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I padrini dell'ortodossia
Luigi Cavallaro
Il mantra del pensiero economico dominante recita che il debito pubblico è il male assoluto. Consolatorio, ma non spiega nulla. Rivela semmai la difficoltà delle teorie neoclassiche a venire a capo della crisi del sistema capitalistico. Un percorso di lettura Da Bretton Woods alla libertà di movimento dei capitali. Le tappe più rilevanti che hanno segnato il passaggio dai «gloriosi trenta anni keynesiani» all'attuale crash finanziario
Nell'attuale dibattito di politica economica, su una cosa si concorda tanto dalla maggioranza quanto dall'opposizione: il debito pubblico è un male assoluto. Da Monti a Grillo, passando per Bersani, Di Pietro e Vendola, non c'è praticamente nessuno che abbia da dissentire. Magari ci si divide su come ridurlo, ma sul fatto che il debito sia di per sé un problema gravissimo perfino la «sinistra d'alternativa» sembra essere d'accordo - quasi che si potesse considerarlo come la misura degli eccessi del nostro consumo ai danni di Madre Terra.
J. M. Keynes scrisse a conclusione della Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936) che gli uomini pratici sono spesso schiavi di qualche economista defunto. Probabilmente la sua affermazione andrebbe rivista per tener conto del fatto che anche gli economisti hanno beneficiato dell'innalzamento della vita media prodotto dal welfare state, ma nel suo significato centrale tiene. La communis opinio sul debito pubblico come male assoluto discende infatti dai teoremi che costituiscono l'ossatura della teoria economica neoclassica, i cui postulati - a cominciare da quello della «scarsità» - governano a ben vedere anche quelle visioni asseritamente «alternative» che l'obiettivo della crescita si propongono invece deliberatamente di abbandonare.
Dominanti per default
Cosa dimostrino questi teoremi è presto detto: dati il progresso tecnico e la crescita della popolazione, e almeno fino al raggiungimento dell'equilibrio di crescita stazionaria, il tasso di crescita del reddito del sistema economico dipende da quello del capitale, che a sua volta dipende dal risparmio.
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Un particolare tipo di regolazione: la de-regolazione
di Antiper
Uno dei mantra sulla crisi finanziaria internazionale esplosa nel 2007-2008 è quello secondo cui, tale crisi, sarebbe figlia delle politiche di “de-regulation” avviate da Reagan a partire soprattutto dagli anni '80 e proseguite nei decenni successivi. In particolare, la de-regolazione dei mercati finanziari e la rimozione [2] del divieto imposto alle banche di usare in modo speculativo i conti correnti - e non solo solo il proprio denaro o quello esplicitamente destinato a tale scopo -, combinata con l'enorme potere accumulato dai manager, avrebbero favorito la tendenza alla de-responsabilizzazione, all'assunzione di enormi rischi speculativi e, in definitiva, a quella dilagante “mancanza di etica” che avrebbe poi prodotto il disastro.
Ora, parlare di etica alle banche e alle imprese capitalistiche è un po' come parlare di dieta al topo davanti al formaggio: bei discorsi sì, ma l'istinto è quello che è. Inoltre, la “mancanza di etica” degli squali di Wall Street non è certo una novità e poteva essere ben rilevata molto prima del 2007-2008 (magari nel 2000-2001 all'epoca dei crolli del Nasdaq e dei fallimenti di Enron, WorldCom e di una serie di banche USA di media grandezza; o, prima ancora, verso la fine degli anni '90, all'epoca dei crolli delle borse asiatiche, messicana, brasiliana, russa); risulta dunque evidente che la “mancanza di etica”, se fosse una spiegazione, lo sarebbe di tutte le crisi.
Certamente, nel corso degli ultimi decenni vi sono state “de-regolazioni” che hanno gonfiato le vele alla speculazione finanziaria.
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Del "nazionalismo economico" di Giulio Tremonti
di Luca Michelini
1. Considero il “liberismo di sinistra”, ovvero l’ideologia post-comunista che in Italia ha innervato la costruzione del Partito democratico, una pseudocultura, per altro del tutto inadeguata a capire e ad affrontare la crisi epocale in corso, anche perché corresponsabile della stessa crisi[1]: è perciò naturale che il testo di Tremonti, La paura e la speranza (Mondadori 2008), mi fosse risultato simpatico.
Avevo abboccato, insomma. Vi avevo scorto un barlume di tentativo di uscire dalle strettoie di una prassi e di una cultura liberista che è sempre stata strumento del dominio che, di volta in volta, il paese capitalisticamente piú avanzato (pervaso da varie forme di “capitalismo di Stato”, che Tremonti poneva in luce: p. 48) ha tentato di imporre al resto del mondo in nome delle ragioni del liberismo[2]. Un dominio ricco di opportunità per i dominati, ma anche di insidie destabilizzanti, sul piano economico, sociale e democratico. Mi incuriosiva che certi ragionamenti uscissero dalla cerchia dei settarismi nostalgici dell’attuale sinistra extraparlamentare e del bonapartismo giacobino postcomunista, passando in pasto all’elettore medio di centrodestra e, probabilmente, anche di centrosinistra. Ché in Italia viviamo, ancora nel 2012 cioè a diverso tempo dall’inizio della crisi, il paradosso (che Tremonti intuisce, perché non inacidito da becero anticomunismo) che il dibattito pro o contro Keynes e pro o contro l’intervento pubblico è affidato alle “tesi congressuali” di Rifondazione comunista[3], mentre le altre forze politiche spesso parlano di tutt’altro. Basti dire che nel Pd i cosiddetti liberal (Veltroni), che hanno letteralmente regalato il governo del paese a un Berlusconi boccheggiante[4] e che in un qualsiasi partito “normale” sarebbero spediti a leccare i francobolli, concentrano il fuoco, fedelissimi adepti del deflazionista Monti, sulle timidissime aperture “socialdemocratiche” di avverse correnti di partito vagamente memori delle lezioni della storia[5].
Del resto i maggiori quotidiani italiani – «Corriere della sera» e «La Repubblica» – e le maggiori case editrici – «il Mulino», a cui è stato affidato il monopolio legale della conoscenza dalle “riforme” (sic!) universitarie –, continuano a propinare imperterriti gli articoli dell’Adam Smith Society[6] e dei nostrani “liberisti di sinistra” [7], nonché filosofie della storia che hanno in uggia la “socialdemocrazia cattocomunista” e la Costituzione[8], e lezioni di anticorporativismo sindacale che cercano di convincere i disoccupati e gli eterni precari che la loro condizione dipende dall’esistenza del famigerato art. 18 dello Statuto dei lavoratori[9].
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Sovvertire la macchina del debito infinito
Intervista a Maurizio Lazzarato*
Dopo aver pubblicato la prefazione all’edizione italiana ritorniamo su La fabbrica dell’uomo indebitato di Maurizio Lazzarato con un’intervista all’autore su alcuni nodi del suo importante pamphlet.
Nel tuo saggio, riprendendo la seconda dissertazione de La Genealogia della morale di Nietzsche e L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, fornisci una ricostruzione del neoliberalismo secondo la quale attorno al debito si produce un dispositivo di potere che informa interamente l’infrastruttura biopolitica. Parafrasando Marx potremmo dire che il debito non è una cosa ma un rapporto sociale. Quale nesso intercorre tra la relazione creditore-debitore e la proprietà?
Il rapporto creditore-debitore è un rapporto organizzato attorno alla proprietà, è un rapporto tra chi ha disponibilità di denaro e chi non ce l’ha. La proprietà piuttosto che essere dei mezzi di produzione come diceva Marx, ruota attorno ai titoli di proprietà del capitale, quindi c’è un rapporto di potere che si è modificato rispetto alla tradizione marxiana, è deterrittorializzato per dirla con Deleuze e Guattari – è a un livello di astrazione superiore, ma è comunque organizzato attorno a una proprietà: tra chi ha accesso al denaro e chi non ce l’ha.
È un rapporto di potere che invece di partire dall’eguaglianza dello scambio, parte dall’ineguaglianza della relazione creditore-debitore, che è immediatamente sociale: l’economia del debito non fa distinzione tra salariati e non-salariati, tra occupato e disoccupato, tra lavoro materiale e immateriale, siamo tutti indebitati. Nello stesso tempo è una dimensione immediatamente mondiale, che agisce e comanda trasversalmente alle divisioni tra paesi ricchi e poveri, affermati o emergenti. Il credito/debito è stata l’arma fondamentale della strategia capitalistica dopo gli anni ’70, che ha spiazzato completamente il terreno della lotta di classe sul livello sociale e mondiale, col quale attualmente abbiamo ancora difficoltà a confrontarci.
Vorrei riprendere un argomento che non ho utilizzato nel libro perché viene da quel grande reazionario che è Carl Schmitt e che comprende il problema della proprietà. Il ragionamento mi è stato molto utile per pensare il potere della moneta, anche se Schmitt non parla di quest’ultima. Ogni ordinamento politico-economico è costruito e organizzato a partire da tre principi che sono tre diversi significati della parola “nomos”. Questi stessi tre principi sono alla base dell’economia del credito/debito.
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La svolta autoritaria del neoliberismo*
Debito e austerità: il modello tedesco del pieno impiego precario
di Maurizio Lazzarato
L’indebitamento dello Stato era, al contrario, l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato.
K. Marx, Le lotte di classe in Francia
L’uscita dalla crisi si fa fuori dai sentieri tracciati dall’Fmi. Questa istituzione continua a proporre lo stesso tipo di modello di aggiustamento fiscale, che consiste nel diminuire i soldi che si danno alla gente – i salari, le pensioni, i finanziamenti pubblici, ma anche le grandi opere pubbliche che generano lavoro – per destinare il denaro risparmiato al pagamento dei creditori. È assurdo. Dopo quattro anni di crisi non si può andare avanti a togliere denaro sempre agli stessi. È esattamente quello che si vuole imporre alla Grecia! Tagliare tutto per dare tutto alle banche. L’Fmi si è trasformato in un’istituzione con lo scopo di proteggere unicamente gli interessi finanziari. Quando si è in una situazione disperata, com’era l’Argentina nel 2001, bisogna saper cambiare carte.
Roberto Lavagna, ministro argentino dell’Economia tra il 2002 e il 2005
Meno di vent’anni dopo la «definitiva vittoria sul comunismo» e a quindici anni dalla «fine della storia», il capitalismo è entrato in un’impasse storica. Dal 2007 è vivo grazie alle trasfusioni di somme astronomiche di denaro pubblico. Eppure continua a girare a vuoto. Nel migliore dei casi, riesce a riprodursi, ma dando un colpo di grazia, con rabbia, a ciò che resta delle conquiste sociali degli ultimi due secoli.
Da quando è scoppiata la «crisi dei debiti sovrani» fornisce uno spettacolo esilarante del proprio funzionamento. Le regole economiche di «razionalità» che i «mercati», le agenzie di rating e gli esperti impongono agli Stati per uscire dalla crisi del debito pubblico sono le stesse che hanno prodotto le crisi del debito privato (d’altra parte all’origine della prima). Le banche, i fondi pensione e gli investitori istituzionali esigono dagli Stati il riordino dei bilanci pubblici, quando ancora detengono miliardi di titoli spazzatura, che sono il risultato di una politica di sostituzione di salari e reddito con un sistema di credito. Le agenzie di rating, dopo aver dato un giudizio di triplice A a titoli che oggi non valgono più niente (con un campione di 2679 titoli su 17.000, relativi a prestiti immobiliari, una banca ha fatto un’analisi dei giudizi di Standard & Poor’s: il 99% aveva una triplice A al momento dell’emissione, ma oggi il 90% ha giudizi che scoraggiano l’investimento: non-investment grade), hanno la pretesa, contro qualunque buon senso, di detenere il giusto giudizio e la buona misura economica. Gli esperti (professori di economia, consulenti, banchieri, funzionari di Stato ecc.) – la cui cecità sui disastri che la presunta autoregolazione dei mercati e della concorrenza ha prodotto sulla società e sul pianeta è direttamente proporzionale alla loro servitù intellettuale – sono stati catapultati dentro governi «tecnici», che ricordano irresistibilmente i «comitati d’affari della borghesia». Più che di «governi tecnici» si tratta di «tecniche di governo» autoritarie e repressive che segnano una rottura persino con il «liberalismo» classico.
Ma al colmo del ridicolo stanno probabilmente i media. L’«informazione» dei telegiornali e i talk-show ci spiegano che «la crisi è colpa vostra, perché andate troppo presto in pensione, perché spendete troppo in cure mediche, perché non lavorate così a lungo e così bene come si dovrebbe, perché non siete abbastanza flessibili, perché consumate troppo.
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Vogliono ammazzarci tutti?
di Rodolfo Ricci
Ci propongono un olocausto grauale, una “morte lenta”: bisogna cacciarli via nel migliore dei modi possibili
L’11 Aprile ultimo scorso, un dispaccio dell’FMI ha chiarito, oltre alla certificazione della recessione e a vari ammonimenti sull’instabilità globale, che la vera spada di Damocle che pende sulla testa del mondo è costituita dall’eccessiva longevità degli anziani nell’Occidente sviluppato. In pratica, l’età media della popolazione, europea in particolare, sta mettendo a serio rischio la sostenibilità del welfare (quindi dei conti pubblici, quindi della finanza mondiale) e dunque bisogna correre ai ripari: non, come il buon senso ci indurrebbe a pensare, reperendo nuove risorse per il rafforzamento dei modelli di welfare, ma, al contrario, legiferando misure che riducano le prestazioni sociali; in tal modo, l’allungamento della vita nell’occidente, sarebbe contrastato con l’allontanamento progressivo dell’età pensionabile, con la diminuzione degli importi pensionistici, insomma con tutta una serie di norme che, strada facendo, consentano di riportare la vita media sotto standard accettabili: assolutamente non oltre gli 80 anni, così pare di capire.
Ho ascoltato la notizia per radio, mentre tornavo dal lavoro, all’interno di una trasmissione radiofonica della sera, “Tornando a casa”, diretta da una cortese conduttrice, Enrica Bonaccorti, ben nota al pubblico italiano, la quale, complice il suo avvicinarsi alla terza età, non ha resistito e ha sbottato: “Ma che vogliono? ammazzarci tutti?”
In effetti le argomentazioni fornite dall’ FMI, a prescindere dallo scontato suggerimento “tecnico” di demandare la protezione sociale sempre più i “mercati” e sempre meno al pubblico (parte sostanziale del suo ricettario già fallito miseramente dall’Argentina agli USA e che ha lasciato sul lastrico decine di milioni di pensionati), stimola ben altre riflessioni: gli anziani, come i bambini, gli handicappati, i malati cronici, insomma tutti coloro che sono fuori o ai margini dell’attività lavorativa, costituiscono un vero e proprio peso, la cui sostenibilità, all’interno dei parametri del pensiero unico, è in contraddizione, anzi in opposizione, con gli elementi di competitività e profitto sistemico.
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Privatizzazioni: il sabba della finanza
di Giovanna Cracco
Particolarmente attivo su tutti i palcoscenici mediatici e finanziari, Mario Monti non si è fatto mancare la visita alla sede di Piazza Affari a Milano, il 20 febbraio scorso. Nell’occasione ha buttato lì un’affermazione apparentemente banale, dato lo scenario nel quale veniva pronunciata, in realtà estremamente significativa. La Borsa italiana “è una ricchezza del nostro sistema” ha detto Monti, ma “il numero delle società quotate è inferiore rispetto alle altre realtà europee”, e questo è un problema poiché “una Borsa con un numero più alto di imprese quotate può dare un contributo fondamentale per la crescita”.
Le questioni implicite nella dichiarazione – per i non addetti al lavoro, ché per gli specialisti sono al contrario estremamente esplicite – sono due. Innanzitutto, il legame tra la crescita economica di un Paese e il suo mercato finanziario. Dall’avvento del neoliberismo, da ormai un ventennio, quindi, i tassi economici di uno Stato sono solo marginalmente la rappresentazione della sua economia reale: è il settore finanziario a spingere il Pil, con tutto quel che ne consegue in termini negativi per l’occupazione lavorativa. Il “Rapporto sul mondo del lavoro 2011” pubblicato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) – un’organizzazione Onu, e dunque non certo ideologicamente a sinistra – evidenzia che “fra il 2000 e il 2009, la quota degli utili sul Pil è aumentata nell’83% dei Paesi analizzati. Tuttavia, durante lo stesso periodo, gli investimenti produttivi sono stagnanti a livello globale. Nei Paesi avanzati, la crescita degli utili delle imprese, escluse le società finanziarie, si è tradotta in un aumento sostanziale dei dividendi distribuiti (dal 29% degli utili nel 2000 al 36% nel 2009) e degli investimenti finanziari (dal 81,2% del Pil nel 1995 al 132,2% nel 2007)”. Le imprese dunque staccano dividendi agli azionisti anziché reinvestire i profitti nella produzione, e contemporaneamente spostano gli investimenti dal processo produttivo al mercato finanziario – viene dunque da chiedersi se i profitti derivino dalla produzione o dai giochi in Borsa.
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I debiti illegittimi
Intervista a François Chesnais*
François Chesnais, professore associato di economia all’Università di Paris 13, ha un lungo passato di studioso e militante. È stato membro del partito trozkista e ha partecipato alla nascita, nel 2009, del Nuovo Partito Anticapitalista. È redattore della rivista marxista “Carré Rouge” e consigliere scientifico di ATTAC. Nell’ambito della sinistra radicale francese, Chesnais sollecita una visione il più possibile internazionale della crisi politica e sostiene la necessità d’integrare questione sociale e questione ecologica. I suoi diversi studi sulla mondializzazione si accompagnano a una grande attenzione per i movimenti antisistemici. È in quest’ottica che è opportuno leggere il suo ultimo libro Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, uscito in Francia nel 2011 e tempestivamente tradotto da “DeriveApprodi”. Chesnais non si limita a realizzare un’ennesima analisi della crisi del debito europeo, ma offre uno strumento di prassi politica, elaborando il concetto di “debito illegittimo” e di indagine da parte di comitati cittadini sulla natura del debito pubblico. Sappiamo come, anche in Italia, questi temi siano all’ordine del giorno, grazie al lavoro di economisti come Andrea Fumagalli e alla campagna lanciata da Guido Viale sul “manifesto” a fine dicembre. La campagna internazionale contro il debito illegittimo, promossa dal Forum sociale mondiale di Nairobi nel 2007, è diventata nel frattempo una questione politica cruciale non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per gli ex-opulenti paesi del Nord. Per Chesnais, quindi, questa fase della crisi presenta anche un’opportunità per ricondurre una serie di lotte locali e nazionali ad un fronte comune, capace di attraversare il fossato tra paesi ricchi e paesi poveri.
Vorrei riprendere una riflessione fatta da molti commentatori nel corso di questo periodo: mi riferisco ad esempio all’editoriale di Serge Halimi su «Le Monde Diplomatique» che sintetizza il problema: mentre il capitalismo attraversa la peggior crisi dal 1930, mentre le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni hanno chiaramente mostrato i loro fallimenti, perché i partiti delle sinistre europee «appaiono muti e imbarazzati» e l’offensiva spetta ancora una volta alle soluzioni della destra: austerità, rigore e azzeramento del Welfare?
Penso che ci sia stato un salto epocale: in un arco di trent’anni abbiamo visto la morte del vecchio movimento operaio con i suoi partiti e i suoi sindacati, con le sue illusioni e le sue menzogne, tanto sul fronte dell’Urss e dello stalinismo quanto su quello della socialdemocrazia, e a dire il vero non ci sono più partiti di sinistra. Si continua a usare questa parola per convenienza e per nostalgia.
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Tutti gli esuberi del finanzcapitalismo
Giuliano Battiston intervista Luciano Gallino
Pubblichiamo l'intervista a Luciano Gallino apparsa nello speciale sulla Fiom “Democrazia al lavoro”, a cura del manifesto e di Sbilanciamoci, scaricabile da questo sito (vedi link qui sotto)
Nel suo ultimo libro, Finanzcapitalismo, analizza la trasformazione del passato capitalismo produttivo nell’attuale capitalismo dei mercati finanziari. Una trasformazione durante la quale come nuovo criterio guida dell’azione economica viene adottata la massimizzazione del valore per l’azionista. In che termini questo paradigma ha dato vita a una nuova concezione dell’impresa, favorendone quell’irresponsabilità da lei già criticata ne L’impresa irresponsabile?
La concezione dell’impresa è stata trasformata con grande rapidità, non solo sul piano teorico ma anche nella pratica della gestione e del governo delle imprese, soprattutto dopo gli anni Ottanta del Novecento, quando si è passati da una concezione che potremmo definire istituzionale dell’impresa – per cui essa è o dovrebbe essere un insieme di complessi rapporti sociali tra proprietari, dirigenti, dipendenti, fornitori, comunità locali – a una concezione prevalentemente contrattualistica. Secondo quest’ultima concezione, l’impresa viene intesa come un fascio, un insieme di contratti – stipulati con tutti gli attori che concorrono a vario titolo alla produzione – che hanno una precisa data di scadenza e che possono essere, quali più quali meno, rescissi in ogni momento. Si tratta di una delle manifestazioni della flessibilità che il capitale richiede, anzitutto per se stesso, affinché possa sempre arrivare là dove i rendimenti sono maggiori: dal momento che l’impresa non è nient’altro che un fascio di contratti, se una determinata parte contraente non soddisfa più certe esigenze di rendimento, quel contratto può essere eliminato e sostituito con un altro. Questo vuol dire inoltre che le imprese, perlomeno la maggior parte di esse, non hanno più alcun interesse ad essere localizzate in un determinato luogo, città o paese, e che la componente finanziaria diventa predominante anche nell’organizzazione, perché ciò che conta è il rendimento collegato al contratto.
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L’ossimoro dei “mercati autoregolatori”
di Alberto Rabilotta*
Ossimoro, nel Dizionario della Lingua Spagnola, significa “combinazione nella stessa struttura sintattica di due parole o espressioni di significato opposto, che da vita ad un nuovo significato: ad es.. rumoroso silenzio”. Un altro esempio (che non figura nel dizionario) è l’espressione “mercati autoregolati”, cioè il sistema neoliberista che per sopravvivere “esige regolarmente l’intervento e la azione coercitiva dello Stato”.
Il Consenso di Bruxelles, come prima il Consenso di Washington
Dal Vertice dell’Unione Europea (UE) che ha avuto luogo a Bruxelles lo scorso 30 gennaio, è uscito un Trattato sulla Stabilità, la Coordinazione e la Governance nell’Unione Economica e Monetaria che, su insistenza della Germania – come segnala il giornale britannico The Guardian – trasforma la Commissione Europea (CE) in un organismo “scrutatore” dei bilanci statali che d’ora in poi verranno redatti dai paesi membri della UE, e la Corte di Giustizia Europea (CGE) nell’istituzione che applicherà il “rigore fiscale” nella zona euro (ZE).
Per dirla più chiara: questo Trattato (che non fa parte dei Trattati della ZE per evitare il processo di ratifica e permette che esso entri in vigore con l’appoggio soltanto di 12 dei 27 paesi della UE) trasforma la CE nell’istanza sovranazionale che deciderà – al posto dei parlamenti – la politica di spesa statale, e la CGE nella “polizia fiscale sovranazionale” che – tornando all’articolo del quotidiano britannico – “può applicare in modo quasi automatico” multe agli Stati che in modo continuo non si attengano alle nuove regole che rendono illegale il deficit fiscale. E il Trattato rende obbligatorio per il 17 paesi della UE – e per quelli che saranno accettati in futuro – l’adozione di legislazioni di emendamenti costituzionali obbligatori per “abolire il diritto dei governi a ricorrere ad eccessivi livelli di debito nazionale”.
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Appropriazione indebita di una lingua e dissimulazione della realtà
di Daniela Ricci*
L’ideologia neoliberista in salsa italiana, nel tentativo di imporsi definitivamente come pensiero unico dominante, sta mettendo in atto una colossale opera di appropriazione indebita della lingua italiana, usando lo strumento linguistico a fini mistificatori.
“All’inizio era il verbo”, potremmo chiamare così questo sfacciato piano di mistificazione sostenuto dai media embedded al servizio delle elites finanziarie, che vuole“ribattezzare” le cose chiamandole non più con il loro nome, ma con vocaboli non pertinenti, proprio al fine di dissimularne la vera sostanza.
Servirsi delle parole per nascondere la realtà significa, di fatto, renderle un semplice involucro, atto a coprire una sostanza che spesso le contraddice. Il tutto per arrivare a propinarci anche l’inverosimile. E’ un vero e proprio sequestro del vocabolario italiano a fini di lucro, dove la posta in gioco è la salvezza di un sistema economico in crisi, quale è quello capitalistico, e degli enormi interessi economici e finanziari ad esso correlati.
Gli albori di questo processo di stravolgimento della nostra lingua furono ai tempi della “guerra umanitaria” in Kossovo , combattuta nel 1999, anche in nome del popolo italiano, nostro malgrado, proprio facendo leva su quell’ossimoro permanente che associa la guerra alla difesa dell’umanità e che consentì al governo D’Alema di aggirare l’articolo 11 della Costituzione, (“L’Italia ripudia la guerra”).
Nel 2001 e nel 2003 e’ stata poi la volta della “guerra preventiva”, dichiarata, anche in nome del popolo italiano, rispettivamente, contro Iraq ed Afghanistan, prima che “il nemico” (Saddam Hussein nel primo caso, Bin Laden, nel secondo) potesse nuocere all’Occidente.
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Il governo politico dei “mercati” nella versione austera del prof. Monti
Paolo Ciofi
A Berlusconi, che gli chiedeva di fare il leader di un governo di centro-destra, il prof. Monti avrebbe risposto così: «i mercati vogliono le larghe intese» (Corriere della sera del 12 novembre). Poche parole che in modo folgorante chiariscono il senso della fase che stiamo vivendo: innanzitutto, perché il Cavaliere alla fine sia stato costretto a scendere da cavallo, e perché al suo posto sia asceso l'austero supertecnico eurobocconiano. Già da tempo i "mercati", come ha scritto più volte l'Economist, non si sentivano garantiti da un personaggio giudicato impresentabile, troppo permeabile alle spinte populiste del leghismo, del tutto inabile come uomo di Stato e di governo. E al momento della resa dei conti hanno preteso che il governo Monti raccogliesse in Parlamento il consenso bipartisan di berlusconiani e antiberlusconiani. Come a dire che quando il gioco si fa duro, l'alternanza di governo nei sistemi politici attuali, praticata dentro il perimetro dell'alta finanza che dispone di uomini e cose, comporta una comune chiamata alle armi.
E' la democrazia del «Senato virtuale» da tempo descritta da Noam Chomsky, altrimenti denominata dittatura del capitale, su cui nel Vecchio continente non si riflette a sufficienza. Ed è la lampante controprova che oggi nel nostro sdrucito stivale come in Grecia, in Europa e nel mondo, i cosiddetti mercati, vale a dire una cerchia assai ristretta di proprietari universali, in prevalenza banchieri e finanzieri, sono in grado di imporre le loro scelte a intere nazioni e a milioni di esseri umani.
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La competenza dei tecnici: note su finanza, democrazia e indignazione
written by Marco Assennato
Libero mercato e democrazia.
La storia lunga della forma politica europea è arrivata al tramonto. Prendere parte, in questo crepuscolo, è necessario. Ne va delle parole di domani. Tutti i nodi dell’ultimo scorcio di secolo vengono al pettine. A guardare bene è una buona notizia. Dopo saranno tempi nuovi. Certo, il tramonto può far paura, sembra un abisso, un precipitare lento e inesorabile. Come tutti i passaggi radicali, originari. Ma questa è la partita. Radicale, originaria. Coincide e conferma l’idea, la geografia della crisi: prima la Grecia - impedita, fatto enorme, di procedere ad un referendum popolare, che per quanto inadeguato aveva il sapore d’un appello al popolo in ultima istanza, perchè dicesse, prendesse parola sul destino proprio - poi l’Italia, ex-repubblica parlamentare le cui funzioni sovrane a lungo maltrattate, vengono commissariate da tecnocrati già protagonisti della crisi in corso. E la prossima sarà la Francia.
La Francia, non la Spagna, né il Portogallo. Ma la Francia della rivoluzione borghese del 1789, quella di libertà, eguaglianza e fraternità. Il corpo maturo dell’impero finanziario transnazionale si disfa delle vecchie utopie. Demokratía, nasce in Grecia, come dispositivo che consente al dèmos di costruire un caleidoscopio di forme di vita pubblica che ruotano attorno ai concetti di libertà, uguaglianza, trasparenza. Fu a lungo un fantasma per i poteri pubblici, quest’ipotesi di kràtos del démos. Potere coercitivo del popolo sulla cosa pubblica. Tutta la teoria politica greca si è basata sulla necessità di dargli forma e così limitarlo, farlo coesistere con gli altri poteri. La Grecia, perciò, è stata culla delle costituzioni - dispositivi di legge che tentavano questo rigoroso esercizio della forma.
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Per una comunità europea dei beni comuni
di Riccardo Petrella
L’Europa è sulla via della disintegrazione. La via d’uscita è nella ricostruzione di una comunità fondata sui beni comuni – terra, aria, acqua, energia, lavoro – sottratti al mercato e affidati alla partecipazione democratica dei cittadini
Si può parlare di disintegrazione europea per una duplice ragione. Primo: la storia degli ultimi 30 anni (a partire dal 1971-73) in Europa è, in generale, la storia di una sempre più marcata regressione rispetto all’obiettivo dell’integrazione politica dell’Europa. Questa appare, nella testa delle attuali classi al potere, più lontana e impossibile di quanto lo fosse agli occhi degli europei di 60 anni fa. Secondo: la sottomissione voluta dai poteri forti dell’Unione europea al neo-totalitarismo capitalista ha disintegrato il tessuto sociale ed economico delle società europee. L’Europa è diventata un arcipelago di tante isole diverse, diseguali, internamente fratturate da forti ineguaglianze e sbattute da venti di esclusione verso l’esterno. Si potrebbe analizzare una terza ragione, la disintegrazione ecoambientale (rapporti esseri umani-natura), ma questa, per quanto estremamente importante per il divenire delle società, va ben al di là del contesto specificamente europeo.
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Zapatero ha chinato la testa
written by Franco Berardi "Bifo"
Che funzione svolgono i partiti della sinistra in Europa?
Il 20 Novembre si terranno le elezioni in Spagna, dopo che il governo a guida socialista ha deciso di rinunciare a condurre a termine la legislatura per le difficoltà di gestione della situazione economica, non prima però di avere avviato una politica di austerità aggressiva, che è già costata riduzioni di stipendio per i lavoratori pubblici, tagli alle diponibilità delle amministrazioni regionali, riduzione del finanziamento per i servizi sanitari, e soprattutto non prima di aver accettato la devastante logica antisociale imposta dalle autorità centrali europee.
Tra tutti i leader della sinistra europea Zapatero è stato quello che ha suscitato negli anni scorsi maggiori speranze. Eletto sull’onda di una mobilitazione popolare che aveva sconfitto la manovra di disinformazione montata da Aznar dopo l’attentato di Atocha, Zapatero aveva saputo in qualche modo essere all’altezza delle attese interpretando il rifiuto della guerra infinita di Bush cui Aznar aveva dato piena copertura politica, e portando a espressione legislativa il rinnovamento prodotto dalle culture gay e dalle culture femministe, iniziando sia pur timidamente un processo di allontanamento dello stato spagnolo dall’asfissiante presenza dei parassiti vaticani. Ma nel momento decisivo, quando si è trattato di esprimere una posizione autonoma sulla questione sociale, di fronte al diktat della classe finanziaria europea le attese sono state tradite.
Quando gli speculatori hanno preso di mira la Spagna, dopo avere attaccato in successione la Grecia l’Irlanda e il Portogallo, quando la classe finanziaria europea ha chiesto ai governi nazionali di piegarsi al ricatto finanziario, facendosi esecutori del progetto di distruzione dei sistemi pubblici, riduzione del salario, uno dopo l’altro i leader politici della sinistra europea hanno capitolato, e hanno accettato di divenire strumenti della più spaventosa rapina mai conosciutanei paesi europei.
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