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La trappola del capitale umano

Benedetto Vecchi

Pensiero critico. Il neoliberismo non è solo una teoria economica in crisi ma anche un progetto politico che vuol ridisegnare la società e cambiare «l’anima» di uomini e donne. Un’intervista con Christian Laval, in Italia per presentare il volume «La nuova ragione del mondo» scritto insieme a Pierre Dardot

Come un’araba fenice, il neo­li­be­ri­smo rina­sce sem­pre dalla sue ceneri.. Non c’è nes­sun com­pia­ci­mento nel segna­lare la sua «resi­stenza» rispetto le crisi che ha cono­sciuto. Anzi, la crisi è il con­te­sto in cui mostra capa­cità di «inno­va­zione». È da que­ste pre­messe che il libro La nuova ragione del mondo (Deri­veAp­prodi) di Pierre Dar­dot e Chri­stian Laval prende le mosse. L’analisi dei due stu­diosi france è cir­co­scritta alle realtà capi­ta­li­sti­che euro­pea e sta­tu­ni­tense, rin­viando in un secondo tempo l’analisi dei paesi emer­genti — Cina, India, Bra­sile, Suda­frica -. Que­sto non signi­fica che il sag­gio — al quale è stato dedi­cato il numero dell’inserto set­ti­ma­nale «Alias» del 30 Novem­bre 2013 — non aiuti a deli­neare una cri­tica rigo­rosa a un regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica che ha una voca­zione «glo­bale». Quello di Dar­dot e Laval non è infatti una ana­lisi del neo­li­be­ri­smo come modello eco­no­mico, bensì come pro­getto di società che ha come con­di­zione pre­li­mi­nare la «for­ma­zione» di un «uomo nuovo», l’individuo pro­prie­ta­rio.

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znet italy

I vostri segreti in vendita

di Pratap Chatterjee

Immaginate di poter gironzolare non visti attraverso una città, intrufolandovi a vostro piacimento in qualsiasi momento, di notte o di giorno, in case e uffici. Immaginate di poter osservare, una volta all’interno, tutto quel che succede, non notati da altri, dalle combinazioni delle casseforti bancarie agli incontri clandestini di amanti. Immaginate anche di essere in grado di registrare silenziosamente le azioni di tutti, che siano al lavoro o al gioco, senza lasciare traccia. Tale onniscienza potrebbe, naturalmente, rendervi ricchi, ma, cosa forse più importante, potrebbe rendervi molto potenti.

Tale scenario da romanzo di fantascienza futurista è oggi di fatto quasi una realtà. Dopotutto la globalizzazione e Internet hanno collegato tutte le nostre vite in un’unica fluida città virtuale dove tutto è accessibile al tocco di un polpastrello. Depositiamo il nostro denaro in casseforti in rete; conduciamo le nostre conversazioni e spesso ci spostiamo da un luogo all’altro con l’aiuto dei nostri dispositivi mobili. Quasi tutto ciò che facciamo nel regno digitale è registrato e sopravvive per sempre nella memoria di un computer cui, con il software e le password giuste, altri possono avere accesso, che lo vogliate o no.

Ora – ancora un momento d’immaginazione – che ne direste se ogni vostra transazione in quel mondo fosse infiltrata? Se il governo avesse pagato sviluppatori per inserire botole e passaggi segreti nelle strutture costruite in questo nuovo mondo digitale per tenerci continuamente connessi gli uni agli altri?

 

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L’apocalisse neoliberista

di Raffaele Alberto Ventura

La crisi economica assomiglia a una macchia di Rorschach. Ognuno la interpreta come vuole, ognuno ne attribuisce l’origine a una causa differente:

– Una farfalla.
– Un uomo e una donna che fanno l’amore?
– La testa spaccata di un cerbiatto…
– Il neoliberismo!

Ecco, prendiamo il neoliberismo. Come ha scritto Francesco Costa sul giornale di Confindustria, affermare che in Italia siano state messe in pratica delle politiche neoliberiste è inesatto perché in questo caso si sarebbe “ridotto il peso dello Stato nella sua economia, abbattendo le tasse e la spesa, privatizzando le grandi aziende pubbliche, riducendo drasticamente la burocrazia, abolendo la contrattazione collettiva e gli ordini professionali, lasciando mano libera ai privati”: tutte cose che semplicemente non sono mai avvenute. E tuttavia del neoliberismo, per come viene descritto da chi ricorre al termine, si è verificato in tutto l’occidente l’effetto principale, ovvero il trionfo del capitale sul lavoro: in pratica, una progressiva diminuzione della remunerazione media negli ultimi venticinque anni, dopo trent’anni d’incremento.

Sembra dunque avere senso parlare di discontinuità, e dare un nome – “neoliberismo” – a questa discontinuità.

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comunismo e comunità

Capitalismo elitario

Il crollo della ‘coscienza infelice borghese‘ e l’ascesa al potere di élite ultra-capitalistiche

di Valerio Spositi

Questo lavoro nasce grazie agli studi e alle riflessioni sulla borghesia e sul capitalismo dei filosofi Costanzo Preve e Diego Fusaro, oltre che da miei studi personali. L’analisi da me posta sulla sostituzione, al comando del sistema capitalistico, della borghesia storica otto-novecentesca da parte di diverse tipologie di élite è il risultato di alcune discussioni svolte dal sottoscritto con l’amico filosofo Diego Fusaro, che ringrazio sentitamente. Il presente lavoro non ha la minima pretesa di essere esaustivo su un tema assai delicato e che necessita di ulteriori studi ed approfondimenti.

 

1. Borghesia come “soggetto collettivo” portatore di una “coscienza infelice”

“Che cosa ha condotto alla bandiera rossa quelli che, per così dire, non ne avevano bisogno?”
 (Ernst Bloch, Il principio speranza)

Molti studiosi marxisti del XX sec. hanno svolto le loro analisi sul rapporto che intercorre tra Borghesia e Capitalismo identificando la classe borghese quale classe-soggetto della società capitalistica, il che, stando al pensiero del filosofo torinese Costanzo Preve, porta ad una identificazione di essa con il capitalismo stesso, ovvero una Borghesia come lato soggettivo del Capitalismo e quest’ultimo come lato oggettivo della Borghesia.

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La solitudine del lavoro*

Alberto Burgio

Non vorrei che la prospettiva dalla quale mi è congeniale riflettere sul tema della rappresentanza sociale e politica del lavoro (o piuttosto sul deficit di rappresentanza) scontasse una sorta di deformazione professionale che m’induce a sopravvalutare il ruolo delle idee e del senso comune e quello delle ideologie e delle culture politiche dei gruppi dirigenti delle organizzazioni della sinistra e del movimento operaio. Lo dico perché in effetti il tema di questo incontro è per me un invito a nozze, in quanto la questione della rappresentanza mi sembra porre al centro – direi oggettivamente – il problema degli strumenti teorici, delle categorie concettuali per mezzo delle quali si legge la realtà, si analizza la composizione sociale, si definisce la geografia delle soggettività e delle relazioni tra le soggettività. D’altra parte si tratta evidentemente di temi di per sé molto complessi, non solo perché è complicato l’argomento, ma perché la complessità aumenta nel momento in cui l’analisi si fa riflessiva e coinvolge se stessa, i propri strumenti, i propri presupposti, le proprie strategie euristiche. Per questo chiedo scusa in anticipo per l’inevitabile sommarietà e disorganicità di quello che non pretende di essere che l’abbozzo di un primo schema di ragionamento.

Siamo alla chiusura di un ciclo storico, il che non significa che un nuovo ciclo si stia aprendo.
Se ci domandiamo quale rapporto la crisi che stiamo vivendo intrattenga con il trentennio neoliberista che l’ha preceduta, credo che la risposta debba essere che questa crisi è al tempo stesso lo sbocco naturale di quella fase e il suo coronamento.

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la costituente

Neoliberismo e egemonia culturale*

di  Daniela Palma e Francesco Sylos Labini

Il 5 novembre del 2008 la regina d’Inghilterra visitò la prestigiosa London School of Economics e durante la cerimonia fece una domanda passata alla storia come “la domanda della regina”. Ci sono delle versioni discordanti sulle parole esatte che ha utilizzato, ma il senso è questo: “Come mai la maggioranza degli economisti non ha previsto la crisi finanziaria del 2008?” Ricordiamo, infatti, che il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008 ha dato origine alla più grande crisi finanziaria dal 1929 e alla recessione di tanti paesi che ancora dura, e che economisti di fama mondiale non sono stati capaci né di prevedere la crisi né  di interpretare quello che stava avvenendo dopo che la bolla era già scoppiata.

Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera, spiegando che una delle ragioni principali dell’incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è la formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che “l’economia – l’economics – è diventata una branca delle matematiche applicate.”

Sono passati da quei giorni più di quattro anni e la crisi si è approfondita, mentre nulla sembra essere cambiato delle posizioni assunte sulla crisi dagli economisti che hanno voce in capitolo nelle maggiori istituzioni internazionali e nel governo degli stati. Qualcuno direbbe che, ultimamente, un numero crescente di attori della crisi sta maturando una riflessione sugli sbagli fatti e sulle possibili correzioni da mettere in pratica per cominciare almeno a invertire la direzione del declino economico che si è inesorabilmente affermata.

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consecutio temporum

Il capitale: un’economia del capitalismo in una teoria della società moderna

Dialogo con Gérard Duménil

Jacques Bidet

0.  Le seguenti riflessioni nascono in parte da una serie di discussioni avute con Gérard Duménil[1] a margine di una stretta collaborazione nella scrittura di un libro[2]. Partiamo entrambi da un’idea comune: la società contemporanea presuppone tre forze sociali primarie, che allora chiamavamo (provvisoriamente e per compromesso) “capitalisti”, “quadri e competenti” e “classi popolari”. La coesione tra le prime due è andata indebolendosi a partire dagli anni ’30 sotto la pressione della terza, ma si è rinsaldata negli anni ’80 sotto l’egida della prima e nella forma del neoliberismo. In mancanza di una chiara comprensione di questa triangolazione del rapporto di classe la sinistra cosiddetta “radicale” è destinata a rimanere paralizzata in una opposizione binaria tra capitalisti e resto della società ispirata a un marxismo vetusto, e incapace di elaborare strategicamente una vera prospettiva di emancipazione. A nostro giudizio, invece, se intendono davvero infrangere il blocco dominante le classi “popolari” non hanno altra scelta, oggi come già nel passato, se non quella di unirsi e cercare di forgiare un’unione sufficientemente forte da egemonizzare i cosiddetti “quadri” attraverso un’alleanza al contempo suscettibile di legittimazione e sovversiva. Queste tesi sono di natura insieme socio-analitica, storica e strategica. Esse mostrano come quelle che oggi chiamiamo “la destra” e “la sinistra” corrispondano almeno in parte (perché la sinistra non si limita solo a questo) a due facce della dominazione di classe, e propongono una politica di sinistra e di classe.

Un altro punto di convergenza tra me e GDriguarda a mio avviso l’uso che oggi si può fare del Capitale.

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Il governo dell’uomo indebitato

Federico Chicchi

Non è oggi giunto il tempo per mollare gli ormeggi? Non è giunto il momento di mettersi in viaggio? “Partire nel mezzo, per il mezzo, entrare e uscire, non cominciare né finire”, per Deleuze, partire significa tracciare una linea, una linea di fuga: e nelle linee di fuga “c’è sempre un tradimento (…), si tradiscono le potenze fisse che vogliono trattenerci”. Occorre svincolarsi dai segmenti che ci trattengono, che hanno il potere di individuarci e di decidere la qualità dei nostri sogni.

Questo “potente” tema deleuziano, attuale più che mai, immersi come siamo nelle piaghe putrefatte della società salariale, mi pare in sintesi la tensione fondamentale che attraversa, dall’inizio alla fine, l’ultimo e formidabile libro di Maurizio Lazzarato Il governo dell’uomo indebitato (DeriveApprodi, 2013).

L’oggetto specifico del tradimento, cui ci invita l’autore, si palesa solo negli ultimi capitoli del volume, ma après-coup fornisce una pragmatica a tutto il volume. Il tradimento da realizzare passa dal rifiuto del lavoro.

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il ponte

La società del debito

Andrea Sartori

Il debito su cui pare oggi fondarsi la vita degli individui e degli stati – tenuti in scacco da un pugno di oligarchi della finanza – è per un verso un ritorno a un’originaria condizione naturale dell’uomo, per un altro una sua contraffazione. Un pensiero comune alla riflessione antropologica, dall’Oratio de dignitate hominis (1486) di Pico della Mirandola al trattato di antropologia elementare L’uomo (1940) di Arnold Gehlen – passando per il Saggio sull’origine del linguaggio (1772) di Johann G. Herder, e per buona parte del pensiero di Friedrich Nietzsche, di Sigmund Freud e da ultimo di Peter Sloterdijk – individua nell’uomo un essere deficitario, privo di quelle risorse istintuali e di quelle dotazioni morfologiche, che in natura fanno invece la fortuna dell’animale. Proprio in quanto originariamente manchevole di una condotta predeterminata, l’uomo – per riprendere un’idea di Martin Heidegger espressa durante il corso invernale del 19291930 all’Università di Freiburg in Breisgau – dà forma al proprio mondo (Welt), che è pertanto qualitativamente altro dall’ambiente (Um-welt) in cui è costretto a muoversi l’animale, il quale è provvidenzialmente pilotato dall’automatismo dei propri istinti. Essendo già da sempre in debito d’un indirizzo innato a cui volgere le propria esistenza, l’essere umano non può che fare affidamento sulla libertà dell’agire, sull’uso di simboli e di un linguaggio che lo distanzino dalla coazione a ripetere della pulsione immediata, e in definitiva sulla sua autonoma capacità di generare cultura e forme condivise di socialità.

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Euro, mercati, democrazia 2013

Come uscire dall’euro

Schermata del 2013 12 13 00 37 40Il 26 e 27 ottobre 2013 si è svolta presso il Centro congressi dell’Hotel Residence Serena Majestic di Montesilvano (Pescara) la seconda edizione del convegno internazionale Euro, mercati, democrazia intitolata Come uscire dall’euro. All’evento, organizzato da a/simmetrie con il Dipartimento di Economia dell’Università Gabriele d’Annunzio, hanno preso parte Angelini, Bagnai, Barra Caracciolo, Borghi, Feltri, Ferreira do Amaral, Fusaro, Innocenzi, Kawalec, Lops, Montero Soler, Panagiotis, Pozzi, Rinaldi, Rocca, Zezza.

Al convegno, trasmesso in diretta streaming, hanno assistito circa 450 persone.

Riportiamo in questa pagina, appena disponibili, i video degli interventi.

La prolusione di Diego Fusaro: “Sovranità ed egemonia del politico sull’economico”


http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=P8Kd7l7XThQ

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La nuova ragione del mondo

Il neoliberismo come forma di vita

di Pierre Dardot e Christian Laval

[Esce in questi giorni per DeriveApprodi l'edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera «genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione all'edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un'ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l'identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del capitolo finale].

La fine della democrazia liberale

Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.

Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].

Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2].

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ozioproduttivo

Da Céline al videoclip

Anselm Jappe

All'inizio dell'anno ho pubblicato in Francia una raccolta di saggi dal titolo Crédit à mort (1), incentrati specialmente sulla crisi finanziaria e sulle sue ripercussioni sociali. Il titolo è un ovvio utilizzo del metodo dello straniamento (detournement) del titolo del secondo romanzo di Louis-Ferdinand Céline. Non c'era, comunque, un riferimento diretto al testo di Céline; il titolo del mio libro era soltanto un gioco di parole tra “morte” e “credito”. Ciò nonostante, in seguito ho realizzato quanto fosse realmente appropriato il riferimento a Céline e che avevo fatto una buona scelta senza esserne inizialmente consapevole. Il mio libro è per sommi capi una denuncia delle false forme di critica sociale che sono emerse a causa della crisi della società capitalista. Nel libro ho denunciato soprattutto la polemica unilaterale contro la finanza, le banche e la speculazione, non considerate come l'aspetto visibile di una crisi più profonda — la crisi dell'accumulazione del capitale — ma come la causa stessa della devastante crisi dello stile di vita capitalista. Questa polemica contro la speculazione, che si trova sia nella sinistra che nella destra, attribuisce tutti i mali del mondo non ad una struttura sociale, ma ad un gruppo ristretto di persone motivate dall'avidità e dal desiderio di potere. Gli operai e gli onesti investitori devono essere difesi dai parassiti della finanza: questo appello sembra aver generato un consenso che arriva fino a Barack Obama, George Soros e Mario Draghi.

Tale posizione è di gran lunga lontana dalla comprensione della connessione tra lavoro astratto e valore, tra merce e denaro, tra capitale e salario, che rappresenta la peculiarità del capitalismo ed è la causa degli sconvolgimenti attuali.

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Le quattro vecchie fallacie della nuova Grande Depressione

di Robert Skidelsky

Il periodo iniziato nel 2008 ha prodotto un’abbondante raccolta di fallacie economiche riciclate, soprattutto sulle labbra dei leader politici. Ecco le mie quattro preferite. 


1) La casalinga sveva.
“Si dovrebbe semplicemente chiedere alla casalinga sveva”, ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel dopo il crollo di Lehman Brothers nel 2008. “Lei ci avrebbe detto che non si può vivere oltre i propri mezzi”

Questa logica apparentemente sensata è la base dell’austerità. Il problema è che ignora l’effetto della parsimonia della casalinga sulla domanda totale. Se tutte le famiglie frenano le loro spese, il consumo totale cade e lo stesso accade per la domanda di lavoro [da parte delle imprese, ndr]. Se il marito della casalinga perde il lavoro, la famiglia starà peggio di prima.

Il caso generale di questa fallacia è la “fallacia di composizione”: ciò che ha senso per ogni famiglia o impresa individuale non necessariamente è bene in aggregato.

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Fra utopie letali e crisi reali

di Guglielmo Forges Davanzati

L'incapacità della sinistra di fornire una alternativa credibile all'odierna egemonia del paradigma neoliberista è anche dovuta all'energia dispersa per inseguire “obiettivi illusori e immaginari", come nel caso delle ideologie postoperaiste, anarchiche, “benecomuniste”. Nell'ultimo libro di Carlo Formenti una lettura della crisi a partire dalla dialettica fra “pensiero unico” e “pensiero critico”.

Utopie letali [qui la prefazione del libro] è il bel titolo dell’ultimo libro di Carlo Formenti[1]. E’ un titolo basato su un ossimoro, dal momento che al termine utopia si è soliti attribuire valenza positiva. Ma le utopie possono diventare letali quando “disperdono su obiettivi illusori e immaginari” le energie antagonistiche (p.8), ovvero – come nel caso delle ideologie postoperaiste, anarchiche, “benecomuniste” – quando utopie apparentemente antagonistiche si rivelano tutt’altro che antagonistiche, sia al sistema capitalistico, sia all’ideologia liberista che ne costituisce la legittimazione “scientifica”.

Utopie letali è un libro denso, estremamente documentato, nel quale si spazia dall’analisi delle politiche di austerità, ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione, a temi più propriamente sociologico-politici. In relazione ai quali, Formenti assume una posizione netta, così riassumibile.

Tutte le ideologie antagonistiche fondate sulla convinzione che il capitalismo finanziarizzato e globalizzato possa essere superato “dal basso”, ovvero attraverso lo spontaneismo antigerarchico e antiautoritario dei “movimenti”, sono non solo destinate al fallimento

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Capitalismo finanziario globale e democrazia

La stretta finale

di Alfonso Gianni*

La relazione causale tra finanziarizzazione del capitale globale e il crollo della democrazia, particolarmente in Europa (continente in cui il compromesso fra capitale e lavoro aveva raggiunto uno dei punti più avanzati), è giunta ad una fase estrema: quella che segna la manifesta incompatibilità di questo moderno capitalismo con le forme della democrazia fin qui conosciuta. Si pone il problema di un nuovo soggetto della trasformazione

comunicato5Vi è una connessione che merita di essere indagata tra i processi di intensa finanziarizzazione del capitale e quelli di “democratizzazione” dei sistemi istituzionali, sia nei singoli stati nazionali sia, e soprattutto, nelle entità sovrannazionali, quale quella europea. Questa connessione è tanto più evidente se si concepisce la democrazia non solo nella sua definizione classica di partecipazione, attraverso forme e modi definiti, dei cittadini al processo decisionale che regola la cosa pubblica, ma anche nella sua determinazione storicamente affermatasi particolarmente in Europa nella prima parte della seconda metà del XX secolo, di un complesso sistema istituzionale che in nome e per conto dei cittadini interviene tramite il potere pubblico e politico sulla ridistribuzione della ricchezza sociale prodotta, con criteri di tendenziale equità sociale che si differenziano nettamente dai meccanismi più o meno spontanei indotti dal libero mercato.

In altre parole se vi è una dimostrazione, direi in corpore vili, della non sopravvivenza della democrazia politica senza che ad essa si affianchi una democrazia economica, questa è data proprio dalla stessa impossibilità di comprendere quanto è intervenuto nella politica dopo il 2008, quindi nella più grande crisi economica del capitalismo europeo di tutti i tempi, e nelle istituzioni nazionali e sovrannazionali, senza metterlo in stretto rapporto con le vicende economiche e finanziarie, con le reazioni dei mercati da un lato e il manifestarsi di nuovi e vecchi conflitti sociali dall’altro.

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