Se Marx è rosso, ma anche verde, è possibile puntare sul “comunismo della decrescita”?
di Alessandro Scassellati
In un momento in cui l’economia della decrescita è oggetto di accesi dibattiti all’interno e all’esterno del movimento ambientalista, l’obiettivo di Saito Kohei, spiega in “Il Capitale nell’Antropocene” (Einaudi, Torino 2024), è quello di “superare il divario tra marxismo e decrescita”, riunendo il rosso e il verde in un “comunismo della decrescita”. Molti nel movimento ambientalista sostengono che il capitalismo e la sua “accumulazione infinita su un pianeta finito … sono la causa principale del crollo climatico”, scrive Saito. Ma poiché gli scritti di Marx sull’ecologia sono stati spesso marginalizzati, c’è una visione secondo cui il suo socialismo è pro-tecnologico e anti-ecologico, sostenendo lo sviluppo di tecnologie per gettare le basi per una società post-capitalista e ignorando i limiti della natura, credendo che possa essere dominata dagli esseri umani. Secondo Saito, è possibile e necessario ricostruire Marx in modo da poter vedere come ha analizzato la crisi economica ed ecologica. A Saito va l’indubbio merito d’essere riuscito a portare all’attenzione di un pubblico ampio il tema dell’ecologia in una prospettiva di trasformazione sociale e di aver contribuito alla diffusione di una corrente di pensiero che vuole riscoprire la fecondità delle idee di Marx in relazione a problemi che ci riguardano molto da vicino nell’epoca attuale nel contesto del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici.
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F. Engels nel 1845, a soli 24 anni, descrisse la condizione di sfruttamento della classe operaia in Inghilterra con un testo La situazione della classe operaia in Inghilterra che nel nostro tempo andrebbe riletto per la sua attualità. L’indagine empirica e razionale coniuga l’oggettività dei dati con il giudizio etico. L’indagine di Engels è oggi, ancora viva e vera, poiché lo sfruttamento generalizzato è tornato a essere l’ordinaria normalità del nostro quotidiano. Il capitalismo neoliberale, mentre volge lo sguardo verso il transumanesimo e l’I.A, mostra il “suo cuore di pietra”, senza equivoci e fraintendimenti come nell’Ottocento. Lo sguardo libero dagli abbagli degli slogan ci restituisce la verità sulla condizione lavorativa e umana di tanti. Contingenze storiche e una sinistra liberale complice consentono al capitale di mostrarsi nella sua verità regressiva e disumana senza infingimenti: lo sfruttamento è diventato un “dato di fatto” ormai naturalizzato, per cui lo si accetta al punto che, malgrado la sua evidenza, non pochi lo ignorano. Vi è un nucleo del capitalismo che resta sempre eguale nella sua lunga storia, esso resta inalterato, poiché è la sostanza che lo muove e lo nutre. La descrizione-denuncia di Engels lo mostra con rara chiarezza e, pertanto, il tempo che ci separa dal pensatore tedesco, ci permette di ritrovare ciò che nel nostro tempo il capitale in modo sempre più manifesto produce con i suoi effetti letali. Il capitalismo non è semplice sfruttamento, ma esso disumanizza lo sfruttato riducendolo a mezzo per la produzione del plusvalore. Allora come oggi i nuovi proletari vivono processi di alienazione che li offendono nella psiche come nel corpo. La violenza è il carattere dominante ed eterno del capitalismo; è la sua verità che Engels visse e denunciò , ed è ancora fra noi in forme antiche e nuove. Allo sfruttamento di tanti corrisponde una ristretta oligarchia che governa con la violenza legalizzata. La legalità scissa dalla giustizia è il volto “legale” del capitalismo che convive con forme di illegalità, sempre più diffuse e ignorate, orientate verso il “consumo di esseri umani e di risorse”:
I Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale possiedono il valore di un testamento, per il fatto di essere l’ultimo grande testo filosofico di Lukács. Vennero infatti redatti poco prima della sua morte.


1. Al posto di una premessa
Premessa
Nel corso del Novecento, poche figure storiche hanno suscitato dibattiti tanto accesi e polarizzanti quanto quella di losif Vissarionovic Dzugasvili, meglio conosciuto come Stalin. L’immagine di Stalin è stata oggetto di numerose interpretazioni, spesso antitetiche: da un lato, un leader capace di trasformare l'Unione Sovietica in una superpotenza industriale e militare; dall'altro, un dittatore associato a repressioni politiche e sacrifici umani. Questo libro, intitolato Sul compagno Stalin, si propone di offrire una prospettiva equilibrata e non agiografica sulla figura di Stalin, ponendo tuttavia particolare attenzione agli aspetti positivi della sua leadership, spesso oscurati da una narrazione dominante che tende a demonizzarlo, equiparando addirittura il comunismo sovietico al nazismo tedesco e lo stesso Stalin ad Adolf Hitler.

Stimolato dal lavoro di traduzione del libro di K. Ochieng Okoth, RedAfrica (1), negli ultimi mesi ho accompagnato i lettori in una esplorazione del pensiero radicale nero discutendo i lavori di otto autori: Bouamama, Du Bois, Cabral, Rodney, Williams, James, Padmore, Césaire. Quest’ultimo lo avevo già incontrato, avendolo letto in parallelo agli scritti di Franz Fanon; di Bouamama avevo avuto occasione di ascoltare una videoconferenza nel corso di un recente convegno organizzato dalla Rete dei Comunisti; Cabral lo avevo letto diversi anni fa, ma a quel tempo ne avevo sottovalutato l'importanza, tutti gli altri sono stati invece straordinarie novità, e ringrazio Okoth per avermele fatte conoscere.
Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, dunque tutto va al lavoro secondo le giuste proporzioni.
Cedric Robinson (1940 – 2016), americano, nato in una famiglia emigrata in California per sfuggire al terrore razziale dell’Alabama, è stato professore di Black Studies all’Università della California fino alla morte. A lui dobbiamo il più importante contributo della seconda metà del Novecento al dibattito afro marxista iniziato nell’interguerra (vedi il precedente post su “Panafricanismo, Marxismo, comunismo”). Black marxism (1), la sua opera più importante, è un lavoro monumentale di cui cercherò di ricostruire le linee fondamentali. Senza seguire l’ordine espositivo del libro, che del resto ha una struttura rapsodica, affronterò, nell’ordine, i seguenti temi: 1) critica dell'impostazione logicistica (hegeliana) del cosiddetto marxismo storico e dialettico; 2) le radici storiche del capitalismo e il ruolo del razzismo nel rapporto di sfruttamento capitalistico; 3) meriti e limiti dell’analisi marxiana (e dei movimenti politici a essa ispirati); 4) valorizzazione del radicalismo afroamericano come via autonoma al superamento del capitalismo.
1. Necessità economica e attualità politica della rivoluzione sociale
Introduzione
Introduzione
L'itinerario di Amadeo Bordiga va compreso alla luce della convergenza delle sinistre socialdemocratiche europee verso la fine della Prima Guerra mondiale, fino alla scissione con i rispettivi partiti d'origine e alla formazione dei primi partiti comunisti (tra cui il PCd'I in Italia, fondato nel gennaio 1921, quindi piuttosto tardi), e poi della loro divergenza e marginalizzazione nella fase di arretramento delle lotte di classe di quel periodo. La cristallizzazione e l'irrigidimento di correnti particolari come la Sinistra comunista italiana, la Sinistra tedesco-olandese, ecc. fu un prodotto della controrivoluzione, e la pretesa del bordighismo di detenere il monopolio dell'autentica filiazione marxista, o dell'invarianza del programma comunista, il frutto di una ricostruzione a posteriori. Questa non regge a uno studio della storia reale (la frazione guidata da Bordiga stava ancora nel PSI nel 1920), ma non è arbitraria nella misura in cui l'aspirazione a ristabilire la «vera» dottrina di Marx ed Engels contro le «deviazioni» revisioniste e centriste fu allora, se ci affidiamo alla periodizzazione di Karl Korsch (cfr. Marxismo e filosofia), il tratto distintivo del «terzo periodo» del marxismo. L'invarianza del programma è solo una variazione tardiva su un tema molto più diffuso, legata a doppio filo all'esistenza di un sedicente «socialismo realizzato»; qualsiasi critica che si limiti a sottolinearne la falsità è superficiale, poiché né la storia né le teorie evolvono secondo una razionalità astratta e disincarnata. Inoltre, è bene evidenziare che la convergenza di queste correnti, così come il loro successivo divergere, non avvennero «in ambiente sterile», ma a partire da e in seno a contesti nazionali e persino locali storicamente determinati, con le loro specificità e le loro singolari modalità di costituzione. Il contesto italiano, in particolare, continuava a essere segnato, da un lato, dallo sviluppo assai precoce ma travagliato dei rapporti sociali capitalistici1 e, dall'altro, dalla recente unificazione del paese sotto il vessillo del federalismo monarchico (e non sotto quello del repubblicanesimo unitario mazziniano), nella prevalente indifferenza delle masse popolari.
Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.
Claudio Napoleoni (1924-1988), un altro grande intellettuale e politico della sinistra oggi sostanzialmente dimenticato dalla stessa sinistra. Da una sinistra, oggi ma come scriveva Napoleoni già allora, dove “non c’è più l’abitudine a ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto” – una sinistra incapace (a parte lodevoli eccezioni) non solo di pensare alla rivoluzione, a una (in realtà sempre più urgente) uscita dal tecno-capitalismo, o al “progressivo abbandono delle strutture in cui oggi vive il dominio” (soprattutto la tecnica), ormai lasciandosi sopraffare e quindi solo adattandosi o facendosi solo resiliente a ciò che il capitale e il neoliberalismo impongono come dati di fatto ineluttabili e immodificabili. Una abitudine a ragionare che invece dovrebbe essere ancora più necessaria oggi – ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto mentre capitalismo e tecnica (il nuovo Principe del mondo, con i suoi intellettuali organici, altro che partito gramsciano ed egemonia del proletariato) stanno costruendo un nuovo tecno-fascismo (Musk & Trump e i loro emulatori in giro per il mondo), e/o una tecno-destra apparentemente libertaria e anarchica (definizione tautologica, quella di tecno-destra: per come si impone appunto come dato di fatto sulla società, l’innovazione tecnologica è sempre industrialista/positivista e di destra per sua essenza, comunque anti/a-democratica), e/o una tecno-oligarchia reazionaria a dominio e a egemonia (sempre nel senso di Gramsci) globale, risvegliando/riattivando con la tecnologia quel fascismo potenziale e quella fascinazione di massa per la personalità autoritaria di cui scrivevano settant’anni fa Adorno e la prima Scuola di Francoforte – o quell’Ur-fascismo di cui aveva scritto Umberto Eco nel 1997.
Introduzione
Il libro scritto da 
1. Dgiangoz, comincia tu!

1. Una carenza della cultura politica italiana 

































