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L’austerità espansiva e i numeri (sbagliati) di Reinhart e Rogoff

Vittorio Daniele


Se c’è un effetto positivo delle grandi crisi economiche, è certamente quello sulle idee e sulle teorie. Era già accaduto nel ’29 con la Grande depressione, e le sue drammatiche conseguenze sulle vite di milioni di persone, quando i presupposti della visione macroeconomica del tempo rivelarono la loro fallacia. Fu, poi, John Maynard Keynes, con la sua Teoria generale, a offrire un paradigma nuovo per interpretare le crisi economiche e strumenti macroeconomici per affrontarle.

Qualcosa di analogo è accaduto anche stavolta, con la crisi finanziaria del 2007 e la Grande recessione che ne è seguita. Anche questi eventi hanno costituito una sorta di “banco di prova” per la macroeconomia. E anche stavolta, alcune idee e teorie non hanno retto alla prova dei fatti.

È il caso dell’austerità espansiva, una tesi affermatasi negli anni Novanta del secolo scorso, sulla base di alcune ricerche empiriche, e incorporata nell’approccio economico dominante. In nuce, la tesi afferma che consolidamenti fiscali, diretti a stabilizzare o abbassare il rapporto debito pubblico/Pil e realizzati attraverso tagli alla spesa pubblica, possano stimolare consumi e investimenti privati. Si tratta di un effetto controintuitivo, significativamente definito “non-keynesiano”.

Gli effetti espansivi delle politiche di austerità si giocano tutti, o quasi, sul ruolo delle aspettative. Se i tagli di spesa vengono percepiti come segnali di un futuro abbassamento delle imposte, i consumatori si aspetteranno un più elevato reddito permanente (reddito futuro atteso), per cui tenderanno ad aumentare i consumi correnti. Effetti analoghi, secondo alcuni economisti, si avrebbero anche in seguito a consolidamenti fiscali attuati attraverso aumenti delle imposte[1].

La storia è nota. Nel 2009, per cause diverse, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia entrano in recessione.

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Il nemico parla chiaro

di  Sergio Cararo

Le Costituzioni nate dalla sconfitta delle dittature in Europa sono ormai considerate una palla al piede dai poteri forti. Loro parlano chiaro mentre l'ipocrisia è il linguaggio della sconfitta.

La brutta sensazione era nell'aria da un po' di tempo. Poi, come spesso accade, il messaggio arriva brutale ma netto. Un documento della banca d'affari JP Morgan dice chiaro e tondo quello che la classe dominante europea e il suo ceto politico-tecnocratico stanno facendo senza dirlo.

Le Costituzioni approvate in Italia, Spagna, Grecia, Portogallo dopo la caduta delle dittature militari e fasciste sono ormai un intralcio insopportabile per la tabella di marcia del capitale finanziario nei paesi europei Pigs. Nel linguaggio crudo dei banchieri “l'eccesso di democrazia” rende debole la governabilità e non predispone i sudditi al piegarsi ad una esistenza che non prevede diritti o garanzie. Non solo. Siccome l'austerità farà parte del panorama europeo ancora per un lungo periodo, i paesi aderenti all'Eurozona dovranno anche predisporsi affinchè non sia prevista la “licenza di protestare quando vengono proposte modifiche sgradite allo status quo”.

Un messaggio e un linguaggio brutale che devono suonare come un allarme rosso nella testa e nella coscienza di chi vive in condizione subalterna nei paesi europei, soprattutto nei Pigs.

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I sinistri salvatori del «capitalismo buono»

Ovvero: come salvare il bambino dal bagno sporco…

di Sebastiano Isaia

Così scrivevo l’altro giorno in una breve nota (Per un liberismo molto selvaggio. Praticamente rivoluzionario…) postata su Facebook che voleva essere ironica – e che tra l’altro si è prestata a qualche bizzarra interpretazione:

 Mentre i sempre più rari sostenitori della liberazione degli individui dai maligni rapporti sociali capitalistici, difesi all’ultimo sangue dal Leviatano (non importa se in guisa democratica o autoritaria), studiano, a quanto pare ancora senza successo, il modo idoneo a trasformare i salariati da soccorritori del Capitalismo, quali sono stati a tutti gli effetti negli ultimi ottanta e più anni, nei suoi becchini, secondo l’indicazione del noto alcolizzato di Treviri, ecco giungere da Nichi Narrazione Vendola l’aurea indicazione. «Il liberismo è una minaccia per il Capitalismo e per la democrazia», ha dichiarato ieri sera il bel tomo a Lilli Gruber. Ecco dunque infine trovata la strada tanto agognata! Cosiddetti rivoluzionari, prendete nota e riponete in soffitta decenni di astruserie dottrinarie. Altro che “marxismo”: è il liberismo, preferibilmente selvaggio, che ci trarrà fuori dalla lunga impasse escatologica. Bisogna rafforzare e potenziare la minaccia per il Capitalismo e per la democrazia: è la parola d’ordine dei nostri critici tempi.

E pensare che c’è qualcuno che parla di Vendola come di un «supercazzolaro»: più chiaro di così! Vuoi vedere che Beppe Grillo si riferiva a qualcun altro…

Ho ripreso il post per presentare un altro sinistro che si preoccupa dello stato di salute del Capitalismo, attaccato non dalla classe che, secondo le note “profezie”, dovrebbe scavargli la fossa, ma dal solito liberismo selvaggio.

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marx xxi

Che cosa è il Bilderberg

Complottismo o analisi della classe dominante?

di Domenico Moro

1. Una diffusa ma non molto strana passione per i complotti

Tra il 6 e il 9 giugno si tiene in Inghilterra il 61esimo degli incontri che annualmente, a partire dal 1954, vengono organizzati dal Gruppo Bilderberg. Su questa riunione si è manifestata da parte dell’opinione pubblica una attenzione maggiore del solito. Del resto, degli ultimi due presidenti del Consiglio dei ministri, Monti ne è stato a lungo un dirigente, mentre Enrico Letta vi è stato invitato nel 2012. Entrambi, poi, hanno fatto parte della organizzazione sorella più giovane, la Trilaterale, come anche Marta Dassù, un tempo lontano intellettuale di area Pci e più di recente sottosegretario con Monti e viceministro con Letta agli esteri, a capo del quale c’è la Bonino, inviata al Bilderberg nel passato. Quest’anno la presenza italiana non sarà numerosa ma di livello: Monti, Bernabé di Telecom, Nagel di Mediobanca, dal dopoguerra sempre al centro del sistema di potere del capitalismo italiano, Cucchiani di Intesa, prima banca italiana, Rocca di Techint e la giornalista Gruber.

A suscitare la curiosità del pubblico sul Bilderberg contribuiscono l’alone di mistero che lo circonda, dovuto alla segretezza sui contenuti dei dibattiti, e la presenza del gotha economico e politico di Usa ed Europa Occidentale. La ragione principale, però, è riconducibile alla sempre più diffusa percezione di impotenza da parte del “cittadino comune” nei confronti di una economia e di una politica che sfuggono persino alla sua comprensione.

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Il festival dell’astrologia

Augusto Illuminati

Cicerone si meravigliava che due aruspici, incontrandosi, non scoppiassero a ridere (De natura deorum III, 26). Adesso a Trento, Festival dell’economia dal 30 maggio al 2 giugno 2013, s’incontreranno a centinaia aruspici, àuguri, maghi e spacciatori di derivati. Sai che risate.

Alle spalle degli italiani, cui hanno raccontato prima le mirabili sorti del neoliberismo, dei fondi di investimento e dei fondi pensioni, poi li hanno incitati a contrarre mutui, dopo ancora hanno negato che la crisi ci fosse, infine hanno somministrato l’amaro placebo della cura Monti, salvo a verificare che aveva aggravato la malattia. Mai, dico mai che uno di questi economisti si sia suicidato per il rimorso e la vergogna, mentre a decine si impiccavano o si davano fuoco imprenditori, commercianti, pensionati poveri, cassintegrati, esodati, ecc. Ora si ripropongono con nuovi rimedi di guarire le malattie che in precedenza avevano vantato quali cure.

Forse Trento sarà l’occasione di (tardivi) ripensamenti – promettono pensosamente sulle pagine de Repubblica gli organizzatori, Tito Boeri in testa –, meglio di niente, tuttavia come non ricordare gli effetti di ricette dispensate con ineguagliabile sprezzo del ridicolo e del principio di contraddizione per tanti anni? Inutile salmodiare la litania dei dati Istat sulla crescita inesorabile della disoccupazione generale, sul crollo della produzione industriale, dei consumi, e del risparmio, sul calo del Pil e dunque dell’ascesa del rapporto debito/Pil.

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marx xxi

Gli errori degli economisti 2.0

di Vladimiro Giacché

Il rapporto dell'opinione pubblica e della politica con gli economisti, nel corso di questa lunga crisi, è stato contraddittorio e altalenante.

Per un verso non ha giovato alla buona fama degli economisti il fatto di aver ignorato (salvo pochi lodevoli casi) la gravità della crisi e di non averne inteso le vere cause. Nel 2008 fu la stessa regina d'Inghilterra a porre a un'imbarazzata platea di economisti la fatidica domanda: "perché nessuno si è accorto dell'arrivo di questa crisi?". Le risposte avute non devono essere state troppo convincenti, se nel dicembre dello scorso anno, durante una visita alla Banca d'Inghilterra, è tornata sull'argomento osservando, con un tono che a qualcuno è apparso ironico, che "è davvero difficile prevedere le crisi". D'altra parte, molte delle politiche adottate per contrastare la crisi in Europa – e che in realtà l'hanno aggravata – si sono avvalse di una copertura teorica fornita da economisti e centri studi.

Nelle ultime settimane, però, sono avvenuti alcuni episodi che hanno sollevato in modo esplicito il problema del controllo sulla qualità di questi dati e di queste ricostruzioni teoriche.

Si è infatti scoperto che, almeno su due argomenti chiave, rapporto tra debito pubblico e crescita e relazione tra produttività e andamento dei salari, i dati usati per giustificare le politiche adottate in Europa erano sbagliati, incompleti o esposti in modo tendenzioso. Vediamo.

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Dottrina del rigore addio*

di Maurizio Ricci

Uno studio dell’Università del Massachusetts-Amherst smentisce la celebre teoria di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sul rapporto fra livello del debito pubblico e crescita. La polemica è destinata a durare a lungo nei circoli accademici, ma ha già avuto l'effetto di ridimensionare la credibilità scientifica degli appelli all'austerità.

Rischia di essere lo scandalo accademico del secolo. Ma, soprattutto, è un colpo durissimo alle fondamenta della dottrina dell'austerità: ovvero meno spese, più tasse, stringere, anche brutalmente, la cinghia, per ridurre deficit e debito, come premessa indispensabile per il rilancio dello sviluppo. Al centro della polemica, due fra i più prestigiosi economisti al mondo, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, di Harvard, e lo studio con cui, nel 2010, indicavano, sulla base di un'ampia comparazione storica, l'esistenza di uno stretto rapporto fra livello del debito pubblico e crescita. Più esattamente, quando il rapporto fra debito e Pil supera il 90 per cento (in Italia viaggiamo verso il 130 per cento) si apre la recessione: in media, storicamente, una contrazione dell'economia dello 0,1 per cento. Non è l'unico risultato a cui arrivano Reinhart e Rogoff, ma è quella semplice formula che ha fatto il giro del mondo, influenzando il dibattito politico sull'economia, negli Stati Uniti come in Europa. Solo che non è vero.

Un gruppo di economisti dell'Università del Massachusetts-Amherst ha rifatto i conti e, sulla base della stessa serie storica di Reinhart e Rogoff, arriva ad una conclusione opposta: in media, storicamente, i Paesi con un debito superiore al 90 per cento non vanno in recessione.

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Marx ai tempi del neoliberismo

Capitalismo, stato sociale e agenda Monti

di Giovanna Cracco

Se è vero che la crisi – dal greco krinò, ossia separazione, decisione – è quel particolare momento che divide un modo di essere da un altro, producendo cambiamenti, è pur vero che le scelte operate a seguito di una crisi rivelano la caratura, umana e intellettuale, di chi quelle scelte compie.

La classe politica dei Paesi europei, Italia compresa, dopo vent’anni di tagli allo stato sociale e di deregolamentazione del lavoro, si prepara a smantellare il primo e a rendere del tutto precario il secondo. Colpa della crisi, dicono, che rende sia il sistema pubblico che quello produttivo, insostenibili da un punto di vista economico. Nulla di più falso, come abbiamo già evidenziato (1). Ciò a cui stiamo assistendo è la fase finale della messa in pratica di una teoria economica, il neoliberismo, che ha piantato radici profonde nel pensiero economico-politico, al punto da diventare egemone dopo il crollo dell’Urss; una teoria economica che si è innestata nel capitalismo e ha contribuito all’attuale crisi.

La pervicace volontà di continuare sulla stessa strada, oltre ad avere peso e conseguenze sociali per l’intera umanità, è dunque qualcosa che attiene anche all’onestà intellettuale delle singole persone che hanno oggi il potere di decidere le politiche economiche, e di coloro che hanno il potere di indirizzare il pensiero dell’opinione pubblica: che le loro decisioni siano dettate da una fede cieca nel dogma della libera circolazione dei capitali e del ‘meno Stato più mercato’, oppure dal disinteresse più totale per la vita degli altri uomini e dall’egoismo più bieco, tanto più criminale quanto più si sale nella piramide del potere e dunque nella responsabilità, è purtroppo un conto che ognuno di loro farà solo con se stesso.

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Volere è economia

Suggestioni, rigorosamente qualitative, sulla crisi degli economisti

di Giacomo Gabbuti

[...] il problema è, c’è posto per tutti sulla macchina? E siamo in grado di nutrire una bocca in più?” Senza voltare la testa, ripeté la domanda: “Mamma, siamo in grado?”

La mamma si schiarì la gola. “Quanto a ‘essere in grado’, siamo in grado di niente; né partire per la California, né niente. La questione è di sapere se ‘vogliamo’ prenderlo con noi, o no. [...]

In quello che dovrebbe essere considerato un testo cardine dell’Economia Politica, John Steinbeck spiega – nel modo più rigoroso con cui si possano descrivere le passioni alla base dei comportamenti, umani prima che economici – la scelta razionale degli individui, quanto agiscano non da atomi (come li descrive la “moderna” microeconomia) ma da esseri sociali.

È una lezione importante, quella di Furore: perché da mesi, quotidianamente, siamo bombardati da un altro tipo di messaggio. Quando si parla dello Stato come di una famiglia, in cui “non bisogna spendere più di quanto si guadagna”, in virtù di una presunta moralità del debita sunt servanda, in realtà si allude a una diversa idea dei rapporti che fondano le società umane:

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Un esercizio di egemonia perfettamente riuscito

di Antonio Calafati

Lo si capisce già dalle prime pagine di Manifesto capitalista*, quanto sia profonda la crisi del pensiero neoliberista. Scrive Luigi Zingales come viatico al lungo viaggio che compie in questo libro: “E quando arrivai in America (…) provai l’emozione inebriante di avere ogni obiettivo alla mia portata. Ero finalmente in una nazione in cui i limiti ai miei sogni dipendevano solo dalle mie capacità”. In effetti, non c’è più nulla da dire e da pensare, nessun argomento razionale per difendere il capitalismo americano e i suoi mercati finanziari. Ai neoliberisti non resta che disconoscerlo, affrettarsi a rinnovare la promessa di una riforma del sistema, e riscoprire la “retorica della frontiera”.

Molti sostenitori del capitalismo americano, quelli che avevano una coscienza liberale, per quanto incerta, erano preoccupati già da molto tempo. Non occorreva attendere la crisi finanziaria del 2008 per accorgersi di ciò che stava accadendo: “Tra il 1997 e il 2001 ci sono stati cambiamenti nel nostro sistema finanziario che mi hanno profondamente preoccupato” (“The New York Review of Books”, XLIX, n. 3) scriveva con mesto sconforto Felix G. Rohatyin, ambasciatore degli Stati Uniti in Francia e banchiere di lungo corso. Se lo chiedeva nel 2002, riflettendo su ciò che erano diventati i mercati finanziari, non nella loro isterica instabilità, bensì nella loro progettata indecenza. E poco più avanti aggiungeva: “Forse è troppo presto per emettere un giudizio definitivo, ma gli eventi recenti fanno pensare che il nostro sistema di regolazione stia fallendo”.

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‘A corruzione e il "Fogno": lo strano caso del doctor Petiot*

1. Antefatto metaforico

Il dottor Petiot fu a lungo stimato per le sue conoscenze scientifiche, addirittura lodato per la sua utilità alla comunità come medico, che, dicevano, faceva “avanzare” la scienza medica.

Ma se si fosse analizzata in dettaglio la sua vita precedente, senza pregiudizi e distorsioni, determinate da un “certo tipo di consenso” pubblico (divenne persino sindaco del suo paese), con tutte le abbondanti “tracce” di una crudeltà inumana (o “troppo umana”), sostenuta dall’incrollabile fede nelle sue ragioni, gli stessi benpensanti che lo avevano lodato sarebbero stati terrorizzati… http://www.occhirossi.it/biografie/MarcelPetiot.htm
Leggendo, e facendo i dovuti collegamenti, capirete il “nesso” (“nexus”, per coloro che ricordano i “modelli” dei replicanti in Blade Runner).

Ovviamente la storia si manifesta prima in tragedia e poi si ripete come “farsa”. Ovviamente… >

 

2. Macroeconomia e il luogocomunismo aziendalista

L’essenza di ciò che consente di “prosperare” all’azione dei doctor Petiot del nostro tempo, è un’idea alterata e manipolativa dell’economia politica, della macroeconomia applicata all’esistenza dello Stato come soggetto “insopprimibile” delle dinamiche socio-economiche. Per sminuirne la funzione si fa passare l’idea che lo Stato, cioè noi in quanto cittadini-elettori, dovrebbe comportarsi come una buona massaia (quella sì che sa far quadrare i conti…peccato che gli stessi che ne esaltano le doti, facciano di tutto per non farglieli quadrare e piuttosto….”girare”…non i conti).

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Come ti smonto il Neoliberismo in 23 mosse

di C. Wolff

Marx Brothers A Day at the Races 01Ha-Joon Chang è un economista coreano trapiantato in Gran Bretagna dove insegna a Cambridge. Mr Chang non è un anticapitalista ovviamente, è solo un economista eterodosso che si rifà alla tradizione istituzionale di scuola americana, quella per intenderci dei Veblen, Commons e Galbraith. La teoria economica sta attraversando un tale periodo di monismo ideologico che gli economisti si dividono in ortodossi (il mainstream più o meno neo-lib) ed eterodossi dove sono ammucchiati tutti gli altri, gli “eretici”. Questi eretici sono poi una categoria assai diversificata, includente tanto quelli della complessità-bioeconomisti-evoluzionisti-ecologisti, che i marxisti, i neo-keynesiani, le femministe, gli sraffiani, gli istituzionalisti ed a tratti, financo gli austriaci che porre fuori dalla tradizione liberale è assai arduo. Ma tant’è.

Chang scrive un libricino di facile lettura (ormai i libri non sono più scritti dagli autori ma dagli editor): 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, (Il Saggiatore, Milano, 2012)in cui introducendo per ognuno dei 23 capitoli tipiche tesi mainstream, le smonta una ad una.

1) Si comincia col libero mercato, il cui perimetro di libertà è sempre presente, non è mai libertà assoluta e che viene definito dal politico e non certo dall’economico. Sono stati governi a decretare prima libero e poi non più libero lo schiavismo, il commercio dell’oppio, il lavoro minorile. Poiché il concetto di libertà è quindi dato dal politico, i liberisti sono ideologi di un certo tipo di libertà relativa, quella che fa quadrare i conti degli interessi che sostengono.

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Le fragili basi teoriche dell’austerità

di Guglielmo Forges Davanzati

I sacrifici chiesti agli italiani dal governo dei tecnici non sono un “male necessario”: aggravano l’indebitamento pubblico, riducono la domanda interna, incentivano processi di ‘finanziarizzazione’. Insomma, allontanano quella ripresa economica in nome della quale sono portati avanti.

La manovra fiscale contenuta nella Legge di Stabilità, considerata nel suo complesso, costituisce un ulteriore segnale rilevante della volontà – da parte del Governo – di perseguire lungo la linea delle politiche di austerità. L’Ufficio Studi della CGIL stima, a riguardo, un incremento della tassazione a carico di un contribuente medio di circa 125 euro annui, con significativi effetti redistributivi a danno delle famiglie più povere, soprattutto a ragione dell’aumento dell’IVA. In quanto imposta diretta, l’IVA viene, infatti, pagata nello stesso ammontare da percettori di redditi elevati e da percettori di redditi bassi, ovvero è un’imposta “regressiva”. Al di là degli interessi materiali che sono alla base di queste scelte, occorre chiedersi se esse trovano una motivazione razionale (o quantomeno ragionevole) sul piano teorico. Giacché, se così fosse, e se ne dimostrasse la piena validità, i sacrifici che queste scelte comportano sarebbero legittimati sul piano scientifico e giustificati sul piano politico.

Le politiche di austerità vengono motivate fondamentalmente con due argomenti.

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Il keynesianesimo geneticamente modificato dei neoliberisti

di Riccardo Achilli

Premesso che certamente la ripresa degli investimenti pubblici è fondamentale, a mio avviso il massimo dell'elaborazione in materia di crescita non può essere quella sorta di keynesianesimo alterato, impoverito, che sembra essere l'unica strada possibile di ripresa di un minimo di flessibilità di bilancio per Monti e la Commissione Europea. In questa impostazione, basata sulla golden o sulla copper rule, gli unici investimenti pubblici che possono essere sdoganati rispetto alla regola del pareggio di bilancio sono quelli che agiscono sui fattori di competitività dell'offerta (R&S, infrastrutture strategiche, istruzione e formazione, reti Ict ed energetico/ambientali) e che quindi hanno effetti sulla produttività, nell'ipotesi sottostante che lo shock di produttività comporti effetti di sostituzione e di reddito in grado di riportare verso l'alto la curva della crescita, quindi l'occupazione e la domanda.

Questo tipo di keynesianesimo "povero" è infatti aggiustato per essere coerente con gli schemi neoclassici più moderni, come quelli elaborati da Lucas e Sargent nella NMC. Sono infatti perfettamente coerenti con le teorie del "real business cycle" emerse negli anni ottanta come applicazioni della NMC e della cosiddetta critica di Lucas ai modelli macroeconometrici utilizzati dalla programmazione economica keynesiana, quindi coerenti con una rifondazione microeconomica delle teorie del ciclo, utile a supportare un approccio neoliberista di politica economica.

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Mario Draghi, lezioni di marxismo dalla BCE

di Riccardo Bellofiore*

Introduzione

È tempo di “compiti a casa”. Nel mio caso, mi è stato assegnato un “compito per l’estate”: commentare la relazione di Mario Draghi alla giornata in ricordo di Federico Caffè, il 24 maggio (il testo integrale si può trovare nella Sezione Documenti di questo numero di alternative per il socialismo). È un discorso di notevole interesse. Mi è parso, visti i tempi che corrono, che fosse bene inquadrare il ragionamento svolto in quell’occasione dal presidente della Banca Centrale Europea nel quadro più generale dei suoi successivi interventi. Mi riferisco, in particolare, all’intervista a Le Monde (22-23 luglio) e all’articolo su Die Zeit (29 agosto), ma anche ad un paio di pronunciamenti ufficiali, in particolare lo Speech al Global Investment Conference di Londra (26 luglio), e l’Introductory Statement a Francoforte (6 settembre). Considererò pure una intervista al Wall Street Journal (24 febbraio) che ha fatto un certo scandalo perché - si sostiene - Draghi avrebbe lì buttato definitivamente nel cestino il modello sociale europeo.

A me pare che uno sguardo più complessivo faccia emergere una ricostruzione non banale, e in alcuni snodi persino condivisibile, della crisi europea; di qui si può comprendere meglio la risposta di politica economica della Bce all’instabilità di questi ultimi mesi. Si tratta di un punto di vista incompleto e contraddittorio, ma che va letto “dinamicamente”, e tenendo conto delle sue ragioni: non delle nostre.

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