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contropiano2

L’apocalisse economica dell’Europa è ora

di Francesco Piccioni - Matthew Karnitschnig*

apocalisse europa.jpgIl 2025 non sarà un buon anno. I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.

Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.

Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee.

Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.

Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.

I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali a esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).

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lafionda

Trump e l’Unione Europea: tra la pace in Ucraina e una nuova possibile crisi finanziaria

di Enrico Grazzini

f.elconfidencial.com original b38 df9 ab0 b38df9ab0985d03497920dbef3137cdc.jpgChe cosa cambierà per l’Europa con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca? Predire il futuro, e in particolare prevedere quello che farà Trump – noto, per la sua imprevedibilità e per i suoi umori discontinui – è assolutamente impossibile. Tuttavia occorre fare uno sforzo per tentare di comprendere le conseguenze della nuova situazione americana sapendo che bisognerà di volta in volta modificare le previsioni in base alle dinamiche della realtà. E’ noto che Trump non ama la UE e che appoggia tutti i politici europei nazionalisti di destra che, in una maniera o nell’altra, contrastano l’Unione, da Nigel Farage in Gran Bretagna a Viktor Orban in Ungheria a Matteo Salvini in Italia e Aleksandar Vučić in Serbia. Trump formerà con loro e con altri una sorta di “Internazionale illiberale” che condizionerà pesantemente la politica europea a partire dalla questione dei migranti. Oltre a Orbán, il primo ministro italiano Giorgia Meloni e il Cancelliere austriaco Karl Nehammer sono entrambi ideologicamente vicini a Trump, sebbene Meloni, amica del capitalista libertario e pazzoide Elon Musk, partner stretto di Trump, non condivida la posizione filo-russa di Orbán. Anche il governo olandese sostenuto da Geert Wilders, un politico anti-Islam, anti-immigrazione e populista, può diventare un alleato di Trump. Il neo eletto presidente americano favorirà con forza la disintegrazione nazionalistica della UE.

Nello scontro tra il liberalismo della UE e i nazionalismo fascistoidi interni alla UE, favorirà i regimi illiberali di destra e gli “uomini forti” (o le “donne forti”) che intendono scardinare le democrazie in Europa e svuotare dall’interno la UE. L’ideologia della destra europea più o meno estrema è in generale conforme a quella della tradizione reazionaria: Dio, Patria e Famiglia. In realtà la religione viene invocata non nel suo aspetto trascendente e liberatorio ma perché impone una disciplina superiore, intima e ferrea, l’obbedienza a una entità superiore. Anche l’amore di Patria obbliga all’obbedienza al Capo e a guardare con sospetto gli oppositori critici, le minoranze (e soprattutto gli “alieni” gli immigrati, che per definizione non hanno patria, e che quindi per definizione portano indisciplina, scompiglio, e perfino terrorismo).

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politicaecon

La nuova governance fiscale europea fra mezze verità e metafisica

di Sergio Cesaratto (Unisi-Deps)

Anche a scopo didattico, pubblico alcune note sul Piano strutturale di bilancio che il governo sta discutendo con la Commissione Europea. Una sintesi è apparsa su Il Fatto del 31 ottobre 2024

01625998.jpgCon il voto del Parlamento europeo e del Consiglio della UE, nell’aprile 2024 sono stati adottati i testi legislativi che delineano la nuova governance economica dell’Unione [1]

 

Obiettivi

L’obiettivo generale è portare il rapporto fra il debito e il PIL su una traiettoria plausibilmente discendente o mantenerlo su livelli prudenti, nonché per portare o mantenere il disavanzo al di sotto del 3 per cento del PIL nel medio termine.

Allo scopo ciascun paese deve presentare un Piano strutturale di bilancio (PSB ) che definisca il percorso di consolidamento necessario per realizzare gli obiettivi.

Al centro del nuovo assetto vi sono le analisi di sostenibilità del debito pubblico nel medio termine e il confronto tra ogni Stato membro e la Commissione per la definizione di una politica di bilancio appropriata, anche in relazione a piani di riforme e di investimenti. In tal modo si intende superare la logica delle regole valide per tutti (vedremo che non è poi così).

 

Obiettivi specifici

Il PSB deve assicurare che per gli Stati con un debito pubblico superiore al 60 per cento del PIL o con un disavanzo superiore al 3 per cento del PIL (come l’Italia) alla fine del periodo di consolidamento:

(i) il debito pubblico in rapporto al PIL si deve collocare su una dinamica plausibilmente decrescente nel medio termine o mantenersi su livelli prudenti al di sotto del 60 per cento;

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sinistra 

Il libro Bianco Ue sulle tecnologie duali e le strategie militari e civili del nuovo imperialismo europeo

di Federico Giusti

unione europea imperialismo"È inutile attaccare l’imperialismo o il militarismo nella loro manifestazione politica se non si punta l’ascia alla radice economica dell’albero e se le classi che hanno interesse all’imperialismo non vengono private dei redditi eccedenti che cercano questo sfogo.”

 J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton & Compton editori, Roma 1996, p. 119.

Partiamo da questa considerazione di Hobson, un liberale che scrisse un saggio critico sul colonialismo inglese a cavallo tra Otto e Novecento, per cercare di fare chiarezza sui processi di militarizzazione in atto nella società e in particolare nel settore educativo e universitario.

E un'altra considerazione va fatta rispetto a una visione euro centrica ancora imperante che ha portato a letture preconfezionate non solo dei processi in atto nell'area Mediorientale ma anche in altre zone del Globo, ad esempio rispetto al saccheggio operato dalle multinazionali in alcuni continenti nella ricerca di materie prime rare indispensabili per la svolta green e i processi di digitalizzazione.

In questo caso la classica visione ecologica dei processi di transizione dimentica di guardare a quanto accade nei paesi del terzo mondo e in via di sviluppo, guarda con sufficienza, o sterile esaltazione, ai Brics, non coglie il nesso tra i processi di militarizzazione, te tecnologie duali e i processi di ristrutturazione del capitalismo occidentale.

Lo sforzo analitico per comprendere la realtà dovrebbe partire invece dall'intreccio tra militarismo e processi riorganizzativi del capitalismo, tra politiche imperialiste e neo coloniali e la svolta green almeno per non cadere negli schematismi del passato.

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coniarerivolta

La variante Draghi

di coniarerivolta

mario draghiCirca tre settimane fa è stato pubblicato l’atteso Rapporto sul futuro della competitività europea, a opera dell’ex Presidente di: Banca d’Italia, Banca Centrale Europea, del Consiglio italiano, Mario Draghi. Presentato da molti come un faro di luce che illumina con lungimiranza il tetro destino di un’Europa bloccata tra le pastoie dei suoi conflitti interni e di un’irragionevole austerità, il rapporto Draghi ci offre spunti molto interessanti per comprendere gli scenari che il capitalismo europeo si trova ad affrontare. In un certo senso il Rapporto rappresenta plasticamente una delle diverse varianti dell’applicazione del neoliberismo nell’Unione europea di oggi.

Il Rapporto prende spunto dal crescente divario nei tassi di crescita dell’Europa e degli Stati uniti, riconducendolo a una progressiva erosione della competitività del tessuto produttivo europeo in favore dei principali concorrenti internazionali, un fenomeno causato, principalmente, da un declino della produttività europea.

Tale declino dipenderebbe da un ritardo delle imprese europee sul fronte tecnologico e da un assetto industriale europeo eccessivamente frammentato: mentre in Europa si scontrano oligopoli nazionali, i mercati americani e cinesi sono dominati da giganteschi monopolisti che, sfruttando l’ampia scala di produzione che deriva da un mercato di sbocco grande quanto un continente, raggiunge livelli produttivi tali da consentire e giustificare spese di investimento che in Europa appaiono impossibili da realizzare.

Il Rapporto Draghi è fitto di numeri ed esempi concreti di questo ritardo del capitalismo europeo rispetto agli Stati Uniti e al cospetto dell’incombente “minaccia cinese”. A fronte delle difficoltà europee, il rapporto invoca “cambiamenti radicali” che dovrebbero riguardare principalmente tre aree: innovazione tecnologica e struttura industriale; gestione della transizione verde; difesa.

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Contro l’Europa del capitale e della guerra

di Ascanio Bernardeschi

vittoria.jpgLe politiche economiche dell’Unione europea tutelano gli interessi del grande capitale conducendoci a una crisi di vaste proporzioni, peggiorando drasticamente le condizioni e i diritti dei lavoratori e abbattendo gli spazi di resistenza democratica.

In Europa siamo di fronte a una crisi di vaste proporzioni, tanto da far rimpiangere quella del 2008. Il tessuto produttivo europeo è alla canna del gas a partire dalla “locomotiva” Germania. Come al solito, il peggio ne fanno i lavoratori. Proviamo a indagare le cause.

1992, Trattato di Maastricht. Una data infausta. Da quel momento, con una costante progressione, si è impoverito e ha perso diritti il mondo del lavoro. Non si tratta di una coincidenza. L’ex governatore della Banca d’Italia, nell’occasione della firma del Trattato, ebbe a sussurrare agli intimi che i nostri governanti non si rendevano conto di cosa stavano sottoscrivendo, cioè il cambiamento della natura dello Stato, la sua riduzione a uno Stato minimo, ma non di tipo liberale ottocentesco; molto peggio perché privava gli Stati della sovranità monetaria e sposava acriticamente tutte le indicazioni della scuola neoliberista di Chicago.

Per la verità, la cosa era cominciata un paio di anni prima con il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro, di cui fu esecutore Azelio Ciampi. Uno dei capisaldi della scuola di Chicago è, infatti, che le banche centrali debbano essere indipendenti dalla politica e debba essere loro proibito di acquistare non già i titoli tossici, ma direttamente dal Tesoro i titoli del debito pubblico. Questo ha significato che da allora gli Stati sono costretti a collocare per intero tali titoli nel mercato, esponendosi alla speculazione a rischio di far lievitare i tassi e con ciò il debito stesso, come è avvenuto regolarmente per la maggior parte delle nazioni.

Questo tranello è stato confermato dal Trattato che vi ha aggiunto altre tagliole. Sempre in omaggio alle dottrine neoliberiste ha stabilito che la prima cosa da tutelare è la stabilità monetaria e il controllo del tasso di inflazione, non i diritti sociali.

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crs

L’Europa di Draghi e l’economia di guerra

di Alessandro Scassellati

Nel suo rapporto l'ex Presidente del Consiglio non propone una maggiore cooperazione a livello internazionale e un dialogo con le potenze emergenti, ma asseconda la deriva verso un mondo dominato da poli energeticamente e tecnologicamente autosufficienti, armati fino ai denti e disposti a entrare in guerra per risolvere eventuali controversie

bce draghi pix 890x395 c.jpgMentre l’Unione europea si è spostata a destra sia in Parlamento sia nella composizione della Commissione1 e si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania e altri paesi cosiddetti “frugali”) che esclude solo le spese per le armi dal computo nel calcolo del deficit2, da mesi gli alti funzionari dell’Ue fanno dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro”, ha affermato qualche settimana fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica” e a sostenere che “dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”, spendendo 500 miliardi di euro nel prossimo decennio, lavorare per costruire un esercito europeo e avere come priorità principale “prosperità e competitività”.

Non a caso, circa un anno fa, von der Leyen aveva affidato a due dei maggiori esponenti della tecnocrazia europea, campioni della visione del mondo neoliberista, Mario Draghi ed Enrico Letta, la redazione/supervisione di due rapporti complementari che avrebbero dovuto delineare, da un lato, una strategia per il futuro della competitività europea (vedi qui e qui) e, dall’altro, una strategia per il futuro del mercato unico europeo (vedi qui). Il Rapporto Draghi incorpora le analisi e raccomandazioni del Rapporto Letta, per cui nell’analisi che segue ci concentriamo sulla strategia messa a punto da Draghi e presentata ufficialmente il 9 settembre scorso.

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effimera

L’arretratezza del rapporto Draghi sulla competitività europea

di Andrea Fumagalli

mario draghi competitivita scaled 1 1200x800.jpgQualche giorno fa, la commissione Europea ha reso pubblico il rapporto Draghi sul “Futuro della competitività europea”. Tale rapporto era stato commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente.

Il rapporto consta di due parti – parte A e parte B – e contiene 170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sottoproposte di vario tipo.

La prima parte è un’analisi riguardante la strategia di competitività per l’UE che vede condensate in circa 60 pagine i punti chiave del rapporto Draghi.

La seconda parte approfondisce in 328 pagine i vari punti individuando dieci principali settori di intervento (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) e cinque policy orizzontali, rispettivamente accelerazione dell’innovazione, riduzione del gap delle competenze, sostegno agli investimenti, ripresa della competitività e rafforzamento della governance. Nella parte B sono contenute le proposte dettagliate corredate da grafici, dati e tabelle che spiegano in particolare i costi della sovranità nazionale e le potenzialità della sovranità europea.

Diverse sono state le reazioni politiche in Italia. Mentre partiti come il Partito Democratico, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione e Italia Viva hanno ampiamente concordato – anche se con sfumature diverse – che le proposte di Draghi sono un passo nella giusta direzione, la Lega, da un lato, il Movimento Cinque Stelle e Alleanza Versi Sinistra, dall’altro, con motivazioni antitetiche, hanno manifestato forti perplessità critiche.

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fuoricollana

Von der Leyen bis, il vuoto della politica

di Andrea Guazzarotti

von der leyen esulta ftg.jpegLa candidata alla Presidenza della Commissione per il Partito popolare europeo, Ursula von der Leyen, è stata prima designata dal Consiglio europeo (capi di Stato o di governo), poi eletta dal Parlamento europeo (PE). La Presidente uscente, candidata del più grande gruppo politico al PE, è stata, dunque, riconfermata, dopo che il suo gruppo ha ottenuto una chiara maggioranza relativa, in crescita rispetto alle precedenti elezioni europee. Si tratta di una prova di stabilità nella continuità delle istituzioni europee, oppure di una vittoria figlia della cintura sanitaria europeista eretta nel Parlamento europeo, che poco ha a che spartire con la credibilità personale e istituzionale guadagnate sul campo dalla Presidente uscente (Cerretelli)? Una Presidente «che pochi amano ma molti hanno rieletto per evitare una crisi istituzionale devastante» (ibidem).

 

Far scegliere agli elettori la Presidenza della Commissione, o della truffa delle etichette

La continuità delle istituzioni europee, in realtà, è difficile da testare. Rispetto alla precedente elezione della “Von der Leyen I”, si è trattato di un apparente ritorno alla prassi – in passato ardentemente patrocinata dal Parlamento europeo – degli Spitzenkandidaten. Una prassi progettata dall’illusione dell’accademia di trasformare la struttura costituzionale dell’UE senza passare per la riforma dei Trattati e, soprattutto, per la (improbabile quanto dolorosa) costruzione di un’egemonia politica e di un demos europeo. Per avvicinare gli elettori alle istituzioni europee e politicizzare la formazione della Commissione, in modo da ridimensionare il ruolo di King-maker del Consiglio europeo (cioè dei governi nazionali), era stata valorizzata la novità normativa del Trattato di Lisbona (2009) che imponeva al Consiglio europeo di designare la Presidente della Commissione «tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17.7 TUE).

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lafionda

Lo sgretolamento dell’Unione Europea

di Enrico Grazzini

Le elezioni europee annunciano l’inizio della fine dell’Unione Europea. La diarchia franco-tedesca è a pezzi, la UE svolta a destra e Bruxelles si subordina alla Nato. La sinistra dovrebbe opporsi a questa Unione e proporre invece una Confederazione Europea di Stati sovrani. Occorre innanzitutto bloccare l’escalation bellica e nucleare in Ucraina e in Europa

sgretolamento 1973.jpgL’Unione Europea è a pezzi. Alle elezioni per il Parlamento europeo hanno partecipato meno della metà degli aventi diritto. Il problema è che i cittadini dell’Europa sanno bene che il loro voto conta molto poco e che l’Unione Europea è sostanzialmente impermeabile alla volontà popolare. La destra tuttavia è avanzata e condizionerà pesantemente il nuovo Parlamento della UE. Apparentemente poco o nulla cambia al vertice. Ursula von der Leyen è stata appena rinominata Presidente della Commissione UE sostenuta dalle stesse forze della precedente coalizione, popolari, socialisti, liberali e verdi, e il suo programma è di sostanziale conservazione e non prevede alcuna vera riforma. La UE continuerà sulla strada dell’austerità e del liberismo, cioè del suicidio economico per asfissia. La disintegrazione nazionalistica diventa dunque sempre più probabile. L’unica vera grande novità è il riarmo europeo (e soprattutto tedesco). Mentre crescono le pulsioni xenofobe e di destra estrema in Francia, Germania, Italia, Austria, Olanda, Belgio e in altri paesi, la UE si avvia allo scontro con la Russia sotto l’ombrello della NATO a guida americana. Non si vede nessun leader europeo in grado di imporre svolte progressiste alla UE. Per l’Unione, intesa come istituzione politica e non solo come integrazione doganale, è molto probabilmente l’inizio della fine. La UE sembra irreversibilmente avviata verso l’impotenza e la disgregazione. La sinistra socialista e comunista è quasi scomparsa in Europa proprio per avere promosso e sostenuto questa UE liberista dei paradisi fiscali, della libertà dei capitali e dello strozzamento dell’intervento pubblico nell’economia. Se vuole fermare la destra, la sinistra progressista dovrebbe finalmente cominciare a opporsi all’Europa fallimentare di Maastricht e a bloccare l’escalation bellicista in Europa. Diventa sempre più urgente realizzare una Europa fondata su basi radicalmente diverse: una Confederazione di Stati democratici e sovrani che hanno una moneta comune (non unica) e cooperano liberamente per obiettivi condivisi, innanzitutto la transizione energetica e la lotta ai cambiamenti climatici.

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sinistra

La repressione al tempo dell'Unione Europea votata alla guerra

di Enzo Pellegrin

caschiblu.jpgColpisce non poco la recente raffica di provvedimenti questorili contro i manifestanti milanesi pro Palestina. Nell’obiettivo della Questura i partecipanti alla manifestazione del 25 aprile che si erano distinti per il sostegno alla causa palestinese e che avevano espresso solidarietà al diritto di autodeterminazione e alla resistenza di questo popolo.

Da molto tempo in tutta l’Unione Europea sono all’ordine del giorno le ondate repressive contro ogni manifestazione del pensiero che si allontani dai diktat politici del neoliberismo UE a pensiero unico e dala politica guerrafondaia della NATO: dalla repressione del movimento NOTAV, a quella contro i Gilet Jaunes, contro le maniifestazioni sindacali avverse ai progetti antipopolari e neoliberali del governo Macron, contro le manifestazioni per la pace in Francia e Germania. A questo quadro piuttosto inquietante, si aggiunge non solo da oggi una cappa di censura politica e mediatica su ogni critica al comportamento del governo sionista al potere, in Israele e alla sua condotta di guerra contro il popolo palestinese.

Accade così non per caso che a un noto e attivo militante sindacale dello SLAI COBAS presso la Tenaris di Dalmine, Sebastiano Lamera venga imposto un foglio di via che lo obbliga a non frequentare per ben sei mesi i luoghi più importanti di manifestazione del conflitto politico nel centro di Milano. La giustificazione è un asserito concorso in reati di resistenza a pubblico ufficiale che si sarebbero sviluppati proprio durante la repressione di una parte del corteo del 25 aprile che aveva manifestato a sostegno della causa palestinese. Nessun processo su questo asserito reato è ancora iniziato, nessun giudice della Repubblica ha applicato a Sebastiano una misura cautelare né tanto meno una condanna.

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alternative

C’è del chiaro in fondo al tunnel

di Alfonso Gianni

204909839 b826a1b5 aa95 4501 b42c b78bb21a0804.jpgChi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, perché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada

Eraclito

L’anno corrente non sarà solo ricordato per la quantità di appuntamenti elettorali che si sono svolti. In effetti più di 50 Paesi in tutto il mondo, con una popolazione complessiva di circa 4,2 miliardi di abitanti, più della metà della popolazione mondiale, hanno tenuto o terranno elezioni nazionali, regionali e comunali nel 2024, in quello che è stato quindi definito come l’anno elettorale più grande della storia, con la partecipazione di sette delle dieci nazioni più popolose al mondo, cui va aggiunta l’Unione europea. Non senza eccesso di enfasi il Guardian lo ha definito “il Super Bowl della democrazia”1

Ma la vera novità dell’anno in corso, almeno entro il perimetro Ue, è stata certamente la inaspettata e sorprendente vittoria della gauche in Francia, sulla base di un programma effettivamente di sinistra. Almeno per quanto riguarda gli aspetti sociali, con una caduta in negativo sul tema della guerra russo-ucraina. Tutt’altra cosa comunque della vittoria dei laburisti in Inghilterra. Un esito felice, quello francese, che parla a tutta l’Europa e oltre, come ha dimostrato in modo emblematico l’entusiastica manifestazione che ha riempito la sera 7 luglio Place de la Republique, ove varie voci, diversi idiomi e accenti si rincorrevano in una sorta di polifonia internazionalista. E si poteva udire anche il nostro “Siamo tutti antifascisti” nella lingua originale “del bel paese dove ‘l sì suona”.2

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doppiozero

Elezioni europee: tragicommedia alla francese

di Andrea Inglese

Manif 01.JPGUn ecosistema politico scombussolato

Due settimane fa lo stile solenne, regale, napoleonico, gaullista, che sempre aleggia sui momenti cruciali della vita politica francese, e su quelli in particolare che riguardano le deliberazioni presidenziali, ha lasciato spazio a una gesticolazione forsennata e scomposta, tale da ricordare piuttosto lo stile italiano, e il suo talento per la commedia grottesca, tutta animata da calcoli cinici, guerre intestine, colpi bassi e maniere da spaccone. I colpi di scena non sono mancati: batosta della maggioranza di governo alle elezioni europee; l’estrema destra di Le Pen e del giovane Bardella primo partito di Francia (con più del 30% dei voti); immediata decisione presidenziale di sciogliere il governo e di andare alle elezioni legislative a poche settimane dall’inizio dei Giochi Olimpici; miracolosa e istantanea alleanza delle sinistre fratricide in un nuovo Front Populaire; Éric Ciotti, presidente del partito della destra conservatrice (quello di Chirac e Sarkozy), che proclama un’alleanza con l’estrema destra, rompendo un tabù fino a oggi inviolabile, e viene immediatamente smentito da tutte le personalità del suo partito, trattato come traditore e privato della sua carica; contesa tra Ciotti e il suo partito davanti al tribunale, con decisione di giustizia che permette al presidente appena ripudiato di riacquisire le sue funzioni; l’espulsione di Marion Maréchal Le Pen dall’altro partito di estrema destra, quello di Éric Zemmour, per aver espresso la volontà di allearsi con il partito della zia Marine. Di tutti questi eventi, l’unico veramente prevedibile, grazie all’arte divinatoria dei sondaggi, era la vittoria del Rassemblement National (ex Front National), il più enigmatico riguarda la scelta di Macron di andare alle urne subito (il 29 e 30 giugno per il primo turno, il 6 e 7 luglio per il secondo), il più inverosimile l’accordo delle sinistre, firmato nell’arco di qualche giorno, con tanto di programma assai dettagliato per “realizzare delle grandi biforcazioni” sui temi sociali, economici, ecologici, e di politica internazionale.

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sollevazione2

Cacciare Macron!

di Leonardo Mazzei

dilemma francese.jpgVerso un “Libano senza sole”?

A una settimana dalle elezioni europee le onde sismiche del tracollo macroniano continuano a propagarsi nella politica francese. Sarà così almeno fino al 7 luglio, data del ballottaggio. Ma forse anche dopo, se si realizzerà lo scenario previsto dall’ex ministro del lavoro Olivier Dussopt (quello della controriforma delle pensioni), che ha descritto la futura situazione istituzionale in Francia come “un Libano senza sole”. Un quadro un po’ desolante per l’improbabile Napoleone del XXI secolo. Ed è interessante che colui che da mesi scalpita per lanciare le sue truppe verso il fronte ucraino, debba adesso combattere una battaglia interna che potrebbe vederlo alla fine cadere di sella. Potenza della guerra e della vertigine del potere!

Questa cartolina che ci arriva da Parigi, oltretutto se affiancata a quella proveniente da Berlino, ci parla in effetti di una cosa sola. Il vero vincitore delle elezioni europee è un signore che risiede a Mosca e che non era candidato per alcun seggio a Strasburgo: Vladimir Putin. I capoccioni dell’escalation euroatlantica sono usciti scornati dalle urne, questo è il fatto. Nulla di definitivo, ovviamente, riguardo al futuro ruolo dei paesi Ue nella guerra. Ma di certo una sberla dalle conseguenze imprevedibili. E gli sviluppi da seguire maggiormente nelle prossime settimane saranno proprio quelli francesi.

Tre le questioni fondamentali: chi vincerà le elezioni legislative del 30 giugno – 7 luglio? Potrà uscirne un governo stabile? Macron potrà restare davvero all’Eliseo dopo le elezioni? Per provare a rispondere a queste tre domande è necessario comprendere come si sta ridisegnando il quadro delle alleanze e dei programmi elettorali in questa brevissima campagna elettorale. Tutto questo alla luce del particolare sistema elettorale del Paese transalpino.

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ilpungolorosso

Due note sulle elezioni europee

di Il Pungolo Rosso

Von der Leyen e ZelenskyI risultati delle elezioni europee hanno fatto esplodere in Francia una crisi politica latente da lungo tempo, data l’enorme impopolarità di Macron e della sua élite di ricchi tecnocrati repressori e guerraioli, e hanno portato in un vicolo cieco in Germania l’altrettanto impopolare governo Scholz, ma non si può certo sostenere che insieme con l’accoppiata Macron-Scholz è stato battuto “il partito della guerra” alla Russia. Questa tesi, fatta propria anche da alcuni compagni, è stata avanzata per primo, a botta calda, dal presidente della Duma russa Volodin; ed è stata poi ripresa, tra gli altri, da Orban, dal “pacifista” Travaglio e da altri ancora, delusi tuttavia perché in Italia è andata diversamente (vedi i flop del M5S, “pacifista” a tempo scaduto, e del circo-Santoro).

In realtà, proprio in base al responso delle urne, si profila la conferma tanto della von der Leyen, assatanata esponente di punta del cosiddetto “partito della guerra”, quanto della sua maggioranza composta da popolari-socialdemocratici-liberali (eventualmente estesa a FdI e/o ai verdi) che sfidiamo chiunque a considerare contraria alla corsa alla guerra, sia nella formazione ristretta che in quella allargata. Purtroppo va registrato che la “questione guerra”, nonostante l’accelerazione avvenuta negli ultimi mesi, risulta tuttora piuttosto lontana dalla massa degli elettori, perché le sue conseguenze pratiche, a cominciare dall’inflazione e dall’inasprimento delle misure repressive, non sono ancora avvertite per tali, almeno nei paesi più lontani dal fronte ucraino.

Ma procediamo con ordine, partendo dal dato della partecipazione al voto, sospinto sullo sfondo, quasi cancellato, dai partiti vincitori delle elezioni perché ridimensionerebbe di molto la loro vittoria – un dato che va invece considerato nella sua importanza e analizzato.