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Le difficoltà della Germania e quelle dell’Ue
di Vincenzo Comito
Districarsi nella crisi tedesca non è facile. Al centro va messa la questione dell’auto, industria strettamente legata alla componentistica italiana. Di sicuro la crisi è europea, riguarda la guerra in Ucraina, ma anche l’incapacità dimostrata finora dall’Europa di capire quale strada intraprendere, stretta tra Cina e Usa
Negli ultimi mesi i giornali si sono dedicati con particolare attenzione agli sviluppi economici recenti del paese teutonico. Forse i titoli più significativi in proposito sono quelli di un numero recente dell’Economist: “L’economia tedesca usava ispirare invidia, presto ispirerà solo preoccupazione” o di quello pubblicato da Die Zeit, “Il Made in Germany è finito”.
Ieri ed oggi
A partire grosso modo dal l’inizio del nuovo secolo e fino quasi alla fine della seconda decade dello stesso la crescita del Pil tedesco è stata superiore a quella di tutti gli altri grandi paesi europei.
Come sottolineato da più parti, il successo del modello economico del paese si basava su almeno quattro ingredienti. Intanto sulla leadership tecnologica nell’industria, in particolare in alcuni suoi settori, i veicoli, la chimica, la meccanica tra gli altri; poi sulla competitività di costo dei suoi prodotti, risultato dovuto, tra l’altro, da una parte al fatto che al momento del varo dell’euro il cambio con il marco fu fissato ad un livello molto favorevole alla Germania, dall’altra alla larga disponibilità di fonti di energia russa a buon mercato; ancora, tale successo era dovuto alla stabilità geopolitica e al costante sviluppo dell’economia mondiale guidato dall’Asia e in particolare alla crescita del commercio internazionale; infine, alla forte coesione sociale e politica interna.
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Draghi e l’Unione Europea, affondati dalla guerra
di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta
O Mario Draghi ha perso i suoi superpoteri oppure non li aveva mai avuti, ma l’avevano disegnato così…
A leggere la tremenda tranvata riservatagli da Milano Finanza non c’è atto, svolta, “successo”, “invenzione” di SuperMario che non abbia prodotto disastri. E da un punto di vista esclusivamente capitalistico, sia ben chiaro.
A scrivere è ancora una volta Guido Salerno Aletta, che citiamo spesso perché non è un “analista da centro studi”, ma l’ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi e tante altre cose; ossia persona che ha visto (e cogestito) incontri e scontri internazionali, trattative, misurando interessi nazionali e/o aziendali differenti o addirittura contrapposti. Un “uomo del fare”, insomma, sul versante istituzionale.
La critica esplicita a Mario Draghi, dopo la sua recente sortita sull’Economist di cui abbiamo già parlato, è insomma la traduzione quasi “divulgativa” di una insofferenza ormai generale verso un certo tipo di governance che ha prodotto la situazione attuale.
È anche, in modo indiretto, un ripudio della stagione neoliberista, della svalutazione del ruolo dello Stato a totale vantaggio delle imprese (e delle multinazionali, in specie finanziarie), del “mercantilismo” che ha dominato per quasi 40 anni in Europa e che ha sagomato – squilibrandoli oltre ogni limite – i rapporti di forza tra i vari paesi.
Di fatto, dunque, una demolizione del mito “positivo” della stessa Unione Europea, che di quella stagione è stata l’infrastruttura semi-statuale.
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Le regole del Mes sono la prova che questa Europa è senza speranza
di Carlo Clericetti
La nuova situazione geopolitica, che ha mutato profondamente il processo di globalizzazione, mostra gli enormi limiti di un’Unione nata un trentennio fa su presupposti molto diversi. Ma le classi dirigenti europee non sembrano rendersene conto e continuano a proporre strumenti come il Mes e regole che non cambiano la logica del passato
Il governo, la Banca d’Italia, la Commissione europea, l’Ocse, il Fondo monetario: tutti, all’inizio dell’anno, stimavano una crescita del Pil italiano nel 2023 dello 0,6%. E tutti, oggi, correggono la stima intorno all’1,2. Certo c’è da essere contenti che l’Italia stia crescendo il doppio delle previsioni e sopra la media dell’eurozona, anche se (come nota per esempio Attilio Pasetto su Eguaglianza & Libertà) fattori importanti come la produzione industriale (ad aprile -7,2% su base annua) e l’export (-5,4% sempre ad aprile sull’anno) stanno andando male e l’aumento è dovuto quasi solo a consumi e turismo.
“Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”, poetava Lorenzo il Magnifico. Aveva proprio ragione: non si può fare a meno di notare che le stime di tutti quegli autorevolissimi organismi hanno fatto un errore del 100% sull’arco di pochi mesi, per giunta in un periodo in cui, sul piano economico, non ci sono state scosse particolari. E chi poteva prevedere – si potrebbe obiettare – che gli italiani si sarebbero messi a spendere e che in tanti paesi del mondo si sarebbe sentito il desiderio di visitare l’Italia? Nessuno, certo. Come era imprevedibile la pandemia, quantomeno nelle dimensioni che ha assunto, o la vicenda dell’Ucraina, due eventi che hanno fatto mutare bruscamente e profondamente il quadro economico. La realtà è piena di fatti imprevedibili.
Il problema sta nel fatto che i tecnocrati europei, e vari uomini politici dei paesi ossessionati dai saldi di bilancio, pretendono invece di prevederli, e ritengono che su stime del genere debbano essere basate le regole europee.
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Il ritorno del re
di Wolfgang Streeck
Se mai ci fosse stata una domanda su chi comanda in Europa, la NATO o l’Unione Europea, la guerra in Ucraina l’ha risolta, almeno per il prossimo futuro. Una volta, Henry Kissinger si lamentava che non c’era un numero di telefono unico a cui chiamare l’Europa, troppe chiamate da fare per ottenere qualcosa, una catena di comando troppo scomoda e bisognosa di semplificazione. Poi, dopo la fine di Franco e Salazar, è arrivata l’estensione a sud dell’UE, con l’ingresso della Spagna nella NATO nel 1982 (il Portogallo ne faceva parte dal 1949), rassicurando Kissinger e gli Stati Uniti sia contro l’eurocomunismo sia contro una presa di potere militare non da parte della NATO. Più tardi, nell’emergente Nuovo Ordine Mondiale dopo il 1990, l’UE avrebbe dovuto assorbire la maggior parte degli Stati membri del defunto Patto di Varsavia, in quanto questi erano in rapida successione per l’adesione alla NATO. Stabilizzando economicamente e politicamente i nuovi arrivati nel blocco capitalista e guidando la loro costruzione nazionale e la formazione dello Stato, il compito dell’UE, accettato più o meno con entusiasmo, sarebbe stato quello di consentire loro di diventare parte dell'”Occidente”, guidato dagli Stati Uniti in un mondo ormai unipolare.
Negli anni successivi il numero di Paesi dell’Europa orientale in attesa di essere ammessi nell’UE aumentò, con gli Stati Uniti che facevano pressioni per la loro ammissione. Con il tempo, Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia hanno ottenuto lo status di candidati ufficiali, mentre Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Moldavia sono ancora in attesa. Nel frattempo, l’entusiasmo degli Stati membri dell’UE per l’allargamento è diminuito, soprattutto in Francia, che ha preferito e preferisce l'”approfondimento” all'”allargamento”.
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L’ultimo metrò
Recensione di Lorenzo Esposito*
Bellofiore R. e Garibaldo F. (2022), L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria, Milano: Mimesis, pp. 264, ISBN: 9788857590486
Questo recente testo di Bellofiore e Garibaldo affronta il tema di grande attualità. Si tratta di un insieme di saggi, alcuni scritti nel fuoco degli eventi, con taglio e obiettivo differente ma che trovano una loro ragione unitaria nella valutazione dello stato dell’arte del progetto di unificazione europea. Dopo le successive ondate della crisi del 2008, della pandemia e oggi della guerra, è evidente che il progetto sia in grande sofferenza. Tuttavia è importante l’opera di scavo analitico, proposta dal libro, perché le evidenti difficoltà del progetto europeo non siano esaminate in modo superficiale, determinando proposte politiche talmente deboli da risultare, seppure involontariamente, funzionali alla conservazione dello status quo.
Il primo e più ampio capitolo comincia con una sintesi ragionata delle interpretazioni che di questa dinamica hanno dato alcuni degli economisti eterodossi più interessanti degli ultimi tempi. Si parte con Halevi, che legge il percorso di sviluppo dell’Unione in chiave di composizione della produzione tedesca. In particolare, la chiave di volta dello sviluppo tedesco è stato il settore dei beni capitali, soprattutto delle macchine che producono altre macchine, che è meno sensibile alla concorrenza di prezzo e molto dipendente dal progresso tecnico. L’agenda politica del paese è così da sempre dominata da aziende di grandi dimensioni, con forti capacità innovative e di proiezione internazionale, quello che Hilferding aveva definito il capitalismo organizzato. Tuttavia, a differenza di quanto pensavano i teorici socialdemocratici del tempo, questa configurazione non è necessariamente più stabile di quella concorrenziale classica, va anzi difesa dalle tendenze stagnazioniste di cui parlarono nel dopoguerra Steindl, Sweezy e altri.
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Inflation Reduction Act: l’Europa sotto assedio statunitense
di Giacomo Gabellini
Lo scorso agosto, l’amministrazione Biden ha promulgato l’Inflation Reduction Act (Ira), una legge asseritamente mirata a mitigare le forti pressioni inflazionistiche gravanti sul Paese, attraverso la riduzione del deficit di bilancio, l’abbassamento del costo dei farmaci e l’incremento della produzione d’energia a livello domestico, con particolare riferimento a fonti rinnovabili quali quella eolica, quella solare, e quella geotermica. Il provvedimento sancisce la ricalibrazione del cosiddetto Build Back Better, l’ambiziosissimo piano di investimenti pubblici annunciato da Joe Biden durante la campagna elettorale del 2020. Pur ridimensionandolo radicalmente, l’Ira contempla in ogni caso lo stanziamento di qualcosa come 737 miliardi di dollari per promuovere non soltanto lo sviluppo delle tecnologie che garantiscano lo sfruttamento dell’energia pulita, ma anche la definizione di catene di fornitura nuove di zecca. Nello specifico, il piano punta a ridurre le emissioni nazionali di carbonio del 40% entro il 2030 e prevede la concessione di sussidi per 369 miliardi di dollari, vincolandone però l’erogazione alla disponibilità delle aziende beneficiarie sia a impiantare saldamente la produzione sul territorio statunitense, sia ad approvvigionarsi di materie prime e semilavorati direttamente dagli Usa o da Paesi a cui questi ultimi sono legati da accordi commerciali preferenziali.
Prendendo palesemente le mosse dalle iniziative portate avanti – con esiti alquanto modesti – a suo tempo dall’amministrazione Trump, Joe Biden e la sua squadra di governo intendono stimolare la reindustrializzazione nei segmenti a più elevato valore aggiunto di un’economia fortemente “terziarizzata” come quella degli Stati Uniti.
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Dossier: perchè no al MES
di Coordinamento nazionale di Liberiamo l’Italia
Bisogna proprio essere dei mascalzoni (vedi la Meloni, Giorgetti e compagnia), per giustificare l’accettazione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) come lo scambio con la promessa modifica del PNRR. Rinfreschiamo la memoria ai nostri lettori pubblicando il DOSSIER su cosa è davvero il Mes e quanto ci spiegava Leonardo Mazzei sulla reale natura del cosiddetto Pnrr.
* * * *
Il contesto da cui nacque la bestia del MES
Dopo decenni di finanziarizzazione dissennata, nel 2007-2008, scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei mutui subprime, in sostanza la più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929. La conseguenza fu il cosiddetto “credit crunch”, il sostanziale blocco dell’offerta di credito da parte delle banche. L’onda d’urto globale travolse anzitutto l’Occidente, ma colpì in modo letale l’eurozona. I governi di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, dopo qualche esitazione, decisero di obbligare le loro banche centrali ad esercitare la funzione di prestatore di ultima istanza (lender of last resort), ovvero stampare la moneta necessaria per prestarla a banche e istituti simili, in grave crisi di liquidità. Il paracadute fornito dalla banche centrali evitò in effetti la catastrofe e l’economia poté riprendersi presto.
Per farci un’idea di quanto massiccia fu la manovra della Federal Reserve, basti ricordare che questa acquistò titoli sul mercato per circa 4500 miliardi. Risultato: vero che il deficit salì al 4,2% e il debito pubblico passò al 102% del Pil, ma la disoccupazione scese sotto il 5%, il Pil tornò a crescere del 2% e Wall street tornò presto ai livelli pre-crisi. Una linea “interventista” che la FED non ha mai abbandonato, se è vero, com’è vero, che nel settembre scorso è intervenuta con una gigantesca operazione di 260 miliardi in soccorso di diverse banche a rischio di collasso.
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Alle origini dell’ Unione Europea: Richard N. Coudenhove-Kalergi
di Gerardo Lisco
A leggere Kalergi, nello specifico il saggio “L' idealismo pratico”, nella speranza che la traduzione renda fedelmente il suo pensiero, ho la conferma di quanto talune teorie siano fondate sul nulla, soprattutto quando la lettura di un saggio sostanzialmente mediocre come quello appunto di Kalergi viene preso a riferimento per sostenere complotti da affezionati seguaci del Furher e del Duce. Il saggio di Kalergi sul piano della elaborazione teorica, come dicevo, è piuttosto mediocre, è da ascrivere alla vasta letteratura che in diversi contesti ha provato a delineare le tendenze future circa gli sviluppi dell’Umanità. Per Kalergi << La campagna e la città sono i due poli dell’esistenza umana. (…) L’uomo rustico e l’uomo urbano costituiscono antipodi psicologici (…)>>. Le due categorie di Uomo sono rintracciabili in qualsiasi contesto storico: dall’antichità fino all’età moderna. <<L’apogeo dell’uomo rustico è il nobile proprietario terriero, lo Junker, l’apogeo dell’uomo urbano è l’intellettuale, il Letterato>>. L’umanità rustica rappresenta la conservazione, la consanguineità, quindi la tradizione; l’umanità urbana è il prodotto di incroci e mescolamento tra appartenenti a gruppi sociali ed etnie diverse. Per Kalergi, << Nelle grandi città s’incontrano i popoli, le razze, le posizioni sociali. Come regola generale l’uomo urbano costituisce il tipico esempio di un meticciato degli elementi sociali e nazionali tra i più diversi. In lui si avvicendano senza elidersi le singolarità, i giudizi, le inibizioni, le tendenze di volontà e le visioni del mondo contraddittorie dei suoi genitori e dei suoi nonni, o almeno si indeboliscono tra loro (…) L’uomo del lontano futuro sarà un meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno vittime del più grande superamento dello spazio, del tempo e dei pregiudizi. La razza del futuro, negroide ed eurasiatica, simile nell’aspetto a quella dell’Antico Egitto, è destinata a sostituire la molteplicità dei popoli con una molteplicità di personalità peculiari (…)>>.
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Segare il ramo, banchieri filantropi, e altre storie
di Alberto Bagnai
(...iniziato Verona, proseguito a Vicenza, terminato a Treviso. Pax tibi Marce evangelista meus...)
Nell'articolo con cui il 22 agosto 2011 lanciai il Dibattito sul "manifesto", attaccando da sinistra una Rossana Rossanda tutto sommato incolpevole (per non aver compreso il fatto), la chiave di volta del ragionamento era racchiusa in una frase che ex ante venne compresa da pochi, e che ex post forse sarà compresa da pochi altri (ma vale la pena di tentare):
"La Germania segherà il ramo su cui è seduta": che cosa voleva dire questa frase?
Proviamo a rispiegarne il senso economico e le implicazioni politiche. Sarà comunque un esercizio utile, indipendentemente dalla riuscita.
Prima premessa di metodo: la parola "domanda" esiste
Per mettere questa frase e le sue conseguenze nella prospettiva corretta bisogna però spogliarsi da ogni residua briciola di gianninismo, lo spaghetti-liberismo italiano tutto lato dell'offerta e distintivo (definisco questa corrente di "pensiero" riferendomi al personaggio di Giannino perché quest'ultimo è particolarmente influente - che non vuol dire autorevole!, iconico, e rappresentativo della consistenza scientifica di certe tesi).
Ricorderete che secondo Irving Fisher per ottenere un economista basta insegnare a un pappagallo a dire "domanda e offerta". In Italia occorre la metà dello sforzo: basta insegnare a un pappagallo (o a un giornalista) a dire "offerta", ed ecco pronto l'esperto di economia (quello autorevole)!
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Il Meccanismo Europeo di Stabilità e la miopia della sinistra
di Guido Ortona
Stando alle ultime notizie (scrivo il 23 dicembre) Meloni pensa di firmare il trattato sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità, ma con la ferma intenzione di non farvi ricorso. A mio avviso (ma come vedremo non solo mio – anzi!) questa posizione è profondamente errata, per due motivi. Primo. Una volta che il trattato sia entrato in vigore non spetterà più all’Italia decidere se farvi ricorso. Obbedire alle sue clausole sarà una precondizione per eventuali interventi a sostegno delle banche italiane e del debito pubblico italiano; e sarà il direttorio del MES a stabilire se e quando tali interventi saranno necessari, e le condizioni cui l’Italia dovrà sottostare. Queste condizioni saranno facilmente vessatorie, come vedremo. E dal momento che la politica europea è egemonizzata dalla Germania, e che la Germania ha forti conflitti di interesse con l’Italia, è bene che il MES non entri in vigore anche per evitare il rischio di pesanti interventi a danno delle banche italiane e della gestione del nostro debito pubblico. Grecia docet. Secondo. Ma soprattutto questa è forse l’ultima occasione per arrivare a ciò che è necessario: rimettere totalmente in discussione il MES puntando alla sua abolizione. Come è noto, infatti, l’approvazione di un trattato europeo richiede l’unanimità.
Le motivazioni di quanto sopra sono esposte in modo sintetico ma chiaro e convincente nel testo dell’appello che un blog di economisti (più qualcun altro), quasi tutti accademici, ha messo in circolazione in questi giorni (https://www.micromega.net/lunica-riforma-necessaria-per-il-mes/). Ne riporto qui il testo.
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Il governo Meloni e la riforma del MES
Federalismo coercitivo e difesa della sovranità nazionale
di Luca Lanzalaco
Il 30 novembre 2022 i partiti della maggioranza di governo hanno votato a larga maggioranza una mozione che impegna il governo “a non approvare il disegno di legge di ratifica della riforma del Trattato istitutivo del MES alla luce dello stato dell’arte della procedura di ratifica in altri Stati membri e della relativa incidenza sull’evoluzione del quadro regolatorio europeo” (Parlamento italiano – Camera dei Deputati 2022a).
A questo proposito avanziamo due tesi. La prima è che si è trattato di una decisione giusta, anche se la sua formulazione lascia alcuni margini di ambiguità che andrebbero quanto prima chiariti. La seconda che la posta in gioco in questa decisione sia ben più alta ed importante della semplice revisione di alcune procedure di controllo sull’andamento del deficit e del debito degli Stati membri dell’Unione europea. Esaminiamo distintamente le due tesi che, come emergerà chiaramente, sono tra loro connesse. Nel fare questo riprenderò in sintesi temi ed argomenti che ho avuto modo di sviluppare in modo molto più approfondito in altra sede (Lanzalaco 2022).
Prima è però opportuno un chiarimento. Dietro l’etichetta MES nel dibattito politico e nel discorso pubblico corrente si collocano due differenti referenti che, seppur strettamente collegati, vanno tenuti distinti (European Commission 2022, 19-20). Da un lato, vi è il cosiddetto Fondo salva stati che, istituito durante la crisi dei debiti sovrani (2010-2012) per offrire assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà, è stato riformato all’inizio del 2021.
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Che fine hanno fatto la UE e l’antieuropeismo?
di Matteo Bortolon
Nell’arco dello scorso decennio un elemento importante del conflitto politico europeo è stato la posizione sulla Ue. La contrapposizione europeisti vs. antieuropeisti (semplificando) si è definita come trasversale rispetto a progressisti vs. conservatori o sinistra vs. destra, rispecchiando un po’ quella – a parere di chi scrive non particolarmente azzeccata – globalisti vs. antiglobalisti. Una contrapposizione capace di generare rotture, polemiche e contrasti, che ha visto il punto di massima intensità nei dibattiti sull’euro, ma nel biennio 2020-21 pare essersi offuscata, uscendo dal dibattito pubblico, perciò ci dobbiamo chiedere: che fine hanno fatto l’euro e la Ue come elementi divisivi e clivage politici? È una eclissi temporanea o permanente? Ma sopratutto: i soggetti che hanno assunto una posizione forte in merito per qualificarsi come sono messi?
In un arco cronologico grosso modo decennale (2010-2019) l’Unione europea ha subito le più vivaci contestazioni dalla sua nascita (1993), con il fiorire di gruppi, movimenti e partiti che programmaticamente la inserivano nei loro obiettivi polemici o che ne caldeggiavano la distruzione o il severo ridimensionamento.
Da una parte stavano coloro per cui l’unità europea era un valore forte tanto da glorificare la Ue o, in caso di posizioni più critiche dei modelli dominanti basati su mercato, concorrenza, e simili, da sostenerne una riforma significativa in direzione di riduzione delle diseguaglianze, lotta alla povertà, misure a favore dell’ambiente, ecc. Riformare l’Europa per un modello progressista (o addirittura socialista).
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Dodici anni di distruzione economica per convincere la BCE a fare la Banca Centrale
di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)
Nonostante l'abbassamento del nostro rating da parte di Moody's, un debito che sale ed una campagna elettorale dagli esiti incerti, lo spread scende. A favorirne la discesa, sarebbe la BCE, lo dimostrano i numeri degli ultimi due mesi
Diciamolo chiaramente, per ben dodici lunghissimi anni, la paura per i tanto paventanti mantra dello “spread” e dei “mercati”, ci ha accompagnato a pranzo e cena, fino a non farci dormire nella notte.
Non passava giorno, senza che i vari e “così detti” economisti di regime di casa nostra – rappresentati in prima linea da Marattin, Brunetta ed il banchiere fiorentino Bini-Smaghi con moglie a seguito (l’economista Veronica De Romanis) – ci ricordassero attraverso i loro social o nelle loro ospitate televisive quotidiane, quanto il destino del nostro debito pubblico, fosse in mano ai mercati finanziari.
I più fervidi credenti, ha sentire tale e ripetuta predica, nelle loro preghiere serali, sono arrivati addirittura ad affiancare a Nostro Signore il “Dio dei mercati”. Sì, avete capito bene, oggi, quando parliamo con qualcuno, in particolare con chi opera nel mondo finanziario, si ha la netta percezione che molti, ancora considerino i mercati alla stregua di una divinità degna delle opere di Omero.
Il “mercato” sopra tutto e tutti e che nessuno più comandare e distruggere, insomma la paura assoluta da infondere nel genere umano e da sbandierare ogniqualvolta sia necessario per l’élite imporre qualcosa al popolo ignaro.
Dire, oggi ancora una volta: “Noi ve lo avevamo detto, che i mercati non contano niente di fronte alla potenza di fuoco di una banca centrale….!!!” – non serve a niente e fa apparire “Megas” e tutti gli studiosi della Modern Monetary Theory, antipatici e perfino narcisisti. Vi assicuro che non è così!
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La Bce detta le condizioni anti-spread per garantire il debito italiano: la Troika si avvicina
di Enrico Grazzini
Iniziano a essere chiari gli effetti delle decisioni della Bce di acquistare titoli pubblici (e alzare i tassi di interesse) e della Commissione di imporre ai governi il rientro dai debiti e dai deficit fiscali
L’inflazione alza la testa in tutto il mondo e la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea rispondono inaugurando politiche monetarie e fiscali restrittive: la Bce da questo luglio cessa di acquistare titoli pubblici e alza i tassi di interesse; e la Commissione impone ai governi di rientrare ancora più rapidamente di prima dai debiti e dai deficit pubblici. Anche perché la Bce smette di finanziarli e quindi il loro costo aumenta. Per contrastare il caro-prezzi i due principali organismi dell’Unione Europea di fatto aggraveranno la crisi, freneranno la ripresa economica post-Covid del vecchio continente provocando più disoccupazione, migliaia di fallimenti e povertà.
L’aumento del tasso centrale di interesse deciso dalla BCE comporta che il credito diventerà più caro: le famiglie pagheranno di più per i mutui e le aziende pagheranno di più per i prestiti necessari per gli investimenti. L’economia verrà rallentata e quindi diventerà ancora più difficile pagare i debiti pregressi. Ci risiamo con l’austerità, questa volta nel nome della lotta all’inflazione. Però il fortissimo aumento del costo del petrolio, del gas e dei cereali, certamente non si cura strozzando il credito e la spesa pubblica perché è provocato dall’invasione russa dell’Ucraina e dai lockdown decisi in Cina dal governo contro la risorgenza del Coronavirus. I problemi del caro-prezzi dipendono quindi esclusivamente dalla carente disponibilità di materie energetiche causata dalla guerra in Ucraina e dai problemi produttivi della Cina, la fabbrica del mondo: anche un bambino comprende che in questo contesto frenare la spesa pubblica e il credito non solo non risolve nulla ma è controproducente.
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La BCE all’assalto dei salari
di coniare rivolta
Parte I
La Banca Centrale Europea (BCE) ha annunciato, giovedì 9 giugno, una storica virata nella politica monetaria dell’area euro. Due sono i profili di questa manovra monetaria che invertono la rotta avviata con la crisi dei debiti pubblici degli anni Dieci: l’aumento dei tassi di interesse e la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici da parte della banca centrale.
Dopo undici anni di ribassi continui, la BCE ha annunciato che a luglio tornerà ad aumentare i tassi di interesse. Tra i compiti fondamentali di una banca centrale c’è la definizione del cosiddetto costo del denaro, ossia il tasso di interesse che le banche commerciali pagano alle banche centrali per prendere a prestito il denaro di cui hanno bisogno per il loro regolare funzionamento. La BCE, fissando i tassi di interesse pagati dalle banche commerciali per le loro operazioni di rifinanziamento, riesce ad orientare i tassi di interesse che le banche commerciali faranno poi pagare allo Stato, ai cittadini e alle imprese per l’erogazione di prestiti. In prospettiva, la BCE ha anche annunciato che quello di luglio sarà il primo di una serie di aumenti dei tassi di interesse che, progressivamente, porterà il costo del denaro ben al di sopra degli attuali tassi negativi, e dunque fuori dalla zona di eccezione in cui si è mossa la politica monetaria emergenziale dalla crisi dei debiti pubblici alla pandemia.
Secondo l’ideologia della BCE, la politica monetaria ha il compito fondamentale di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere l’inflazione attorno al 2%.
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