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Circa la ‘tentazione’ del populismo democratico
di Alessandro Visalli
Di recente Michele Prospero, filosofo fortemente impegnato nella critica di leaderismo e populismo, in particolare negli anni che vanno dall’insorgere di Berlusconi a Renzi, passando per il M5S, ha scritto un interessante articolo su Il Manifesto (qui il testo) nel quale segnala la crisi del liberismo anglosassone ed anche, contemporaneamente sia del “liberismo a contaminazione populista”, di marca berlusconiana, sia del “neo-illuminismo europeo”, di marca prodiana. Distingue quindi in queste crisi l’emergere di un vuoto nel quale sono premiate quelle che chiama “chiusure, protezioni e illusioni comunitarie”.
L’articolo si muove chiaramente nell’orbita di LeU, che ne è il soggetto, il “progetto” cui fa riferimento nei primi righi è questo:
Che il voto non abbia premiato la sinistra è così evidente che non vale insistervi oltre. Invece di accanirsi in una metafisica della sconfitta o di trincerarsi in un silenzio che dura ormai da un mese, i dirigenti dovrebbero chiarire cosa fare del modesto bottino elettorale comunque ricevuto. Non ci vuole una disperata opera di contrizione per spiegare perché dal 6% raggiunto alcuni mesi prima alle regionali in Sicilia si è verificata alle politiche una perdita di almeno due punti che ha indebolito di molto il progetto.
Nel seguito immediato l’autore nomina le cause che hanno sottratto “quei decimali di consenso” che avrebbero ridotto la sconfitta elettorale. Questi sono:
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I diritti civili dell'Unione Europea
La maschera del Neoliberismo
di Daniela Danna
L'Unione europea del pareggio di bilancio, dell'austerità nei conti dello Stato che erodono il settore pubblico e il welfare, l'Europa delle norme che avvantaggiano il grande capitale, dell'euro che strangola i Paesi economicamente più deboli a vantaggio di quelli più forti è anche l'avamposto dei diritti per le minoranze sessuali, e secondo gli esperti batte per impegno anche l'Onu. Come è possibile?
Dobbiamo tornare indietro all'onda lunga del Sessantotto, in cui il risveglio politico dei soggetti oppressi, la loro autorganizzazione e presa di parola, toccava anche gay e lesbiche (minoritarie sia nel movimento gay che nel femminismo) (1). Invece di vergognarci per i nostri amori, abbiamo cominciato a praticare la visibilità all'insegna dell'aspirazione rivoluzionaria di quegli anni: nel Gay Liberation Front, nel Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano (il Fuori!), più tardi persino nelle Brigate Saffo. E abbiamo prodotto cambiamenti nella società e nelle leggi: dal 1989 a oggi ben 24 Paesi europei hanno introdotto forme di riconoscimento per le coppie dello stesso sesso. Questo è avvenuto senza obblighi da parte degli organi comunitari europei, che lasciano il Diritto di famiglia agli Stati, però con il loro contributo politico. Dalla seconda metà degli anni '70 sia le istituzioni che oggi chiamiamo Unione europea che il Consiglio d'Europa (2) sono stati oggetto di pressione politica da parte dell'Interna-tional gay and lesbian association (ILGA), fondata in Gran Bretagna nel 1976, e spinta dall'associazione britannica Stonewall a lottare per l'inserimento dell'orientamento sessuale tra le categorie per cui è proibita la discriminazione nei vari forum europei.
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Favole del reincanto
di Stefania Consigliere
E allora perché non mi sento antifascista? La prima ragione è strategica e generale: definirsi a partire dall’avversario è pericoloso
La trappola oppositiva
Come al solito fra me e il mondo qualcosa non torna. Questa volta è il fatto di non sentirmi particolarmente antifascista e proprio mentre i resti della sinistra e del pensiero critico sembrano trovare una piattaforma comune nel definirsi tutti come tali. Riconosco che non è un buon inizio. Fascismo, nazismo e totalitarismo mi ossessionano almeno fin da quando gli anni Settanta hanno inciso brandelli di storia e di politica nel mio (in)conscio di bambina. Mi angosciava l’idea che intere nazioni avessero potuto idolatrare un Mussolini o un Hitler, tollerare l’esistenza dei campi o trovare sensata l’eliminazione di ogni differenza. Poi l’ultimo paio di decenni mi ha ben chiarito cosa può uno Stato, quanti e quali investimenti in paura, coazione, intossicamento e scissione siano necessari per insegnare agli umani l’alienazione da sé e dal mondo.
E allora perché non mi sento antifascista? La prima ragione è strategica e generale: definirsi a partire dall’avversario è pericoloso. C’è un mimetismo nascosto, una fratellanza segreta fra A e non-A che satura il campo del pensabile e nasconde tutto ciò che, essendo altro, rifiuta di farsi catturare nella logica binaria. Questa trappola concettuale ha avvelenato lo spazio politico novecentesco, generando ortodossie speculari e spingendo tutto il resto ai margini e nell’insignificanza. Meglio allora definirsi a partire da ciò che si è o si vorrebbe essere.
La seconda ragione più difficile da fissare.
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La nostra garanzia si chiama complottismo
di Dario De Marco
Allora, mio caro Generale, come va?
Bene, Eminenza, molto bene, grazie. Un po’ in ansia per quel piccolo conflitto, laggiù…
Quell’ultimo che è esploso, dice? Oh misericordia divina, certo nonostante quei popoli ci siano più che abituati, è sempre triste vederli sterminarsi a vicenda… Speriamo che finisca al più presto, vero?
Presto? E perché mai… Ah, sì giusto, lei dice per i civili, per le vittime accidentali. Per quanto, definire civili quelle genti… Ma sa, vanno anche salvaguardate esigenze di stabilità, gli equilibri internazionali, la geopolitica, la filiera produttiva, le forniture delle industrie… La mia preoccupazione era proprio per questo. Lei piuttosto, cosa mi racconta? Tutto bene dal punto di vista, come si dice, spirituale?
Sì, senza dubbio. Siamo molto felici del fatto che la terra sia stata liberata dall’oscura minaccia incombente da Est. C’è giustizia all’altro mondo, ma a volte anche in questo mondo. E soprattutto siamo soddisfatti di come sia stata liberata, grazie all’intercessione del Vicario di Nostro Signore… Lei è conscio, non è vero, che la Storia ha già attribuito il merito a lui, molto più che a voi soldati.
Eh, certo certo, come no. E cosa dice lui, Sua…
Santità, caro Generale. Sua Santità è sempre molto impegnato, ma sta benone: riesce ancora a soddisfare, ad un occhio esterno, tutti i crismi dell’autonomia di corpo e spirito. Sembra perfettamente indipendente, insomma, e quindi, di fatto, lo è, non so se mi spiego.
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L’Unione europea non può essere democratizzata
di Thomas Fazi e William Mitchell
L’integrazione neoliberale dell’Europa
Stabilire il momento in cui il processo di integrazione europea si è volto al peggio non è compito facile. È una difficoltà dovuta al fatto che gli aspetti più nefasti (da una prospettiva progressista) di questo processo sono il risultato di decisioni apparentemente non nefaste prese nei decenni precedenti. Per semplicità, comunque, possiamo fissare il momento di svolta dell’Europa verso il neoliberismo intorno alla metà degli anni ‘70, quando il regime cosiddetto “keynesiano”, adottato in occidente dopo la seconda guerra mondiale, entrò in una crisi conclamata.
Non solo, in quegli anni, la pressione salariale, i costi crescenti e l’aumento della competizione internazionale avevano causato una riduzione dei profitti, provocando l’ira dei capitalisti; a un livello più profondo, il regime di pieno impiego minacciava di costituire le fondamenta per un superamento del capitalismo stesso: una classe lavoratrice sempre più militante aveva iniziato a fare fronte con i movimenti della controcultura dei tardi anni ‘60, chiedendo una democratizzazione radicale dell’economia e della società.
Come l’economista polacco Michał Kalecki aveva anticipato trent’anni prima, il pieno impiego non era divenuto solamente una minaccia economica per la classe dominante, ma anche e soprattutto una minaccia politica. Durante gli anni ‘70 e ‘80 questo fu motivo di grande preoccupazione per le élites occidentali, come è confermato da svariati documenti pubblicati all’epoca.
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Lenin: NEP, egemonia e transizione
di Gianni Fresu
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
«L’idra della rivoluzione è già stata annientata nei suoi fautori e in buona parte dei suoi prodotti; ma bisogna ancora soffocarne la semenza, nel timore che possa riprodursi sotto altre forme. I troni legittimi sono stati ristabiliti: ora mi dispongo a ricollocare sul trono anche la scienza legittima, quella che si pone al servizio del supremo Signore, la verità della quale è attestata da tutto l’universo»1.
In questo modo uno dei massimi teorici della Restaurazione, Karl Ludwig Von Haller, apriva nel 1816 la sua opera più celebre, con un intento dichiarato: sconfiggere anche sul piano teorico le dottrine rivoluzionarie già battute sul piano politico dalla riaffermazione dei principi dinastici in Europa. Sebbene travolte, egli intravvedeva infatti il rischio di una loro possibile riemersione e il diffondersi di una nuova fiammata di sussulti insurrezionali.
Domenico Losurdo ha più volte sottolineato come Hegel sia stato il primo grande intellettuale a rapportarsi in termini razionali alla Rivoluzione francese, spiegandone le cause attraverso il disvelamento delle contraddizioni reali generate dalla società di Antico Regime entrata in una fase di decadenza che decretava la fine della sua necessità storica2. Tutto al contrario, la Restaurazione cercava di spiegare la rivoluzione attraverso cause esterne al corpo sociale (catastrofe naturale, improvvisa epidemia collettiva, teoria della cospirazione…) e metteva sul banco degli imputati anzitutto la speculazione filosofica e il razionalismo illuminista. L’idea di palingenesi connessa al concetto stesso di rivoluzione, ad esempio, ispirata alla convinzione di poter ricostruire su basi nuove, definite per deduzione logico-razionale, le regole fondamentali della società, non aveva per Edmund Burke precedenti storici concreti nella storia europea: le sue uniche radici erano nell’idea astratta e artificiale del primato della ragione, cui tutto deve uniformarsi e nella cui prospettiva tutto ciò che viene dal passato va radicalmente messo in discussione, se non proprio distrutto.
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Il reddito di cittadinanza è un diritto naturale?
di Luca Michelini
1. Vorrei proporre alcune brevi riflessioni sull’articolo di Beppe Grillo “Società senza lavoro”, pubblicato sul suo blog il 14 marzo 2018.
Le mie non vogliono essere riflessioni politiche e sono svolte per cercare di spostare il tenore della discussione che l’informazione sta cercando di imprimere a questa tematica. Basti dire che il “Corriere della sera” del 16 marzo con un articolo di P. Battista taccia Grillo di utopismo e di marxismo, onde meglio sottolineare il carattere “estremo, anzi estremista”, in ultima analisi totalitario (“si sa che nella storia molto spesso le utopie paradisiache hanno generato molti inferni totalitari terreni”) del pensiero del fondatore del Movimento Cinque Stelle e per sottolineare la netta torsione a sinistra che Grillo vorrebbe imprimere al movimento (niente aperture alla Lega, dunque)[1]. Per quanto la linea editoriale del “Corriere della sera” sia mutata con il cambio di proprietà, è però opportuno ricordare che il quotidiano milanese ha avuto un ruolo fondamentale nel definire il cosiddetto “liberismo di sinistra”, cioè l’ideologia portante del Partito Democratico. E questo ruolo lo ha giocato ben prima che questo partito venisse preso in mano da M. Renzi. Il neo-liberismo del maggior partito della cosiddetta sinistra italiana si definisce, infatti, già negli anni Novanta ed ha avuto nell’ex-classe dirigente del PCI un protagonista di primo piano[2].
Credo dunque sia opportuno commentare la riflessione di Grillo per quello che vuole essere: una riflessione meta-politica, anche se alla politica in ultima analisi vuole essere rivolta.
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Sinistra e Unione europea. Aspettando Godot
di Giovanna Cracco
Ogni volta che una persona di sinistra afferma che l’Unione europea così com’è non va bene, ma la soluzione non è uscirne, la si deve cambiare dall’interno – rendendola più democratica, una coesione di popoli e di ideali, sociale e politica e non solo economica e monetaria, l’Europa del welfare e degli investimenti produttivi e non del Fiscal Compact e dell’austerity – una domanda assale chi scrive. In una brutale sintesi: ci è o ci fa? Il riferimento, si intende, è a esponenti politici, studiosi, intellettuali, giornalisti, persone insomma per le quali approfondire la realtà, leggere documenti, interrogarsi è dovere del mestiere che hanno scelto; cittadini impegnati in altre occupazioni non hanno tempo, fonti e canali per farlo, e dunque non possono che fare propri e replicare il pensiero e l’analisi che vengono loro offerti dall’informazione e dalla politica di sinistra – a scanso di equivoci, non si iscrive qui il Partito democratico all’area di sinistra, e nemmeno i fuoriusciti di Liberi e Uguali; e neanche il gruppo L’Espresso, quotidiano Repubblica in testa.
Non si sa cosa preferire. Se la persona ci è, due sono le possibilità.
La propaganda, martellante e pervasiva da oltre vent’anni, ha fatto a tal punto presa che l’ideologia europeista – un sacco vuoto riempito di grandi valori al fine di disarmare la critica con una narrazione potente e universale: pace, progresso, libertà... – è stata assorbita acriticamente anche da chi avrebbe dovuto possedere la chiave di lettura politica e gli strumenti culturali per andare oltre l’etica ufficiale; dunque, prima possibilità, la natura dell’Unione europea non è stata d’emblée approfondita – nel percorso storico, politico, economico, contenuto dei Trattati e poteri delle istituzioni create – e ciò significa che la persona non ha assolto al dovere imposto dal proprio ruolo professionale. Seconda possibilità: la natura della Ue è stata approfondita, ma il pregiudizio favorevole ha offuscato la capacità di analisi.
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L’occidente e le guerre “umanitarie”
di Anthony Freda
Riprendiamo un attualissimo articolo pubblicato dal Washington Blog nel 2015, che si occupa delle “guerre umanitarie” intraprese dai governi occidentali. Ogni volta che gli USA vogliono cambiare gli equilibri geopolitici di una regione ne destabilizzano i governi, prendendo a pretesto presunte emergenze umanitarie (che poi si rivelano completamente false o enormemente ingigantite, ex-post) e intervengono militarmente, causando molte più vittime di quelle che a parole volevano evitare. Quindi lasciano le regioni dove intervengono tra le rovine e il caos. L’ennesimo esempio è l’attuale situazione in Siria. E per l’ennesima volta i media nostrani tentano di convincere l’opinione pubblica della “necessità” di un’altra “guerra umanitaria”
La prima “guerra umanitaria” dell’era post-guerra fredda è avvenuta in Kosovo, Bosnia e Serbia, regioni della ex Jugoslavia (Croazia e Slovenia erano anch’esse regioni della ex Jugoslavia che hanno pure giocato un ruolo nella guerra).
Secondo Wikipedia:
I “bombardamenti umanitari” sono un’espressione che si riferisce al bombardamento della NATO sulla Repubblica Federale della Jugoslavia (24 marzo – 10 giugno 1999) durante la guerra del Kosovo… L’espressione strettamente connessa “guerra umanitaria” è apparsa contemporaneamente.
Infatti, la guerra in Jugoslavia è stato il modello per tutte le seguenti “guerre umanitarie”… in Libia, Siria, Nigeria (pensate a Boko Haram) e altrove.
Il leader attivista contro la guerra David Swanson l’ha descritta così:
Quello che il vostro governo vi ha raccontato riguardo il bombardamento del Kosovo è falso. Ed è una cosa importante.[…]
L’inizio della guerra di aggressione della NATO, la sua prima guerra post-Guerra Fredda per imporre il suo potere… ci fu presentata come un atto di filantropia .
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Siria. “A Douma non c’è stato attacco chimico”
di Robert Fisk
Il noto reporter di guerra britannico Robert Fisk, nel suo reportage da Douma, nei luoghi dove ci sarebbe stato l’attacco chimico, ha intervistato residenti e medici di Douma, ed emerge un quadro della situazione che smentisce tutta la narrativa menzognera del maistream e dei governi occidentali.
Dal reportage del celebre e storico reporter di guerra Rober Fisk si evince che a Douma non c’è stato nessuno attacco con armi chimiche. Potrebbe essere contestata la versione di Fisk. Vero, ma dal momento che i governi di USA, Francia e Gran Bretagna hanno attaccato la Siria in quanto hanno ricevuto informazioni dai social network dell’uso di gas da parte dell’esercito siriano, perché non si dovrebbe credere ad un reporter di fama internazionale che da più di 40 anni realizza reportage dai campi di battaglia? L’articolo di Fisk acquisisce un autorevolezza maggiore dal momento che non si può affatto definire un simpatizzante di Assad. Dall’articolo, qui in originale, emerge. Segue traduzione integrale pubblicata da Lantidiplomatico.it
* * * *
Questa è la storia di una città chiamata Douma, un luogo devastato e puzzolente di blocchi di appartamenti distrutti – e di una clinica sotterranea le cui immagini di sofferenza hanno permesso a tre delle nazioni più potenti del mondo occidentale di bombardare la Siria la scorsa settimana. C’è anche un dottore amichevole in un cappotto verde che, quando lo rintraccio nella stessa clinica, mi dice allegramente che la ripresa del “a gas” che ha fatto orrore al mondo – nonostante tutti i dubbiosi – è perfettamente genuina.
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Leggete Karl Marx!
«Il capitalismo non è eterno. E Marx è ancora necessario»
Conversazione tra Marcello Musto e Immanuel Wallerstein
Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. «Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della Terra».
Immanuel Wallerstein, Senior Research Scholar alla Yale University (New Haven, USA) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti con il quale riflettere sul perché il pensiero di Marx sia ritornato, ancora una volta, di attualità.
* * * *
MM: Professor Wallerstein, 30 anni dopo la fine del cosiddetto “socialismo reale”, in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno a tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IW: Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni qual volta si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo anche in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono in proposito altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi – non certo solo io – trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo nuovamente alla sua rinnovata popolarità.
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Il sentimento della rivoluzione
di Sandro Moiso
Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50
Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia proprio tra il’68 e il ’77.
Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni e Franco Fortini, oltre che di altri importanti esponenti del rinnovamento poetico e culturale italiano dei primi anni sessanta, si sarebbe poi allontanato progressivamente da quello stesso ambiente intellettuale per vivere pienamente l’esperienza e il sentimento, come lo avrebbe definito egli stesso, della Rivoluzione.
L’opera appena ripubblicata da Castelvecchi, con la cura attenta e preziosa di Neil Novello, aveva costituito nel 1968 una delle prime testimonianze dirette di un movimento che, in quella primavera e a Milano, stava muovendo i primi passi. Pubblicata da Mondadori nel luglio di quello stesso anno aveva di fatto costituito l’ampliamento di un testo, “Vengo anch’io” direttamente ispirato all’omonima canzone di Enzo Jannacci, pubblicato da Anna Banti sulla rivista “Paragone”.
All’epoca, però, il testo apparve “censurato” dalla casa editrice e mondato della seconda parte che, già all’epoca, l’autore avrebbe voluto pubblicata insieme alla prima (e pubblicata poi nell’autunno di quell’anno su “Nuovi argomenti” con il titolo “La notte del Corriere”), finalmente ripresa in questa nuova edizione che, inoltre, ripristina anche il testo originale del primo diario.
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USA: politica estera ad una svolta
di Zosimo
Il ritorno al bilateralismo come approccio diplomatico è fonte di gravi errori di prospettiva che potrebbero mettere in serio pericolo un equilibrio globale già abbastanza instabile
La politica estera americana è giunta ad una svolta? Sta per chiarirsi la direzione verso cui muove l’Amministrazione Trump dopo il suo primo anno di insediamento? Questi interrogativi tengono banco nel dibattito politico di questi giorni, e non soltanto negli USA.
Una serie di avvenimenti di particolare rilevanza si sono susseguiti ad un ritmo piuttosto intenso nelle ultime settimane ed hanno dato la sensazione di un’accelerazione degli eventi con segnali sempre più evidenti di una svolta impressa dall’attuale amministrazione, soprattutto nella strategia di politica estera, con intrecci e ripercussioni anche in questioni di politica interna.
Ripercorriamo quindi brevemente la successione dei più importanti recenti avvenimenti e proviamo poi ad individuare delle possibili chiavi di lettura.
In ordine cronologico, il primo di questa serie di eventi è stato l’annuncio, da parte del Presidente Trump, a fine febbraio scorso, tramite il suo strumento di comunicazione preferita, cioè il “cinguettio” mediatico di un tweet, di voler incontrare il leader Nordcoreano Kim Jong Un, per aprire un negoziato diretto, con l’obiettivo dichiarato di ridimensionare i programmi nucleari della Corea del Nord. Un’apertura avvenuta in coincidenza con le Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del Sud, dove si è verificato un evento simbolico di portata storica: un team misto di atleti nord e sudcoreani ha gareggiato sotto un’unica bandiera simboleggiante l’unità del popolo coreano. Un evento da molti considerato un grande successo diplomatico dell’attuale presidente della Corea del Sud, Moon Jae In. [1]
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Tra culto della tecnologia e decrescita felice, scegliamo la lotta di classe
di coniarerivolta
Di seguito il nostro intervento al primo incontro del ciclo su Tecnologia, Lavoro e Classe, scaricabile in formato PDF qui. Ci vediamo giovedì 19 aprile, ore 16, alla Facoltà di Economia di Roma Tre per il secondo appuntamento, in cui discuteremo delle nuove frontiere dello sfruttamento nell’era digitale
1. L’introduzione delle macchine e la disoccupazione
Il progresso tecnologico è un fenomeno per sua natura complesso e controverso. Nonostante la vulgata mainstream tenda a presentarlo come un fenomeno meramente tecnico, neutrale e quasi salvifico, ha ovvie implicazioni politiche e sociali. Già alcuni tra i fondatori dell’economia politica si interrogavano sul ruolo che meccanizzazione dei processi produttivi, introduzione delle macchine e possibile sostituzione del lavoro umano avrebbero avuto nel disciplinare ed orientare il conflitto di classe a favore delle classi dominanti. Si può tracciare infatti una linea ideale che parte da David Ricardo – il quale notava come l’introduzione delle macchine potesse al contempo “rendere esuberante la popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori” – ed arriva a Marx, per il quale le macchine possono risultare funzionali al disegno dei capitalisti di comprimere “il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo valore”. In questa maniera, ci dice Marx, la sovrappopolazione relativa “forma un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera assoluta come se fosse stato allevato a sue spese”.
2. I movimenti dell’esercito industriale di riserva
L’utilizzo delle macchine, all’interno di un sistema capitalista, è d’altro canto uno dei terreni di lotta sui quali il conflitto distributivo prende forma. L’introduzione delle macchine nel processo produttivo rende momentaneamente superflua una parte della popolazione, ingrossando le fila dell’esercito industriale di riserva. Come conseguenza, aumenta la concorrenza all’interno della forza lavoro, con ripercussioni negative sui salari e sulle condizioni lavorative.
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Trade War: requiem per l’ordine neoliberale?
Giuseppe Molinari intervista Raffaele Sciortino
Nelle scorse settimane il presidente americano Trump ha annunciato l’imposizione dei dazi doganali su acciaio e alluminio, manovra decisamente in controtendenza rispetto alle politiche economiche e industriali portate avanti dalle potenze occidentali negli ultimi decenni. D’altra parte però, le mosse trumpiane rilette alla luce di alcune tendenze in atto in Europa – come la Brexit per un verso e alcuni richiami sovranisti per un altro: dalle destre emergenti all’indipendenza catalana – lasciano trasparire la crescente precarietà che segna l’equilibrio globale che si è dato negli ultimi decenni e ci spinge a guardare al ruolo che hanno altri attori in questo contesto. Lo scenario è tutt’altro che chiaro, le coordinate tutt’altro che tracciate e i processi restano aperti e fluidi.
* * * *
Ne abbiamo parlato con Raffaele Sciortino, che abbiamo innanzitutto invitato a riflettere sulla natura della decisione di Trump: un tatticismo utilizzato per catturare il consenso di una certa composizione di classe degli Usa e per avvantaggiarsi rispetto ai principali competitor, come Cina ed Europa, o l’anticipazione di un mutamento dell’ordine neoliberale che mette in discussione la globalizzazione?
Non credo si tratti di un mero tatticismo a uso interno, anche se la componente interna c’è – ancor meno queste misure protezionistiche vanno lette come riprova di un presunto “isolazionismo” di Trump; ma neanche si tratta, come molti pensano, di un’aggressivizzazione verso l’esterno senza capo né coda dovuta al personaggio. Siamo di fronte a un passaggio, che potrebbe anche rivelarsi un punto di non ritorno, da inquadrare innanzitutto alla luce dell’impellenza per gli Stati Uniti di tracciare delle linee rosse contro alleati, rivali e avversari. Il punto è: come (ri)combinare l’esigenza di ricostruzione del fronte sociale interno, dell’unità della nazione, con la riaffermazione della primacy americana nel mondo.
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2050, una pessima annata
di Egidio Zaccaria
Il filosofo tedesco aveva ragione: pensare solo a sé equivale ad un non pensarci affatto[1]. Potrebbe essere questo il pensiero dell’uomo seduto, ben vestito, ormai rassegnato e solo, a braccia conserte ed in maschera a gas. La sua insana passione per il gioco d’azzardo gli ha tirato un brutto scherzo. Non sappiamo cosa pensasse del mondo ma è certamente assuefatto dalla narrazione che prospettava il 2050 come un anno su cui scommettere. È ostinato, fisso dinanzi ad un televisore in rottami, continua ad osservare quella schizofrenica mano di poker dove tutti i giocatori al tavolo sono costretti a rilanciare, rimandare al futuro, per restare in partita anche quando le proprie carte valgono niente. Avrebbe fatto meglio a pensare alla sorti di altri esseri umani, avrebbe potuto capire che dietro quel continuo rilancio si nascondeva un bluff per tirare a campare con altri tre decenni di barbarie capitalista ma possiamo fargliene una colpa?
“Si stima che nel 2050”, questo è l’incipit più di moda degli ultimi anni. Recente è la pubblicazione - televisiva - dei dati OMS[2] sulla Antibioticoresistenza ma se ne discute da tempo. Così su Repubblica nel novembre 2017:
«Un preoccupante futuro post-antibiotico. Si stima che nel 2050 una persona ogni 3 secondi possa morire a causa di un'infezione multiresistente agli antibiotici [..] "futuro 'post-antibiotico' nel quale potremmo non essere più in grado di effettuare interventi chirurgici importanti”, ha spiegato Vytenis Andriukaitis[3].
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Realismo capitalista
di Valerio Mattioli*
Più che un manifesto teorico, "Realismo capitalista" è un pamphlet. Uno straordinario, puntuale saggio di trasversalità, di capacità comunicativa, di partecipazione emotiva e di lettura degli immaginari dominanti
È difficile rendere il senso di smarrimento che la mattina del 14 gennaio 2017 seguì alla notizia del suicidio di Mark Fisher, avvenuto il giorno prima all’età di quarantotto anni. Non si trattava soltanto del sincero ma un po’ rituale cordoglio per la perdita di un intellettuale prematuramente scomparso, né dello sgomento nei confronti di un gesto troppo grande e troppo definitivo per poter essere elaborato persino da chi Fisher lo conosceva bene; piuttosto la sensazione fu quella di un improvviso vuoto assieme politico, culturale e soprattutto esistenziale, che di colpo parve accomunare tanti di coloro che si erano imbattuti nei suoi scritti, nelle sue analisi, finanche nelle sue provocazioni. Fuor di retorica, Mark Fisher è stato davvero una presenza importante per (credo di poter dire) chiunque ne abbia incrociato il percorso, anche solo in via periferica e occasionale: negli ultimi anni era diventato qualcosa di simile a una specie di guida morale, o se non altro di riferimento fraterno a cui guardare con un misto di affetto, complicità e implicito timore reverenziale. Anche perché, nonostante fosse un intellettuale indipendente perennemente ai margini della cultura ufficiale, Fisher aveva parlato a tanti: lo smarrimento non si abbatté soltanto sui circuiti della filosofia politica e di quel pianeta ambiguo che nel mondo anglofono va sotto il nome di cultural theory, ma investì anche una quantità attonita di musicisti, di artisti, di scrittori, di lettori di cose di cinema e di appassionati di quell’altra faccenda enigmatica che siamo soliti chiamare «cultura pop».
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Rettilario uccidentale, verminaio jihadista,
sciacalli della stampa: a tutto gas!
di Fulvio Grimaldi
Quel pazzo di Assad…
I siriani sono un popolo di inebetiti che si fanno governare da un mentecatto sadomasochista che utilizza un esercito di deficienti. Così, nella provincia di Ghouta, da cui terrroristi jihadisti al soldo di Usa, Israele, Turchia e Arabia Saudita facevano il tiro al piccione sui civili di Damasco, liberata al 90% a costo di interrabili sacrifici e costi, con decine di migliaia fuggiti dai jihadisti che rientravano alle loro case, cosa fanno Assad, esercito e siriani plaudenti? Cosa fanno dopo che Usa, UK e Francia, notoriamente in fregola di massacri, avevano promesso castighi spaventosi in caso di attacco chimico di Assad? Cosa fanno dopo che l’avevano sfangata nel 2013 dalla stessa identica accusa di aver ucciso qualche centinaio di bimbetti siriani con i gas nervini, sfangata grazie alla smentita dei satelliti russi, grazie alla scoperta di alcuni genitori che quei cadaverini appartenevano a loro figli rapiti da Al Nusra settimane prima nella zona di Latakia e grazie alla consegna e totale distruzione sotto controllo ONU (cioè Usa) dell’INTERO arsenale di armi chimiche siriano? Cosa fanno?
Manco fosse l’idra trumpiana composta da un Bolton (Sicurezza Nazionale Usa), o un Pompeo (Dipartimento di Stato), o una Gina Hagel (CIA), invasati di eccidi, guerre e torture, Assad ordina un’apocalisse chimica su donne e bambini a Douma, ultimo fortilizio in cui sono asserragliati i mercenari israelo-saudi-Nato che si fanno forti dello scudo umano imposto alla popolazione. Un esercito di fratelli, sorelle, padri e figli di quelle donne e di quei bambini, esegue con la coscienza umana e civile di un cyborg alimentato a bile nera di cobra. E il popolo? Plaude, in attesa che ad Assad gli giri di prendersela chimicamente con un altro dei loro quartieri o villaggi.
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Marx e la Storia Mondiale
di Michael R. Krätke*
Negli anni 1881 - 1882, Marx intraprese degli ampi studi storici che coprivano gran parte di quella che era allora nota col nome di "storia mondiale". I quattro grossi quaderni in cui erano riportati estratti dalle opere (principalmente) di due storici di punta di quel tempo, Schlosser e Botta, sono rimasti quasi del tutto inediti. Qui si cerca di contestualizzare quelli che sono gli ultimi studi di Marx relativamente al corso della storia mondiale, rispetto agli studi storici precedenti, ma incompiuti, riguardo la critica dell'economia politica
«Tutta la storia dev'essere studiata nuovamente!»
(Lettera di Engels a Conrad Schmidt, 5 Agosto 1890)
Sia la portata che lo scopo di queste sue note sono sorprendentemente ampie, e vanno ben al di là della storia europea, coprendo in realtà molte altre parti del mondo. L'interpretazione che ne viene qui data si basa sull'attenzione espressa dallo stesso Marx: l'autore del "Capitale" era affascinato dal lungo processo di costruzione degli Stati moderni e del sistema statale europeo, uno dei prerequisiti fondamentali dell'ascesa del capitalismo moderno in Europa.
Marx viene considerato il (co-)fondatore della cosiddetta "concezione materialista della storia"; ma egli non ha mai usato il termine «materialismo storico». È impossibile delineare una simile "teoria della storia" - o, per essere più precisi, una teoria del "processo storico mondiale" - senza uno studio dettagliato della storia, senza una conoscenza precisa dell'immensa, caotica massa dei "fatti", dei documenti, di ogni genere di materiali perduti e poi riscoperti, delle tradizioni, dei testi (e quindi che sono già delle interpretazioni) della storia scritta.
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Tra globalizzazione e protezionismo
di Enrico Grazzini
Il pensiero di J. M. Keynes, Susan Strange e Dani Rodrik su interesse nazionale e democrazia
Il presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump sta chiudendo le frontiere del suo paese applicando pesanti dazi alla Cina e a tutto il mondo, e si sta scontrando apertamente con il presidente cinese Xi Jinping che invece è diventato il maggiore alfiere del libero commercio internazionale (anche se Xi Jinping si guarda bene dal liberalizzare completamente la moneta e la finanza nel suo paese).
Lo scontro tra protezionismo e globalismo non si limita certo al conflitto tra Trump e Xi Jinping. Uno scontro analogo, anche se ovviamente non identico, si svolge da tempo in Europa, tra i cosiddetti “sovranisti” che non vogliono subordinarsi all'euro e alla “tecnocrazia” di Bruxelles, e, dall'altra parte, gli europeisti ad oltranza: questi ultimi sono schierati a favore della maggiore integrazione europea, e quindi a favore della libera circolazione dei capitali (che, insieme alla libera circolazione delle merci e delle persone, è il sacro principio fondante di questa Unione Europea). Gli europeisti ad oltranza condannano a priori ogni forma di resistenza nazionale con l'accusa di populismo e di sciovinismo retrogrado e reazionario.
Ormai però le forze della destra nazionalista (purtroppo) dilagano: in alcuni stati già governano, come nell'est Europa e in Austria, in altri stati i nazionalisti di destra sono diventati la principale forza di opposizione, come in Germania l'AFD (Alternative für Deutschland) e in Francia il Front National. Il nazionalismo ha attualmente quasi sempre una caratterizzazione di destra estrema e para-fascista. La Gran Bretagna è uscita nonostante che laburisti fossero contrari alla Brexit. L'onda della destra nazionalista avanza ormai in tutta Europa, Italia compresa.
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Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
Un ostacolo da superare per le politiche di spesa?
di Dino Raiteri
Nel Capitale il lavoro produttivo viene così descritto:
"La produzione capitalistica non é soltanto produzione di merce, é essenzialmente produzione di plusvalore. E' produttivo solo quell'operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all'autovalorizzazione del capitale. Se ci é permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola é lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l'imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo danaro in una fabbrica di istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e produzione del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale di origine storica che imprime all'operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale". (Il Capitale, libro I, sezione 5°, capitolo 14°,pag.222; Editori riuniti, 7° ediz.).
Un' altra descrizione la si può trovare, ad es., in Mandel, Trattato di economia marxista, 1962, pag.302:
" In generale si può dire che ogni lavoro che crei, modifichi o conservi valori d'uso o che sia tecnicamente indispensabile alla loro realizzazione, é un lavoro produttivo, cioè aumenta i loro valore di scambio. In questa categoria rientrerà ... [quindi anche] il lavoro d'immagazzinamento, di manutenzione e di trasporto, senza cui i valori d'uso non possono essere consumati".
Una descrizione invece del lavoro improduttivo la si può trovare, nel Capitale, descritta in modo indiretto, ad es. per quanto riguarda la circolazione del capitale:
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Oltre Cambridge Analytica
di I Diavoli
Pillola blu (pt. 1)
Cambridge Analytica è solo la punta dell’iceberg di un sistema ben più complesso. È un problema politico. Non è solo Google. O Cambridge Analytica, o Facebook. È Amazon. È Uber. È Angry Birds. È il surveillance capitalism, fondato sull’estrazione dei dati personali
“Information is power. But like all power,
there are those who want to keep it for themselves”.
Aaron Swartz
Kuala Lumpur, San Paolo, Reykjavík, Pechino, Washington, Abuja, Riad.
Le antiche ley line psicogeografiche, i sentieri viventi della terra che collegavano Stonehenge, le piramidi egizie, le ziqqurat precolombiane dell’America Latina, l’Isola di Pasqua e la Grande Muraglia cinese, sono sostituite da immensi cavi di fibra ottica.
Una quantità incalcolabile di dati viaggia sulla rete che attraversa il globo terrestre alla velocità di centinaia di megabyte per secondo.
Il pianeta si surriscalda. Tonnellate di acqua sono utilizzate in ogni istante per raffreddare gli immensi server che immagazzinano dati a ciclo continuo.
Tutto si crea. Nulla si distrugge.
Ogni dato personale è conservato e catalogato in maniera certosina.
La storia di ogni singolo individuo nel tardo capitalismo è racchiusa in una manciata di gigabyte, gelosamente custoditi da compagnie private con ramificazioni negli apparati governativi, negli eserciti e nei contractor privati. Ben oltre Cambridge Analytica.
Tornato prepotentemente sulle prime pagine dopo l’intervista rilasciata dal presunto whistleblower Christopher Wylie su The Guardian del 18 marzo, il suo nome è il velo di Maya che cela il paesaggio del reale a tinte ancor più fosche.
È la pillola blu di Matrix.
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Attacco contro la Siria, sei cose da sapere
di Alberto Bellotto
Oltre un centinaio di missili è piovuto sulla Siria come risposta a quanto successo a Douma qualche settimana fa. Washington, Parigi e Londra, nella notte tra il 13 e 14 aprile, hanno condotto una serie di bombardamenti contro quelle che vengono ritenute strutture per la produzione e lo stoccaggio di armi chimiche. Sia Trump che Macron e May hanno messo l’accento sulla straordinarietà dell’attacco, evidenziando che si tratta di una risposta all’attacco chimico del regime del 7 aprile. Attacco che l’Occidente attribuisce ad Assad ma sul quale rimangono ancora molti interrogativi. Intanto però la rappresaglia è iniziata. Queste sono le cose che sappiamo sul raid.
1 – I tre Paesi coinvolti: l’offensiva di Usa, Francia e Regno Unito
Alle 21:00 del 13 aprile Donald Trump ha tenuto un discorso alla nazione in cui ha confermato l’intenzione di colpire la Siria. «Ho ordinato all’esercito degli Stati Uniti di lanciare attacchi di precisione contro obiettivi associati al potenziale di armi chimiche del dittatore siriano Bashar al Assad». Negli stessi attimi in cui parlava il presidente una pioggia di fuoco ha colpito la Siria. Gli attacchi, ha detto ancora il presidente, continueranno fino a quando il regime siriano non cesserà di utilizzare armi chimiche: «Siamo pronti a sostenere questa risposta fino a quando il regime siriano non cesserà l’uso di agenti chimici proibiti».
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Smart and nice: dopo l’attacco alla Siria nulla sarà come prima
di Augusto Illuminati
I missili vispi, nuovi e astuti di Trump sono partiti contro obbiettivi selezionati della Siria e per ora l’attacco sembra essere più intimidatorio e simbolico che devastante. E neppure tanto efficace, se un terzo degli ordigni è stato intercettato. Ma potrebbe essere solo l’inizio
Esultiamo, insieme a destra e sinistra sono pure sparite le aggressioni imperialistiche, sostituite da “avvertimenti” simbolici con generazioni di missili intelligenti (certo più di chi li ha armati e tuittati), sempre al nobile fine di salvare la pace e impedire l’orrido uso di armi chimiche. Sul fatto che ci fossero, le opinioni poi divergono: i pragmatici inglesi si limitano a ritenerlo “probabile”, sulla scia del precedente e non proprio trasparente caso Skripal, i cartesiani francesi affermano di averne prove certe, di carattere ontologico più che empirico, gli americani applicano su scala internazionale il metodo che usano con neri e ispanici: prima spari e poi accerti se era pericoloso. Il nostro governo prende per buone le prove dell’attacco chimico, ma si dissocia dalle risposte armate e cerca di sottrarre le basi italiane da ogni coinvolgimento attivo, limitandolo ai voli di ricognizione da Sigonella. Di Maio giura sul Trattato Atlantico, Salvini sulle dichiarazioni di Putin, gli aventiniani del fu Pd, complessivamente filo-atlantici, si dividono in varie posizioni studiando i contraccolpi che il bombardamento potrebbe avere sull’assemblea del 21 aprile. Ci lamentavamo dello scarso peso che la dimensione internazionale aveva avuto nella campagna elettorale e nelle vicende immediatamente successive, Ahinoi, quando se ne occupano i nostri partiti è ancora peggio.
Sul piano internazionale non ci sono più destra e sinistra, cioè rimane solo la destra, coloniale e bombardiera, bugiarda e razzista. Per uscire dai loro problemi interni alcuni leader occidentali, di cui almeno uno visibilmente alterato, in combutta con Turchia, Israele e sauditi, attaccano Russia, Cina e asse sciita (che NON sono la sinistra, ma seri concorrenti imperialistici regionali o globali degli Usa), per fortuna incontrando resistenze ben maggiori che nelle precedenti avventure irakena e libica.
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Guerra criminale
di Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)
L’orrore e l’angoscia che suscitano i missili e le bombe, il ribrezzo che sale quando quegli strumenti di morte vengono definiti intelligenti, non deve far passare in secondo piano l’aspetto più grave dei bombardamenti in Siria di Trump, May e Macron. Essi sono una sfacciata, totale e violenta rottura della legalità internazionale.
Naturalmente sono solo l’ultimo atto di una storia iniziata 27 anni fa con la prima guerra contro l’Iraq. Da allora un gruppo di paesi guidati dagli Stati Uniti e impegnati reciprocamente dai vincoli della NATO si sono autonominati polizia militare mondiale.
Con lo spirito dei giustizieri e dei linciaggi del Far West, hanno deciso di ignorare il principio guida della legalità internazionale: uno Stato non può fare guerra ad un altro Stato sovrano se non per difendersi da esso. Il principio sulla base del quale era stata fondata l’ONU dopo la sconfitta del nazifascismo.
Stati Uniti e compagnia hanno così scatenato una lunga trafila di guerre, rivendicate nel nome della democrazia e dei diritti umani, in Europa, Africa, Medio Oriente, Asia. Con queste guerre hanno aggredito e devastato Stati sovrani accusati di essere guidati da dittatori.
Guarda caso però tanti altri dittatori venivano nello stesso tempo sostenuti ed armati. Lo Stato in assoluto oggi più colpevole nella violazione del diritto dei popoli e e di quello internazionale, Israele, veniva protetto e fornito di una impunità assoluta per ogni suo crimine.
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