita di alcuna riflessione critica. Chi ha scritto l’appello, chiaramente, non ha vissuto e non vive come un problema i vincoli di finanza pubblica e le politiche di austerità, che hanno causato il ritorno della disoccupazione di massa e il peggioramento materiale delle condizioni di vita di milioni di lavoratori. In tutto il testo, è presente solo un vago e impersonale riferimento a generiche “politiche di rigore”, senza neanche menzionare chi queste politiche di rigore le ha congegnate e imposte agli Stati membri, in particolare quelli della periferia europea.
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La globalizzazione democratica di Rodrik
di Vincenzo Russo
Nel suo nuovo saggio l'economista sviluppa le idee elaborate in questi ultimi anni e formula una serie di proposte per tentare di conciliare il ruolo dello Stato nazionale, che considera tutt'altro che esaurito, con un'economia per cui i confini non hanno più significato
La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.
Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri. Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei.
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Ernesto Laclau e i misteri del "politico"
A cinque anni dalla scomparsa del teorico argentino
di Damiano Palano
A cinque anni dalla morte di Ernesto Laclau, scomparso prematuramente il 13 aprile 2014 a Siviglia, Maelstrom ne ripropone questo ricordo, che allora venne pubblicato sul sito dell'Istituto di Politica
L’improvvisa scomparsa di Ernesto Laclau, avvenuta il 13 aprile scorso a causa di un attacco cardiaco, priva la teoria politica contemporanea di uno dei suoi più originali protagonisti. Anche se in Italia la riflessione di Laclau ha iniziato solo da pochi anni a essere conosciuta e discussa, le sollecitazioni che lo studioso argentino ha sottoposto alla discussione teorica hanno avuto un ruolo fondamentale nel riportare al centro il nodo del ‘politico’ e della sua autonomia. E anche se la proposta delineata da Laclau ha incontrato nel corso del tempo critiche spesso molto dure, la sua operazione di ‘decostruzione’ della categorie teoriche del marxismo rimane senza dubbio un punto essenziale per la riflessione contemporanea, così come la teoria del populismo, precisata nei suoi contorni nell’ultimo decennio, ma elaborata nel corso di un’intera carriera di studio.
La carriera accademica di Laclau si svolse quasi esclusivamente all’interno del mondo universitario britannico (e in special modo all’Università di Essex, dove insegnò Teoria politica dal 1973 e dove diresse il Center for Theoretical Studies in Humanities and Social Sciences dal 1990 al 1997), ma lo studioso argentino conservò sempre un legame molto stretto con il paese d’origine. La sua riflessione teorica può infatti essere considerata come un tentativo di comprendere un fenomeno – indecifrabile con le categorie politiche del Vecchio continente – come il «peronismo». Tanto che, per molti versi, tutta la sua ricerca intellettuale può essere considerata come un tentativo di rispondere a quei problemi – teorici e politici – in cui Laclau si era imbattuto negli anni della sua militanza giovanile nel movimento socialista argentino.
Nato nel 1935, Laclau aderì infatti già nel 1958 al Partido Socialista Argentino (Psa), assumendo anche un ruolo di leadership all’interno della componente di sinistra del movimento studentesco dell’Università di Buenos Aires. Nel 1963 entrò nel Partito Socialista de la Izquierda Nacional (Psin), un partito di orientamento trotzkista guidato da Jorge Abelardo Ramos, e proprio all’interno di questo gruppo Laclau assunse un ruolo politico di primo piano, anche perché gli venne affidata la direzione del settimanale «Lucha Obrera», oltre che della rivista teorica, «Izquierda Nacional».
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La distopia della "Confederazione europea
di Moreno Pasquinelli
Premessa
Non fu solo perché il campo del "sovranismo" era oramai saldamente colonizzato dalle destre nazionaliste-xenofobe che noidecidemmo un anno fa di definirci sinistra patriottica — spiegammo quindi cosa ciò significhi per noi.
Un sintagma, quello di sinistra patriottica, dirimente, e non solo dal lato di quelli che ci considerano "rossobruni" (poiché impugniamo la questione della sovranità nazionale), lo è pure nell'area della variopinta sinistra-più-o-meno-no-euro. Questa sinistra, al netto di tutto il resto, è infatti divisa. Ci sono al suo interno, non vi sembri un paradosso, non solo quelli che considerano oramai obsoleta e fuori corso la dicotomia sinistra-destra —avemmo modo anni addietro di spiegare perché non lo fosse affatto—; ci sono coloro che hanno del tutto rimosso la centralità della sollevazione popolare — senza la quale secondo noi non ci si libererà da un bel niente e la riconquista piena della sovranità nazionale e democratica è una chimera. Ci sono infine coloro i quali, alla domanda "cosa proponete al posto dell'Unione europea?", rispondono: "una "Confederazione europea di stati sovrani". Proveremo a spiegare perché quella della "Confederazione europea" è una distopia, un miraggio, quindi uno slogan politico deviante.
Cos'è una confederazione?
Cos'è infatti una Confederazione? ce ne sono mai state? E se sì, che fin han fatto?
Così l'Enciclopedia UTET:
«Confederazione, unione organizzata permanente di stati, avente lo scopo della comune difesa esterna dei membri e del mantenimento della pace fra essi. Questa Unione, a differenza dello stato federale, che è un'unione di diritto interno, è un'unione di diritto internazionale, costituita cioè in base a norme di diritto internazionale, poste da un trattato o patto confederale, il quale costituisce il fondamento dell'unione. Ogni confederazione si costituisce fra un gruppo di stati confinanti, aventi interessi comuni nel campo dell'attività internazionale».
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La gestione dei flussi migratori come fattore di stabilizzazione al ribasso del valore della forza–lavoro e di divisione del proletariato
di Gianfranco Greco
“Trattiamo bene la terra perché essa non ci è stata lasciata dai nostri Padri, ma ci è sta data in prestito dai nostri Figli“ (proverbio indiano)
L’immigrazione, fenomeno inarrestabile e incontrollabile
Ben al di là di tutte le analisi portate avanti, delle teorizzazioni che sottendono a tali analisi, delle prese di posizione le più variegate, i pregiudizi innalzati come barricate con annesso corollario di xenofobia e razzismo, ad imporsi è un’unica lettura della realtà, quella che parla di una immigrazione incontrollabile e, in quanto tale, di un fenomeno inarrestabile.
Soltanto partendo da questa ineludibile constatazione si può far da argine ad un pensiero mainstream omologato e tarato o sui farfugliamenti di chi elabora soluzioni transitorie che, come tali, non possono che produrre effetti irrisori senza scalfire minimamente le criticità reali o rinfocolare contrapposizioni a carattere nazionalistico, xenofobo, razziale che altro non rappresentano se non quel processo di imbarbarimento e di degrado che accompagnano la crisi del sistema capitalistico internazionale.
Per essere ancor più chiari: finchè il capitalismo non verrà superato e non ci sarà, quindi, un totale ribaltamento di prospettiva il fenomeno dell’immigrazione permarrà come fenomeno inestricabile in quanto generato esso stesso da un sistema criminale che vede, tra le sue tante ed irrefutabili manifestazioni, una povertà sempre più diffusa a livello planetario, ripugnanti forme di schiavitù, la cappa sempre più soffocante di una guerra permanente con la quale milioni di persone condividono la loro quotidianità.
Una emigrazione massiccia e disordinata diventa quindi la sola via di fuga da livelli di violenza – in tutte le sue sfaccettature: guerre, dittature, terrorismo, condizioni climatiche e catastrofi varie - senza precedenti generando quell’afflusso di esseri umani disperati che già dai primi anni 2000 avevano indotto, secondo quanto scrive l’ex diplomatico italiano Enrico Calamai “ i paesi dell’Unione europea e della Nato ad includere l’arrivo in massa di migranti e richiedenti asilo nell’elenco dei pericoli da affrontare, alla pari del terrorismo, proliferazione nucleare e cyberwar, e gli effetti destabilizzanti che possono derivarne.”[i]
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Milosevic, l'ultima intervista prima dell'arresto
di Fulvio Grimaldi
Molti, dopo l'ultimo mio post sul XX anniversario dell'aggressione Nato alla Serbia, mi chiedono di ripubblicare l'intervista che feci a Milosevic il 25 marzo 2001, nella sua abitazione, pochi giorni prima del suo arresto e del successivo trasferimento nel carcere dell'Aja. Eccola. L'intervista fu rifiutata da "Liberazione", con il pretesto che avrebbe "appiattito il giornale e il partito (PRC) su Milosevic". La pubblicò poi il Corriere della Sera. E' lunga, ma ne vale la pena ed è per la Storia
L'appuntamento con Slobodan Milosevic ricorda quelli che ho avuto ripetutamente con Yasser Arafat: assoluta incertezza sul luogo e sui tempi dell'incontro fino alle 19 di venerdì sera, mentre mi accingevo a partire per Kragujevac per intervistare i dirigenti del sindacato di sinistra che hanno appena registrato una sorprendente, schiacciante vittoria sul sindacato vicino al nuovo potere, nelle elezioni per il rinnovo dei dirigenti sindacali della fabbrica automobilistica Zastava. In quel preciso momento arriva l'ex.ministro degli esteri e oggi vicepresidente del Partito Socialista Serbo, Zivedin Jovanovic, del quale pure era stato annunciato l'arresto, poi smentito, insieme a quello, effettivo, di otto alti dirigenti del partito. Vengo portato di gran carriera alla residenza dell'ex-presidente e nel tragitto Jovanovic esprime il timore che tutti questi arresti e una feroce campagna contro Milosevic, allestita dal movimento giovanile del premier Zoran Djindjic, le "Camicie Nere", insieme all'organizzazione Otpor, rivendicata dagli USA come proprio strumento insurrezionale, stiano cercando di fare il vuoto intorno a Milosevic, in vista dell'arresto entro il 31 marzo, intimato da Washington pena il rifiuto di qualsiasi finanziamento e il mantenimento delle sanzioni. Passati per la cancellata della residenza, nella periferia di Belgrado, attraversiamo un ampio parco, fortemente illuminato e presidiato da militari dell'esercito e da carri armati che mi dicono posti a difesa di Milosevic, contro un qualche colpo di mano che voglia arrivare alla sua cattura.
Sull'uscio di un fabbricato a un piano, l'ex-presidente jugoslavo mi viene incontro e mi saluta con cordialità. Vengo introdotto in un ampio salone di stile neoclassico, con al centro tre divani a ferro di cavallo. Milosevic si siede su quello centrale, con me e Jovanovic ai due lati. Chiede di non utilizzare apparecchi di registrazione e insiste che questa è una conversazione e non un'intervista. Ma mi consente di pubblicarla.
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La sanità, il Movimento 5 Stelle e il rischio privatizzazione
di Ivan Cavicchi
Chi ha votato per questo movimento di certo non l’ha fatto per fare il gioco delle assicurazioni e degli speculatori e meno che mai per farsi rubare da costoro i propri diritti. Da nessuna parte del programma di governo sta scritto che bisogna far fuori il Ssn e sostituirlo con il sistema multi-pilastro di berlusconiana memoria. Eppure…
Non so se ricordate l’ultimo mio articolo, quello che, per rispondere al prof. Spandonaro, ho scritto la settimana scorsa, sulle mutue (QS 25 marzo 2019).
Sostenevo che sino ad ora la sinistra di governo (Letta, Renzi, Gentiloni) ha esitato a istituire la “seconda gamba” perché tra le varie cose che impedivano tale eventualità, c’era anche un “dilemma morale”, legato al fatto che fare un cambio di sistema avrebbe avuto pesanti conseguenze negative sulle persone più deboli, sull’acceso ai diritti, sulle diseguaglianze.
Una ingenua speranza
In cuor mio speravo, confesso la mia ingenuità, che con un ministro 5 stelle, la possibilità di un ribaltone del genere, fosse improbabile anche se, con un inciso nel mio articolo non escludevo la possibilità, proprio con questo governo, che ciò potesse avvenire:
“Non escludo tuttavia che a un certo punto il “dilemma morale” possa essere superato proprio per disperazione finanziaria. Il rischio a cui andiamo incontro, a causa delle politiche ordinarie di questo anodino ministero della salute, è quello di acuire i problemi di sostenibilità del sistema esponendolo a crescenti gradi di privatizzazione”.
Ebbene questa possibilità, di superare il “dilemma morale”, esattamente per “disperazione finanziaria” in questi giorni è stata messa nero su bianco, da un ministro 5 stelle, nella bozza di Patto per la salute (d’ora in avanti “patto”).
Egli ha di fatto proposto alle regioni una intesa per ridiscutere il sistema universale e istituire la “seconda gamba”.
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Per un socialismo del XXI secolo
di Thomas Fazi
Note a margine del libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto, viva il socialismo!”
Ringrazio Carlo Formenti per aver scritto questo libro perché ritengo che sia un libro fondamentale per capire quello che sta succedendo: in Italia, in Europa e più in generale in Occidente (e non solo, visto che uno dei meriti dell’autore è quello di adottare una prospettiva globale). Partirei da una delle frasi che apre il testo. Formenti scrive:
«[È] mia convinzione che il socialismo sia realmente morto nelle forme storiche che ha conosciuto dalle origini ottocentesche all’esaurirsi delle spinte egualitarie novecentesche, prolungatesi per pochi decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non si è trattato di un evento (la caduta del Muro e il crollo dell’URSS hanno svolto la funzione di mera registrazione notarile del decesso), bensì di un’agonia durata dagli anni Settanta alla grande crisi che ha inaugurato il nuovo millennio. Oggi l’agonia è terminata ed è iniziata l’attraversata del deserto».
Ciò che intende Formenti è che il socialismo in Occidente non è solo morto nella prassi – come può apparire ovvio – ma è morto nella prassi perché è morto innanzitutto nella teoria. Nel senso che il pensiero socialista è stato corrotto a tal punto dalla sinistra nel corso degli ultimi quarant’anni – tanto dalla sinistra “moderata” quanto da quella “radicale/antagonista”, tanto dalla sinistra della “terza via” clintoniana/blairiana quanto dalla sinistra delle varie degenerazioni post-Settanta: post-operaista, orizzontalista, post-femminista, ecc. – da essere ormai inservibile per qualunque prospettiva di emancipazione progressiva, essendo diventato, più o meno consapevolmente, subalterno all’ideologia neoliberale – dunque all’ideologia del capitale, cioè del suo presunto nemico – con cui ormai condivide quasi in toto l’orizzonte ideologico, caratterizzato da un approccio teleologico alla globalizzazione e ai processi di mercato, intesi come naturali ed inevitabili, dal globalismo/sovranazionalismo (l’abbattimento/frantumazione delle frontiere e delle sovranità statuali inteso come destino non solo inevitabile ma anzi auspicabile), da cui ovviamente discende l’europeismo di buona parte della sinistra, dall’antistatalismo, dalla fede nella natura liberatrice e intrinsecamente progressista della tecnologia, ecc.
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Se non sei seduto a tavola, sei sul menù
di Alessandro Bartoloni
Se gli animalisti vogliono liberare la natura dal barbaro sfruttamento cui è sottoposta devono prima liberare i lavoratori
Un articolo apparso sul blog “irragionevole” e intitolato: “Ecologia e critica sociale: quel che il marxismo ortodosso non vuole vedere” mi è stato segnalato quale risposta al mio pezzo sulle confusioni degli animalisti, a sua volta ispirato all’articolo di Danilo Gatto “La sinistra e la questione animale” apparso su questa testata un mese orsono.
Ringraziando per la segnalazione, colgo l’occasione per ribadire e provare a spiegare meglio alcuni concetti che, evidentemente, non sono sufficientemente chiari visto che l’Irragionevole si limita a riproporre alcuni degli argomenti proposti già nell’articolo di Gatto, senza aggiungere nulla di particolarmente interessante né entrare nel merito delle argomentazioni da me utilizzate. Una risposta, tuttavia, è dovuta in quanto gli autori del pezzo in questione ritengono che “occorra ripensare non solo il nostro approccio all’ecosistema, ma anche alla stessa idea di progresso”. Un auspicio che nella sua genericità non può che essere condiviso. Il problema, però, è capire se con gli animalisti di sinistra è possibile trovare un’unità di analisi oppure siamo inevitabilmente di fronte a concezioni utopistiche abbondantemente fuori tempo massimo.
L’Irragionevole mi accusa di non citare alcuna fonte a supporto della tesi secondo la quale tutto il cibo prodotto sul pianeta non è sufficiente per soddisfare le esigenze alimentari di tutti gli esseri umani. Ammetto di non conoscere abbastanza il vasto mondo della letteratura accademica ma la questione appare immediatamente secondaria una volta capito che le statistiche sono il risultato di un processo di elaborazione che si basa su una teoria sociale ed economica. I fondamenti teorici, dunque, condizionano il tipo di elaborazione ed i suoi risultati.
Si prenda, ad esempio, il tasso di disoccupazione. In italia attualmente viene calcolato come rapporto tra il numero di persone che cercano lavoro ed il numero di persone che costituiscono la forza-lavoro.
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Dalla fine del socialismo di Stato nel 1989 alla crisi del capitale mondiale nel 2009
di Robert Kurz
Introduzione alla nuova edizione del 2009 di Il Libro Nero del Capitalismo
La celebrazione di anniversari di eventi famosi è uno dei più noiosi obblighi della scena culturale borghese. Tuttavia, se l'anniversario fa riferimento ad argomenti e contesti controversi, dove c'è ben poco da celebrare, allora si preferisce ignorarlo. Quando venne pubblicato per la prima volta questo libro, nel 1999, allora, nel mondo ufficiale, si presumeva che avrebbe dovuto esserci qualcosa da festeggiare: il crollo del socialismo di Stato avveniva esattamente dieci anni prima. L'euforia per la vittoria, da parte dei guerrieri occidentali della Guerra Fredda, non si era ancora dissolta. La filosofia accademica aveva proclamato la «fine delle utopie», e lo scienziato politico americano, Francis Fukuyama, aveva proclamato la «fine della storia»; lo sviluppo dell'umanità avrebbe raggiunto il suo obiettivo, in quella che era l'eterna forma sociale dell'«economia di mercato e della democrazia». Da allora, il professorale marxismo residuale e la sinistra politica non avevano più smesso di abiurare; riconoscere il realismo compatibile con il Mercato era diventato una sorta di rituale. E la «rivoluzione neoliberista» sembrava imporre inarrestabilmente la nuova immagine umana che coincideva col personaggio del radicale del mercato. A quel tempo, l'economia capitalista globale si trovava al culmine di un vertice senza precedenti raggiunto in Borsa. I guru del management e gli analisti finanziari proclamavano una New Economy che si presumeva avrebbe superato tutte le precedenti teorie della scienza economica. In una situazione del genere, esisteva solo un modo di nuotare controcorrente rispetto a quello che era lo Spirito del Tempo: la coscienza dominante doveva essere messa di fronte alla sua completa cecità storica. Il mercato totalitario non conosce la storia, ma solamente l'eterno ritorno ciclico dello stesso. Quanto più il pensiero riesce ad immergersi nell'orizzonte temporale della logica di mercato, tanto più esso deve diventare incoerente.
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La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue
Martino Avanti intervista Alberto Bradanini
Abbiamo fatto qualche domanda ad Alberto Bradanini, consigliere commerciale all’ambasciata italiana a Pechino tra il 1991 e il 1996 e poi ambasciatore a Pechino nel periodo 2013-2015. Parla del modello cinese, di come dominio della politica sull’economia e piena sovranità siano le condizioni per aspirare allo sviluppo mantenendo come obiettivo finale l’affermarsi del socialismo, per quanto il termine sia oggi mescolato a una forte apertura al capitalismo. «Un insegnamento utile anche all’Italia e l’Unione europea» dice l’ex ambasciatore. Che invita a cogliere l’opportunità di interloquire con la Cina e a un atteggiamento meno subalterno tanto agli Usa quanto al dominio tedesco.
* * * *
Quali prospettive si aprono per l’Italia e per l’Europa con l’ascesa della Cina come protagonista della politica (e dell’economia) internazionale?
L’Europa è un continente politicamente ed economicamente frammentato. Nell’Ue, dove prevalgono le priorità stabilite dal direttorio franco-tedesco, vige la legge della giungla, e non certo quello spirito di solidarietà che pervade le pagine dei Trattati. Sul piano strategico, la Cina avrebbe interesse a dialogare con un’Europa come soggetto politico non solo economico, alla luce della concezione multipolare delle relazioni internazionali che reputa di sua convenienza. Un percorso questo oggi assai improbabile per ragioni endogene, e comunque indipendente dalle scelte cinesi.
Nei limiti menzionati, l’Europa potrà beneficiare dell’interazione con l’economia cinese se riuscirà a essere leader nei settori industriali di punta e nelle tecnologie del futuro. A tal fine però sarebbero necessari massicci investimenti pubblici che sono oggi impediti dalle assurde politiche di austerità di marca tedesca.
L’Italia potrà a sua volta raccogliere qualche beneficio da un’interlocuzione con la Cina se dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria saprà avviare una politica economica degna di questo nome, riavviando il tessuto industriale ridottosi del 20% nell’ultimo decennio e investendo massicciamente su innovazione e ricerca.
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Dal Russiagate al Russiaflop e all'arresto di Assange
Era la stampa, bellezza. Si è uccisa
di Fulvio Grimaldi
“L’arresto di Julian Assange, il dissidente che ha segnato a livello planetario un’epoca nuova nella tensione fra lo scrutinio democratico delle decisioni dei poteri di governo e la Ragion di Stato, pone un problema drammatico alla coscienza politica di tutto l’Occidente”. (I parlamentari del Movimento 5 Stelle)
Un giornalista. Vero.
Dopo un accusa svedese di molestie sessuali, mossa da due collaboratrici Cia e poi archiviata, sul modello Brizzi e Argento; dopo sette anni di reclusione nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, prima da rifugiato, grazie a un presidente ecuadoriano perbene, Correa, e, poi, da ostaggio e prigioniero, per servilismo agli Usa di un presidente fellone, Moreno, Julian Assange, eroe e martire della libertà d’informazione, è stato arrestato da Scotland Yard. Lo aspetta l’estradizione negli Usa e un processo in base ad accuse segrete, formulate da un Gran Giurì segreto, che prospettano la condanna a morte.
Per essersi rifiutata di testimoniare contro Assange davanti al Gran Giurì segreto, Chelsea Manning, che fornì a Wikileaks i documenti attestanti i crimini di guerra e contro l’umanità commessi dagli Usa in Iraq e Afghanistan e si è fatta 7 anni di carcere, è stata di nuovo imprigionata e posta in isolamento. Assange e Manning sono i disvelatori e comunicatori di ciò che il potere fa di nascosto e ai danni dell’umanità. Sono ciò che dovrebbero essere i giornalisti e che nell’era della globalizzazione, cioè della presa di possesso di tutto, non esiste più. Salvo in qualche angolo della rete.
Gli unici, tra giornalisti e politici che hanno avuto la primordiale decenza di marchiare a fuoco la persecuzione di Assange, senza se e senza ma, sono stati i 5 Stelle, con Di Battista, Di Manlio, Morra. I migliori. Grazie e onore a loro.
Come va? Da noi tutto bene.
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Quale pensiero critico per la sinistra?
di Giuseppe Montalbano
Le correnti teoriche, gli autori, le opere più importanti della galassia della sinistra dopo l’89: nel nuovo libro del filosofo Giorgio Cesarale una cartografia ragionata del pensiero critico contemporaneo che struttura il campo dell’alternativa al capitalismo neoliberale
Quali le principali linee di sviluppo del pensiero critico a sinistra cresciuto sulle macerie lasciate dal crollo dell’Unione sovietica e dall’affermazione del modello “neo-liberale” di capitalismo su scala globale? Come (ri)pensare la critica degli assetti di potere dominanti nelle società contemporanee e le possibilità di un’alternativa di sistema nelle parallele crisi delle “sinistre” al livello sociale, politico e culturale? Queste le due impegnative questioni in cui si può riassumere la problematica di fondo dell’ultimo lavoro di Giorgio Cesarale, A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989 (Laterza, 2019). Un libro tremendamente utile innanzitutto per spianare e rendere più facilmente percorribili – anche a un pubblico non specialistico – quei sentieri del pensiero critico tracciati a partire dalla stagione del lungo ’68 in Europa e negli Stati Uniti, e che non hanno smesso di essere battuti oltre il crollo del muro di Berlino.
Se le sinistre in Occidente non hanno ancora fatto del tutto i conti con il “disastro oscuro” che le ha investite negli ultimi 30 anni (dal titolo dell’epitaffio di Badiou per la fine dell’URSS, citato in apertura del testo), le filosofie e teorie critiche emerse da quella oscurità possono ancora accendere potenzialità e prospettive di un’alternativa possibile a una società per nulla pacificata. A patto di gettare luce sulle stesse zone d’ombra e i punti ciechi del pensiero critico contemporaneo. Questo il secondo notevole merito del libro. L’intento di Cesarale non è, infatti, soltanto quello di offrire un’agile guida per orientare il lettore nell’intrico di percorsi e ramificazioni del dibattito teorico contemporaneo a sinistra. La mappatura delle principali correnti del pensiero critico attuale serve a mostrarne, più profondamente, le traiettorie comuni e i territori ancora inesplorati. Per questo vale la pena soffermarsi proprio sui confini tracciati e sulla bussola utilizzata da Cesarale nella cartografia di ciò che ancora si muove a sinistra sul terreno della riflessione filosofica e teorica.
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Crisi globale e capitale fittizio
di Raffaele Sciortino
Excursus dal volume Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 34-41
Ma qual è il nesso profondo tra globalizzazione finanziaria e crisi globale? Ovvero, come andare oltre il livello descrittivo? È una domanda, chiaramente, dalle importanti implicazioni politiche oltreché teorico-analitiche. In questa scheda alcune indicazioni sulle principali posizioni e sull’ipotesi guida di questo lavoro.
All’indomani della crisi sembra ci siano tutte le condizioni per un ritorno in auge delle ricette keynesiane, vista la débacle in corso del cosiddetto neoliberismo. Per i neo-keynesiani l’eziologia della crisi, letta come crisi principalmente se non esclusivamente finanziaria, sta in primo luogo nel greed di Wall Street, nell’eccessiva avidità della finanza speculativa che avrebbe perso il senso del limite anche a causa delle misure di deregolamentazione degli anni Novanta - in primis l’abolizione nel 1999 da parte del Congresso statunitense del Glass-Steagall Act che, varato sotto il New Deal, prevedeva la separazione tra attività bancaria tradizionale e speculativa - da parte di una classe politica disinvolta e ammaliata dai successi del corso neoliberista.1 A questa diagnosi i post-keynesiani, la sinistra del keynesismo, aggiungono gli effetti deleteri per i livelli della domanda complessiva del sottoconsumo delle masse dovuto alla caduta del monte salari complessivo negli ultimi decenni.2 La terapia proposta è la ri-regolazione della finanza per un maggiore controllo sugli eccessi speculativi, nonché un peraltro assai cauto ritorno all’intervento statale, basato per lo più su politiche monetarie lasche opposte a quelle della scuola austriaca - che vede la crisi come un classico caso di deflazione da debito causata da tassi di interesse eccessivamente bassi - al fine di stimolare la domanda aggregata, eventualmente rivista nell’ottica della green economy. Non si arriva dunque a proporre, in genere, un vero e proprio nuovo New Deal con politiche redistributive significative. Del resto, a questo fine i problemi in Occidente sarebbero enormi se non insormontabili.
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Epitaffio per l'Urss: un orologio senza molla
di Christopher J. Arthur✴
Probabilmente si tratta del punto centrale all'origine del crollo dell'URSS e dei paesi socialisti: non vi era un vero e proprio modo di produzione, perché il sistema fabbrica (base materiale) non armonizzava il sistema della gestione per la quale è stato creato (accumulazione). Ma c'è da riflettere sul fatto che se, come è plausibile, il modo di produzione sovietico non era né capitalistico né socialista, ma è definito da Arthur "economia amministrata", una sorta di economia formata da capitali ma senza produzione di plusvalore e senza capitalisti, "un orologio senza molle", allora c'è da chiedersi con il 1989 che cosa sia veramente crollato. Altro punto importante è se sia possibile evitare, e come, il crearsi di una "burocrazia" privilegiata quale forma di nuova borghesia. Anche questo non potrà che riproporsi in futuro. L'ideologia dominante ripete che il socialismo è fallito perché non può funzionare, e purtroppo questa frase è fatta propria dal 99% delle persone, compresi i lavoratori. Ma in realtà che cosa è veramente fallito? Se non c'era il socialismo né il capitalismo, il primo non è crollato ma è ancora tutto da costruire (il collettivo)
E' importante comprendere il “crollo” dell’Urss perché il dibattito sulla natura dell’Unione Sovietica riguarda ancora la teoria e la pratica socialiste. L’analisi del socialismo non-più-realizzato ha un significato generale dal momento che, chiaramente, la lezione che se ne può trarre non riguarda unicamente la situazione russa ma è rilevante per la teoria e la pratica della transizione in generale. Infatti, essa rende più pressante una domanda: cosa è richiesto per un reale e permanente superamento del capitalismo? Chiunque sia interessato a tale questione deve imparare dalla lezione di questo tentativo fallito, e chiunque si dica marxista deve dare conto di “cosa è andato storto”, in coerenza con la teoria marxista stessa1 . Nella seconda parte di questo scritto, abbozzo alcune considerazioni su questi problemi. Nella terza parte, prendo in considerazione le opinioni di Istvàn Mészàros, contenute nel suo più voluminoso lavoro, Beyond Capital (Oltre il capitale). Ma per prima cosa fissiamo la scena per la nostra analisi della transizione dal capitalismo all’Urss, affrontando la questione della dialettica tra forma e contenuto.
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Potere disciplinante e libertà controllata
Esiti morali della moderna configurazione del potere
di Federico Sollazzo
La concezione, di derivazione marcusiana, di “sistema”, esprime una ricca e articolata descrizione della nuova forma storica dei meccanismi di dominio (come è ormai evidente, in questo testo si considera il potere “francofortianamente” come dominio, la qual cosa non è da ritenersi in contrasto, bensì in interazione con la concezione foucaultiana del potere come categoria relazionale). Tale sistema affonda le sue origini in una certa razionalità tecnologica che conduce ad una totale subordinazione dell’esistenza ad un paradigma produttivo, di senso più che di beni, efficientista e oggettivante, funzionale all’instaurarsi ed al perpetuarsi di una nuova forma di dominio.
Nella realtà sociale, nonostante tutti i mutamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo rimane il continuum storico che congiunge la Ragione pretecnologica a quella tecnologica. La società che progetta e intraprende la trasformazione tecnologica della natura trasforma tuttavia la base del dominio, sostituendo gradualmente la dipendenza personale (dello schiavo dal padrone, del servo dal signore del feudo, del feudatario dal donatore del feudo) in dipendenza dall’”ordine oggettivo delle cose” (dalle leggi economiche, dal mercato, ecc.) […] Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo. Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della società; è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità[1]
Ma a tale esito non si è giunti a causa della tecnica, la mera capacità di fare qualcosa, senza un orientamento di tale fare, quindi in sé neutrale in quanto sprovvista di un telos, bensì a causa dello sviluppo di una determinata tecnologia, la forma storica della tecnica, ovvero lo specifico modo, sempre con finalità e con razionalità storicamente determinate, di impiego di tale capacità. E lo sviluppo della moderna tecnologia, dunque questa tecnologia, ha come esito determinante quello dell’inibizione del pensiero critico.
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Per una nuova teoria del valore
di Tommaso Redolfi Riva
Per Riccardo Bellofiore, che ha esposto questa tesi nel suo ultimo "Le avventure della socializzazione. Dalla teoria monetaria del valore alla teoria macro-monetaria della produzione capitalistica" (Mimesis), non è più possibile procedere a una semplice interpretazione dell’opera di Marx. È invece necessario guardare ai punti alti della teoria economica, svilupparli e incorporarli in una critica dell’economia politica che sia al contempo economia politica critica: messa in discussione del rapporto sociale capitalistico e indagine sulla sua forma di movimento
Nella critica dell’economia politica, la legge dell’accumulazione capitalistica – che ha il suo principio nella valorizzazione del valore – rappresenta la forma di moto specifica che caratterizza il modo di produzione capitalistico. Il rapporto di produzione, che è sempre un modo particolare nel quale si realizza l’unione tra i lavoratori e i mezzi di produzione, una volta che ha assunto la forma capitalistica, una volta cioè che si è costituito come rapporto di capitale, “costringe senza scrupoli l’umanità alla produzione per la produzione”[1]. Non è certo un caso che questa frase di Marx riappaia nella Dialettica negativa là dove Adorno vuole presentare il dominio dello spirito del mondo sulle azioni individuali, della storia sugli individui storici, dell’universale sul particolare: l’autonomizzazione della società, il farsi obiettivo del vincolo sociale, rappresenta un tema centrale della sua riflessione matura[2]. Nel modo di produzione capitalistico, il rapporto sociale che lega gli individui gli uni agli altri, il modo cioè in cui la società produce e riproduce se stessa, si rende indipendente dagli individui, i quali si trovano nella necessità di fungere da semplici momenti di un processo che ha una propria dinamica specifica e che si impone loro come contrainte esteriore. Per Adorno, l’individuo, che la sociologia comprendente vorrebbe sostanziale, decade a semplice luogo di un’azione che si svolge alle sue spalle e di cui diviene semplice portatore. Ma se la sociologia comprendente non coglie la costrizione esteriore che la società esercita sull’individuo, quella funzionalista la assume come dato, eternizzando, di fatto, l’autonomizzazione della società. Compito della teoria critica della società è quindi quello di superare l’unilateralità di entrambi gli approcci e mostrare “come quei rapporti che si sono resi indipendenti e impenetrabili per gli uomini, derivino proprio da rapporti fra gli uomini”[3].
La comprensione dell’autonomizzazione della società, della totalità che retrocede gli individui a meri portatori della sua riproduzione, del dominio e della violenza dell’universale sul particolare, risiede per Adorno, nell’analisi del processo di scambio. Esso si presenta da un lato, mediazione totalizzante, dall’altro, astrazione obiettiva capace di ridurre la differenza qualitativa di ogni oggetto alla comparabilità quantitativa del valore.
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Point Break: Crisi globale - sindacato internazionale
di Daniele Canti*
Dal fallimento della banca d'affari Lehman Brothers avvenuto a settembre 2008 sono trascorsi oltre dieci anni. Sino a pochi mesi or sono, secondo la vulgata, la crisi era ormai alle nostre spalle ed il problema era agganciarsi alla ripresa. Ora qualche dubbio che non ci sia nulla a cui agganciarsi comincia a farsi largo.
Ma anche quando vengono avanzate riserve sul radioso futuro che ci attenderebbe, lo si fa soltanto sull’onda dell’ultimo rilevamento dato in pasto dai mass media e non in base ad un analisi più approfondita del sistema e delle sue contraddizioni.
Partiamo dal 2008.
L’elemento decisivo per la crescita della bolla immobiliare fu la riduzione continua dei tassi praticata dalla Federal Reserve che favorì l’indebitamento delle famiglie americane.
Tra il 2000 ed il 2003 il tasso della FED passò dal 6,5% all’1%. I lavoratori americani compravano case, i mutui erano vantaggiosi, il prezzo degli immobili saliva. Il valore degli immobili dati in garanzia si gonfiava a dismisura. La FED, resosi conto della bolla immobiliare che si era creata, dal 2004 al 2006 alzo il tasso d’interesse al 5,5%. I lavoratori, in pochissimo tempo, si ritrovarono con rate di mutui molto più alte che non riuscivano a pagare. Gli immobili crollarono di valore. Nel frattempo, grazie alla “tripla A” attribuita dalle blasonate società di rating ai titoli di credito derivati dalla cartolarizzazione dei mutui subprime (sottoscritti prevalentemente da lavoratori precari), i fondi pensione dei lavoratori americani si fecero una scorpacciata di titoli spazzatura. Così in un colpo solo la working class americana perse il lavoro, la casa, la pensione.
Ma perché la Federal Reserve si comportò in modo così apparentemente irrazionale? La ragione è molto semplice. Risiede in un’altra bolla che era scoppiata nel 2001 quella delle dot.com , le aziende informatiche facenti riferimento a Internet. La politica monetaria espansiva messa in atto, era dunque la risposta al collasso economico derivato dalla precedente bolla speculativa.
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