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Perché gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iran?
di Paolo Cornetti
Alla fine, è accaduto. Il solstizio d’estate di quest’anno ha segnato non soltanto un passaggio stagionale, ma l’inizio di una nuova e drammatica stagione bellica.
Alle 2:10 iraniane della notte tra il 21 e il 22 giugno, dopo nove giorni di continui bombardamenti israeliani, sono intervenuti i velivoli bombardieri B-2 americani che, trovandosi la strada del cielo completamente spianata, hanno agito in profondità nel territorio nemico e sganciato le loro bombe sui siti nucleari di Fordow e Natanz. Contemporaneamente i sottomarini nucleari della U.S. Navy posizionati nel Mar Arabico colpivano con una ventina di missili da crociera Tomahawk il sito di Isfahan, nel quale è presente l’impianto in cui l’uranio naturale viene processato per poi essere trasferito nelle centrifughe di Natanz e Fordow.
I B-2 hanno, invece, attaccato Fordow e Natanz con le ormai famigerate bunker buster bombs, sganciandone un totale di 14, in quello che è il più importante raid aereo mai svolto con questo tipo di armamento.
Questa particolare e potente bomba che può essere trasportata e sganciata solo dai B-2 statunitensi, ha capacità di distruzione nel sottosuolo ed è, infatti, stata impiegata sui siti di Fordow, costruito all’interno di una montagna una novantina di metri sottoterra, e di Natanz, costruito parte in superfice e parte sotto.
Se una valutazione più precisa dei danni effettivi può essere fatta soltanto con il passare delle ore, le dichiarazioni iraniane e americane tendono a contraddirsi. Secondo Donald Trump l’attacco avrebbe completamente distrutto le centrali nucleari iraniane; mentre secondo fonti iraniane non ci sarebbe stata nessuna fuoriuscita di radiazioni, come per il momento ha confermato anche l’AIEA, ma ci sarebbero alcuni feriti e nessuna vittima. Il numero dei feriti e delle loro condizioni non è stato invece divulgato.
Apparentemente ad avere subito i danni maggiori sembra essere stata la centrale di Natanz, mentre la posizione di Fordow è più complicata da valutare, anche se membri delle istituzioni iraniane hanno dichiarato che tutto il materiale pericoloso era stato preventivamente evacuato e che la contraerea che si è efficacemente attivata ha evitato danni importanti a tutto l’impianto.
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Il Teatro delle Ombre arriva a Teheran
di Giuseppe Masala
Parte prima
Proprio quando molti commentatori iniziavano a ipotizzare uno scenario di lenta pacificazione in Europa è esploso, inaspettato per potenza e pericolosità, un conflitto tra Iran e Israele che si innesta in quel grande gioco mediorientale partito con i gravi attentati del 7 e 8 Ottobre del 2023.
Per comodità e per rendere maggiormente intellegibile ciò che sta avvenendo - così da individuarne le cause - è necessario analizzare il contesto generale consentendo così di comprendere la reale posta in palio e non rimanendo ipnotizzati da quel Teatro delle Ombre fatto di falsi bersagli, ballon d'essai e provocazioni di ogni tipo che hanno il solo scopo di nascondere le reali cause del conflitto e gli attori coinvolti con i propri ruoli e interessi materiali.
A mio modo di vedere, solo dei sonnambuli ipnotizzati dalle ombre messe in scena dalle sapienti mani intente a manipolare le opinioni pubbliche, possono credere alla narrazione che ci viene proposta dal mainstream informativo occidentale, che illustra questo conflitto come causato dalla necessità di evitare che l'Iran si doti di armi nucleari. Gli osservatori più attenti e onesti hanno lucidamente fatto notare che sono trenta anni che Israele abbaia alla luna dicendo che l'Iran è a un passo dall'ottenere un'arma nucleare; affermazione questa che non merita di essere manco smentita essendo ridicolizzata direttamente dal trascorrere degli anni e dei decenni senza che Teheran si doti di armi nucleari. E che dire poi delle disamine di esperti del livello di Massimo Zucchetti che hanno definito le ipotesi che il programma nucleare iraniano sia finalizzato alla costruzione di bombe nucleari come “sterminati branchi di castronerie”!
Se questa è la situazione non ci rimane che provare a dipanare il Nodo di Gordio delle reali motivazioni che stanno spingendo in guerra il Medio Oriente utilizzando la tecnica dell'analisi del contesto generale, delle motivazioni e degli interessi che muovono i protagonisti diretti e soprattutto quelli più o meno occulti.
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Le radici profonde della crisi della sinistra
di Geminello Preterossi
Siamo stati travolti dal neoliberismo: questo è il mantra che, finalmente, da un po’ di tempo (in particolare dopo la crisi economica del 2008, che ha svelato il fallimento della globalizzazione finanziaria), si sente ripetere a sinistra. Ad esempio D’Alema, che non difetta di lucidità quando non si limita a difendere il proprio operato, lo ha ribadito anche di recente. Ma la vera domanda è: perché? A questo interrogativo una vera risposta neppure la si tenta. Com’è stato possibile che quel travolgimento sia avvenuto repentinamente, e senza quasi trovare ostacoli? Tranne qualche voce robusta e critica, come fu ad esempio quella di Claudio Napoleoni, quando nella fase finale della sua riflessione denunciava lucidamente il cedimento culturale in atto verso le politiche neoconservatrici e l’incapacità di pensare alla radice le ragioni di una crisi d’identità che affondava le sue radici in cause non contingenti: ad esempio nella fascinazione per il capitale (mentre stava venendo meno la teologia politica inconsapevole legata alla Rivoluzione d’ottobre), dovuta anche a un certa tendenza al determinismo economicistico, mai del tutto superata, che si saldava a pulsioni scientiste e tecnocratiche. Quel certo riduzionismo materialistico non ha consentito di cogliere che, come disse la Thatcher, la posta in gioco del neoliberismo erano le anime. Tale sordità era dovuta a limiti interni alla cultura marxista media, al suo senso comune. Ad esempio, l’incapacità di cogliere la vera natura dell’alienazione, che oltre a essere economica e sociale è anche esistenziale e spirituale, e quindi il carattere strutturale della dimensione antropologica.
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Déja Vu di guerra
di Chris Hedges* - Scheerpost
Ci sono poche differenze tra le menzogne raccontate per scatenare la guerra con l'Iraq e quelle raccontate per scatenare una guerra con l'Iran. Le valutazioni delle nostre agenzie di intelligence e degli organismi internazionali vengono, come già accaduto durante le richieste di invadere l'Iraq, liquidate con disinvoltura come allucinazioni.
Tutti i vecchi luoghi comuni sono stati riesumati per spingerci verso un altro fiasco militare. Un Paese che non rappresenta una minaccia né per noi né per i suoi vicini è sul punto di acquisire un'arma di distruzione di massa (WMD) che mette in pericolo la nostra esistenza. Il Paese e i suoi leader incarnano il male puro. La libertà e la democrazia sono in pericolo. Se non agiamo ora, la prossima prova schiacciante sarà un fungo atomico. La nostra superiorità militare assicura la vittoria. Siamo i salvatori del mondo. I bombardamenti massicci, una versione aggiornata dello Shock and Awe, porteranno pace e armonia.
Abbiamo sentito queste falsità prima della guerra in Iraq del 2003. Ventidue anni dopo sono state riesumate. Chiunque sostenga i negoziati, la diplomazia e la pace è un tirapiedi dei terroristi.
Abbiamo imparato qualcosa dai fallimenti in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, per non parlare dell'Ucraina?
Tutti i demoni che ci hanno venduto queste guerre passate con false pretese, come il conduttore conservatore di talk show Mark Levin, Max Boot – che scrive: «quell'imperativo strategico giustifica il bombardamento di Fordow», dove è sepolto il programma di arricchimento nucleare iraniano – David Frum, John Bolton, il generale Jack Keane, Newt Gingrich, Sean Hannity e Thomas Friedman, sono tornati a saturare le onde radio con allarmismo senza fiato.
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Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
di Lavinia Marchetti*
C’è un motivo per cui ho scelto Enrico Mentana come caso di studio. Non perché sia il peggiore, ma perché è il più rappresentativo. Perché nel suo giornalismo si condensa un’intera sintassi dell’egemonia, per dirla con la scuola di Francoforte. Mentana è lo specchio brillante, e dunque deformante, di un sistema mediatico che ha smesso di informare per iniziare a costruire consenso.
L’egemonia, oggi, non si annuncia né si proclama: si installa. Non è una vera e propria censura, ma una selezione. Funziona come una specie di grammatica segreta che ti fa parlare la sua lingua mentre credi di scegliere la tua, la concretizzazione di una pensiero magico in atto. Così il frame diventa destino. E Mentana, in questo sistema, non è il più servile, ma il più raffinato. Il più rappresentativo. È lì che risiede il suo potere: nella perfetta simulazione della libertà, nella competenza a selezionare ciò che può esistere nello spazio della parola pubblica.
La domanda è: “lui ne è consapevole?”. L’intellettuale che dirige opera una specie di sospensione dell’incredulità. Ci crede e non ci crede allo stesso tempo. Il concetto di sospensione dell’incredulità, che nasce in ambito estetico, viene qui trasposto alla politica e al giornalismo: come lo spettatore che decide di credere a una finzione cinematografica per goderne appieno, Mentana sembra stringere un patto ambiguo con la narrazione dominante.
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Sul conflitto ucraino: “La Russia non ha fretta ma l’offensiva su Dnipro cambia tutto”
Roberto Vivaldelli intervista Stephen Bryen
Stephen Bryen è una voce autorevole voce nel campo della Difesa e dell’analisi militare: ex sottosegretario durante l’amministrazione Reagan e già presidente di Finmeccanica North America (oggi Leonardo), Bryen vanta una lunga carriera nel campo dell’industria bellica e della sicurezza internazionale. Lo abbiamo intervistato per porgli qualche domanda sulla guerra tra Russia e Ucraina alla luce degli ultimi eventi.
* * * *
Dopo l’attacco dell’Ucraina alle basi russe, si aspettava una risposta più dura da parte di Mosca? Quali potrebbero essere le conseguenze se la Russia decidesse di colpire più duramente?
“La maggior parte dei rapporti indica che la Russia sta iniziando a rispondere e a effettuare rappresaglie dopo l’attacco alle sue basi aeree strategiche. Negli ultimi giorni, i russi hanno lanciato una serie di attacchi con missili e droni, causando danni significativi a depositi di munizioni, centri di comando e addestramento, e impianti di produzione di droni. In particolare, i russi hanno preso di mira i sistemi di difesa aerea Patriot a Kiev e in altre località, con presunti successi. Sostituire i sistemi Patriot danneggiati è quasi impossibile, poiché le scorte di missili, radar e sistemi di comando e controllo sono quasi esaurite in Europa e negli Stati Uniti”.
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Chi è assente ha sempre torto?
di Marta Mancini
Sullo sfondo degli avvenimenti internazionali e delle emergenze globali, reali o presunte, l'ultimo rapporto Censis descriveva l'Italia come un paese intrappolato in uno stato di "galleggiamento" riguardo ai consueti indicatori socio-economici (PIL, consumi delle famiglie, occupazione, investimenti, ecc.). Fedele alla proverbiale attitudine a navigare, la popolazione italica si mostrerebbe capace di riprendersi da ogni tempesta senza scosse e ammutinamenti. Nella dinamica sociale - si legge ancora nel documento - "la sequela di disincanto, risentimento, frustrazione, senso di impotenza, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole (...) non è sfociata in violente esplosioni di rabbia". Da altri comportamenti si coglie semmai il segnale dello scontento diffuso, visibile nell'indifferenza verso le forme di mobilitazione collettiva, considerate inefficaci; nella sfiducia nei sistemi democratici e nelle istituzioni europee, giudicate dannose; nel distacco dai valori un tempo aggreganti e nell'avversione verso l'egemonia dell'Occidente, ritenuto responsabile dei conflitti in corso. Queste tendenze si aggiungono a quelle rilevate l'anno precedente dove erano emersi il declassamento del lavoro nella gerarchia dei valori personali, il ripensamento del senso della vita e il reindirizzamento delle energie verso desideri individuali a bassa intensità. La metafora usata in questo caso paragona la condizione degli italiani allo stato di sonnambulismo (57° rapporto Censis).
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Israele e Iran salvano la faccia, Trump vince (e anche Putin)
di Gianandrea Gaiani
(aggiornamento alle ore 17,00 del 24.6)
La tregua stabilita nelle scorse ore è stata annunciata da Donald Trump e poi dai governi di Teheran e Tel Aviv ha preso corpo troppo in fretta lasciando il dubbio che facesse parte di un piano già predefinito, probabilmente fin dall’avvio dei bombardamenti statunitensi sui centri nucleari iraniani.
Gli ultimi sviluppi del conflitto sembrano indicare che abbia trovato ampie conferme l’ipotesi formulata da Analisi Difesa di “un’ammuina” statunitense tesa a salvare la faccia a Benjamin Netanyahu offrendo una via d’uscita a Israele ormai a corto di armi antimissile.
USA e Israele hanno annunciato la “missione compiuta” dicendosi certi della totale distruzione del programma nucleare iraniano Trump nonostante non vi siano certezze circa i danni inflitti ai bunker sotterranei, alcuni dei quali peraltro non noti, e nonostante non vi sia traccia di oltre 400 chili di uranio arricchito.
Richard Nephew, ex funzionario statunitense esperto di Iran Usa, ha detto il Financial Times che nessuno sa dove siano finiti i 408 chili di uranio arricchito al 60 per cento. Gli Stati Uniti e Israele non hanno la capacità per riuscire a individuarlo a breve. L’intervento militare americano ha al più ritardato di qualche mese il programma atomico di Teheran.
Mohammad Eslami, capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, ha dichiarato che Teheran sta “valutando la possibilità di riparare e rilanciare le parti danneggiate dell’industria nucleare. Abbiamo pianificato in modo che non ci fossero interruzioni nel processo produttivo”, ha aggiunto.
L’impianto nucleare iraniano di Fordow ha subito solo danni parziali a seguito dell’attacco statunitense di domenica sera e la situazione nell’area è tornata alla normalità” ha riferito ieri l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Tasnim citando le autorità locali.
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Otto note sulla guerra Israele-Iran
di Enrico Tomaselli
Superata la settimana di guerra tra Israele e Iran, analizziamo la situazione – e i suoi possibili sviluppi – focalizzando l’attenzione sui vari aspetti più significativi, al fine di inquadrare il conflitto nella sua dimensione più ampia, propriamente strategica e geopolitica
La trattativa
La questione della trattativa avviata dagli USA con l’Iran, che precede l’avvio del conflitto, è alquanto controversa, e secondo molti analisti – soprattutto dell’area dell’informazione alternativa – si sarebbe trattato di una mossa coordinata tra Washington e Tel Aviv, finalizzata a ingannare Teheran. Sappiamo che, in effetti, ha almeno in parte ottenuto questo risultato – anche se ciò non dimostra che fosse questa l’intenzione. In effetti, il Maggiore Generale dell’IRGC Mohsen Rezaei ha recentemente dichiarato che “fin da marzo, eravamo certi che ci sarebbe stata una guerra con Israele. Ci eravamo preparati in modo esaustivo a questo scenario. Tuttavia, non ce lo aspettavamo prima della fine dei negoziati; è stata una sorpresa”.
Contrariamente a quella che sembra essere la lettura di area, sono portato a ritenere che l’avvio del negoziato con l’Iran fosse – coerentemente con la linea politica pacificatrice di Trump – finalizzata a prevenire la situazione conflittuale (poi invece concretizzatasi), ma che sia stata vanificata, già prima che dall’attacco israeliano, dalla confusione con cui è stata affrontata.
Il punto di partenza, necessario, è che tutti – letteralmente – sapevano e sanno che l’Iran non ha armi nucleari, non è sul punto di realizzarle e, cosa non da poco, non ha intenzione di farlo (almeno sino a oggi). La decisione di non dotarsi di armamento nucleare può, ovviamente, essere criticabile – anche con validissimi argomenti – ma ciò nonostante è indubbio che è stata presa, e che l’Iran vi si sia attenuto strettamente. Il fatto stesso che sia stata emessa una fatwa in merito (cioè una sorta di ordinanza giuridico-religiosa) attesta che il dibattito interno relativo abbia a un certo punto richiesto di essere risolto definitivamente, al massimo livello.
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“Zeitenwende” il cambiamento epocale tedesco
di Francesco Cappello
La Germania lancia sassi alla Russia nascondendosi dietro l’articolo 5 della NATO. Perché il “pacifista” Trump permette pericolosissimi dislocamenti di truppe tedesche in Lituania?
Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la Germania manda truppe, in permanenza, nel territorio di un altro paese. L’ultima volta, come si ricorderà, fu nel caso della tentata invasione della Russia, la cosiddetta operazione Barbarossa che costò da 26 a 27 milioni di vittime tra civili e militari all’URSS.
Si tratta di cinquemila uomini di una divisione pesante (vedi scheda).
Come è noto, da sempre la Nato è sotto comando statunitense. Se Trump fosse realmente interessato alla distensione con la Russia, oltre che a smantellare le armi nucleari USA sul territorio europeo, piuttosto che aggiungerne di nuove (si pensi alle nuove bombe nucleari B61 13), bisognerebbe che si opponesse alla pericolosa dislocazione di truppe tedesche in Lituania.
Immaginiamo uno scontro tra lituani e russi, al confine tra Lituania e Russia. La Lituania confina con Kaliningrade, l’exclave russa, a due passi dal territorio continentale russo. Nel caso di una risposta militare ad una qualsiasi provocazione che coinvolgesse truppe lituane/tedesche scatterebbe la possibilità di far ricorso all’articolo 5 [1] del trattato Nord Atlantico che comporterebbe l’attivazione di 31 paesi membri in soccorso della Lituania contro la Russia. Si ricordi che sin dall’inizio i russi hanno avvertito che il giorno in cui il conflitto dovesse malauguratamente uscire dal territorio ucraino, e la Federazione Russa si trovasse a dove far fronte a tutta la NATO, diventerebbe inevitabile per la sua difesa il ricorso all’enorme arsenale nucleare di cui dispone, quale extrema ratio per difendersi a fronte di una minaccia ormai esistenziale.
L’arrivo di truppe tedesche permanenti in Lituania sarebbe un atto di difesa preventiva: non più se serve interveniamo, ma siamo già qui, pronti a reagire subito
Parlano, infatti, di “rafforzamento” dell’articolo 5 con riferimento al posizionamento militare reale, non solo simbolico. La NATO ha sempre avuto piani per la difesa dell’Europa orientale, ora però sta pensando e realizzando basi permanenti.
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Cosa non si fa per amore della libertà
di Andrea Zhok
Una rapida escursione sulle pagine dei principali giornali, telegiornali e talk show mostra come sia partito l’ordine di scuderia alle giumente da lavoro del giornalismo italiano: “È il momento del dissidente iraniano!” E così da ieri si fa a gara a intervistare fuoriusciti e dissidenti iraniani, a dare voce con sguardo compunto e addolorato alle loro sofferenze spirituali e materiali, nel sacro nome della Libertà.
Il pattern è sempre lo stesso dall’era dei dissidenti russi, agli esuli cubani, ai rifugiati libici, iracheni, siriani, ecc. ecc. È come andare in bicicletta, una volta imparato lo fai anche a occhi chiusi. Si alimenta e facilita economicamente, con permessi di soggiorno speciali, ecc. il costituirsi di reti di fuoriusciti, che devono alimentare la narrazione per cui il paese X, che vorremmo smantellare, altro non è che l’ennesima incarnazione del Male da espungere. Simultaneamente si esercitano tutte le pressioni sanzionatorie esterne per rendere la vita nel paese d’origine il più miserabile possibile, in modo da far crescere il numero degli scontenti. Se tutto funziona a dovere, prima o poi l’opinione pubblica è cotta abbastanza da giustificare qualunque porcata purché sia a detrimento di quell’incarnazione del Male, dalla Baia dei Porci al bombardamento di Baghdad.
(Per inciso, ogni tanto mi domando cosa accadrebbe se qualcuno facesse lo stesso gioco con i 100.000 giovani che lasciano l’Italia ogni anno. Dubito sarebbe difficile trovarne qualche centinaio che applaudirebbe a reti unificate la prospettiva di un “regime change” in Italia).
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L’Iran resiste
di Ali Abutalebi - Globetrotter
Dopo gli attacchi mirati contro alti comandanti militari e scienziati nucleari, insieme ai bombardamenti su strutture nucleari e militari, l’Iran ha ripreso il controllo operativo. Il Paese ha lanciato senza esitazione l’operazione “Promessa Vera 3”.
Dopo il caos iniziale delle prime ore, l’Iran ha nominato nuovi comandanti e potenziato l’efficacia dei suoi sistemi di difesa aerea. Le autorità iraniane hanno anche implementato misure di sicurezza per identificare infiltrati sospettati di aver utilizzato droni e altri velivoli leggeri per condurre operazioni clandestine nel territorio nazionale.
È probabile che le autorità statunitensi e israeliane non si aspettassero un crollo immediato del governo iraniano solo attraverso i bombardamenti. Sebbene entrambi i governi abbiano commesso errori strategici, sarebbe sorprendente se credessero davvero che uno Stato potesse essere abbattuto esclusivamente con attacchi aerei.
L’apparente strategia sembrava puntare a scatenare disordini civili tra i gruppi di opposizione dopo l’iniziale destabilizzazione del governo. Questo avrebbe potuto creare aperture per mercenari addestrati a iniziare una seconda fase di operazioni. Tuttavia, questo scenario non si è materializzato.
Invece, la maggior parte degli iraniani, soprattutto dopo le notizie di vittime civili, ha reagito con rabbia e solidarietà. Le perdite tra i civili sembrano aver risvegliato un senso di unità nazionale e patriottismo nella popolazione.
Le dichiarazioni contraddittorie di Trump possono essere comprese in questo contesto di errore strategico, insieme alle pressioni delle autorità sioniste, come evidenziato dai post sui social media e dai commenti pubblici.
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L’Europa degli Stati nazione e le guerre in corso
di Gerardo Lisco
Quanto sta succedendo a livello internazionale è possibile leggerlo alla luce del tentativo degli Stati nazione europei, per inciso: Francia, Regno Unito e Germania, di ritagliarsi uno spazio rispetto a Russia, Stati Uniti e Cina. Questa mia chiave di lettura scaturisce da una serie di indizi che espliciterò nel corso del ragionamento che mi appresto a fare.
Partirò dalle recenti dichiarazioni del Cancelliere tedesco Merz andando a ritroso rispetto a quanto è successo a partire dall’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump.
In merito al conflitto bellico in corso tra Israele e Iran il cancelliere tedesco ha dichiarato che Israele sta combattendo una guerra anche per l’ UE. Macron, giorni fa, di fronte alla richiesta di Trump a Putin di intervenire come mediatore nel conflitto tra Israele e Iran, ha bloccato il Presidente USA dichiarando che la Russia non può svolgere un tale compito. I ministri degli esteri di Francia, Regno Unito e Germania incontreranno a Ginevra l’equivalente iraniano. Dovrebbe essere presente anche il rappresentante UE. Ogni volta che sembra aprirsi un qualche spiraglio per la pace tra Ucraina e Russia ci pensa la Gran Bretagna a sabotare il tentativo. Mi riferisco all’attacco condotto, con droni, dalle forze armate ucraine in Siberia con la conseguente distruzione di 41 aerei russi. Qualche giornale nostrano, preso dall’euforia, ha parlato di una nuova Pearl Harbor. I media hanno riportato la notizia che l’attacco è stato programmato un anno e mezzo fa, cosa che lascia quanto meno dubbiosi.
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Come salvare l'Europa?
di Héctor Illueca / Augusto Zamora R. / Antonio Fernández / Manolo Monereo*
Volentieri pubblichiamo questo intervento di alcuni importanti intellettuali della sinistra spagnola. Essi avanzano l’idea di una Confederazione che rimpiazzi l’attuale Unione europea, ovvero nel perimetro della UE attuale, senza quindi la Russia.
Gli autori evocano lo “spirito di Bandung” e perorano il multipolarismo ma traspare l’idea di matrice globalista che si sarebbe chiusa definitivamente l’epoca westfaliana degli stati nazionali sovrani, che perciò il destino del mondo appartenga a grandi imperi-potenza.
* * * *
Ciò che sembrava impensabile solo pochi anni fa è ora una realtà tangibile: l’Europa è entrata in una nuova fase di riarmo. In termini di bilancio, il balzo è colossale e senza precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale. I piani dell’UE prevedono una mobilitazione fino a 800 miliardi di euro a breve e medio termine, mentre il governo spagnolo ha annunciato l’intenzione di aumentare la spesa per la difesa al 2% del PIL entro il 2025, il che implica un ulteriore stanziamento di 10,471 miliardi di euro di spese militari.
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Ma quale “imperialismo iraniano”?
di Infoaut
Credevamo, evidentemente a torto, che di fronte allo scenario cristallino che si sta dando in Medio Oriente negli ultimi giorni il dibattito tra chi si oppone alla guerra non sarebbe stato solcato dai soliti posizionamenti ideologici
Per un attimo ci siamo illusi/e che di fronte a fatti di questa portata la priorità fosse quella di capire come opporsi, dal nostro lato di mondo, al caos sistemico che Israele, con l’appoggio degli Stati Uniti, sta portando sulla regione.
Invece ci tocca constatare che molti e molte nel mondo dei “movimenti” continuano ad avere priorità diverse. Sono diversi i comunicati e gli articoli che affollano l’infosfera negli ultimi giorni che suonano tutti più o meno nella stessa maniera: “condanniamo l’aggressione israeliana, siamo al fianco del popolo iraniano, ma non del regime”. Fino a qui tutto pienamente condivisibile, non nutriamo nessuna simpatia per la teocrazia iraniana e non siamo tra quelli che considerano ogni nemico dell’Occidente come un amico, ammesso che questo genere di categorie in politica valgano qualcosa. Ma la parte problematica di quasi tutti questi articoli e comunicati viene dopo questa presa di posizione quando si inizia a parlare di uno scontro tra opposti imperialismi.
Ci pare che questa lettura sia identica e speculare rispetto a quella dei “campisti” che chi sostiene queste posizioni dice di avversare. Entrambe queste visioni condividono lo stesso errore teorico: l’idea che siamo già in un mondo multipolare in cui diverse potenze più o meno equivalenti si combattono dentro un quadro di competizione tra capitalismi nazionali.
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Il comunismo nel buio[1]
di Eros Barone
«Dopo il 2017 il dibattito sul comunismo (o anche sulla “crisi del marxismo”) è andato scemando e pare oggi cancellato. Nessuno è più disposto a portare questo Anchise sulle spalle». Questa la conclusione cui sono giunto in «Nei dintorni di Franco Fortini» (gennaio 2025), dove ho riassunto i principali interventi della “Conferenza di Roma sul comunismo” (18/22 gennaio 2017)1 e gli scambi avvenuti, sempre nel 2017, nella redazione di Poliscritture dopo la pubblicazione di un mio commento ‘Comunismo’ (1989) di Fortini.2 Da allora il silenzio. E ora, in questo buio presente di guerre, ha senso ancora parlarne? Come? Con chi? Eros Barone, che il tema non l’ha abbandonato, propone queste sue «Tesi sul comunismo». Sono lontane e in aperto contrasto con la posizione di Fortini, per me ancora punto di riferimento e da lui omaggiata ma subito accantonata. e pure con la mia esigenza di un ripensamento non scolastico o da epigoni. Le pubblico, tuttavia, ringraziandolo, perché i rendiconti che da vecchi facciamo delle nostre esperienze vissute e rielaborate vanno rispettati e meditati, anche se non dovessero essere ripresi da altri o servire poco a cercare altre strade. [ E. A.]
* * * *
L’amico e compagno Ennio Abate mi ha chiesto di rilanciare il dibattito sul significato del comunismo e della lotta per il comunismo, prendendo le mosse da un dibattito promosso e sviluppato intorno a questi temi otto anni fa proprio su questa stessa rivista. Al centro di quel dibattito vi era la definizione del comunismo e della lotta per il comunismo, formulata da Franco Fortini: definizione dalla quale, pur con tutto il rispetto che si deve ai “maggiori”, mi sembra importante prendere le distanze per il forte sapore di idealismo, di sconfitta e di potenziale opportunismo che quella definizione non sempre chiara e persuasiva, elaborata a ridosso degli eventi epocali del 1991, contiene e diffonde.
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Ucraina e Iran, due fronti di una guerra mondiale a pezzi
di Thomas Fazi
La guerra in Ucraina e il conflitto tra Israele e Iran non sono crisi separate, ma fronti interconnessi in una guerra mondiale a pezzi, che vede gli Stati Uniti contrapporsi a un’alleanza di fatto tra Russia, Iran e Cina
Secondo la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, gli Stati Uniti hanno annullato il prossimo round di colloqui con la Russia per il ripristino delle relazioni diplomatiche. Resta da vedere se questo segnerà la fine dei colloqui di pace o se si tratterà solo di una pausa temporanea mentre gli Stati Uniti concentrano le loro energie altrove, ovvero sul conflitto israelo-iraniano in rapida escalation. Ma una cosa è chiara: finora i negoziati sono falliti.
Il tentativo di Donald Trump di mediare un accordo di pace in Ucraina è fallito non solo a causa di una diplomazia imperfetta, ma anche a causa di una convergenza di vincoli politici, resistenze istituzionali e interpretazioni errate della natura del conflitto. Quella che era stata presentata come un’iniziativa coraggiosa per porre fine alla guerra ha invece messo a nudo i limiti dell’istinto di politica estera di Trump, lasciando gli Stati Uniti più invischiati che mai.
Fin dall’inizio, Trump ha sottovalutato quanto un compromesso sarebbe stato politicamente insostenibile sia per l’Europa che per l’Ucraina. Per i leader europei, la guerra è diventata una forza legittimante, che giustifica sacrifici economici, una governance centralizzata e politiche sempre più autoritarie. Qualsiasi accordo che riconoscesse i guadagni territoriali russi equivarrebbe a un’ammissione politica di fallimento, rafforzando l’opposizione interna. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si trovava di fronte a una posta in gioco ancora più alta. Un accordo di pace, in particolare se visto come una capitolazione, potrebbe significare la fine della sua presidenza o persino minacce alla sua sicurezza personale. Queste realtà interne rendevano improbabile qualsiasi serio negoziato, a meno che gli Stati Uniti non esercitassero una pressione schiacciante, cosa che hanno scelto di non fare.
Eppure, anche se Trump avesse insistito di più, i suoi sforzi si sarebbero comunque arenati sugli scogli della politica americana. A Washington, l’apparato di sicurezza nazionale – compresi molti membri della stessa amministrazione Trump – rimane fermamente impegnato a prolungare il conflitto.
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La guerra non è più il mezzo, è diventata il fine
di Luca Busca
Il 15 giugno scorso La Repubblica on line titolava: Iran, il fisico Cotta-Ramusino: “Senza un accordo arriveranno alla bomba”. Com’è ormai consuetudine nel mainstream, il titolo è totalmente disconnesso dal contenuto dell’articolo che, in questo caso, consiste in un’intervista a Paolo Cotta-Ramusino che “è stato per decenni professore alla Statale di Milano, dove ha tenuto anche un corso sulle armi atomiche. E fino al primo gennaio scorso ha ricoperto il ruolo di Segretario generale delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs, movimento di scienziati pacifisti fondato nel 1957 da Joseph Rotblat e Bertrand Russell e premiato con il Nobel per la Pace nel 1995. Ora è membro del Gruppo di lavoro per la Sicurezza Internazionale e il Controllo degli Armamenti dell’Accademia dei Lincei, presieduto dal fisico Luciano Maiani. Ma continua a viaggiare per Pugwash.” (repubblica-paolo-cotta-ramusino-attacco-israele).
Lo scienziato italiano ha evidenziato di non aver avuto problemi durante la recente visita e che “L’Iran è un grande Paese e ha molte anime: noi abbiamo parlato soprattutto con i rappresentanti dell’attuale governo. E l’establishment iraniano era preoccupato.” In maniera piuttosto esplicita poi Cotta-Ramusino sentenzia: “Il solo modo per impedire che l’Iran costruisca ordigni atomici è fare un accordo analogo a quello stipulato nel 2015 con l’Amministrazione Obama. Attaccando l’Iran lo si induce a costruirsi la bomba. È il contrario dell’obiettivo dichiarato. E poi: Israele è l’unico Paese che possiede armi nucleari senza dichiararle. E prende questa posizione nei confronti dell’Iran perché ha paura di essere aggredito?”
Ora risulta evidente anche ai bimbi delle elementari che, se vogliono ottenere un accordo amichevole con il proprio compagno di classe, come il farsi passare il compito in classe di aritmetica, l’ultima cosa da fare è picchiarlo e per giunta davanti ai maestri. Il bambino picchiato può fare solo due cose: o decide di difendersi o si rivolge all’autorità preposta per farsi proteggere. Se i maestri si comportano come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con uno di loro che, essendo il padre padrone del bambino picchiatore, pone il veto alla risoluzione per la sospensione del bambino, reo palese di violazione del diritto scolastico, all’alunno bullizzato non resta altro che reagire.
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“Mondocane Video” --- Dal Knesset al Bilderberg --- GUERRE, BUGIE, SILENZI E MESSE NERE
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=L33-X2aVYeI
Vi si narra, sullo sfondo del menzognificio col quale credono di convincerci che il terrorista è il terrorizzato, l’aggressore è l’aggredito, t’atomico è iraniano e non quello che ha 500 atomiche e vive di guerre, menzogne e aberrazioni morali esercitate con massacri di bimbi palestinesi e violenze su quelli propri (vedi scandalo Knesset, da tutti occultato), cosa sono i due capisaldi della fine del mondo.
Lo stato terrorista che da un quarto di secolo spazza via tutto ciò che ne ingombra la necrofollia e che manifesta le stesse aberrazioni morali esercitate nei sistematici infanticidi di palestinesi, nei confronti di piccole vittime della propria schiatta. Vedi alla voce “Messe nere al Knesset”
E l’accolita dei (im)moralmente, ideologicamente e apocalitticamente affini del club di Bilderberg. Vertice annuale, stavolta tra i Neo-NATO svedesi, per la prima volta non innocentemente ignorato da quelli cui spetta l’onere e l’onore di informare le plebi su cosa gli viene fatto dalla setta di super-ricchi oligarchi, che spolpato i popoli fino al parossismo della loro ricchezza e del loro potere, si apprestano alla soluzione finale.
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Un commento sulle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia
di Stefano Sylos Labini
Nelle sue considerazioni finali Fabio Panetta ha ricordato la lunga fase di stagnazione dell’economia italiana sottolineando, però, che negli ultimi cinque anni, nonostante le crisi pandemica ed energetica, il Paese ha mostrato segni di una ritrovata vitalità economica. La crescita ha superato quella dell’area dell’euro. Il PIL è aumentato di circa il 6 per cento, trainato da un incremento di quasi il 10 nel settore privato, in particolare nel settore delle costruzioni.
Il Governatore dunque ha riconosciuto che il settore delle costruzioni ha trainato la crescita dell’economia italiana in modo preminente nel triennio 2021/23, senza però spiegare come questo risultato positivo sia stato conseguito.
Ebbene ciò è stato possibile grazie all’introduzione dei crediti fiscali trasferibili nell’edilizia che hanno permesso di sfruttare lo sconto in fattura e di monetizzare immediatamente i crediti fiscali senza aspettare di usarli alla scadenza per scontare le tasse.
In questo modo le fasce meno abbienti hanno potuto ridurre l’esborso in euro per pagare i lavori di ristrutturazione e l’acquisto di impianti a elevata efficienza energetica poiché una parte dei pagamenti poteva essere effettuata con i crediti fiscali. Le imprese, avendo la possibilità di monetizzare i crediti a un tasso di sconto contenuto, potevano disporre immediatamente della liquidità per pagare operai e fornitori. Tutto ciò ha dato una spinta potente al Pil e alle entrate fiscali permettendo di ridurre il rapporto debito/Pil di circa 20 punti, dal 154,1 del 2020 al 134,6% del 2023. Si tratta della performance migliore tra i paesi dell’eurozona.
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Difendi l’aggressore dall’aggredito
di Barbara Spinelli
Fin da quando nell’ottobre 2023 ha scatenato l’offensiva a Gaza – non una guerra ma lo sterminio dei Palestinesi, cui s’aggiungono le espulsioni mortifere in Cisgiordania occupata – Netanyahu ha indicato l’obiettivo desiderato: la “vittoria totale”.
Dal 13 giugno sappiamo che la vittoria totale, come la concepisce il premier in combutta da trent’anni con i neoconservatori Usa, è la sconfitta militare di quella che chiama “la testa della Piovra”: la Repubblica Islamica dell’Iran. Teheran è il fronte decisivo dell’“Asse della Maledizione” (dopo Gaza, Cisgiordania, Hezbollah in Libano e Iraq, Houthi nello Yemen, Siria).
Trascinare Washington nella guerra è la volontà di Netanyahu, che opera grazie ai soldi e ai servizi Usa, ma non può penetrare il sito nucleare di Fordow senza un diretto impegno americano. “I cieli sono sotto il nostro controllo”, ha detto martedì Trump, confermando che l’attacco è sempre più congiunto ed esigendo la resa incondizionata. In Europa il suo più acceso sostenitore è il cancelliere Merz, candidato a rappresentare il paese più armato dell’Ue: “Netanyahu fa il lavoro sporco per tutti noi. Da solo non può farlo se vogliamo eliminare del tutto il nucleare dei mullah”.
Una volta liquidati o espulsi i Palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, e se otterrà la vittoria sull’Iran che li proteggeva, Netanyahu e i suoi ministri si sentiranno più vicini che mai alla meta agognata dagli avversari di uno Stato palestinese: il progetto coloniale di un Grande Israele, esteso ai territori occupati nel 1967 e svuotati di gran parte dei Palestinesi, oltre che a pezzi del Libano e della Siria.
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L’ambivalenza strategica di Trump
di Francesco Cappello
Trump vuole la pace ma non si esprime sui missili a lunga gittata degli europei contro la Russia. Trump vuole la pace ma non condanna il secondo attacco, gravissimo, al sistema della triade nucleare russa. Trump vuole la pace ma lancia avvertimenti mafiosi alla Russia: Quello che Vladimir Putin non capisce è che, se non fosse stato per me, molte cose davvero brutte sarebbero già accadute alla Russia. E intendo davvero brutte. Sta scherzando con il fuoco!
Non possiamo allo stato delle cose provare il coinvolgimento diretto di CIA, MI6, NATO e USA ma non possiamo ragionevolmente escluderlo. L’attacco nel cuore del territorio russo a 4000 km dal fronte ucraino è stato condotto se non con l’assistenza, almeno con la conoscenza dell’intelligence Nato ed USA.
È un messaggio mafioso alla Federazione Russa che dice: abbiamo i mezzi, siamo dentro la Russia possiamo colpirvi dove e quando vogliamo ed è successo proprio quando la Russia ha parlato di zona cuscinetto, di zona di sicurezza e si è mossa anche militarmente in questa direzione.
Vogliono una guerra senza esclusione di colpi
Ma si tratta ormai di una guerra senza esclusione di colpi, una guerra totale.
Il concetto di zona di separazione è stato vanificato. Sarebbe un modo per continuare indefinitamente…
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Regime change, rischi letali per il Cremlino
di Vincent Ligorio
Nel panorama complesso delle relazioni internazionali post-2022, la Federazione Russa ha intrapreso un processo di ricalibratura delle proprie alleanze, proiettando una rete densa, ma spesso fragile, di cooperazione strategica con attori regionali ostili all’ordine occidentale. Tra questi, l’Iran si distingue non solo per la sua prossimità ideologica a Mosca in termini di antagonismo sistemico verso gli Stati Uniti e i loro alleati, ma per il suo ruolo di pivot nel garantire profondità logistica, flessibilità diplomatica e continuità nelle operazioni di influenza russa in Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale. La possibile caduta del regime degli ayatollah, ipotesi tornata d’attualità nelle ultime ore, rappresenterebbe per il Cremlino non soltanto una perdita strategica, ma una cesura potenzialmente disgregativa nell’ architettura del potere russo.
L’Iran come Pivot Strategico nella Proiezione Russa
A differenza del caso siriano, dove il sostegno a Bashar al-Assad ha rappresentato per Mosca una dimostrazione muscolare più che una necessità strutturale, l’Iran costituisce per la Russia un elemento di equilibrio. Dalla logistica militare alla cooperazione energetica, fino al coordinamento tecnico-industriale nel settore della difesa, la Repubblica Islamica ha garantito al Cremlino un accesso stabile e scalabile a risorse e infrastrutture necessarie alla prosecuzione della sua narrativa internazionale post-imperiale.
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La sconfitta dell’Occidente e la Guerra Mondiale a Pezzi
di Alessandro Visalli
Il 13 settembre 2014, profeticamente, Papa Francesco dichiarò il segno del nostro tempo tragico. Nel centenario della Prima Guerra Mondiale ricordò che “anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”[1].
Sono passati solo undici anni, ma sembrano un’eternità. Si era nel tempo del Job Act di Renzi, di Schäuble che al G20 si oppose alle richieste di manovre anticicliche degli Usa, riaffermando il vangelo dell’austerità e il surplus di bilancio europeo e tedesco. Era il tempo in cui Obama spingeva perché fossero firmati due trattati di libero scambio, in chiave anti-cinese e a vantaggio delle aziende tecnologiche. Il TTIP (con l’Europa) e il TPP (con l’Asia) avevano infatti un solo scopo: come Jack Lew chiese al G20, quello di creare le condizioni per ribilanciare le partite commerciali statunitensi. Allora come ora il mondo esportava negli Stati Uniti molto più di quanto importasse da essi, e i cittadini americani consumavano più di quanto producessero. Allora come ora il debito pubblico, traduzione di quello privato, cresceva sempre di più. Allora come ora il sistema-America era complessivamente indebitato verso il mondo. E allora come ora la fiducia nella capacità sul lungo periodo (oggi anche sul breve) di sostenere questo ritmo era sfidata.
Sono passati undici anni e quei nodi sono giunti al pettine[2]. Sull’onda del progressivo svuotamento della posizione di forza americana[3], e dell’accelerazione della crisi europea passata per lo shock del Covid[4], la crescente competizione cinese e la guerra Ucraina che ha tagliato le sue forniture energetiche, l’Occidente appare disperato e pronto a tutto. La ragione è il vuoto che alberga nel suo cuore, in quelle classi medie e nelle contigue classi popolari attive, disinteressate e perse nella lotta per la vita, disperse in innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore coltivati scientemente dagli algoritmi[5] e ormai a quello che Todd chiama il punto zero (o stato zombi) del disperato individualismo.
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Walt Withman, addio
di Algamica*
«Io canto l’individuo, la singola persona, / al tempo stesso canto la Democrazia, la massa»
Verso tratto dalla poesia di Walt Whitman, “Io canto l’individuo”
Cosa succede in America?
Per chi conosce la sigla algamica (in calce a questo documento) sa che da alcuni anni, sul riflusso dell’insurrezione e del vastissimo movimento di George Floyd, sosteniamo che gli Stati Uniti d’America si stanno sbriciolando (“crumbling”) sotto l’incedere di una crisi generalizzata del modo di produzione capitalistico. Lo sbriciolamento approfondisce tutti i fattori di una nuova guerra civile. Non c’è questione sociale che immediatamente non porti ad assumere la forma della politica della violenza e così via.
Del resto, non siamo gli unici che avvertono il riverbero di onde telluriche profonde. Anche la stampa dell’establishment liberista occidentale avverte il tremolio e si domanda se l’America si stia avviando verso una nuova guerra civile americana. Se la seconda elezione di Trump ha segnato quel che scrivemmo nell’articolo “C’era una volta l’America”, i nuovi fatti che stanno accadendo in California, in Texas e in altre importanti città sono il riflesso agente di quella tendenza in marcia, che qui cerchiamo di esplicitare.
Perchè “Walt Withman, addio”? Perchè Walt Withman è, a ragione, ritenuto il padre della poesia statunitense, che in quei versi ha saputo condensare l’eccezionalità della storia americana che l’ha contraddistinta per oltre due secoli: ovvero la capacità di combinare la latente contraddizione tra lo sviluppo liberista delle libertà individuali con lo sviluppo della democrazia della maggioranza lungo un intero ciclo storico. Come più volte abbiamo scritto, già Alexis de Tecqueville indicava esservi una intrinseca, oggettiva contraddizione, ma la democrazia americana era dotata di quella incredibile capacità di compensarla.
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