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Per una teoria rivoluzionaria dello Stato
di Asad Haider e Salar Mohandesi
"Credo che lo status dello Stato nel pensiero della sinistra attuale sia davvero problematico"1, scriveva Stuart Hall nel 1984, nel bel mezzo dell'attacco portato da Margaret Thatcher al "nemico interno". Rifletteva sul retaggio del dopoguerra, periodo durante il quale si era avuto l'allargamento del servizio pubblico entro l'ottica di una vasta espansione dell'intervento dello Stato nella vita associata. La successiva crisi e il conseguente riplasmarsi del capitalismo globale furono caratterizzati dall'uso strategico di operazioni di polizia e repressione, per non parlare del potere militare globale - la dottrina del warfare a braccetto con quella del welfare. La descrizione data da Hall a proposito del dilemma ideologico affrontato dalla sinistra sarebbe, con qualche piccolo aggiornamento terminologico, perfettamente attuale negli Stati Uniti di oggi:
Da una parte, non solo difendiamo la componente assistenziale dello Stato, ma sosteniamo per di più che questa andrebbe fortemente estesa. Eppure, d'altro canto, percepiamo qualcosa di profondamente anti-socialista nel funzionamento di questo stato sociale. Sappiamo infatti che masse di persone comuni, proprio mentre beneficiano dei suoi aiuti, percepiscono lo Stato come una forza che in maniera assillante gestisce e burocratizza le loro vite.
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Globale e locale. La lotta di classe oggi
di Carlo Formenti
Il mio Utopie letali (Jaca Book) è un libro contro i post (postmoderno, postindustriale, postfordismo, postcoloniale, postmarxista, postmateriale, postoperaista, eccetera). È possibile essere contro i post senza essere nostalgici? Un’accusa che piove immediatamente su chiunque torni a utilizzare le categorie “classiche” del marxismo, come socialismo, comunismo, lotta e coscienza di classe, eccetera. Quello che cerco di fare è smontare la logica del post “dall’interno”, operazione che mi viene naturale forse perché appartengo alla terza generazione operaista (la prima era quella dei Panzieri, dei Tronti e dei Negri, che fondarono “Quaderni rossi” fra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, la seconda quella dei loro allievi fra la seconda metà dei sessanta e l’inizio dei settanta, della terza facevamo parte Cristian Marazzi, Bifo, io e molti altri, maturati intellettualmente e politicamente nei settanta). Il rapporto al tempo stesso di continuità e di rottura con questa tradizione (ne ho vissuto in prima persona la tragica fine, sancita dal disastroso passaggio d’epoca fra fine anni settanta e inizio ottanta) mi ha permesso di prendere distanza da un pensiero che, nato come innovazione teorica rivoluzionaria, si è maliconamente degradato in quella esangue italian theory che manda oggi in visibilio gli accademici francesi e americani.
Il primo operaismo seppe rompere con il marxismo dogmatico, fondato su un’interpretazione nazional popolare del pensiero di Gramsci, sostituendolo con uno sguardo attuale e penetrante sul corpo vivo della classe operaia.
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The power of fear
di Christian Marazzi
Con l'intervento di Christian Marazzi proviamo ad indagare cosa accade sui mercati finanziari.La scorsa settimana è stata segnata da violente turbolenze nei mercati finanziari, soprattutto in Europa: fuga di capitali da Grecia e Italia, aumento dello spread, pesanti crolli borsistici. Cosa è accaduto? Da diversi mesi, infatti, l'Europa e i suoi PIIGS sembrano fuori pericolo, Draghi procede, seppur lentamente, verso politiche monetarie timidamente espansive, mentre Francia e Italia rivendicano con maggiore forza autonomia nelle scelte di bilancio. I fatti della scorsa settimana ci ricordano, invece, che la catastrofe non è stata risolta, anzi, e le formule di “austerity espansiva” sono continuamente minacciate dai grandi investitori. DINAMO ha la fortuna di poter proporre una riflessione su questi fatti, poco o nulla commentati dai movimenti, a partire da un articolo di Christian Marazzi. Grazie a Marazzi e al suo editoriale afferriamo non tanto e non solo la natura dell'attacco finanziario, ma anche gli scenari che si aprono (“stagnazione secolare”), la comprensione dei quali è decisiva per rilanciare un conflitto all'altezza dell'epoca.
Secondo Naomi Klein, sin dai primi esperimenti nel Cile di Pinochet un tratto distintivo del modo di funzionare del capitalismo neoliberale, e di quello finanziario in particolare, è sempre stato quello di provocare shocks a partire da eventi contingenti, tale da creare situazioni entro le quali imporre la propria logica, a prescindere da qualsivoglia consenso popolare o procedura democratica.
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Gli ultimi selfie del capitale*
Lo scontro nella civiltà
Introduzione
I persistenti venti di guerra nell’est dell’Ucraina, così come il nuovo diretto coinvolgimento americano e francese nello scenario mediorientale, ha spinto molti ad una cauta preoccupazione (del resto le zone interessate restano a debita distanza dalle nostre abitazioni) per un’apparente involuzione dell’umanità tutta verso contingenze che venivano considerate di novecentesca memoria. Inoltre, paragoni e rimandi sono anche facilitati dal ricorrere del centesimo anniversario dallo scoppio della prima guerra mondiale. Come ci ha ricordato Paul Kennedy in un articolo uscito su Internazionale all’inizio di luglio, l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo mise in moto una sequenza di eventi destinati ad archiviare tragicamente quel lungo secolo, inaugurato dal Congresso di Vienna, di “sostanziale pace e prosperità per gran parte dell’Europa”. Proprio la trattazione più approfondita di ciò, permetterà una migliore comprensione del presente.
I limiti spaziali all’espansione territoriale ed il primo conflitto mondiale
Il principale obiettivo nell’articolo di Kennedy è comprendere quali siano stati i maggiori responsabili della prima carneficina mondiale del Novecento. La risposta fornita dallo studioso è estremamente chiara: la Germania e le sue difficilmente contestabili mire espansionistiche. Dal nostro punto di vista però, l’articolo contiene un grave errore metodologico: ovvero la trasfigurazione di un epifenomeno (il protagonismo militare tedesco) nella principale variabile indipendente della relazione causale proposta, riassumibile nella semplificata formula il militarismo tedesco ha prodotto la prima guerra mondiale.
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La ricchezza di Thomas Piketty
di Christian Marazzi*
Il libro di Thomas Picketty: “Il capitale del xxi secolo” ha avuto una grande eco soprattutto nei mercati anglosassoni e negli ambienti liberal. Forse perchè la critica alle ineguaglianze di reddito nel capitalismo contemporaneo (impossibili da negare) non mette in risalto che tale esito è connaturato con la stessa essenza dell’instabilità strutturale capitalismo. Non è un caso che nella prossima convention annuale dell’American Economic Association di gennaio 2015 verrà dedicata un’intera plenaria per discutere di come “correggere” dall’interno tali distorsioni. E che persino l’Università Bocconi si sente in dovere di discutere il libro. L’analisi di Christian Marazzi, una critica da “sinistra”, mette invece in luce che non è sufficiente analizzare “in modo neutro” l’iniquità del capitalismo senza metterne in discussione le fondamenta teoriche e politiche.
* * * * *
Lo scorso mercoledì 1 ottobre Martin Wolf ha pubblicato sul Financial Times un articolo sulle ragioni che fanno dell’ineguaglianza un vero e proprio freno all’economia. Per dimostrare l’impatto economico delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e del capitale, in particolare una domanda debole e la regressione dei livelli di educazione, Wolf si basa su due studi, uno di Standard & Poor’s e l’altro di Morgan Stanley, due istituzioni che difficilmente possono considerarsi di sinistra.
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V€rso la schiavitù: dall'ordoliberalismo al lavoro merce
Quarantotto
1. Per parlare (ancora) dell'ordoliberismo vorrei prendere spunto dall'immagine-citazione qui accanto, tratta da un contributo su twitter.
La traduciamo così non ci sono equivoci:
"Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace - che solleva gli Stati nazionali dall'ansia mentre vengono privati del potere- con grandi balzi istituzionali ... Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee...".
Rammentiamo così questa sintesi della natura strumentale dell'ordoliberismo:
"Ordoliberismo : veste €uro-attuale del neo-liberismo che, imperniata sull'obiettivo del lavoro-merce, prende atto dell'ostacolo delle Costituzioni sociali contemporanee (fondate sul lavoro), ed agisce divenendo "ordinamentale", cioè impadronendosi delle istituzioni democratiche per portarle gradualmente ad agire in senso invertito rispetto alle previsioni costituzionali."
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Investire se stessi*
Capitalismo e servitù volontaria
di Camilla Emmenegger, Francesco Gallino, Daniele Gorgone
Una definizione minima
La categoria di servitù volontaria nasce dallo stupore del giovanissimo Étienne de la Boétie (1530-1563) verso la situazione del popolo francese, sottoposto a una tirannia durissima e spietata. Di fronte a questo spettacolo, nel suo Discorso della servitù volontaria, egli si pone la domanda più elementare: come può un uomo solo sottometterne milioni? La risposta schiude un orizzonte problematico osceno: non certo per forza propria, ma contando piuttosto sul sostegno attivo dei sudditi (affamati, derubati, stuprati, mandati a morire in guerra). Quel che a prima vista appare un rapporto di costrizione, si rovescia nel suo contrario: sono i sottomessi a istituire e mantenere in vita il dominio da cui pure vengono terribilmente danneggiati. Con la semplice interruzione degli atti che riproducono quel potere si vedrebbe il tiranno, “come un grande colosso cui sia stata tolta la base, […] precipitare sotto il suo peso e andare in frantumi”1. La facilità con cui i servi potrebbero liberarsi (“per avere la libertà basta desiderarla”)2 conduce La Boétie a una constatazione paradossale: se gli individui non sono liberi, significa che non vogliono esserlo. Sono loro a causare, volontariamente e attivamente, la propria sofferenza.
È possibile che […] la categoria cinquecentesca di servitù volontaria abbia oggi ancora qualcosa da dire? Aiutando forse – se correttamente applicata – la critica del capitalismo a illuminare alcuni punti altrimenti oscuri dell’attuale sistema economico-sociale?
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Eutanasia del reale
di Rosanna Spadini
Fine dell’empatia comunicativa e inizio della distopia sociale, indotta ad arte dalla meraviglia multimediale dei visual network. Il 1989 è un anno di svolta, è l’anno in cui la società dello spettacolo diventa schiava di se stessa, in cui lo spettacolo viene trasformato in strumento di disperazione e di morte e si rompe quel patto millenario dell’illusione scenica utilizzato fino a quel momento per la promozione culturale della società, ridotta ora a semplice scenografia teatrale. Un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide.
Il senso dell’incertezza della “società liquida” lo si riconosce anche nell’esercizio ossessivo della “navigazione in rete”, dove ci si connette immediatamente con gli altri, ma in realtà con altrettanta facilità ci si disconnette, smantellando con un canc i legami interpersonali che ci disturbano.
Navigazione rischiosa e temeraria, in cui viene consentito all’individuo di essere in un altrove extraterritoriale e slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza. Lo dice anche Giorgio Agamben, illustre filosofo italiano, che ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di Timisoara e del “falso genocidio” che la polizia di Ceausescu avrebbe provocato appunto nel 1989, anno in cui si manifesta la nascita delle notizie/spettacolo, funzionali al sostegno delle guerre moderne.
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A Krugman servono nuovi occhiali da sole
Fantascienza, ecocidio e cambiamento a basso costo
di Paul Street
Preparatevi a un’invasione aliena
Soltanto perché uno ha un dottorato, un Premio Nobel, un’importante cattedra a Princeton e una posizione da opinionista regolare sul The New York Times non significa che sia davvero così tanto in gamba.
Prendete il liberale e filodemocratico statunitense di spicco Paul Krugman, benedetto da tutte queste cose. Negli ultimi anni l’amante della fantascienza Krugman ha scherzosamente proposto un’idea interessante per trarre dalla stagnazione l’economia USA: prepararsi a un’invasione aliena.
Nel 2011 Krugman ha parlato alla CNN di un episodio della serie “Ai confini della realtà” in cui “scienziati fingono una minaccia aliena per realizzare la pace mondiale”, aggiungendo che “questa volta … ne abbiamo bisogno … per ottenere un qualche stimolo fiscale”.
“Se … guardiamo a che cosa ci ha tirato fuori dalla Grande Depressione”, ha detto Krugman nel 2012, “è stato l’ingresso dell’Europa nella seconda guerra mondiale e l’armamento degli Stati Uniti … Dunque se potessimo ottenere qualcosa che inducesse il governo al dire: ‘Oh, lasciate perdere tutte quelle questioni di bilancio; spendiamo, semplicemente, e produciamo un sacco di roba’ … la mia finta minaccia degli alieni spaziali è l’altro percorso”, ha detto Krugman davanti a un pubblico divertito. “Ho proposto questa”.
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La mala ora dell’Ultraliberismo
di Romano A. Fiocchi
Viviane Forrester, Una strana dittatura, traduzione di Fabrizio Ascari, TEA, 2003.
Viviane Forrester (qui in uno scatto di Jean-Marc Armani) è morta l’anno scorso. Era di nazionalità francese. E di origine ebraica. Conosceva Georges Perec. Ho saputo di lei grazie a una bellissima videointervista a Perec degli anni Settanta, tuttora reperibile in rete e già citata in un mio articolo cortesemente ospitato da NI. Qui i modi fascinosi della Forrester fanno da contrasto con la voce burbera di Perec, lei in un cappottino scuro con una cintura che le stritola la vita, lui con un montone dal bavero alzato, i capelli e il pizzetto da scienziato pazzo, il suo gesticolare ossessivo. Il video è girato nei pressi di rue Vilin, le prime inquadrature proprio davanti a quello che era stato il negozio di parrucchiera della madre di Perec, deportata e morta probabilmente ad Auschwitz. Dalla descrizione di quei luoghi, oggi completamente stravolti, Perec prende spunto per parlare del suo ultimo libro e per illustrare quello che sarà il suo progetto più grandioso: La vita istruzioni per l’uso. La Forrester sorride, ascolta, fa domande con voce cinguettante, non lo chiama né monsieur Perec, né Georges ma per intero: Georges Perec, dandogli del Voi (che è poi il Lei francese).
Ebbene, mai avrei pensato che una figura tutta delicatezza e femminilità potesse sfoderare gli artigli da leone in un pamphlet pieno di rabbia trattenuta, centottantasei paginette che sono una sorta di “j’accuse” moderno lanciato contro un’intera ideologia: l’ultraliberismo.
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Algoritmi del capitale
Matteo Pasquinelli
Sta per uscire Algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune (Ombre corte, 2014), a cura di Matteo Pasquinelli. Il libro raccoglie i contributi di Franco Berardi "Bifo", Mercedes Bunz, Nick Dyer-Witheford, Stefano Harney, Christian Marazzi, Antonio Negri, Matteo Pasquinelli, Nick Srnicek, Tiziana Terranova, Carlo Vercellone, Alex Williams.
La limousine di un miliardario non ancora trentenne procede lentamente per le strade di New York, tagliando l’orizzonte verticale delle torri del capitale finanziario.
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“La nuova ragione del mondo” di Pierre Dardot e Christian Laval
Andrea Baldazzini
Partirò con un’apparente banalità: l’oggetto del presente studio, portato avanti a quattro mani da Laval e Dardot (sociologo il primo, professore di filosofia il secondo), non rappresenta solo il tema filosofico per eccellenza, ma costituisce anche il principio fondante, l’atto costitutivo, dell’intera società occidentale moderna, ovverosia la Ragione. Una Ragione che si è guadagnata la maiuscola conquistando la quasi totalità degli aspetti dell’esistenza individuale e collettiva, per usare un lessico habermasiano, colonizzando tanto la dimensione del ‘sistema’ quanto quella del ‘mondo della vita’ (Lebenswelt). Ma cosa si intende precisamente qui con ‘Ragione del mondo’ e in particolare con l’espressione ‘razionalità neoliberista’? Scopo di questa breve recensione vorrà essere da una parte la chiarificazione del significato di tali termini impiegati in riferimento ad un ambito che solo superficialmente è di carattere economico, dall’altra la messa in evidenza di alcune intuizioni chiave, che permettono una più ampia presa di consapevolezza sulla reale portata, per usare le parole degli autori, della disciplina neoliberista. Difatti, il merito più grande dell’opera è quello di porre la questione del neoliberismo in termini radicali, in termini cioè antropologici. Questo libro non è una scontata critica al capitalismo considerato come ideologia o come semplice sistema economico produttore di disuguaglianza, esso è qui «assunto nel suo essere una realtà sgombra da riferimenti arcaizzati e nel suo essere una matura costruzione storica»1.
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Quali alternative al neoliberismo?
di Massimiliano Lepratti
Nonostante la gravissima crisi attraversata dall'Europa e la fallacia delle ricette neoliberiste finora sperimentate in risposta, il campo delle teorie critiche si mostra incapace di offrire un solido orientamento di politica economica che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo e funga da guida per progettare una società egualitaria, inclusiva e sostenibile. Di conseguenza laddove un'ideologia culturalmente egemone non venga contrastata sul suo stesso terreno di teoria capace di dettare le agende, anche i tentativi di politiche alternative tendono a divenire timidi, inclini a mediare al ribasso e a piegarsi ai principi dominanti: l'Italia di Prodi/Padoa Schioppa o (peggio) di Renzi/Padoan ne sono solo alcuni esempi. Eppure i materiali culturali per sostenere la costruzione di un pensiero diverso a sinistra non mancherebbero: i grandi classici (da Smith a Ricardo a Marx) e i classici della dinamica dello sviluppo (ancora Marx, oltre a Keynes, e Schumpeter) continuano ad essere forieri di eccellenti spunti di analisi il cui livello scientifico e la cui capacità di lettura realistica del mondo sono senza dubbio superiori rispetto a quelli che per semplicità qui chiamiamo neoliberisti.
Detto questo, i motivi per cui ci troviamo in questa situazione di subalternità sono molteplici, ma due appaiono più significativi di altri:
1. il pensiero mainstream è in grado senza dubbio di dispiegare una quantità di mezzi culturali tali da spingere verso la minorità le idee alternative: mezzi giornalistici, comunicativi, istruzione – si pensi ai manuali economici studiati nelle università, l'assenza dell'economia politica nelle scuole superiori... - l'insieme di questo fuoco di fila riduce progressivamente da almeno 40 anni lo spazio per pensieri diversi.
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L’inchino europeo al capitale privato
Alberto Burgio
Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle «riforme strutturali» imperversa più forte che mai.
Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere. Sta di fatto che a suon di «riforme» l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano.
Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate.
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I sogni muoiono nel pomeriggio
Elisabetta Teghil
Il 4 agosto 1914 il gruppo parlamentare socialdemocratico al Reichstag, il parlamento tedesco, votò i crediti di guerra. Il fatto suscitò una grande impressione perché l’Internazionale socialista si presentava e veniva percepita e letta come la principale forza politica antimilitarista. Un tratto che la caratterizzava perché la dichiarazione di guerra del 28 luglio 1914 non fu un fulmine a ciel sereno, ma era messa in preventivo da diverso tempo.
Ma le premesse si erano viste quando Rosa Luxemburg pubblicò “L’accumulazione del capitale”. Fu proprio questo lavoro che rivelò lo spessore dei disaccordi che segnavano con una linea di frattura l’Internazionale socialista.
Per Luxemburg le condizioni create dall’imperialismo: lotta per le colonie, competizione fra le grandi potenze, caratteristiche proprie, cannibalistiche e onnivore, del capitalismo, non potevano che sfociare nella guerra accompagnata dallo sviluppo dell’apparato industriale bellico che diventava il volano dell’economia dei singoli paesi. L’opera, pubblicata nel gennaio del 1913, subì forti e scomposti attacchi da tutti quelli che, guarda caso, poi votarono la causa della guerra nei loro rispettivi paesi. In particolare si distinsero Eckstein e Bauer.
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