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Il Piano di Rilancio e Resilienza: soldi pochi e selezione verso l’alto
di Alessandro Giannelli
Scritto ed integralmente concordato dal premier Draghi con l’ Unione Europea, il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, rappresentato come il piano economico più imponente dal dopo guerra ad oggi, è stato inviato il 29 aprile a Bruxelles.
Totalmente bypassato il Parlamento (che comunque lo ha approvato a scatola chiusa e praticamente all’unanimità) e con tutto il quadro politico istituzionale impegnato nel frattempo ad accapigliarsi sullo spostamento dell’orario del coprifuoco dalle 22 alle 23…
Il piano si compone di sei missioni espressamente indicate da Bruxelles (digitalizzazione, transizione verde, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute), all’interno delle quali si sviluppano 16 componenti, ed è accompagnato da 4 riforme di contesto (giustizia, PA, semplificazioni e concorrenza) a cui si aggiunge la riforma fiscale (certamente non in chiave redistributiva) della quale si comincerà a discutere a giugno.
Le cifre e la logica del Piano
Senza troppo soffermarci sulle cifre, ma giusto per avere la dimensione reale e non propagandistica della “potenza di fuoco” messa in campo: si tratta di circa 200 miliardi (dei quali circa 70 in sovvenzioni e circa 122 in prestiti da restituire) stanziati per il nostro paese e da spalmare in 6 anni, a cui vanno aggiunti circa 13,5 miliardi di fondi europei nell’ambito del programma React-Eu.
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Gli obiettivi occupazionali dell’Unione europea: una farsa senza fine
di coniarerivolta
Il vertice di Porto si è chiuso con l’ennesimo proclama entusiasta della Commissione europea che promette di raggiungere obiettivi fantasmagorici entro il 2030. Per fortuna, questa volta persino la stampa filoeuropeista si è accorta che si tratta di impegni ‘morali’ perché, come siamo abituati a vedere, di concreto non c’è un bel nulla. Anzi.
Nel consesso portoghese si è data grande enfasi al cosiddetto ‘Pilastro dei diritti sociali’, una delle patine zuccherine che l’Unione europea ha inserito nella sua agenda fatta di austerità e liberismo. Tre gli obiettivi da raggiungere entro il 2030, fissati dalla Commissione europea e ribaditi al summit di Porto, per dare attuazione al suddetto pilastro: un tasso di occupazione nell’insieme dei paesi UE di almeno il 78%; una partecipazione di almeno il 60% degli adulti a corsi di formazione ogni anno; la riduzione del numero di persone a rischio di esclusione sociale o povertà di almeno 15 milioni (di cui 5 milioni di bambini). Risuona così l’eco della famosa Agenda Europa 2020 che fissava come obiettivi l’anno appena trascorso super giù i medesimi traguardi: almeno il 75% della popolazione europea occupata nella stessa fascia d’età; ridurre di 20 milioni il numero delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale; ridurre il tasso di abbandono scolastico a meno del 10% e portare almeno al 40% il tasso dei giovani laureati.
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L'Italia ai tempi del Recovery Plan (II)
Dialogo con gli economisti
Risponde Vladimiro Giacché
Con questa approfondita intervista prosegue la riflessione, inaugurata dal colloquio con Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (www.machina-deriveapprodi.com/post/l-italia-ai-tempi-del-recovery-plan), sulla politica economica di risposta alla crisi drammatizzata dalla pandemia Covid. Ritorno delle istituzioni regolative, Recovery Plan, strategia europea di rilancio dell’accumulazione, contraddizioni del green new deal, sono alcuni degli argomenti proposti a Vladimiro Giacché, filosofo di formazione, autore di saggi filosofici e di economia politica, ma anche di ricerche più strettamente di carattere finanziario, in qualità di professionista del settore bancario e del ruolo di presidente del centro di studi economici Centro Europa Ricerche (Cer, 2013-2020). Tra i suoi libri si citano: Titanic Europa (2012), Costituzione italiana contro trattati europei (2015), La fabbrica del falso (terza ed. 2016), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (nuova ed. 2019), Hegel. La dialettica (2020). Ha curato inoltre edizioni degli scritti economici di K. Marx (Il capitalismo e la crisi, 2009) e Lenin (Economia della rivoluzione, 2017).
* * * *
Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, la diffusione della pandemia ha determinato un prepotente ritorno dello Stato nei processi regolativi, nella gestione economica, nel sostegno ai redditi. Pensate che questo possa essere un lascito duraturo della pandemia? Se nel dopoguerra prese la forma di Stato sociale e modernizzatore dell’economia e, con l’avvento del paradigma neoliberista, il suo ruolo viene via via ridimensionato a «salvatore d’ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà (almeno in Europa e negli States), in che modalità esso si ripresenta oggi?
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Il Recovery Plan, il Sud e le promesse mancate
di Francesco Zezza
Tra il 15 ed il 25 Aprile 2021, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha presentato alle Camere il Documento di Economia e Finanza per il 2021 (DEF) e la versione (aggiornata) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – parte del programma Next Generation EU (NGEU), il pacchetto di sostegno all’economia da 750 miliardi di euro proposto dalla Commissione Europea per rispondere alla crisi pandemica.
La Legge di Bilancio per il 2021 introduce un nuovo scostamento del deficit pubblico, pari a 30 miliardi di euro per il 2021, 6.5 per il 2022 e 4.5 per il 2023.
Il PNRR fornirà ulteriori investimenti pubblici per 191,5 miliardi – che saranno finanziati attraverso il Recovery and Resilience Facility (RRF), lo strumento chiave dell’NGEU – e un consistente pacchetto di riforme, che interesseranno principalmente i settori della pubblica amministrazione, della giustizia, della semplificazione normativa e della concorrenza.
Nelle parole del Governo, il Piano “[è un] intervento epocale, che intende riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. Il Piano ha come principali beneficiari le donne, i giovani e il Mezzogiorno e contribuisce in modo sostanziale a favorire l’inclusione sociale e a ridurre i divari territoriali.”
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Austerità e riforme: il Piano di Draghi è servito
di coniarerivolta
Dopo una lunga attesa, la nuova versione del Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) firmata dal premier Draghi è finalmente tra noi. Si tratta del programma di investimenti che il Governo deve presentare alla Commissione europea entro la fine di aprile per poter spendere la quota italiana del Next Generation EU, lo strumento che l’Europa ha messo in campo per rispondere alla crisi da Covid-19.
Mentre la stampa ci racconta di una straordinaria capacità programmatica dei competenti, materializzatasi in un documento chiave per accedere ai fantastiliardi in arrivo dall’UE nei prossimi anni, ad un’attenta lettura le cifre di cui stiamo parlando si rivelano purtroppo per quei due spicci che sono. Non solo, il contenuto del Piano si presenta come l’ennesimo addentellato di un percorso di pericolose riforme e di austerità lacrime e sangue.
I soldi, per prima cosa, vanno contati
Già, perché quando parliamo di ‘risorse europee per risollevarci dalla crisi‘ stiamo parlando, conti alla mano, di circa 200 miliardi di euro spalmati su sei anni. Si tratta, in larga parte, di prestiti, e di risorse che finanzieranno progetti già in programma e in bilancio.
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La “nuova Europa” passa anche per gli arresti di Parigi
di Dante Barontini
Davvero qualcuno crede che pretendere l’estradizione e la morte in carcere per dei settantenni (in media), che hanno combattuto contro lo Stato tra i 50 e i 40 anni fa, sia qualcosa di diverso dalla pura vendetta?
L’assurdo è tale che non è possibile considerarlo un assurdo. Non possiamo “immaginarci” il Potere – la classe dirigente di questo disgraziato paese – come un gruppo di ottusi semplicemente ossessionato dal fatto che alcuni (percentualmente pochi) dei suoi nemici d’allora siano sfuggiti al carcere.
Dopo 40 anni, e “due repubbliche” dopo (siamo alla Terza, giusto?), anche la peggiore ossessione dovrebbe essere spenta sotto l’urgenza di problemi ben più presenti.
Dunque la ragione profonda degli arresti di Parigi non può essere quella ufficialmente raccontata. Non per “complottismo”, ma perché riteniamo che almeno una parte di questa classe dirigente sia capace di fare un mestiere da macellaio, ma con una certa “creatività” e una buona dose di furbizia, se non proprio di intelligenza.
Perciò, se ci danno una spiegazione stupida, non possiamo crederci.
Per questi arresti si sono mossi personalmente Mario Draghi e Marta Cartabia, non due buzzurri a metà strada tra la Lega e Fratelli d’Italia. Sono riusciti là dove Salvini e Bonafede avevano fallito, pur gestendo esattamente lo stesso dossier.
E se Macron ha cambiato linea rispetto a due anni fa, è evidente che stia maturando un diverso rapporto tra i vari paesi membri dell’Unione Europea.
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Piccole glosse ad un post di Vincenzo Costa: la fine della Unione Europea
di Alessandro Visalli
A partire dalla crisi del 2007 un neolingua si fa avanti. O meglio, a partire dal dispiegarsi degli effetti sociali della crisi sistemica innestata dal crollo della piramide dei debiti intrecciati ed incorporati nei meccanismi riproduttivi della società. Questa neolingua indica l’asserragliamento dei “Giusti” nella difesa delle categorie (rapresentation matters), nella politica delle identità che ne consegue, la ricerca di una zona senza traumi (safe space) ben presidiata da virtue signaling. In un interessante libro (anche se radicalmente aneddotico) da poco uscito[1] viene citato un raccontino di Meghan Daum sulla metropolitana di New York:
“era mezzanotte, nel vagone c’era poca gente: due ragazzi discutevano tra loro, un gruppo di ragazze in minigonna. A un certo punto sale un senzatetto, nero, barcollante, non si capiva se strafatto, ubriaco o con qualche problema psichiatrico (Daum scommette su tutte le cose insieme).
La accosta, lei non se lo fila, lui ripiega sul gruppo di ragazze. Che continuano per qualche fermata a chiacchierare con lui, secondo la (plausibile) interpretazione di Daum perché sono compiaciute del loro rivolgere generosamente la parola a un disagiato, e perché a loro sembra una creatura esotica allo zoo. Quando arriva alla sua fermata, il tizio si avvia all’uscita lanciando baci e auguri alle ragazze, e dicendo a Daum ‘tu invece passa una notte di merda, stronza’.
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L'asimmetria europea
Intervista a Wolfgang Streeck
In questa intervista, apparsa originariamente in ungherese poi in inglese e qui presentata in italiano, Wolfgang Streeck, autore di “Tempo guadagnato”, analizza alla luce della costruzione asimmetrica dell’Ue a trazione tedesca, la risposta europea alla crisi pandemica. Nomina e pone quindi un problema spesso eluso dagli esponenti, anche critici, dell’ europeismo, che non esita a chiamare imperialismo tedesco. Pur non condividendo le conclusioni, che esprimono una posizione che nel dibattito italiano viene rubricata sotto l’etichetta di “sovranismo di sinistra”, bisogna apprezzare la pertinenza dell’analisi che descrive efficacemente lo spazio politico con cui le lotte devono fare i conti. Infine, altrettanto apprezzabile è il suo ritratto di Angela Merkel, prossima a lasciare, dopo 16 anni, il governo della Germania e la guida della Cdu.
* * * *
Per molti ungheresi la Germania è un modello socioeconomico e politico a cui aspirare. Nell'attuale struttura dell'Unione europea, tuttavia, il modello tedesco potrebbe essere tradotto nel contesto della periferia europea?
In generale, si dovrebbe guardare con molto sospetto all'idea che alcuni modelli nazionali possano essere trapiantati in altri paesi. Ogni paese deve trovare la propria strada per la pace e la prosperità. Ciò vale in special modo per questo caso particolare. La Germania, altamente industrializzata e dipendente dalle esportazioni, può essere ed è il polo di crescita e prosperità dell'UE perché la sua moneta, l'euro, è fortemente sottovalutata, poiché non è solo la valuta della Germania ma anche dell'intera zona euro.
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I molteplici significati del Recovery Fund
di Fulvio Bellini
Premessa: le parole sono importanti
Il termine “Recovery Fund” in Italia è sulla bocca di tutti. Politici, giornalisti, imprenditori di questo paese si stanno rendendo conto che si è ormai raggiunto il fondo di una crisi strutturale che è iniziata negli anni novanta dello scorso secolo. Tuttavia, quando le soluzioni a mali lasciati crescere per decenni non si intravedono, è uso della classe dirigente invocare lo “stellone italico”, versione laica della “divina Provvidenza” che tanto ruolo ha avuto nella nostra millenaria cultura cattolica, una “volontà superiore” cioè che ridia speranza per il futuro. Nell’era della Pandemia da Covid-19 lo “stellone italico” si chiama “Recovery Fund”. Ma siccome la nostra classe dirigente è notoriamente provinciale, anche se usa con dovizia locuzioni inglesi, riesce a mistificare definizioni espresse nelle lingue straniere. In Italia, il fondo UE lo si chiama “Recovery Fund” ma la sua denominazione ufficiale è “Next Generation EU”: questa spontanea trasformazione lessicale da parte della nostra informazione di regime cela un retro pensiero che è opportuno evidenziare. In italiano “Recovery Fund” significa “fondo di ripresa o di recupero”; “Next generation EU” significa “prossima generazione dell’Unione europea”. Vogliono dire la stessa cosa? Ufficialmente sì, ma a ben pensarci ci si può scorgere un dettaglio rivelatore. La classe dirigente italiana intende il Recovery fund come qualcun altro che metta tanti soldi per riparare i danni che il liberismo in salsa italica ha causato negli ultimi trent’anni.
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Next degeneration EU
di Sergio Cesaratto
Il cosiddetto Recovery Fund è il Convitato di pietra della crisi di governo, come scusa di litigio o oggetto di appetito politico. La sua importanza è solo relativa, date le sue ridotte dimensioni finanziarie, la sua tempistica inadeguata, l’impronta europea sui contenuti ben lontana da una organica politica industriale per il continente, i contenuti sociali sospesi fra ipocrisia, demagogia e velleità. Il Recovery Fund appare così inadeguato sia come sostegno alla domanda aggregata che alla capacità industriale italiana (ed europea). Avanzeremo qui alcune osservazioni sul documento del governo italiano (Piano di Ripresa e Resilienza dell’Italia, PNRR – 12 gennaio 2021) [1] ricordando che Il Piano dovrà essere presentato in via ufficiale entro il 30 aprile 2021.
1. Assenza di analisi a monte e a valle
I mali dell’economia italiana vengono da lontano.[2] Il miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta non risolse le problematiche storiche del Paese: in senso spaziale essendo stato concentrato nel nord-ovest, con successive estensioni nel nord est e, temporaneamente, nella fascia nord adriatica; in senso occupazionale in quanto la limitata industrializzazione non ha assalito le sacche di disoccupazione meridionale, femminile, giovanile, e la sottoccupazione nel terziario parassitario; in senso tecnologico mancando negli anni settanta-ottanta il salto dalle produzioni meccaniche a quelle più elettroniche; sul piano sociale facendo mancare un moderno riformismo verso le classi lavoratrici, a favore dell’inclusione clientelare. Dalla fine degli anni sessanta, il mancato riformismo e lo iato fra le aspettative di consumo e l’insufficienza della torta da spartire ha esacerbato il conflitto sociale fra capitale, lavoro e i topi nel formaggio, con una ricaduta su un uso inefficiente della spesa pubblica e la tolleranza dell’evasione fiscale.
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“Vogliamo fare l’impero europeo”, detto chiaro e tondo
di Francesco Piccioni
E’ strano come sia passato quasi inosservato, tra molti compagni sempre “sul pezzo” quando si tratta di cogliere un sciocchezza di Salvini o una sacrosanta soddisfazione di Eric Cantona, un titolo di prima pagina del confindustriale Sole24Ore: «L’Europa? Sia un impero potente al servizio di buoni propositi».
Da anni ci battiamo – con qualche successo, per fortuna – per spiegare che l’Unione Europea non è “soltanto” un mercato comune, ma una sovrastruttura semi-statuale che sta realizzando da 30 anni, a colpi di trattati comunitari e “raccomandazioni” sempre più ultimative un trasferimento di poteri politici dagli Stati nazionali alla struttura con sede a Bruxelles (o a Francoforte, per quanto riguarda la Banca centrale).
Facciamo questo lavoro di “spiegazione” sciorinando fatti, indicando il contenuto dei trattati, illustrando certe decisioni e certi “diktat”, che nell’insieme descrivono una politica di classe, determinata e feroce nei confronti di lavoratori (“fissi” e precari), pensionati, disoccupati, giovani e via elencando categorie popolari.
Un “mercato comune”, del resto, non si preoccuperebbe di controllare le politiche di bilancio dei singoli Stati, non cercherebbe (con non molto successo) di individuare una politica estera unitaria, di costruire coordinamenti gerarchici di polizie, intelligence, forze militari, apparati ideologici e di comunicazione, ecc.
Ma torniamo al titolo del Sole, perché il virgolettato appartiene al ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire, che si candida a succedere all’attuale presidente, Emanuel Macron, ai minimi della popolarità in vista delle elezioni del 2022.
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Verso una unione sempre più stretta?
di Perry Anderson
Perry Anderson, storico accademico e saggista britannico, sulla London Review of Books propone una distaccata e lucida analisi delle istituzioni europee sin dalle loro origini, molto distante dal dilagante e superficiale conformismo del politicamente corretto, dalla quale emerge che tra i principali protagonisti dell'integrazione europea furono accolti con tutti gli onori importanti esponenti del partito nazionalsocialista tedesco o personalità ad esso vicine. All'interno delle diverse istituzioni europee essi continuarono a perseguire, pur in forme nuove e diverse, quel disegno di unificazione dell'Europa sotto l'egemonia tedesca già tentato durante il terzo Reich
I. La Corte di Giustizia europea
Quantitivamente parlando, lo spostamento del centro di gravità del lavoro sull'UE dall'America alla stessa Europa è stato il prodotto di un'industria accademica ormai vasta: circa cinquecento cattedre Jean Monnet sono attualmente presenti in tutta l'Unione. In mezzo a un mare di conformismo, è emerso un gruppo di pensatori le cui opere rappresentano un progresso qualitativo nella comprensione critica dell'Unione. Animati da un'indipendenza di spirito più vicina ad intellettuali "tradizionali" come Gramsci, che non alla variante "organica" rappresentata da Luuk van Middelaar, costoro non si trovano a coprire incarichi nelle posizioni ufficiali; non formano una scuola di pensiero collettiva; e sono di diversa estrazione nazionale e generazionale.
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Recovery Fund: manuale di autodifesa contro la propaganda di regime
di Thomas Fazi
Quando si parla del programma Next Generation EU (NGEU), comunemente noto in Italia con il nome di Recovery Fund, una premessa è d’obbligo: quello che nei media viene presentato come un accordo già chiuso deve in realtà ancora superare un ostacolo non da poco, ovverosia la ratifica da parte di tutti e 27 i parlamenti nazionali dell’UE. Si tratta, a detta dei più, di un passaggio puramente formale, che si dovrebbe concludere entro la prima metà del 2021. E probabilmente hanno ragione: è difficile immaginare che un parlamento nazionale possa far naufragare un accordo negoziato dal governo che ne è espressione. Tuttavia non è da escludere che il percorso possa riservare delle sorprese. Soprattutto in Olanda, dove si andrà al voto a marzo e dove il primo ministro Mark Rutte è stato fortemente criticato per l’accordo. Quanto meno, la mancata ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali dovrebbe suggerire una certa prudenza quando si parla di Recovery Fund.
Fatta questa doverosa premessa, vediamo di entrare nel dettaglio del cosiddetto Recovery Fund. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il programma Next Generation EU, appunto, pari a 750 miliardi (che la Commissione andrà a prendere sui mercati) spalmati su sei anni, di cui 390 miliardi dovrebbero venire corrisposti agli Stati membri sotto forma di trasferimenti “a fondo perduto” (come vedremo, le virgolette sono d’obbligo) e 360 miliardi sotto forma di prestiti; e il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027, ovvero il bilancio europeo classico, pari a poco più di 1.000 miliardi di euro (di poco superiore all’ultimo bilancio europeo 2014-2020). In totale circa 1.800 miliardi.
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Puntare tutto sul Recovery Fund può essere fatale per l’Italia
di Enrico Grazzini
Per una volta Federico Fubini, il vice-direttore ad personam del Corriere della Sera che è contemporaneamente un esperto di finanza e un europeista convinto, ha ragione. L’Unione Europea, nonostante le fanfare europeiste, nonostante i proclami superottimistici del ministro dell’economia Roberto Gualtieri, è ancora una volta bloccata. E purtroppo non è assolutamente detto che il Recovery Fund Europeo da 750 miliardi di euro, altrimenti chiamato Next Generation EU, alla fine sarà realmente realizzato. Gli incidenti di percorso possono essere molti, alcuni già visibili, altri imprevedibili. Il futuro dell’Italia è appeso al filo del Recovery Fund, RF, e ai 209 miliardi che il nostro Paese potrebbe cominciare (forse) a spendere nella seconda metà del prossimo anno per rilanciare un’economia moribonda e una società spossata dalla crisi causata dal Covid-19. Tuttavia, Fubini spiega che potrebbero capitare delle brutte sorprese. Il governo Conte aspetta gli “aiuti” dell’Unione Europea come una manna dal cielo ma non è certo che la manna cadrà davvero. È per questo validissimo motivo che il governo dovrebbe cominciare a svegliarsi per trovare e creare anche autonomamente i soldi indispensabili per combattere la crisi.
Attualmente l’opposizione al Recovery Fund da 750 miliardi viene, come noto, da Polonia e Ungheria, i Paesi amici del sovranista Matteo Salvini, capo supremo della Lega: i due Paesi dell’est Europa bloccano un processo di finanziamento della UE che, forse per la prima volta da quando è nato l’euro, è favorevole al nostro interesse nazionale.
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Il governo balla sul Mes
di Dante Barontini - Emiliano Brancaccio*
Se dobbiamo stare alle grida mediatiche, il governo è sull’orlo della crisi. Il che sarebbe una novità, a pochi giorni dalla fine dell’anno e dunque dall’approvazione della “legge di stabilità”, la più importante di tutte le leggi perché definisce – per l’anno successivo – come lo Stato italiano finanzierà le proprie attività (tutte, quelle normali e quelle “eccezionali”) e dove troverà le risorse per farlo.
La novità, nella legge di stabilità di quest’anno, è che oltre alla normale leva fiscale (le tasse su imprese e cittadini) si potrà calcolare anche qualche contributo europeo, nell’ottica del Recovery Fund o Next generation Eu, se e quando a Bruxelles si riuscirà a superare il veto di Polonia e Ungheria (ci stanno lavorando intensamente, pare).
Ci sono insomma decine di miliardi da gestire e questo scatena gli appetiti dentro e fuori la maggioranza di governo. C’è chi vorrebbe qualcosa anche stando all’opposizione (Forza Italia in primo luogo, ma non solo), chi vedere una fetta troppo piccola se proporzionata al suo basso bacino elettorale – Renzi, insomma – e poi Confindustria, che pretende per sé e le imprese che rappresenta l’intera posta, senza lasciare neanche uno spillo alle politiche sociali.
Anche tra Pd e Cinque Stelle, inevitabilmente, si è aperta la rissa per la stessa, con in più la complicazione di una “cabina di regia” che Conte vorrebbe capitanare insieme a Gualtieri e Patuanelli (quindi con criterio politicamente equanime), ma ricorrendo all’ennesima task force di “esperti” e “manager”. Il che sottrae certamente ai ministeri competenti una buona parte dei progetti da finanziare e del potere che ne deriva.
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