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scenarieconomici

Recovery Fund: un sommario di tutti i veri dati

di Guido Da Landriano

pacco vuotoVi presentiamo una serie di immagini e tabelle nelle quali sono spiegati tutti i veri dati, quelli basati sui documenti ufficiali e su stime super partes, non sulle voci messe in giro da Casalino o su numeri di provenienza, diciamo così, spuria.

Se volete potete salvarvi questi dati o salvare la URL della pagina, e divertirvi a confrontarli con le gentili e soavi amenità che sentite in TV.

Buona Lettura.

* * * *

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lafionda

Recovery Fund, un MES all’ennesima potenza

di Thomas Fazi

vertice 1200 690x362 1Su una cosa praticamente tutti – giornalisti, commentatori, esponenti del governo (e persino alcuni dell’opposizione!), comuni cittadini – sembrano essere d’accordo: l’accordo raggiunto in sede europea sul cosiddetto Recovery Fund rappresenta una «grande vittoria» per l’Italia e un «evento storico» per l’Europa.

Per capire se è veramente così, vediamo di cosa si tratta. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il “Next Generation EU” (NGEU), ovvero i famigerati 750 miliardi che la Commissione potrà prendere a prestito sui mercati e il quadro finanziario pluriennale (QFP), ovvero il bilancio europeo classico, che andrà dal 2021 al 2027. Per quanto riguarda il NGEU, il totale (750 miliardi) rimane invariato rispetto alla proposta originale della Commissione, ma cambia di molto la sua ripartizione. Sono stati ridotti i “trasferimenti a fondo perduto” – da 500 a 390 miliardi – e sono stati aumentati i “prestiti bilaterali”, da 250 a 360 miliardi. Per quanto riguarda il bilancio europeo, invece, esso avrà in dotazione poco più di mille miliardi di euro, un po’ meno rispetto a quanto proposto inizialmente dalla Commissione.

Per far quadrare i conti, sono stati ridotte alcune voci di spesa del bilancio comunitario. Sono state introdotte anche delle importanti modifiche ai cosiddetti “rebates”, ovvero gli sconti che vengono storicamente fatti ad alcuni Stati che sono contribuenti netti al bilancio comunitario: Danimarca, Olanda, Germania, Austria, Svezia. L’Olanda, per esempio, riceverà ogni anno circa 500 milioni in più rispetto a quanto era inizialmente previsto.

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lordinenuovo

Recovery Fund, riduzione delle sovvenzioni e aumento delle condizionalità

di Domenico Moro

Michel Von Der Leyen 768x512La riunione del Consiglio europeo sul piano finanziario Next Generation Europe, altrimenti conosciuto come Recovery fund, doveva durare due giorni. In realtà, si è protratta per ben cinque giorni, a testimonianza della profondità delle divergenze che si sono manifestate all’interno del Consiglio tra, da una parte, i Paesi cosiddetti frugali, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e, dall’altra parte, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia. L’oggetto del contendere ha riguardato sia le modalità di suddivisione in sussidi e prestiti del Recovery fund sia le condizionalità imposte agli Stati per usufruirne.

Ma vediamo cosa dice il documento ufficiale stilato alla conclusione dell’incontro. Il documento riconosce, a causa della crisi, la necessità di un piano di ricostruzione europeo che permetta massicci investimenti pubblici e privati. A questo scopo la Commissione viene autorizzata a prendere a prestito, a nome della Ue, le somme necessarie sul mercato dei capitali.

Il documento enfatizza l’aspetto dell’eccezionalità del Recovery fund. Infatti, specifica che il provvedimento è dovuto alla natura eccezionale della crisi, e che, di conseguenza, i poteri della Commissione di prendere a prestito fondi sono limitati nella misura, nella durata e nello scopo.

La Commissione viene autorizzata a prendere a prestito fino al 2026 la cifra di 750 miliardi di euro. I 750 miliardi sono composti da 672 miliardi della Recovery and Resilience Facility e da 78 miliardi previsti per altri 6 programmi di minore entità (sviluppo rurale, Horizon Europe sulla ricerca scientifica, ecc.). La Recovery and Resilience Facility, a sua volta, è composta da 360 miliardi in prestiti e da 321,5 miliardi in sovvenzioni.

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sollevazione2

Ecco a voi il Super-MES

di Leonardo Mazzei

garrota fund 768x501Il super-Mes

Bruxelles, ore 5:32 del 21 luglio, per l’Italia il disastro è compiuto. Non si chiama Mes, anche se ci sarà spazio pure per questo, ma Recovery Fund, il super-Mes pensato dall’asse carolingio, ripreso dalla Commissione, ed infine modificato (in peggio, ovviamente) dal Consiglio europeo con la firma di stamattina.

Lo abbiamo sostenuto per mesi. Non è mai esistito un Mes cattivo, opposto ad un Recovery Fund buono. Esiste invece il sistema dell’euro, che di questi meccanismi abbisogna come il pane. E’ da quel sistema che bisogna liberarsi. Il resto è solo chiacchiera per l’interminabile teatrino della politica. Quel teatrino tenuto in piedi affinché ogni ragionamento serio sia bandito dal discorso pubblico.

Oggi gli euroinomani festeggiano. Lo fanno per l’accordo raggiunto, per la novità di un pacchetto economico a loro dire eccezionale, perfino per l’idea che si sia aperta la strada alla condivisione del debito, aprendo così pure quella della mitica Europa federale. Hanno torto su tutto, ed i fatti lo dimostreranno.

L’accordo è stato uno dei più pasticciati dell’intera storia dell’Unione, che in quanto a pasticci proprio non ha rivali. Non il frutto di un’intesa di fondo, ma di un’estenuante mediazione sul più piccolo dettaglio degli interessi di ognuno.

Lo dimostra il consistente aumento degli sconti dei contributi al bilancio comunitario, ottenuto dai 4 “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca, Austria) più la Germania, per il periodo 2021-2027. Molti segnalano come i quattro portino a casa 26 miliardi, “dimenticandosi” però di dire che altri 25,6 verranno incamerati dalla Germania.

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contropiano2

Da oggi in poi ci governa Berlino

di Dante Barontini

governa berlinoCome sarebbe andata a finire lo si poteva capire già nella notte di domenica, quando Giusppe Conte, rivolgendosi all’olandese Mark Rutte, ha detto: “Il mio Paese ha una sua dignità. C’è un limite che non va superato”, aggiungendo il dubbio che “si voglia piegare il braccio a un Paese perché non possa usare i fondi”.

In quel momento è stato inevitabile ripensare ad Alexis Tsipras, in un’altra notte di luglio, quella del 2015, che nella stessa sede (solo qualche faccia diversa) si era alzato togliendosi la giacca per porgerla alla Merkel sbottando: «A questo punto, prendetevi anche questa…»

Poi, com’è noto, la Troika si precipitò rapace su Atene, assumendone il pieno controllo e dando il via al saccheggio di tutto quel che di pubblico poteva essere svenduto (porti, aeroporti, centrali, ecc), tagliato (salari, sanità e pensioni), impegnato.

All’Italia di Conte è andata leggerissimamente meglio, in apparenza, visto il diverso peso economico in Europa – terza economia dell’Unione – che renderebbe il tracollo senza freni di questo Paese un detonatore devastante per tutti, più della pandemia.

Ma per separare con chiarezza la realtà di quanto “concordato” dalla “narrazione” che ne viene fatta già a botta calda, sarà bene vedere i singoli punto del compromesso finale, firmato alle 5.32 del mattino, al quinto giorno di un vertice che doveva durarne due.

Il “successo” della UE sta solo nel fatto che ne sia stato firmato uno, cosa che ad un certo punto sembrava persino improbabile. Ma nessuno dei 27 leaderini spaventati e feroci poteva tornare a casa senza questo risultato. Avrebbe significato la fine di un sistema di trattati e istituzioni, sanzionato pesantemente dai “mercati” e quindi un moltiplicatore degli effetti negativi della pandemia che avrebbe alla fine travolto anche chi si sente meno esposto.

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ilparagone

Usciamo dall’euro per tornare a essere un paese normale

di Thomas Fazi

Unknown 10 1024x592Ormai, di fronte al fallimento sempre più conclamato dell’UE e della moneta unica e all’insofferenza sempre più diffusa nei confronti di quella che viene (giustamente) percepita come una camicia di forza che da troppo tempo sta soffocando l’economia italiana, l’unica argomentazione rimasta ai difensori dello status quo sembrerebbe essere quella per cui «le cose vanno male, è vero» – ormai neanche loro hanno più il coraggio di negarlo – «ma fidatevi, senza l’euro andrebbero anche peggio».

Un esempio da manuale di questa strategia sempre più disperata è un articoletto uscito l’altro giorno sul Sole 24 Ore a firma di Innocenzo Cipolletta, economista e dirigente d’azienda italiano, ex presidente delle Ferrovie dello Stato (2006-2010). Già dal titolo si intuisce che l’obiettivo dell’autore è uno solo, inculcare il terrore in chi legge: “COVID+lira = molta inflazione (e zero crescita)”. L’argomentazione di Cipolletta è semplice quanto prevedibile: se avessimo dovuto affrontare questa pandemia fuori dall’euro, cioè con la vecchia/nuova lira, «avremmo dovuto aumentare il nostro disavanzo pubblico per sostenere l’economia, come tutti gli altri paesi». A tal fine, continua Cipolletta, «la Banca d’Italia sarebbe stata indotta a comprare il debito italiano, ciò che avrebbe probabilmente tenuto bassi i tassi di interesse per un po’ di tempo, ma la lira si sarebbe immediatamente svalutata come sempre è avvenuto in passato». A quel punto «l’aumento dell’inflazione interna sarebbe stato automatico, visto che la svalutazione aumenta i costi di rimpiazzo delle nostre importazioni […]. Gli italiani avrebbero così perso, assieme al lavoro falcidiato dalla pandemia, anche potere d’acquisto e sarebbero stati più poveri». Insomma, conclude Cipolletta, «molto (ma molto) meglio abbiamo fatto noi ad aderire all’euro» e ad evitare così questo scenario da incubo.

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contropiano2

Mes o Recovery, comunque al guinzaglio

di Claudio Conti

Con un articolo in calce di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza

mes recovery guinzaglioLa settimana che si apre dovrebbe essere quella decisiva per quanto riguarda la strategia europea per il post-pandemia (ammesso e non concesso che ci si trovi in un “post” anziché in una pausa stagionale). Gli iniziali atteggiamenti ritardatari dei “paesi frugali” (“l’importante è fare bene”) sono stati improvvisamente accantonati su indicazione della cancelliera Angela Merkel, per sei mesi presidente di turno di tutta l’Unione Europea, che intende sfruttare anche questa occasione – e la crisi ne sta offrendo a decine – per imporre l’imprinting sull’Unione 2.0.

Cuore della discussione continentale è il Recovery Fund, ossia il fondo straordinario “per la ricostruzione” da aggiungere al normale bilancio europeo. 500 miliardi, come nella proposta iniziale di Merkel e Macron, e non 750 come poi proposto dalla Commissione guidata da Von der Leyen. Tanto per far capire chi è che comanda (nonostante anche la presidente della Commissione sia tedesca, ma con una composizione ovviamente più “pluralista”).

500 miliardi di “trasferimenti a fondo perduto”, vincolati a investimenti per effettuare precise “riforme strutturali” che l’Unione Europea pretende da ogni Paese non le abbia ancora compiute o completate. I dettagli non sono ancora stati resi noti, ci si è limitati ad evocare “svolte green”, rivoluzioni digitali, ecc. Ma sono pià che intuibili…

Per esempio, l’incontro tra Giuseppe Conte e il suo omologo olandese Mark Rutte ha provveduto a sgomberare il campo da ogni equivoco, visto che il boero ha consigliato all’”avvocato del popolo” di eliminare “quota 100”. Una battuta informale, certo – “quota 100” vale pochissimo, in termini di bilancio, e comunque doveva scadere nel 2021 – ma che indica con nettezza la direzione da prendere: i Paesi con alto debito pubblico, quelli euromediterranei, insomma, devono tagliare ancora di più la spesa sociale, a cominciare da quella pensionistica.

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sollevazione2

Il gioco tedesco

di Leonardo Mazzei

il giocoCi siamo già occupati della virulenta campagna politico-mediatica a favore del Mes che imperversa ormai da settimane nel nostro Paese. Abbiamo spiegato come la volontà di attivare questo meccanismo niente abbia a che fare con le enormi necessità economiche dell’Italia. Cosa c’è allora dietro a tanta foga, a tante falsità diffuse a piene mani dalle forze sistemiche? Ecco una domanda che può portarci lontano.

Ricapitoliamo anzitutto i termini della questione. Qualora attivato il Mes può fornire all’Italia un prestito pari al 2% del Pil, in soldoni 36 miliardi di euro. La propaganda vorrebbe farci credere che, a differenza di quello “vecchio”, il “nuovo” Mes sia privo di stringenti condizioni, ma – come abbiamo spiegato qui – ciò è falso. Al “nuovo” Mes si accede sì incondizionatamente, ma le regole statutarie di questa trappola ammazza-Stati scatteranno per statuto subito dopo.

Il Mes non è però figlio unico. Esso fa invece parte di un’allegra famigliola di tre pargoli generati dall’oligarchia eurista. Gli altri due fratelli si chiamano Sure e Recovery fund (adesso rinominato dalla fantasiosa anagrafe brussellese come Next generation EU). Secondo la narrazione prevalente delle èlite italiote, i tre fratelli (Mes compreso) sarebbero ormai pura espressione del bene, manifestazione quasi ultra-terrena di una solidarietà europea mai vista né conosciuta finora. Ed anche per i più prudenti, la generosa natura dell’ultimo nato, il Recovery fund, basterebbe comunque a bilanciare il proverbiale cattivo carattere del primogenito. Peccato che sia la solita menzogna, visto che il Recovery fund altro non è che un Mes più grande, dove al posto delle “condizionalità” ci sono le “riforme”. Il che, in linguaggio eurista, se non è zuppa è pan bagnato.

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Il braccino corto dell’Unione

di Antonio Lettieri

Le risorse messe in campo per contrastare gli effetti della crisi più grave del dopoguerra sono incomparabilmente minori di quelle varate da Stati Uniti o Giappone. Si continuano a seguire regole fallimentari: quando verrà chiesto all’Italia di tornare all’austerità, dovrà essere il nostro governo a prendersi la responsabilità di rifiutare

Conte Gentiloni300Ciò che maggiormente ci colpisce della pandemia del coronavirus è che conosciamo le conseguenze della malattia in molti, troppi casi irreparabili, ma non ne conosciamo il rimedio. La scienza medica ha bisogno di tempo. Il coronavirus c’impone in altri termini una fase più o meno lunga d’incertezza.

Non possiamo dire altrettanto delle sue conseguenze economiche. Conseguenze devastanti dal punto di vista sociale. Vi è un consenso sul fatto che si tratti della più grave crisi economica del dopo guerra. Il crollo dell’economia, la disoccupazione, il disagio sociale non si sono mai manifestati con altrettanta rapidità e ampiezza.

 

1. La pandemia ha investito l’intero pianeta e non ha risparmiato i paesi abituati a una condizione di benessere. La reazione dei governi è stata tuttavia diversa. Sono indicativi i casi degli Stati Uniti e del Giappone.

Negli Stati Uniti, Trump aveva inizialmente deliberato per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia un intervento di mille miliardi di dollari, un intervento manifestamente inadeguato. Il partito democratico ha imposto un investimento di risorse prossimo a 3000 miliardi di dollari. In sostanza, una mobilitazione di risorse pari a poco meno del 15 per cento del reddito nazionale. Per avere un termine di confronto, nel corso della crisi del 2008-2009, Paulson, ministro del tesoro di Bush, e poi Barack Obama, eletto alla presidenza, misero in campo 1500 miliardi per il salvataggio del sistema bancario e la ripresa dell’economia.

Ancora più significativo e stupefacente è l’intervento del governo giapponese che, avendo stanziato inizialmente risorse equivalenti a mille miliardi di dollari, nelle settimane successive le ha aumentate fino a un ammontare equivalente a 1700 miliardi – una dimensione equivalente a circa il 30 per cento del reddito nazionale giapponese.

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giuliopalermo

Debito pubblico e lotta di classe nell'Unione europea

di Giulio Palermo

image8987jLa crisi da coronavirus ha colto di sorpresa l’Unione europea. Quest’ultima era ancora alle prese con la crisi del debito pubblico iniziata nel 2009 e con un sistema bancario molto esposto su questo fronte. Nel campo dell’economia reale, poi, diversi paesi erano in recessione e, nonostante i livelli favorevoli dei tassi d’interesse, gli investimenti rimanevano compressi dalle basse aspettative di crescita e dalle difficili situazioni patrimoniali delle imprese. Sul mercato del lavoro, l’arretramento sul fronte dei salari e dei diritti, in un contesto di precarietà diffusa, non ha affatto stimolato la crescita — come promesso dalle ricette neoliberiste — ma, al contrario, ha compresso ulteriormente la domanda. Il blocco della produzione e le conseguenti tensioni sui mercati finanziari innescati dall’emergenza coronavirus si inseriscono in questo contesto di crisi preesistente.

Prima del coronavirus, l’Unione aveva affrontato la crisi del debito pubblico di singoli stati o, sarebbe più corretto dire, di singole banche. Nel caso della Grecia, ad esempio, la gestione della crisi da parte delle istituzioni europee fu un’abile manovra per salvare le banche francesi, tedesche e olandesi più esposte sui titoli del debito greco e far pagare tutto ai lavoratori greci. Perché una cosa è certa nei rapporti interni all’Unione: gli stati e i capitali nazionali non hanno tutti lo stesso ruolo e lo stesso peso. Dicendo di salvare lo stato greco, in realtà si salvavano le banche dei paesi europei più forti. Il tutto imponendo dure riforme contro i lavoratori greci redatte direttamente dalle istituzioni internazionali.

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italiaeilmondo

Attenti a quei due

di Giuseppe Germinario

merkel macron 300x168La videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione della von der Leyen al Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione Europea, almeno nelle intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità. Lo stile adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente. Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto alla ricorrente tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole e rozza retorica intrisa di lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del clamore di tanti precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una battaglia politica vera tra i vari paesi europei e all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle classi dirigenti più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha confermato una volta di più l’attendismo e la passività del ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli uni hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli altri hanno mostrato scetticismo sulla sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle procedure e ai canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per credere!

Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo.

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Senza la firma del Mes l’Italia non avrà più aiuti dalla Bce

L'ultima mossa tedesca

Federico Ferraù intervista Alessandro Mangia

Sarà la Banca centrale europea a determinare l’ingresso dell’Italia nel Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Ecco come

loL’Italia, grazie al governo Conte, entrerà – o meglio, dovrà entrare – nel Mes per non vedersi rifiutare gli acquisti di Btp dalla Banca centrale europea. È un rovesciamento di prospettiva: finora gli avversari del vincolo esterno si sono opposti al Mes contando sugli acquisti della Bce. C’è la Bce, dunque il Mes non ci serve. Ma se la Bce dovesse interromperli? Lo scenario è l’ingresso dell’Italia nel Mes come contropartita degli acquisti: il nostro paese dovrebbe entrare nel Meccanismo europeo di stabilità per consentire la prosecuzione degli acquisti illimitati. Con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, cominciamo dalla fretta che Christine Lagarde ha messo ieri alla Commissione. La presidente della Bce ha chiesto di approvare rapidamente il Bilancio 2021 e il Recovery Fund. Come dire, sbrigatevi, perché il gioco non può continuare.

* * * *

Da Lagarde è arrivata una sorta di “fate presto” con il Recovery Fund. È così decisivo?

Beh, decisivo per chi? Bisogna distinguere. Ci sono paesi messi meglio e paesi messi peggio. Noi, naturalmente, siamo tra quelli messi peggio. Se pensa che solo una settimana fa Visco ha preannunciato un calo del 13% sul Pil, si ha la misura della situazione.

 

Obiezione: a che cosa ci servono i prestiti di Recovery Fund e Mes se la Bce sta facendo gli “straordinari”?

A rigore non dovrebbe servire a nulla. La Bce sta facendo quello che avrebbe fatto la Banca d’Italia prima del divorzio Ciampi-Andreatta del 1981. Che è poi quello che stanno facendo tutte le banche centrali del mondo. Solo che lo deve fare di nascosto, coprendosi dietro cortine fumogene.

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micromega

Gli “aiuti” europei? Briciole

Per l'Italia una grande banca pubblica e la moneta fiscale

di Enrico Grazzini

Next Generation EU plan recoveryPer affrontare la gravissima crisi del coronavirus il governo italiano dovrà contare soprattutto sulle proprie forze senza attendere passivamente gli “aiuti” della Unione Europea. Se il governo Conte si affiderà al nuovo Recovery Plan, ridenominato Next Generation EU, rischia di morire in pochi mesi travolto da proteste e ribellioni sociali. Il grande rischio è che il piano di “aiuti” europei, il Next Generation EU, se verrà, arriverà troppo tardi e troppo poco per salvare l’economia italiana, che quest’anno potrebbe perdere anche più di 200 miliardi di PIL. Il governo Conte nutre delle aspettative eccessive sul “Piano di Rinascita” – come lo ha ridenominato Conte – proposto dalla Commissione UE. Le cifre vere si sapranno solo alla fine, ma molti indicano che il piano europeo è poco più che fumo negli occhi e che, anche nelle migliori delle ipotesi, non può risolvere i problemi dell’economia italiana.

Robero Perotti su Repubblica, Federico Fubini sul Corriere della Sera e Wolfgang Munchau sul Financial Times hanno cominciato a fare i conti (peraltro solo provvisori): ma tutti avvertono che il decantato Next Generation non è certamente manna dal cielo. È quantitativamente insufficiente per l’Italia e arriverà quando prevedibilmente la crisi del coronavirus sarà cessata da un bel pezzo.

L’unico vero incisivo sostegno viene e verrà dalla Banca Centrale Europea, che però può solo fornire nuova moneta di riserva alle banche e abbassare così gli interessi sul debito pubblico; ma non può – a causa dei vincoli del Trattato di Maastricht – dare soldi direttamente agli stati e all’economia reale, alle imprese e alle famiglie, e quindi non può portarci fuori dalla crisi.

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lafionda

La teologia della fissità ontologica*

di Alberto Bradanini

EU 2I problemi sono sempre politici, mai tecnici. La vita è un divenire, la sola cosa stabile al mondo è il cambiamento. Per gli antichi greci, progenitori del nostro sapere filosofico, la politica era un flusso, un animale instabile i cui spiriti ferini occorreva addomesticare affinché essa potesse servire i bisogni nobili dell’uomo, l’unico ente per il quale il futuro è indeterminato. 

L’Unione Europea – lo riconoscono persino gli indecifrabili difensori dei suoi misfatti – presenta ampi spazi di miglioramento, per usare un eufemismo. Essa produceva guai su guai anche prima dello scoppio dell’epidemia. Ora – dopo aver preso coscienza della finta operosità di quelle istituzioni davanti al crollo delle economie post-Covid e aver finalmente scoperto che nei Trattati istitutivi è assente ogni riferimento a un’Europa Federale – la disillusione di molti si va convertendo in un mesto disincanto. Sembra così evaporare l’effimera chimera di un’Europa politicamente unita, creatura immaginifica a lungo sopravvissuta nelle anime semplici degli abitanti al Sud delle Alpi, vittime di un’autoflagellazione sconsiderata, complessi di colpa per sprechi e inefficienze, che seppur innegabili non sono la causa del nostro declino. In Italia, tale fustigazione autoinflitta ha risparmiato alle oligarchie tedesche persino il fastidio di investire sulla tutela di quel marchio contraffatto chiamato Unione (si fa per dire) Europea. 

La ragione prima per la quale uno Stato Europeo degno di tal nome non vedrà mai la luce è l’assenza del demos, vale a dire di un popolo europeo, la cui linfa insostituibile – se fosse esistita – si sarebbe da tempo mobilitata per partorirlo.

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tempofertile

La mossa del cavallo. Francia e Germania, Ue e cronache del crollo

di Alessandro Visalli

ScacchiSi sta(va) allineando una tempesta perfetta. L’impatto economico della pandemia iniziava a mordere le economie europee, moltiplicando i disoccupati e rendendo necessarie ingenti spese[1]. La sfida strategica tra i grandi attori mondiali si stava scaldando, promettendo significativi rallentamenti strutturali del grado di interconnessione economica e difficoltà a tenere i piedi in tutte le scarpe, come piace al modello nordico[2]. La Corte Costituzionale tedesca, tra la costernazione generale, aveva buttato un martello nelle ruote dentate della macchina europea[3].

Questa tempesta agiva su una nave parecchio malridotta e peraltro anche mal progettata. Una nave da guerra che si proponeva come transatlantico, senza avere cabine per tutti, servizi adeguati e scialuppe di salvataggio all’occorrenza. Una nave che aveva recentemente subito la defezione della quota inglese dell’equipaggio e nel quale tra i ponti superiori ed inferiori non si cessava mai di litigare. Peraltro, assai poco funzionale anche come nave da guerra, dato che non sapeva dove voler andare e vagolava incerta in mezzo al mare, mentre gli ufficiali, chiusi nella loro stanza erano costantemente impegnati nei loro bracci di ferro.

Avevano costruito questa strana nave in mare aperto, varata come una semplice nave appoggio delle più solide flottiglie nazionali negli anni cinquanta (quando la guida della portaerei americana era indiscussa), ma si era via via allargata ma senza mai tornare nel bacino di carenaggio. L’unica volta che avevano provato a farlo i referendum di mezza Europa avevano fatto immediatamente desistere. Ma quando era passato il momento storico (il naufragio della flotta avversaria nel 1989), si era pensato di trasformarla in nave da guerra. Una nave da guerra che parlava di pace (ovvero un classico).