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Il governo dell’uomo indebitato
di Marco Bascetta
È dall’inizio della crisi e poi con sempre crescente insistenza che in Europa si sente parlare di «virtù». Ne parlano i governi, ne parlano gli organismi dell’Unione, ne scrivono quotidianamente gli editorialisti della grande stampa. Di espressioni come «paesi virtuosi», «politiche virtuose», «bilanci virtuosi», «comportamenti virtuosi» siamo letteralmente subissati. Il ritorno alla virtù è la promessa che i governi «responsabili» rivolgono ai mercati , alla Bce, alle agenzie di rating, a Berlino e a Bruxelles e, paradossalmente, anche alle proprie cittadinanze per le quali la vita virtuosa si traduce perlopiù in una vita grama fatta di bassi salari e disoccupazione, di smantellamento dello stato sociale e consumi declinanti, di un divario sempre più abissale tra i primi e gli ultimi, di una desolante mancanza di prospettive. Del resto, il connubio tra povertà e virtù è un tema classico della predicazione d’ogni tempo.
Vizi come virtù
C’è davvero da rimpiangere, nel dilagare di queste retoriche del sacrificio virtuoso, quella narrazione delle origini (suggestivamente riassunta ne La favola delle api di Bernard de Mandeville,1704) che faceva onestamente discendere il rigoglio dell’industria e dei mercati dai vizi e dall’avidità che mettevano – e tutt’ora mettono – in movimento la macchina economica.
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"Nuovo fascismo" o neoliberalismo?
Michel Foucault e l'affaire Croissant
Alessandro Simoncini
1. Nel cuore degli “anni di piombo”: il caso Croissant
Come si sa, fin dai primi anni ’70 Michel Foucault avvierà l’elaborazione di un’analitica del potere capace di oltrepassare tanto la sterile dogmatica del contrattualismo liberale, quanto le insufficienze di un rigido economicismo marxista. (1) Ai suoi occhi, la lezione proveniente dagli eventi del ’68 aveva indicato la strada: i movimenti avevano rigettato materialmente l’ordine della società disciplinare affermando dal basso, e con radicalità globalmente diffusa, che «non si accettava più di essere governati in un certo modo». (2) Per dirla con Gilles Deleuze, quelle lotte avevano rappresentato «la messa a nudo di tutti i rapporti di potere, ovunque essi si esercitassero, cioè dappertutto». (3) In questo modo, esse avevano squadernato apertamente il “concreto” stesso del potere – sosteneva Foucault - fin nelle maglie più fini della sua rete. (4) Recepirne le indicazioni significava allora elaborare una “microfisica del potere” in grado di superare l’ossessione teorica della sovranità e di mostrare come la concretezza dei poteri e dei saperi avesse prodotto, storicamente e materialmente, l’assoggettamento delle menti e dei corpi: (5) il governo di tutti e di ciascuno.
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A chi serve la menzogna?
Sull’informazione economica negli Stati Uniti
di Alfio Neri
“Il wasn’t a natural disaster. The Bubble was man-made” (Elisabeth Warren)
1. Lo scorso gennaio, quando ero in California, negli Stati Uniti, mi piaceva leggere il Wall Street Journal. Scritto in un disagevole americano standard, sembrava esporre ovvie verità con un linguaggio crudo, franco, colloquiale. Il suo argomentare diretto contrastava molto con il tono professorale del New York Times, una specie di versione colta del Corriere della Sera, adatto solo ai laureati in una qualche disciplina umanistica. Leggevo questi due giornali perché altri decenti non ce n’erano. Il terzo quotidiano nazionale, USA Today, aveva molte foto, molto sport e mi sembrava più adatto a proteggere i senzatetto dal freddo che alla lettura. Altri importanti giornali nazionali non ne vedevo. Esistevano altre testate. Mi ricordo ad esempio il Los Angeles Times. In ogni caso questi fogli, sinceramente, mi sembravano più quotidiani locali che vere fonti informative. Mi trovavo in una situazione molto strana. Una situazione interessante e per me decisamente nuova. Negli Stati Uniti esisteva (esiste) una specie di collo di bottiglia informativo di dimensioni nazionali. La situazione era così esplicita che, un paese con molti quotidiani come l’Italia, poteva apparire come una specie di covo di intellettuali d’alto livello. Questa ripetuta esperienza di lettura mattutina mi aveva intrigato. A me è sempre piaciuto leggere e trovavo conforto nella vista di altri lettori, in genere barboni, senzatetto e vecchiette rimbambite. I miei simili, i lettori di libri e giornali, sono considerati degli strambi, gente molto particolare. L’americano medio guarda la televisione.
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Strategia per una riconquista*
di Serge Halimi
Sono trascorsi cinque anni dal fallimento di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. La legittimità del capitalismo come nodo di organizzazione della società ha subito un duro colpo; le sue promesse di prosperità, di mobilità sociale, di democrazia non illudono più. Ma il grande cambiamento non si è verificato. Le messe in discussione del sistema si sono succedute senza scuoterlo. Il prezzo dei suoi insuccessi è stato pagato persino con l’annullamento di una parte delle conquiste sociali che gli erano state strappate. «I fondamentalisti del mercato si sono sbagliati su quasi tutto, e tuttavia dominano la scena politica più che mai», constatava l’economista americano Paul Krugman già quasi tre anni fa. Tutto sommato, il sistema tiene, anche con il pilota automatico. Non è un complimento per i suoi avversari. Che cosa è successo? E che fare?
La sinistra anticapitalista rifiuta l’idea di una fatalità economica poiché crede che ci siano delle volontà politiche a organizzarla. Ne avrebbe dovuto dedurre che il tracollo finanziario del 2007-2008 non avrebbe aperto una via trionfale ai suoi progetti. Il precedente degli anni ’30 forniva già dei suggerimenti: in funzione delle situazioni nazionali, dei patti sociali e delle strategie politiche, una stessa crisi economica può sfociare in esiti tanto diversi quanto la salita al potere di Adolf Hitler in Germania, il New Deal negli Stati Uniti, il Fronte Popolare in Francia, e niente di altrettanto rilevante nel Regno Unito.
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Rinazionalizzare le pensioni conviene
Sergio Cesaratto
Non c'è due senza tre. Dopo Argentina e Ungheria, anche la Polonia governata da un liberista ha rinazionalizzato il sistema pensionistico. Come raccontano le cronache di questi giorni, il governo di Varsavia ha obbligato i fondi pensione a trasferire forzatamente gli investimenti in titoli di stato del valore di 37 miliardi di dollari nelle mani del Tesoro, diminuendo di botto il debito pubblico di un valore pari all’8% del Pil. Con la debacle del sistema cileno di qualche anno fa - che però è una storia un po' diversa - la disfatta dell'offensiva contro la previdenza pubblica guidata una ventina d'anni fa dalla World Bank è completa. E pour cause. Quello che i primi tre paesi fecero ai tempi delle riforme fu semplicemente di trasferire la gestione del sistema pensionistico pubblico ai privati sicché, mentre il sistema restava fondamentalmente il medesimo, i suoi costi di gestione si accrescevano per la minore efficienza della gestione privata e dei profitti che questa intende lucrare. Per capire facciamo un passo indietro. E’ semplicissimo.
Nel sistema pensionistico pubblico gli enti mutualistici (come l'INPS per capirci) prelevano i contributi dei lavoratori (supponiamo 100 euro) e ne restituiscono altrettanti ai pensionati correnti (diciamo 98, con 2 euro che sono i costi di gestione del sistema pubblico che è molto più efficiente del sistema privato). I lavoratori sono consenzienti perché contribuendo oggi acquisiscono il diritto alla pensione una volta anziani.
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Giovanni Leghissa. Neoliberalismo
Enrico Manera
La crisi dell'economia mondiale potrebbe avere quantomeno la funzione di creare le condizioni di attenzione per un'analisi critica dell'aspetto dogmatico assunto dall'economia come la conosciamo. Essa è nella sua struttura logica e nei quadri mentali dei suoi attori alla radice dei problemi drammatici dell'Italia e più in generale dell'area geopolitica che si vuole modello di sviluppo universale.
Tra le ricerche recenti il libro di Leghissa, Neoliberalismo. Un'introduzione critica (Mimesis, 212) filosofo nell'ateneo torinese, è un'agile e densa disamina che chiarisce le idee sulla questione fornendo una preziosa sintesi operativa, avvicinando le orbite degli studi filosofici e di quelli economici e permettendo di recuperare bibliografia internazionale ignota ai non specialisti.
Neoliberalismo aggira, tenendola sulla sfondo, l'analisi marxiana del reale, spuntata nella misura in cui lo stesso marxismo si è configurato come verso di una medesima concezione economicista. Nella rappresentazione sociale un sogno del marxismo, sempre più confuso, è diventato aspetto di una «rivolta malinconica» – si lamenta una perdita senza sapere cosa si è perduto e perché – contro la condizione attuale. La via dell'argomentazione passa invece attraverso l'ontologia dell'attualità di Michel Foucault, il cui lavoro di critica del presente si presenta come chiarificazione di ciò che in prima istanza si presenta ovvio.
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Secondo alcune e alcuni..
di Elisabetta Teghil
Secondo alcuni/e la storia è finita. Questa è la migliore società possibile e l’ideologia e la lotta di classe avrebbero provocato solo disastri.
Pertanto l’unico orientamento nella vita, se mai ce ne fosse uno, sarebbe la democrazia rappresentativa e, per i laici, il pensiero scientifico di cui si tessono acriticamente le lodi.
Le radici della illibertà non sarebbero innestate nel sociale, nello sfruttamento, nella reificazione, come ci dice la lettura marxista della società, ma nel tentativo più o meno riuscito di uscire da questa società, magari di costruirne un’altra.
Quest’area racconta la crisi come crisi del marxismo e i più dogmatici sono come sempre gli spretati/e. Il loro cavallo di battaglia è la fine dell’ideologia, contribuendo così all’ideologia neoliberista. E, da neofiti di quest’ultima, sono i primi/e nel condannare il pensiero e l’esistenza dell’Altro.
Pretendono di annullare la possibilità di soggetti che non intendono piegarsi rassegnati al dominio della merce. Sono i teorici del disincanto.
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L'infezione hayekiana
Una nota di commento al lavoro di Wolfgang Streeck
di Gmdp
la democrazia funziona solo se non la sovraccarichiamo e se le maggioranze evitano di
abusare del proprio potere interferendo con la libertà individuale
(Friederich von Hayek, The economic conditions of Interstate Federalism, 1939)
fatta eccezione per la questione della sicurezza nazionale poco importa chi sia il prossimo
presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato
(Alan Greenspan, President of the US Federal Reserve, 2007)
Wolfgang Streeck è il direttore del Max-Planck Institut per la ricerca sociale di Colonia, ha diversi incarichi di ricerca e docenza in molteplici istituti tedeschi, europei ed americani; è un sociologo, che all'inizio della sua carriera fu dalle parti di Francoforte dove frequentò il sapere della Scuola di Adorno, Marcuse ed Habermas.
E' a tutti gli effetti un sapiente della knowledge factory che ha dato alle stampe un testo che ha innescato un dibattito forte e potente in Germania ed è stato appena pubblicato in Italia per i tipi di Feltrinelli (Wolfang Streeck, Tempo guadagnato, Campi del sapere, Feltrinelli, Luglio 2013).
Streeck fornisce una rilettura genealogica degli ultimi trent'anni in Europa, abbracciando nell'analisi l'economia e le coniugate riforme di politica economica, istituzionali e politiche.
Un sociologo, ovvero non un tecnico dell'economia - dio ce ne scampi! -, si assume il compito di riunire ciò che nell'economia classica era un connubio indissolubile per costruzione, due parole che se lasciate separate seducono ed inducono alle peggiori catastrofi tanto nell'analisi quanto nelle scelte: economia e politica ovvero economia politica.
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Aspettando Godot
di Elisabetta Teghil
Sto facendo mente locale sul perché mi è sfuggita la notizia che verso la fine di giugno 2009 c’è stato un colpo di Stato in Honduras. Evidentemente in quei giorni non devo aver letto il giornale! Ho cercato, sia pure in ritardo, di informarmi sul fattaccio.
Ho letto che in Sudamerica ci sarebbero due potenze imperialiste, il Brasile e l’Argentina, che si affiancherebbero a quella tradizionale che sono gli USA e mi sono detta “poveri latino-americani”, non bastava la dottrina Monroe con il principio che l’America Latina era il cortile di casa, adesso ci si sono messi anche l’Argentina e il Brasile!
Poi, cercando di capire meglio, ho scoperto che il presidente deposto si era rifugiato nell’ambasciata brasiliana. Allora mi è stato tutto chiaro! C’è lo zampino del Brasile che insieme agli altri paesi, così detti Brics, compete con gli Stati Uniti nelle mire imperialistiche di sottomissione dei popoli e dei paesi del terzo mondo. Sia pure in ritardo, ma si sa noi donne non siamo portate per la politica, ho capito la vera natura dei continui colpi di stato e invasioni in Centro e Sud America.
E’ una lotta interimperialistica. Finalmente, sia pure anche qui con ritardo, al di là delle nebbie sollevate ad arte dagli antiamericani, ho capito che il colpo di Stato in Cile, a suo tempo, non è stato altro che un braccio di ferro fra l’allora Unione Sovietica e gli Usa, risoltosi con la vittoria di questi ultimi.
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La pluralità del capitalismo
Per rileggere il neoliberismo
Stéphane Haber
Di fronte al capitalismo odierno, una tendenza della riflessione filosofica abbandonata a se stessa consiste nel concedersi alla vertigine inebriante dell’assolutismo, forma sofisticata di disfattismo.
Bisogna ammetterlo: vi è sempre stato un piacere torbido nell’evocare un capitalismo onnipotente e senza limiti; un capitalismo che avrebbe già conseguito tutte le vittorie essenziali e che non farebbe più, ormai, che girare a vuoto in modo aberrante, in totale assenza di frizioni e sorprese. [1] Si noterà del resto che questo assolutismo pare in consonanza con l’immaginario contemporaneo tipico di certa cultura visiva di massa, la quale ammicca all’idea di un sistema inglobante e invisibile, capace di funzionalizzare anche le rivolte più intime – come in Matrix. A Hollywood le distopie hanno in effetti cambiato natura da molto tempo. Le dittature violente (tipo1984) hanno ceduto il passo a una dominazione sottile ma totale dell’intelligenza artificiale, della programmazione e della rete universale. Tale funzionalismo completa il catastrofismo compiacente che si realizza altrove (fine del mondo, distruzione totale) e rinnova il mito della macchina affrancata che si rivolge contro il suo stesso creatore.
L’attrazione per il cinema di una parte del pensiero filosofico attuale, da Jameson a Žižek, trova sicuramente una risorsa importante in queste affinità naturali del mood assolutista.
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I trattati internazionali soppiantano le costituzioni
Ma con il consenso delle stesse
Comidad
Le notizie di stampa sullo scandalo spionistico denominato "datagate", hanno determinato in Europa lo scatenarsi di ipocriti rituali di sorpresa e di indignazione. Tra le autorità europee la parola d'ordine è stata quella di cadere dalle nuvole, di dichiararsi stupefatti o "allibiti", come se l'attività spionistica a tutto campo della National Security Agency non fosse già arcinota. A Sigonella è persino in allestimento un mega-impianto di spionaggio elettronico, il MUOS, con il quale gli USA avranno il territorio europeo sotto un controllo ancora più capillare; ed è chiaro che si tratta non soltanto di spionaggio militare, ma anche nel settore industriale e finanziario, sino alla sfera dei vizi privati, utilissimo strumento di ricatto.
Ma ad indicare la serietà di queste recite in Europa, basterebbe anche solo il fatto che ci si è immediatamente dimenticati che lo scandalo spionistico aveva coinvolto poche settimane fa un Paese europeo, cioè il Regno Unito, il cui servizio segreto, MI6, nell'aprile del 2009 aveva allestito addirittura dei falsi internet cafè per spiare i diplomatici stranieri ospitati a Londra per il G20.
Se questo è il grado di memoria degli avvenimenti, si può facilmente prevedere che tutta questa bolla di indignazione verso gli USA svanirà molto presto, e ciò vale anche per le dure dichiarazioni di monito del commissario europeo Viviane Reding, che ha minacciato conseguenze sui negoziati tra USA e UE per il mercato transatlantico (indicato dall'acronimo TTIP) che dovrebbe andare in vigore dal 2015.
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Guerra e capitalismo
L'ipocrisia del dibattito sulle spese militari
di Giovanna Cracco
Il Conflict Barometer, la pubblicazione annuale dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research, per il 2012 registra 396 confitti in corso nell’intero pianeta, nove in più rispetto al 2011 – occorre sottolineare che secondo la metodologia utilizzata per la classificazione, all’interno di un Paese o fra Paesi diversi possono esistere più confitti contemporaneamente, a seconda degli attori (Stati, gruppi, fazioni) coinvolti. 188 sono classificati “confitti non violenti” (105 controversie e 83 crisi), 43 “guerre altamente violente” e 165 “crisi violente”, per un totale quindi di 208 confitti armati, il numero più alto mai registrato dall’istituto a partire dal 1945. I principali teatri sono l’Africa sub-sahariana (19 guerre e 37 confitti violenti), la zona dell’Asia e dell’Oceania (10 guerre e 55 confitti), il Medio-riente e l’area del Maghreb (9 guerre e 36 confitti). Angola, Chad, Congo, Etiopia, Niger, Sudan, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria le guerre maggiormente note all’opinione pubblica, ma nulla rende più l’idea della localizzazione dei confitti dello sguardo d’insieme che può offrire una mappa (vedi figura 1).
Il Rapporto Sipri 2013 (Stockholm International Peace Research Institute), relativo all’anno 2012 e pubblicato ad aprile scorso, denuncia una spesa militare globale di 1.753 miliardi di dollari, pari al 2,5% del pil mondiale.
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Il liberalismo di Napolitano
Scritto da Diego Fusaro
La frase della settimana è indubbiamente quella pronunciata da Giorgio Napolitano: “non possiamo non dirci liberali”. Non è qui importante ragionare su chi l’ha pronunciata, su qual è il suo passato e quale la sua funzione presente. Occorre, invece, concentrarsi sulla cosa stessa. E la cosa stessa è presto identificata: nell’epoca schiusasi con la data-sineddoche del 1989 e con il trionfo della libertà pensata secondo il parametro aziendale libero-scambista, il pensiero liberale si è imposto come pensiero unico dominante.
Per questo, non passa giorno senza che esso accampi la sua arrogante pretesa di essere il solo modo legittimo di pensare, di esistere e di organizzare lo spazio sociale ridotto a teatro dell’economia divenuta il solo valore direttivo di riferimento. Oggi, in tutte le sue forme, in quelle più estremistiche come in quelle più temperate, il pensiero liberale che si autoproclama il solo giusto, valido e degno di essere praticato (“non possiamo non dirci liberali”) è sempre la funzione ideologica del capitale finanziario. Sbagliano quanti pensano che oggi “liberalismo” significhi ciò che significava ai tempi di Benedetto Croce: nel presente, esso è la pura e semplice sovrastruttura del nomos dell’economia, dello spread e della dittatura del mercato.
L’odierna epoca inauguratasi con l’inglorioso crollo dei comunismi storici assume come propria dimensione simbolica di riferimento il pensiero liberale e, insieme, si proclama come il tempo della fine delle ideologie.
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“Tertium non datur”
di Elisabetta Teghil
Lenin “Che fare?”
In tanta parte del movimento c’è la convinzione che l’alleanza con il PD e con i partitini della sinistra così detta radicale sarebbe una riedizione aggiornata dei fronti popolari.
Alla base di questo assunto c’è la lettura che il PD e i partitini di cui sopra sarebbero sì riformisti e, magari, collusi per un certo verso con la borghesia, ma comunque sarebbero di sinistra e una diga contro le avventure neo fasciste.
Questa analisi dimentica che il capitalismo nella sua fase auto espansiva e di auto valorizzazione è approdato alla stagione neoliberista. Il neoliberismo è un’ideologia gramscianamente intesa come lettura onnicomprensiva della società e, pertanto, non ha bisogno nell’immediato delle soluzioni fasciste tradizionali, relegando i fascisti nel lavoro di bassa manovalanza.
Se dimentichiamo questo cadiamo nella lettura che vuole il fascismo altro rispetto al capitalismo, mentre non è che un’opzione che in determinate situazioni ed epoche storiche il capitalismo stesso ha adottato nel suo divenire.
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Mts, la fabbrica dello spread
La nostra crisi frutta miliardi
Giorgio Cattaneo
Prima mossa: disabilitare la banca centrale, impedendole di continuare ad essere il “bancomat” del governo, a costo zero. Seconda mossa: togliere al governo la facoltà di emettere moneta, obbligandolo ad “acquistare” dalle banche private la valuta un tempo sovrana, cioè gratuita. Terza e ultima mossa: abolire anche l’ultima quota residua di sovranità politica, imponendo al governo una camicia di forza per limitare la spesa pubblica, vitale per i cittadini: sanità, scuola, assistenza. Risultato ovvio: tracollo dell’economia e catastrofe sociale. E’ l’Europa dell’euro, dove tutto sta precipitando. Tunnel senza uscita. Un sistema feudale di sovrani invisibili e nuovi sudditi, governato da un potere occulto e micidiale, nascosto dietro un nome straniero: spread. Il trucco: “privatizzare” il debito statale un tempo pubblico, mettendo all’asta la vita di milioni di cittadini. Gli Stati sotto ricatto: il prezzo della sopravvivenza decretato da un pugno di oligarchi. Più gli Stati s’indebitano, più gli strozzini si arricchiscono. La crisi è il loro affare d’oro, e ha un nome familiare: debito pubblico. Film dell’orrore, made in Italy: ideato da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.
Lo sostiene Glauco Benigni, che su “Globalist” svela l’origine del più opaco meccanismo di potere con il quale la tecno-finanza tiene in pugno i popoli dell’Eurozona, a cui nessuno spiega mai perché “le cose vanno male”. Congiunture internazionali e flessioni fisiologiche dell’economia?
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