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Così il neoliberalismo ha messo in crisi la civiltà
di Luciano Gallino
L´interpretazione corrente, la quale vede la politica sopraffatta dall´invasione dell´economia, e dunque costretta suo malgrado ad adeguarsi alle esigenze di questa, arriva sì a descrivere con una certa proprietà gli effetti dell´invasione, ma al prezzo di ignorarne le cause. Sono la cronaca e la storia degli ultimi decenni a mostrare che i confini tra economia e politica non sono stati attraversati dalla prima grazie esclusivamente alle proprie incontenibili forze, come sostiene la interpretazione delineata sopra. Piuttosto va constatato che, a partire dai primi anni 80 del secolo scorso, in numerosi paesi tali confini sono stati deliberatamente spalancati all´economia non da altri che dalla politica, dai suoi parlamenti, e dalle leggi da questi emanate.
L´attraversamento incontrollato dei confini tra politica ed economia non sarebbe potuto avvenire senza l´intervento di una ideologia che dopo esser giunta a pervadere l´intero sistema culturale ha promosso e legittimato tale attraversamento, e lo ha praticato essa stessa in forze riguardo ai suoi confini con tutti gli altri sotto-sistemi.
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Sulle cause reali e finanziarie nella crisi economica in corso
di Duccio Cavalieri
La crisi globale del sistema economico capitalistico che è oggi in corso riguarda un modello neoliberista di sviluppo basato sulla speculazione e sull’innovazione finanziaria. Non è la crisi finale del sistema capitalistico, in quanto tale, e forse neppure quella di una sua particolare espressione storica: il capitalismo finanziario postindustriale. Il capitalismo storico sopravviverà a questa crisi. E il mondo sopravviverà a sua volta al capitalismo, quando questo verrà meno, poiché il capitalismo non costituisce la meta della storia.
Oggi appare chiaro che non si è trattato di una crisi puramente finanziaria, ma di una crisi sistemica di carattere più generale, con radici profonde, indotta da fattori di natura endogena: un eccessivo ricorso all’indebitamento, l’evidente sottocapitalizzazione di alcune istituzioni finanziarie, una crescita abnorme del valore di mercato di cespiti patrimoniali ed errori nella conduzione della politica monetaria e finanziaria americana. Una crisi del sistema, quindi, che non può attribuirsi a degli shock esogeni, come è accaduto più volte nel recente passato.
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Il capitalismo storico e la scelta di fondo odierna
Duccio Cavalieri*
Riceviamo e volentieri pubblichiamo un articolo del prof. Duccio Cavalieri che, pur essendo lontano dalle opzioni di politica economica sostenute dalla redazione della rivista, ci auguriamo possa avviare un dibattito sulle prospettive del “liberismo di sinistra”. (La Redazione).
Il liberismo classico della scuola di Manchester implicava un’idea chiaramente utopistica: quella di un ordine naturale che avrebbe teso a realizzarsi spontaneamente e che in un contesto perfettamente concorrenziale sarebbe stato in grado di assicurare a tutti un massimo relativo di soddisfazione (un ‘ottimo paretiano’), operando trasferimenti di risorse tra impieghi alternativi, senza alterare sostanzialmente la distribuzione preesistente del reddito.
Così idealizzato, il capitalismo non è un modo di produzione storicamente determinato, ma una categoria universale sovrastorica, capace di mutare nella forma, ma non nella sostanza. E dunque destinata a durare in eterno. Il capitalismo reale, ovviamente, è tutt’altra cosa. E’ un tipo di organizzazione dell’economia finalizzato alla produzione per il profitto e all’accumulazione del capitale. Con tutto ciò di buono e di meno buono che questi obiettivi comportano: dall’efficienza e dalla spiccata capacità di promuovere lo sviluppo delle forze produttive di un paese, alla soggezione a crisi ricorrenti e devastanti, e dalla mancanza di vera democrazia a un’oppressione sociale.
Nel capitalismo odierno, la ferrea logica di riproduzione del capitale, finalizzata all’estrazione e appropriazione privata di un plusvalore, impedisce a una larga parte degli esseri umani di emanciparsi dal lavoro salariato e di realizzare attraverso un’attività autonoma e non alienante la loro vera essenza. Così da passare da uno stato di necessità al regno hegelo-marxiano della libertà.
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Ecco come morimmo
di Paolo Barnard
Il processo iniziò il 23 agosto del 1971 nella sale della Camera di Commercio degli Stati Uniti d’America, e arrivò alla sentenza il 31 maggio del 1975 nell’assemblea plenaria della Commissione Trilaterale a Kyoto. In quattro anni di dibattimento i Padroni della nostra vita decisero che l’imputato doveva morire. L’imputato si chiamava Sinistra, cioè diritti, cioè democrazia partecipativa dei cittadini comuni, cioè pace, tolleranza, interesse collettivo, amore libero e libero pensiero, cioè Un Mondo Migliore per ogni uomo o donna di questo pianeta, cioè il mondo che avremmo voluto avere e che oggi non abbiamo. Negli anni ’70 quel mondo appariva sul punto di realizzarsi, sospinto dallo straordinario vento di progressismo che aveva spazzato il mondo occidentale nella decade precedente. La sentenza decretò che l’imputato era colpevole, e ne dettò le modalità di esecuzione capitale. Oggi quello che vi appare come il Potere - dalle multinazionali alle guerre economiche, la P2, le mafie, il mostro mediatico commerciale, la Casta politica e le altre Caste, le lobby dell’attacco alle Costituzioni, l’impero dei consumi – non lo è. Queste manifestazioni aberranti sono solo il risultato di quella sentenza. Il Potere è la cupola dei mandanti di allora e di oggi, quella è l’origine di tutto.
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E' sempre Goldman Sachs. L'Impero sta vincendo?
di Simone Santini
Doveva essere la crisi finale del capitalismo ma i colossi di Wall Street, dopo alcuni scossoni, tornano a fare la voce grossa. I dati del secondo trimestre del 2009 dicono che la banca (ex) d'affari Goldman Sachs, una delle regine del mercato che ha superato indenne l'anno terribile, incamera ora profitti record e promette bonus milionari a dipendenti e dirigenti: forse la crisi finanziaria non è ancora finita, ma per alcuni banchieri pare proprio di sì.
Sembrano lontani i tempi in cui i risparmiatori britannici facevano le file agli sportelli della Northern Rock, del tracollo di Bear Stearns, del crack di Lehman Brothers, dell'acquisizione di una boccheggiante Merrill Lynch da parte di Bank of America. E come dimenticare le decisioni di Morgan Stanley e proprio Goldman Sachs di cambiare statuto e trasformarsi da banche d'affari in banche commerciali (cosa avvenuta lo scorso autunno), sottostando così alla regolamentazione della Fed (la Banca Centrale americana) ma potendo anche accedere ai ricchi fondi statali, dunque pubblici, destinati agli enti finanziari in crisi.
A giudicare dai risultati fu una mossa brillante. Grazie a quella boccata d'ossigeno (tra l'altro più che sostanziosa, 10 miliardi di dollari) Goldman Sachs poteva continuare, dietro la foglia di fico di essere anche una banca commerciale, tutte quelle operazioni finanziarie che sole possono dare rendimenti stratosferici. I numeri parlano chiaro. Le attività di trading (ovvero la speculazione su indici azionari, materie prime, cambi valutari e quant'altro) hanno rappresentato per questo 2009 la gran parte (70-80%) degli utili della compagnia (più 33% rispetto lo scorso anno), mentre il nuovo settore, l'attività strettamente bancaria, per questo secondo trimestre ha segnato una perdita del 15% rispetto al precedente.
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Oltre la diarchia euro-dollaro
Dieci tesi su crisi, egemonia valutaria e imperialismo
di Vladimiro Giacchè
*All’origine della crisi vi è un’enorme sovrapproduzione di capitali e di merci*
Sulle cause della attuale crisi ci è stato detto di tutto. Banchieri avidi, compratori di case sprovveduti, agenzie di rating distratte o colluse: tutto o quasi è stato tirato in ballo. Tutto, salvo quello che è veramente importante. La stessa finanza deregolamentata e il credito facile, che sono diventati il comodo (e consolatorio) capro espiatorio di opinionisti e scrittori di cose economiche, non sono la causa di questa crisi. L’enorme esplosione del debito su scala mondiale che ha preceduto l’esplodere della crisi (con asset finanziari che nel 2007 avevano superato il 350% del PIL mondiale) è servita a conseguire tre obiettivi: 1) ha permesso di costruire prodotti finanziari (quali le carte di credito, ma anche i mutui subprime) attraverso i quali, in particolare nei paesi anglosassoni, lavoratori che guadagnavano meno di prima hanno potuto continuare a consumare come prima; 2) ha consentito a imprese in crisi di sopravvivere (grazie al credito ottenuto a tassi estremamente favorevoli); 3) ha offerto una via di sfogo profittevole a capitali in fuga dall’impiego industriale perché ormai poco profittevole(1). In altre parole: la finanza non è la malattia. È la droga che ha permesso di non avvertirne i sintomi. Con il risultato di cronicizzarla e di renderla più acuta. La malattia, ossia la crisi da sovrapproduzione di capitale e di merci, si è infine manifestata con violenza nell’estate del 2007, e assume ormai le caratteristiche di una vera e propria “crisi generale” che investe almeno l’intero occidente capitalistico, se non il mondo intero.
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Consigli non richiesti
La “ricetta” di Draghi per il prossimo decennio
Pasquale Cicalese
"Negli ultimi vent’anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante,
bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte".
[Mario Draghi(1) - Orazio, De te fabula narratur]
Le parole di Draghi si possono definire come il te deum della Seconda Repubblica, se non fosse che costui, di essa, ne è stato uno dei principali protagonisti, a partire dalla famosa “crociera” sul Britannia nel 1992 in cui le principali banche d’affari anglosassoni si spartirono il grande affare delle privatizzazioni degli oligopoli industriali pubblici italiani (suggellato dall’accordo Andreatta-Van Miert del luglio 1993), per ampiezza secondi solo alla rapina russa da parte degli oligarchi mafiosi. Da direttore generale del Tesoro, con i ministri Ciampi, Amato e Dini presiede il Comitato per le privatizzazioni, dirige la politica economica degli anni novanta, prepara il salasso finanziario della manovra ‘Amato del ‘92, ha la regia amministrativa dei protocolli del ‘92 e ‘93, è artefice della riforma finanziaria e della privatizzazione del sistema bancario(2), “indirizza” gli altri ministeri in merito alla riforma del mercato del lavoro e della previdenza, introduce meccanismi di prelievo fiscale nel sistema delle autonomie e rientro dal debito mediante il patto di stabilità interno, spinge per le privatizzazioni delle municipalizzate.
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La scienza triste e la farfalla di Lorenz
Marco Passarella*
Come mai economisti accademici, consiglieri economici ed analisti finanziari hanno sottovalutato e, in alcuni casi, completamente ignorato, i segnali della crisi esplosa nell’estate del 2007? È questa, da molti mesi, la domanda posta insistentemente da quotidiani, blog finanziari e talk show televisivi; al centro di dibattiti e convegni di mezzo mondo. Una risposta semplice, ma non banale, è che da tempo gli economisti hanno abbandonato lo studio dei classici del pensiero economico. È un fatto che nelle università occidentali l’economics, un tempo “economia politica”, sia stata ridotta, nel corso degli ultimi vent’anni, a mero tecnicismo. Un tecnicismo autoreferenziale, autistico[1] – fatto di improbabili microfondazioni e di sofisticati, ma asettici, modelli econometrici – e nient’affatto disinteressato. Da decenni, infatti, gli economisti accademici mainstream sono assurti al ruolo, in verità assai ambito, di moderni consiglieri del principe. Occupano scranni parlamentari, poltrone ministeriali e posti nei consigli di amministrazione di prestigiose banche d’affari e società multinazionali.
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La precarietà come freno alla crescita
Guglielmo Forges Davanzati
La crisi del pensiero liberista si manifesta, al momento, come riconoscimento della necessità di un maggior intervento pubblico in economia, quanto più possibile temporaneo, e preferibilmente limitato alla sola regolamentazione dei mercati finanziari. Nulla si dice sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, ben poco se ne dibatte, e si stenta a riconoscere che, nella gran parte dei casi, si è trattato di un clamoroso fallimento per gli obiettivi espliciti che si proponeva: così che la ‘flessibilità’ del lavoro resta, anche in regime di crisi, un totem.
E’ opportuno premettere che, ad oggi, in Italia, non si dispone di una stima esatta del numero di lavoratori precari: il che, in larga misura, riflette le numerose tipologie contrattuali previste dalla legge 30, alcune delle quali censibili come forme di lavoro autonomo. L’Istat individua 3 milioni e 400 mila posizioni di lavoro precarie, a fronte dei 4 milioni di lavoratori precari censiti dall’Isfol[1].
Gli apologeti della flessibilità prevedevano, già dagli anni ottanta, che la rimozione dei vincoli posti alle imprese dallo Statuto dei lavoratori in ordine alla libertà di assunzione e licenziamento avrebbe accresciuto l’occupazione, e dato impulso a una maggiore mobilità sociale, tale da portare anche alla crescita delle retribuzioni medie.
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Lo stato del bene comune
di Ugo Mattei
A venti anni dal crollo del modello economico sovietico il pianeta è scosso dalla crisi del neoliberismo. Due fallimenti che impongono l'urgenza di un riqualificato intervento pubblico per favorire il miglioramento della qualità della vita nel presente, senza attendere messianicamente il «sole dell'avvenire»
Da diversi mesi ormai siamo ufficialmente nel mezzo della «crisi». Tali e tanti sono stati i dibattiti, gli articoli ed i libri ad essa dedicati in tutto il mondo, ciascuno contenente diverse diagnosi e prognosi, che il senso di saturazione e di inutile si impadronisce di noi. È nata un'«industria culturale» della crisi, un vero «spettacolo» al quale è ormai volgare qualsiasi tipo di partecipazione.
Vanno comunque riconosciuti alcuni risultati positivi quantomeno culturali di ciò che va succedendo. Dopo 15 anni di travolgente mainstream intellettuale in cui era impossibile avanzare qualunque dissenso alla retorica della «fine della storia», finalmente si possono mettere sul tavolo e discutere con il rispetto dovuto ipotesi alternative, solidaristiche, alter-mondialiste, o semplicemente di ri-pubblicizzazione dell' economia.
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Liberismo IN CADUTA LIBERA
Le radici profonde della crisi economica
di Christian Marazzi
Il crollo della borsa e il fallimento di importanti banche sono state le premesse per la chiusura di imprese e l'aumento della disoccupazione. Questo è dovuto al fatto che la finanza non è più un aspetto parassitario dell'attività economica, ma una sua componente centrale. È venuta cioè meno la contrapposizione tra economia reale e finanza che ha segnato l'analisi storica del capitalismo.
Un'anticipazione da «Finanza bruciata», volume pubblicato da Edizioni Casagrande
L'economia finanziaria è oggi pervasiva, si spalma cioè lungo tutto il ciclo economico, lo accompagna per così dire dall'inizio alla fine. Oggi si è nella finanza, per dirla con un'immagine, anche quando si va a fare shopping al supermercato, dal momento in cui si paga con la carta di credito. L'industria automobilistica, per fare solo un esempio, funziona interamente su meccanismi creditizi (acquisti rateali, leasing), tant'è vero che i problemi di una General Motors riguardano tanto la produzione di automobili quanto, se non soprattutto, la debolezza della Gmac, la sua filiale specializzata nel credito al consumo indispensabile per vendere i suoi prodotti ai consumatori. Siamo cioè in un periodo storico nel quale la finanza è consustanziale a tutta la produzione stessa di beni e servizi.
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I consumi di Cindia
di Jayati Gosh
L'Occidente teme il benessere di Cina e India, che «brucia» risorse che considerava sue
Una visita in Europa occidentale lo scorso marzo mi ha offerto una visione lievemente diversa, e un po' inquietante, circa lo svolgersi degli avvenimenti economici e delle loro coordinate. Quando una crisi si sviluppa, in ogni parte del mondo ci si interroga sulle attuali istituzioni economiche - e naturalmente paure, insicurezze e preoccupazioni incidono pesantemente sulla visione del futuro. Le principali domande riguardano le entrate economiche e la distribuzione delle risorse (non succede sempre cosí?), ma in questi tempi di crisi globale le argomentazioni possono diventare piú taglienti e perfino laceranti. Due sono gli argomenti piú usati pubblicamente. Il primo consiste in un'animosità, appena o per niente dissimulata, nei riguardi di Cina e India (inevitabilmente associate, nonostante le enormi differenze), indicate come beneficiarie della globalizzazione e voraci divoratrici di risorse globali. Il secondo rivela una generale incapacitá di concepire una via di uscita dalla crisi attuale che non sia semplicemente replicare il passato, persino quando ció risulti chiaramente insostenibile.
L'atteggiamento europeo nei confronti dell'Asia é stata a lungo caratterizzata da una combinazione variabile di paura e fascinazione, rispetto e repulsione, competizione e colonialismo - come gli studi sull'Orientalismo hanno reso fin troppo evidente.
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Goodbye liberismo. Ma ora?
di Alberto Burgio
Benché la responsabilità della crisi che imperversa distruggendo ogni giorno migliaia di posti di lavoro ricada per intero sulle classi dirigenti occidentali (degli Stati Uniti e dei loro partner capitalistici), il racconto della crisi è appannaggio pressoché esclusivo di banchieri, imprenditori e governanti, preoccupati di giustificare il quotidiano saccheggio di risorse pubbliche a beneficio delle imprese private in odore di fallimento. Non si tratta di un dettaglio trascurabile. È una circostanza che coinvolge la gestione politica della crisi e che può incidere in modo rilevante sui suoi stessi sviluppi. Perciò è fondamentale che vengano prodotte letture alternative, capaci di fornire strumenti analitici alle voci critiche superstiti. E per questo salutiamo con favore un libro scritto, a tamburo battente, da Alfonso Gianni, Goodbye liberismo (Ponte alle Grazie, pp. 368, euro 16,50) che ha il merito di riflettere sulla crisi ricercandone le radici nella vicenda ultratrentennale del neoliberismo.
Tale ampio angolo visuale è il maggior pregio del libro, che offre al lettore informazioni di non sempre agevole reperimento (a prezzo, forse, di una relativa scarsità di riferimenti ai contraccolpi della crisi sulle politiche macroeconomiche dei governi e sulla ristrutturazione in senso autoritario delle forme di controllo sociale e di comando dei processi produttivi).
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"Mangiati il ricco!!"
L'anticapitalismo è all'ordine del giorno
di Sergio Cararo
“Eat the rich”, mangiati il ricco! E’ questo quanto inneggia da dieci anni War Class, una delle reti anticapitaliste che ha animato le mobilitazioni di Londra contro il vertice delle potenze economiche del G20 sulla crisi. L’invocazione di oggi a mangiarsi i ricchi evoca e irride la “Modesta Proposta” con cui nel Settecento Jonathan Swift provocava l’establishment britannico suggerendo di risolvere il problema della povertà…mangiandosi i numerosi figli dei poveri. Eppure dobbiamo riconoscere che l’idea di “mangiarsi i ricchi” come alternativa alla crisi economica, nel XXI Secolo ha una sua piena pertinenza con la realtà della situazione.
Le manifestazioni di Londra contro il vertice del G 20 e quelle di Strasburgo contro il vertice della NATO, hanno fatto venire a qualche osservatore l’idea e la nostalgia di un ritorno alla ribalta dei movimenti antiliberisti che irruppero sulla scena dal dicembre del ’99 a Seattle passando per Genova e Cancùn. In realtà non è la stessa cosa e sotto certi aspetti dobbiamo augurarci e lavorare affinché non siano la stessa cosa. E’ diversa la realtà – caratterizzata dalla manifestazione pubblica della crisi della civilizzazione capitalistica e del suo modello – e sono diverse anche le soggettività sociali che via via entrano in campo.
Emblematica di questa differenza è la preoccupazione espressa dal rapporto sull’instabilità sociale degli stati elaborato dall’Economist Intelligence Unit qualche settimana fa e dall’editoriale del quotidiano confindustriale Il Sole 24 Ore. Quest’ultimo segnala la differenza tra i movimenti no global degli anni scorsi e la rabbia degli operai che perdono il lavoro e sequestrano i manager.
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La finanza malata d'ipertrofia
Salvare il sistema finanziario globale? Troppo tardi. Ormai è «troppo grande per salvarlo»
Saskia Sassen
Il valore globale dei «prodotti finanziari» è parecchie volte il Pil mondiale. È troppo. La sfida reale non è salvare il sistema ma definanzializzare le economie, argomenta Saskia Sassen
Quello che viene impropriamente chiamato «gruppo dei venti» (G20) si è riunito a Londra il 2 aprile 2009 per discutere su come salvare il sistema finanziario globale. È troppo tardi. La prova è che non abbiamo le risorse per salvare questo sistema - neanche se volessimo. È diventato «troppo grande da salvare» (non «troppo grande per fallire», come si dice per giustificare il soccorso ai colossi bancari, ndt): il valore degli assets finanziari globali supera di parecchie il Prodotto interno lordo (Pil) globale. La vera sfida non è salvare questo sistema, ma definanziarizzare le nostre economie, come premessa per superare il modello attuale di capitalismo. Perché mai il valore degli assets finanziari dovrebbe ammontare quasi al quadruplo del Pil complessivo dell'Unione europea, e ancor più per quanto riguarda gli Usa? Che vantaggio hanno i comuni cittadini - o il pianeta - da questo eccesso?
La domanda si risponde da sola. Esplorare più a fondo i meccanismi nascosti del sistema finanziario che ha portato il mondo a questa crisi significa anche intravedere un futuro oltre la finanziarizzazione. Il compito che il G20 dovrebbe affrontare non è salvare questo sistema finanziario, ma cominciare a definanziarizzare le principali economie in misura tale che il mondo possa andare verso la creazione di un'economia «reale» capace di garantire sicurezza, stabilità e sostenibilità.
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