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lafionda

Recovery Fund: manuale di autodifesa contro la propaganda di regime

di Thomas Fazi

bce euroQuando si parla del programma Next Generation EU (NGEU), comunemente noto in Italia con il nome di Recovery Fund, una premessa è d’obbligo: quello che nei media viene presentato come un accordo già chiuso deve in realtà ancora superare un ostacolo non da poco, ovverosia la ratifica da parte di tutti e 27 i parlamenti nazionali dell’UE. Si tratta, a detta dei più, di un passaggio puramente formale, che si dovrebbe concludere entro la prima metà del 2021. E probabilmente hanno ragione: è difficile immaginare che un parlamento nazionale possa far naufragare un accordo negoziato dal governo che ne è espressione. Tuttavia non è da escludere che il percorso possa riservare delle sorprese. Soprattutto in Olanda, dove si andrà al voto a marzo e dove il primo ministro Mark Rutte è stato fortemente criticato per l’accordo. Quanto meno, la mancata ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali dovrebbe suggerire una certa prudenza quando si parla di Recovery Fund.

Fatta questa doverosa premessa, vediamo di entrare nel dettaglio del cosiddetto Recovery Fund. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il programma Next Generation EU, appunto, pari a 750 miliardi (che la Commissione andrà a prendere sui mercati) spalmati su sei anni, di cui 390 miliardi dovrebbero venire corrisposti agli Stati membri sotto forma di trasferimenti “a fondo perduto” (come vedremo, le virgolette sono d’obbligo) e 360 miliardi sotto forma di prestiti; e il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027, ovvero il bilancio europeo classico, pari a poco più di 1.000 miliardi di euro (di poco superiore all’ultimo bilancio europeo 2014-2020). In totale circa 1.800 miliardi.

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micromega

Puntare tutto sul Recovery Fund può essere fatale per l’Italia

di Enrico Grazzini

recovery fund crisi europaPer una volta Federico Fubini, il vice-direttore ad personam del Corriere della Sera che è contemporaneamente un esperto di finanza e un europeista convinto, ha ragione. L’Unione Europea, nonostante le fanfare europeiste, nonostante i proclami superottimistici del ministro dell’economia Roberto Gualtieri, è ancora una volta bloccata. E purtroppo non è assolutamente detto che il Recovery Fund Europeo da 750 miliardi di euro, altrimenti chiamato Next Generation EU, alla fine sarà realmente realizzato. Gli incidenti di percorso possono essere molti, alcuni già visibili, altri imprevedibili. Il futuro dell’Italia è appeso al filo del Recovery Fund, RF, e ai 209 miliardi che il nostro Paese potrebbe cominciare (forse) a spendere nella seconda metà del prossimo anno per rilanciare un’economia moribonda e una società spossata dalla crisi causata dal Covid-19. Tuttavia, Fubini spiega che potrebbero capitare delle brutte sorprese. Il governo Conte aspetta gli “aiuti” dell’Unione Europea come una manna dal cielo ma non è certo che la manna cadrà davvero. È per questo validissimo motivo che il governo dovrebbe cominciare a svegliarsi per trovare e creare anche autonomamente i soldi indispensabili per combattere la crisi.

Attualmente l’opposizione al Recovery Fund da 750 miliardi viene, come noto, da Polonia e Ungheria, i Paesi amici del sovranista Matteo Salvini, capo supremo della Lega: i due Paesi dell’est Europa bloccano un processo di finanziamento della UE che, forse per la prima volta da quando è nato l’euro, è favorevole al nostro interesse nazionale.

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Il governo balla sul Mes

di Dante Barontini - Emiliano Brancaccio*

governo balla mesSe dobbiamo stare alle grida mediatiche, il governo è sull’orlo della crisi. Il che sarebbe una novità, a pochi giorni dalla fine dell’anno e dunque dall’approvazione della “legge di stabilità”, la più importante di tutte le leggi perché definisce – per l’anno successivo – come lo Stato italiano finanzierà le proprie attività (tutte, quelle normali e quelle “eccezionali”) e dove troverà le risorse per farlo.

La novità, nella legge di stabilità di quest’anno, è che oltre alla normale leva fiscale (le tasse su imprese e cittadini) si potrà calcolare anche qualche contributo europeo, nell’ottica del Recovery Fund o Next generation Eu, se e quando a Bruxelles si riuscirà a superare il veto di Polonia e Ungheria (ci stanno lavorando intensamente, pare).

Ci sono insomma decine di miliardi da gestire e questo scatena gli appetiti dentro e fuori la maggioranza di governo. C’è chi vorrebbe qualcosa anche stando all’opposizione (Forza Italia in primo luogo, ma non solo), chi vedere una fetta troppo piccola se proporzionata al suo basso bacino elettorale – Renzi, insomma – e poi Confindustria, che pretende per sé e le imprese che rappresenta l’intera posta, senza lasciare neanche uno spillo alle politiche sociali.

Anche tra Pd e Cinque Stelle, inevitabilmente, si è aperta la rissa per la stessa, con in più la complicazione di una “cabina di regia” che Conte vorrebbe capitanare insieme a Gualtieri e Patuanelli (quindi con criterio politicamente equanime), ma ricorrendo all’ennesima task force di “esperti” e “manager”. Il che sottrae certamente ai ministeri competenti una buona parte dei progetti da finanziare e del potere che ne deriva.

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lafionda

Lo spieghìno: Il “nuovo” MES riformato? È peggio di quello vecchio

di Thomas Fazi

mes1200Come nelle più prevedibili delle sceneggiature hollywoodiane, proprio quando il mostro sembrava ormai morto, eccolo rialzarsi per un (ultimo?) colpo di scena.

Fino all’altro giorno, infatti, erano in molti a dare per morto il MES. Per chiarezza: qui non stiamo parlando del cosiddetto “MES sanitario”, ovvero della nuova linea di credito dalle “condizionalità limitate” riservata agli Stati per le spese sanitarie, che continua ad essere oggetto di un accesso dibattito e di cui abbiamo parlato in più occasioni, ma del Meccanismo europeo di stabilità nella sua accezione più ampia, in quanto organo intergovernativo permanente che esiste dal 2011 e la cui funzione fondamentale è quella di «concedere, sotto precise condizioni, assistenza finanziaria ai paesi membri che trovino temporanee difficoltà nel finanziarsi sul mercato». Parliamo in sostanza dell’organo impiegato (insieme ai suoi predecessori, il FESF e l’EFSM) nel “salvataggio finanziario”, per usare un eufemismo, in cambio di “riforme”, per usare un altro eufemismo, di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro.

Per capire di cosa parliamo può essere utile richiamare un episodio che riguarda Klaus Regling, il direttore generale del MES, che, come ricorda Carlo Clericetti, «dispone di amplissimi poteri e le cui azioni, secondo una esplicita previsione dello statuto del fondo, non possono essere contestate in nessun modo, nemmeno per via giudiziaria». Nel suo libro di memorie Adulti nella stanza, l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis racconta che nel tentativo di ottenere un rinvio al soffocante pagamento delle rate dei prestiti si rivolse direttamente a Regling. «Per pagare la rata nei termini stabiliti non avrei i soldi per stipendi e pensioni», gli disse Varoufakis. E Regling, senza battere ciglio, rispose: «E allora non pagare stipendi e pensioni». Questo tanto per inquadrare il plenipotenziario capo del MES.

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Competizione per sopravvivere, il nero destino della UE

di Claudio Conti

In calce un articolo di Guido Salerno Aletta

competizione sopravvivereSepolta sotto la coltre mediatica delle notizie sulla pandemia, la crisi economica marcia trionfale. Esaltata dalla stessa architettura dell’Unione Europea, fissata in trattati pensati in un’epoca di “vacche grasse”, quando la parola crisi era immediatamente associata alla “colpa” di qualcuno.

Perché si viveva “nel migliore dei mondi possibili”, e dunque se qualcosa andava storto doveva esserci per forza qualcuno che aveva “vissuto al di sopra delle proprie possibilità”, accumulando debiti invece che produrre ricchezza.

Quel mondo perfetto, del capitalismo neoliberista, non è mai esistito, se non nella retorica (qualcuno lo spieghi ai Giannini e ai Mario Monti, che non continuino ignari di tutto!). Ma adesso è la realtà a prendere a martellate in testa chiunque provi a immaginare “misure correttive” per un sistema che non sta in piedi.

L’Unione Europea, dopo dieci mesi di pandemia, non è ancora riuscita a prendere alcuna decisione sensata o comunque pratica. L’unica mezza cosetta è il fondo Sure, garantito dalla Ue, per finanziare – molto parzialmente – la cassa integrazione straordinaria decisa da tutti gli Stati membri.

Per il resto, ognun per sé, come vuole la logica mercantilista dei trattati. Tranne che per quanto riguarda la politica di bilancio, ovviamente improntata all’austerità.

Anche questa è stata presa a martellate dalla pandemia, visto che tutti i Paesi membri hanno dovuto ingigantire i rispettivi debiti pubblici per far fronte all’emergenza. Ma la “sospensione” del Patto di Stabilità non significa affatto revisione delle strategie adottate fin qui.

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Il ricatto del Recovery Fund

di Leonardo Mazzei

LIBERI DI 1 768x501Abbiamo già spiegato quanto sia infondata la leggenda del Recovery Fund. L’analisi del funzionamento tecnico di questo nuovo strumento europeo non lascia spazio ai dubbi. In esso non c’è nulla di virtuoso, tantomeno di risolutivo rispetto alla crisi in corso.

Ma limitarsi a vederne la sostanziale inefficacia economica sarebbe un grave errore. Dedichiamo perciò questo nuovo articolo agli aspetti più propriamente politici. Il tentativo è quello di capire quale sia il vero accordo che sta dietro il Recovery Fund. Impresa in verità non troppo difficile.

 

Lo choc di primavera

Di fronte alla crisi innescata dal Covid, e più ancora dalla sua disastrosa gestione, l’UE ha dovuto prendere atto del baratro che gli si parava davanti. Un baratro che avrebbe potuto aprire la strada alla disintegrazione. Sulla base di questa banale constatazione i soliti illusi hanno perfino immaginato la tanto sognata “riforma” dell’Unione. Ma la riforma di ciò che è irriformabile è per definizione impossibile. Nel caso dell’UE le dimostrazioni in tal senso sono talmente tante che non è necessario insistervi.

La cupola eurista ha dovuto perciò inventarsi l’ennesima soluzione che serve a prender tempo, che non risolve i problemi ma che è utile intanto a salvare la baracca. Tutti sanno che, di fronte al drammatico crollo dell’economia, l’unica misura sensata ed efficace sarebbe stata la monetizzazione del debito. Lo hanno fatto i più importanti stati del pianeta, ma l’UE non può farlo. E, cosa ancora più importante, chi al suo interno detiene le leve del comando non vuole farlo.

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La cancellazione del debito pubblico tra aspetti tecnici e questioni politiche

di Marcello Spanò

bceEuroCon la recrudescenza della crisi pandemica in Europa si torna a parlare di politiche economiche eccezionali. Voci di corridoio riferiscono che starebbe circolando l’ipotesi che la BCE cancelli i debiti dei governi, almeno quelli aggiunti allo stock esistente fino al 2019 per fronteggiare la pandemia. Christine Lagarde smentisce e riafferma un principio cardine su cui l’intera zona euro è costruita, e che non è stato mai scalfito nemmeno nelle fasi più acute di difficoltà dei paesi membri del decennio scorso. Dichiara Lagarde: “Chiedere alla Bce di cancellare il debito pubblico sarebbe come chiedere di violare i trattati europei e penso che un punto su cui bisogna martellare di fronte a queste richieste è che i debiti vanno ripagati”. Il vicepresidente della BCE, Luis de Guindos, si è recentemente sentito in dovere di ribadire il concetto espresso da Lagarde dopo che la proposta di cancellazione è stata rilanciata dal presidente del parlamento europeo David Sassoli.

La ferma smentita della BCE e la chiusura all’ipotesi di cancellazione del debito è forse politicamente e giuridicamente doverosa: difficilmente chi riveste il ruolo di governatore della BCE potrà ammettere pubblicamente di avere intenzione di violare i trattati e lo stesso statuto dell’istituzione nel cui nome sta parlando. Eppure, è almeno da quando ha inaugurato il primo quantitative easing (QE) (2015-18), ma direi anche dal 2012, che la BCE agisce in violazione del suo stesso statuto, il quale, ricordiamolo, fa esplicito divieto alla BCE di coprire con emissione di moneta i disavanzi dei governi nazionali su base regolare.

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lafionda

Nove anni fa il golpe dell’Europa contro Berlusconi

di Thomas Fazi

merkelSarkozy scaledOggi ricorre il nono anniversario di una delle pagine più buie della moderna storia italiana ed europea: l’insediamento del governo tecnico di Mario Monti a seguito del “golpe bianco” della BCE contro il governo Berlusconi. Purtroppo, come per tante delle trame oscure che hanno costellato la storia del nostro martoriato paese, è un episodio che molti ancora oggi fanno fatica a mettere a fuoco. Vediamo dunque di ricostruire per sommi capi gli eventi di quelle fatidiche settimane di nove anni fa.

È l’estate del 2011. Il paese è nel pieno della furia speculativa contro i titoli di Stato italiani. Ad agosto, un clima politico già surriscaldato si arroventa ulteriormente quando viene fatto trapelare sui giornali il contenuto di una lettera – in teoria destinata a rimanere segreta – inviata al governo italiano da Mario Draghi, che di lì a pochi mesi avrebbe assunto ufficialmente la carica di presidente della BCE, e dal suo predecessore Jean-Claude Trichet.

In essa, i vertici della BCE intimano al governo italiano «una profonda revisione della pubblica amministrazione», compresa «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali», «privatizzazioni su larga scala», «la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari», «la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale», «criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità» e persino «riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali». Tutto ciò, si dice, al fine di «ripristinare la fiducia degli investitori».

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comuneinfo

Recovery Plan: restaurazione o ravvedimento?

di Paolo Cacciari

Le aspettative intorno ai fondi Ue sono alte quasi quanto quelle per il vaccino. Due cose sono certe: il Patto di stabilità è stato improvvisamente sospeso, l’austerity sembra un brutto ricordo; il market system è capace di fare cose che, per dirla con l’androide Roy di Blade Runner, noi umani nemmeno sappiamo immaginarci. Intanto assistiamo a un gran fermento di ricerche e discussioni, con proposte non prive di trabocchetti, appare evidente come, per far fronte alla sempre più grave crisi climatica e alla devastante crisi economica, il Recovery end Relience Plan andrebbe strappato dalle mani degli economisti. Sui rischi, le contraddizioni e le opportunità che riguardano i fondi Ue, è difficile trovare un articolo più dettagliato, comprensibile e utile come questo di Paolo Cacciari

leonardo burgos SW5rObhs 5U unsplash 1536x7541. La strategia Next Generation Eu varata un anno fa dalla nuova Commissione europea e il suo principale strumento operativo, il Recovery and Resilience Facility da 672,5 miliardi di euro, tra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti a tassi contenuti e rimborsabili a lunga scadenza, entro il 2058, hanno aperto speranze e aspettative, pur permanendo ancora molte incertezze sulle modalità concrete di erogazione.

Il combinato disposto tra le necessità di fronteggiare la crisi sanitaria (attraverso il Programma anti-pandemico della Banca centrale europea Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP) e il riscaldamento climatico (con il piano di investimenti dell’European Green Deal) ha scardinato l’impianto teorico del neoliberismo e il suo dogma monetarista. Si chiude un lungo ciclo quarantennale di politica economica codificato in Europa dal Trattato sull’Unione di Maastricht del 1992. Il Patto di stabilità è stato “sospeso”, l’austerity sembra un brutto ricordo e la Banca centrale europea è stata autorizzata a creare moneta attraverso l’acquisto dei titoli del debito pubblico degli stati e l’erogazione di “stimoli monetari” “non convenzionali”, inaugurati già da Mario Draghi con il Quantitative Easing.

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L’infondata leggenda del Recovery Fund

di Leonardo Mazzei

unrecovery fundLa leggenda secondo cui il Recovery Fund avrebbe cambiato l’Europa, ponendo fine all’austerità per iniziare un nuovo periodo di espansione economica, è una clamorosa bufala. Una gigantesca fake news, per chi ama gli anglicismi. Chi scrive non ha mai avuto dubbi sul punto, ma adesso ci giunge in aiuto un’attenta analisi del professor Gustavo Piga sulla Nota di Aggiornamento del Def (Nadef).

Premesso che in tempo di Covid i numeri contenuti nei documenti previsionali valgono quel che valgono, cioè quasi nulla, resta però interessante lo schema di ragionamento che il decisore politico ha posto come cornice al quadro previsionale. Mentre i numeri sono destinati ad essere smentiti, riaggiornati e rismentiti, quello schema di ragionamento resta invece la traccia indelebile di una precisa impostazione politica: quella degli euroinomani impenitenti, che scrivono di “espansione” anche quando sanno benissimo che avremo invece la solita austerità. Tra questi adoratori del “Dio Europa” il ministro Gualtieri non è l’ultimo arrivato.

Ecco così la sua Nadef 2020, come sempre co-firmata col Presidente del consiglio Giuseppe Conte. Su di essa il giudizio di Gustavo Piga è stroncante.

 

Diamo la parola a Piga

«La manovra economica del governo che pare espansiva e invece non lo è», questo il titolo chilometricamente liquidatorio del suo articolo. E non lo è – spiega Piga – proprio perché il tanto sbandierato Recovery Fund verrà utilizzato in tutt’altro modo. Probabilmente perché, questo lo aggiungiamo noi, non potrebbe essere diversamente proprio in virtù delle clausole previste da quel fondo, tanto decantato dai media quanto volutamente sconosciuto nei suoi meccanismi essenziali.

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coniarerivolta

Il frutto marcio del Recovery Fund

di coniarerivolta

marciomelaLa situazione dei contagi in Italia e in Europa peggiora di giorno in giorno. Il sistema sanitario, sfiancato da anni di austerità, mostra, oggi come durante la scorsa primavera, tutte le sue difficoltà nel gestire la nuova fase dell’emergenza. Nuove chiusure hanno riguardato alcune attività commerciali e alcuni sciacalli continuano opportunisticamente a tirare in ballo il MES, affermando con franchezza che sarebbe la via per legare le mani alla politica economica. La cronaca politica, tuttavia, con un afflato messianico, è da mesi impegnata a cantare le magnifiche sorti e progressive del Recovery Fund. Di questo strumento ci siamo già occupati, mostrandone tutte le criticità. Ora, tuttavia, sembra che sia la sua stessa impalcatura a scricchiolare. È infatti arrivata dalla Spagna, seguita a ruota dal Portogallo e forse dalla Francia, la notizia che il governo di Pedro Sanchez vuole rinunciare ai circa 70 miliardi di prestiti che le spetterebbero dal Recovery Fund pur rimanendo interessato ad ottenere i circa 72 miliardi di contributi a fondo perduto. Anche alla luce di ciò, riteniamo opportuno ripassare quale sia la struttura di questo programma, quali le insidie e a quale punto sia la sua implementazione.

Come abbiamo già avuto modo di raccontarvi, il Recovery Fund è un programma di finanziamento di 750 miliardi di cui 360 miliardi di prestiti e 390 di contributi a fondo perduto, da spalmare nel triennio 2021-2023. Tuttavia, come sappiamo, il diavolo si annida nei dettagli. Nonostante le cifre roboanti, il Recovery Fund, da un lato, rappresenta un programma di rilancio economico del tutto inadeguato rispetto alla gravissima crisi e dall’altro, invece, si qualifica come un efficace lubrificante dei meccanismi di controllo europeo sulle politiche nazionali portando con sé un pesante e certo carico di austerità e riforme.

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lafionda

Il Recovery Fund non salverà l’Italia dall’austerità

di Francesco Saverio Luciani

vertice 1200 690x362 1La tragicità della situazione lavorativa italiana appariva già nel 2013, quando l’Ikea di Pisa metteva 200 nuovi posti di lavoro sul mercato. Al bando si sarebbero presentati in 28000. Tutti giovani disoccupati. Tutte vite future senza speranza. Un triste scorcio su quello che sarebbe stato il futuro del paese dove, ancor prima della scoppio dell’attuale crisi, il tasso di disoccupazione giovanile risultava pari al 28% con picchi oltre il 50% nel sud. Se, in aggiunta ai disoccupati ufficiali, vengono presi in considerazione anche i sottoccupati e gli scoraggiati, allora il tasso di disoccupazione effettivo superava già il 20%, mentre il numero di italiani in povertà assoluta è passato dai 2 milioni del 2008 ai 5 di oggi. E tali numeri ancora non tengono conto della crisi dovuta al coronavirus, i cui effetti non stati ancora del tutto stimati.

Eppure tutto ciò non è il frutto di eventi eccezionali, bensì la manifestazione di una profonda crisi strutturale, le cui origini vanno ricercate almeno a partire dall’inizio degli anni ’90. «Lost in deflation»: è con tale titolo che, poco più di un anno fa, l’economista olandese Servaas Storm dipingeva il quadro dell’economia italiana. «Persa nella deflazione»: con tale monito il professore della Delft University of Technology descriveva l’esito, inevitabile, del modello economico sperimentato dal Bel Paese a partire dall’inizio degli anni ’90.

Come tenta di dimostrare l’economista olandese, l’impoverimento e la perdita di ricchezza che hanno riguardato l’intera popolazione italiana mostrano una drastica svolta a partire dal 1992. Di fatti, fino all’inizio degli anni ’90, l’Italia aveva goduto decenni di una robusta crescita economica, durante i quali era riuscita a toccare il PIL pro capite delle altre principali nazioni della futura zona euro, Francia e Germania comprese, e la cui ricchezza era oltremodo testimoniata dal maggior risparmio privato al mondo, stabilmente sopra il 20% del reddito medio delle famiglie italiane.

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lordinenuovo

La lotta all’UE nella strategia dei comunisti

di Redazione politica

Comunisti e UE 660x4002xL’Ordine Nuovo ha inaugurato alcune settimane fa sulle sue pagine una rubrica su l’Unione Europea. L’obiettivo dichiarato è favorire la discussione su una tematica complessa, le cui differenti visioni concorrono a dividere il movimento comunista a livello internazionale e all’interno dei vari Paesi. Questi contrasti, in alcuni casi, rispecchiano differenze profonde: valutazioni dissimili sulla natura delle istituzioni borghesi e nella concezione dello Stato, letture antitetiche dello scontro interimperialista. In altri casi, invece, il centro del dibattito non è tanto la natura dell’UE o la sua riformabilità, quanto differenti impostazioni tattiche che, complice l’arretratezza dello scontro di classe, finiscono per tradursi in un dibattito sulle intenzioni dai pochi risvolti reali, più utile a dividere che a fare i necessari passi in avanti nell’elaborazione.

Sul carattere irriformabile e reazionario dell’UE ci siamo soffermati già precedentemente,[1] evidenziando come essa sia stata strumento per l’abbattimento delle condizioni di vita dei lavoratori e abbia favorito i processi di riduzione degli spazi democratici, sdoganando, attraverso l’attività di lobbying, le pressioni delle grandi aziende private sugli indirizzi politici ed economici dell’Unione. Continue conferme della giustezza di questa lettura arrivano dalla quotidianità delle politiche europee che seguiremo a trattare nei nostri articoli.

Qui vogliamo, piuttosto, parlare di quale sia il compito dei comunisti nella battaglia contro l’UE con quanti condividono con noi la convinzione che nessuna Europa dei popoli sia possibile in regime capitalistico, che l’Unione Europea sia un’alleanza imperialista attraverso la quale il capitale monopolistico europeo persegue i propri interessi e che, per questa loro natura, le istituzioni europee siano irriformabili ed intrinsecamente contrarie agli interessi dei popoli europei.

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seminaredomande

Niente paura, arrivano i mostri!

di Francesco Cappello

Schermata 2020 10 01 alle 09.40.30 1Lo stato delle cose nel nostro paese

Quasi 5 milioni in povertà estrema, circa 9 milioni in povertà relativa, 14 milioni gli inattivi che hanno rinunciato a cercare lavoro né si dedicano alla formazione, 2 milioni di disoccupati; il 12% di chi lavora è sulla soglia della povertà a causa di salari troppo bassi, 4,3 milioni di lavoratori part-time di cui 2 su 3 non per scelta ma perché costretti. Nel frattempo la produzione industriale si è quasi dimezzata. Il settore turistico e il suo indotto ridotti allo stremo. Le imprese a rischio default con il coronavirus sono il 65% delle Pmi italiane; Più di 8 milioni i lavoratori in cassa integrazione mentre, come si sa, il termine del divieto di licenziamento imposto dal governo avrà termine, a meno di proroghe, a fine anno. Nel frattempo cominciano i primi provvedimenti nel segno della ripresa delle riforme strutturali nel solco della nostra ormai triste tradizione: quota 100 è in corso di smantellamento (la legge Fornero non è mai stata abrogata) e cominciano i primi attacchi al cosiddetto reddito di cittadinanza. In prospettiva è prevedibile una recrudescenza delle politiche di avanzo primario ormai quasi trentennale.

Piuttosto che alle soluzioni concrete e percorribili nell’immediato in grado di valorizzare le nostre immense risorse endogene (vedi piano di salvezza nazionale) il governo pensa ad indebitarci ulteriormente e a cronicizzare il vincolo esterno che ha almeno due componenti fondamentali: l’appartenenza alla Ue insieme a quella che ci lega alla Nato a comando Usa e ai suoi programmi. Piuttosto che investimenti verso una spesa pubblica quale risposta ai bisogni interni appare viceversa naturale, nell’attuale sistema delle cose, approffittare di questa occasione per alimentare ulteriormente il settore delle spese militari.

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lantidiplomatico

Luciano Barra Caracciolo, "Lo strano caso Italia"

di Musso

25e7d04550d7c1270c92483090d715a71 - Prima del Covid

«Lo strano caso Italia. Breviario di politiche economiche nella crisi del globalismo istituzionale aggiornato all'emergenza del Coronavirus», di Luciano Barra Caracciolo, pp. 236, Eclettica, 2020. Il volume è diviso in tre sezioni, la lunga introduzione scritta dopo il Covid, serve da introduzione alla prima e seconda parte scritte prima del Covid. Ci prenderemo la libertà di discutere della introduzione alla fine, seguendo un percorso narrativamente cronologico.

* * *

L’autore parte dal patetico andamento dell’economia italiana dentro l’Euro. Prima la «debole crescita, accompagnata da perdita di competitività» dal 1996, culminata nella recessione del 2008. Poi la recessione-Monti nel 2011 a servizio della «correzione del debito commerciale esterno», continuata nel successivo «lungo periodo di stagnazione» del 2012-2020, caratterizzato da «una serie impressionante di avanzi primari» (calo costante della spesa pubblica complessiva, cioè inclusiva dell'onere dell'interesse, pro-capite in termini reali), nonché dalle continue riforme del mercato del lavoro (discesa della quota salari su Pil). Col bel risultato di aver ottenuto sì un rilevante avanzo commerciale con l’estero, ma al prezzo della perdita di «circa il 20% della produzione industriale» e del peggioramento dei tassi di disoccupazione. Insomma, di «una evidente compressione della domanda interna, col venir meno, per i produttori, di una parte consistente della domanda pubblica e la trasformazione in paese export-led». In altre parole, «è una crisi da domanda».

Fra le diverse componenti della domanda aggregata, nella spesa pubblica il contributo degli investimenti «risulta altrettanto scarso in Germania e in Francia, in termini di contributo alla variazione del Pil», mentre «il differenziale di crescita rispetto a Francia e Germania … è dato dal differenziale nella variazione in aumento della spesa corrente».