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Tramonto del neoliberismo
di I Diavoli
Una delle questioni più affascinati della storia delle idee è capire come una corrente minoritaria del pensiero economico, il neoliberalismo, sviluppatosi in Germania e Austria fra la prima e la seconda guerra mondiale, sia riuscita a conquistare negli ultimi decenni del XX secolo un ruolo egemone, nella vulgata degli studiosi e nelle politiche degli Stati. Tanto da giustificare l’idea di un “progetto”, o una manovra neoliberista, pervasiva al punto da determinare la vita d’ogni essere umano sul pianeta. Ma la questione di più scottante attualità è il tramonto di questa corrente insieme al suo ambizioso tentativo di dare luogo a un modello di civilizzazione alternativo e virtuoso.
Il libro
Il libro di Massimo De Carolis ha il grande merito di scandagliare in profondità – sulla scorta di altri pensatori, soprattutto il Foucault delle lezioni contenute in Nascita della biopolitica (Feltrinelli, 2005) – le origini di questa tendenza di pensiero per scovarne nella miopia teorica le cause del suo tramonto.
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Venezuela, l’opposizione si spacca e fa arrabbiare El País
di Gennaro Carotenuto
Dopo il gran tam-tam estivo il Venezuela è sparito dai giornali italiani. Eppure, nel giro di tre giorni, El País di Madrid, che da una ventina di anni sta alla versione ufficiale delle destre neoliberali sull’America latina come la Pravda stava al PCUS e all’URSS, e come tale merita di essere letto con la massima attenzione, ha pubblicato ben due articoli significativi di un cambiamento in atto. Questi infatti dimostrano grande frustrazione, e un filino di rabbia, rispetto al comportamento dell’opposizione venezuelana, appoggiata fino a ieri con trasporto nella sua lotta contro la “dittatura castrochavista” di Nicolás Maduro.
Il primo è firmato dal giornalista venezuelano Ewald Scharfenberg, di fatto corrispondente dalla capitale caraibica, il secondo è un editoriale del cattedratico argentino di stanza a Georgetown, Héctor Schamis, che da Washington è sempre stato durissimo con tutti i governi progressisti latinoamericani. Per entrambi l’opposizione sarebbe rea di non aver dato la spallata finale al regime chavista che, come ripetuto per mesi, era ormai cosa fatta.
In particolare per Schamis l’opposizione sarebbe incomprensibilmente più volte andata in soccorso del governo.
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Riflessioni sui bolscevichi
di Alexander Rabinowitch*
La Rivoluzione d’Ottobre e l’inizio della costruzione dello stato sovietico a Pietrogrado
E’ annunciata per il prossimo 14 settembre l’uscita del libro dello storico americano Alexander Rabinowitch “1917. I bolscevichi al potere” (Feltrinelli). Si tratta della riedizione di quello che è diventato ormai un classico tradotto in tutto il mondo della storiografia sulla rivoluzione russa già pubblicato in Italia nel 1978 dalla Feltrinelli. Nel 1989 fu il primo lavoro di uno storico occidentale sulla rivoluzione bolscevica a essere pubblicato in Russia con grande successo tra gli storici e i lettori (oltre 100.000 copie della prima edizione andarono rapidamente esaurite). Purtroppo è l’unico testo disponibile in italiano di uno dei più importanti studiosi della Rivoluzione del 1917. Dà l’idea di quale sia stato il clima culturale nel nostro paese negli ultimi decenni il fatto che dagli anni ’70 non siano stati tradotti gli altri suoi lavori, in particolare gli altri due volumi della sua trilogia sulla rivoluzione: Prelude to revolution e The Bolsheviks in Power: The First Year of Bolshevik Rule in Petrograd che nel 2007 uscì in contemporanea in edizione russa e inglese. Vi proponiamo la traduzione della conferenza che Alexander Rabinowitch ha tenuto presso la Humboldt University di Berlino il 14 ottobre 2010 in occasione della ripubblicazione in Germania del libro. (M.A.)
* * * *
Questa sera, voglio condividere con voi alcuni punti di vista sui bolscevichi, la Rivoluzione d’Ottobre e l’inizio della costruzione dello stato sovietico a Pietrogrado sviluppate durante quasi un’intera vita trascorsa a studiare i vari aspetti di questa materia ancora molto controversa.
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Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
Thomas Isler intervista Wolfgang Streeck
Il futuro, sostiene il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, appartiene allo Stato-nazione e non agli organismi sovranazionali. Solo all’interno degli Stati-nazione può essere esercitato un vero potere di controllo democratico
D: Signor Streeck, in Europa c’è ancora bisogno di singole nazioni, oppure è l’Unione Europea che deve risolvere i nostri problemi politici?
R: La democrazia moderna è nata dai conflitti all’interno degli stati nazionali. E fino ad oggi ha la sua patria (Heimat) negli stati nazionali. Al contrario, le organizzazioni internazionali sono dominate dagli esperti. Mancano di quella che chiamerei la dimensione plebea della democrazia.
D: Cosa intende con ciò?
R: La democrazia non è prerogativa di una classe colta, istruita, i cui membri si comportano in modo gentile e garbato tra di loro, e cercano di risolvere insieme i problemi. Anche quelli che stanno ai gradini inferiori della società devono poter alzare la voce e dire quello che vogliono.
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Capitalismo di Stato e normalità capitalistica ai tempi della crisi
di Alessandro Somma
Sino al crollo del Muro di Berlino il confronto tra capitalismo e socialismo aveva monopolizzato l’attenzione degli studiosi. Solo in seguito ci si è dedicati alle varietà di capitalismo, anche e soprattutto per promuovere la diffusione di quella più in linea con l’ortodossia neoliberale, da ritenersi oramai la normalità capitalistica. La crisi ha però incrinato molte certezze, tanto che alcuni hanno ipotizzato un futuro caratterizzato da un ritorno del capitalismo di Stato. Di qui uno dei tanti motivi di interesse per l’ultima fatica di Vladimiro Giacché: un’antologia degli scritti economici di Lenin introdotta da un ampio saggio in cui si sintetizza e commenta il percorso che ha portato a concepire il comunismo di guerra prima, e la nuova politica economica poi1. È in questa sede che si individuano alcuni punti di contatto tra le teorie economiche leniniane e la situazione attuale, alle quali dedicheremo le riflessioni che seguono.
Ci concentreremo inizialmente sullo scontro tra modelli di capitalismo e sulla possibilità di ricavare dal pensiero Lenin, pur nella radicale diversità dei contesti, alcuni spunti utili al dibattito. Verificheremo poi come attingere da quel pensiero per contribuire a un altro aspetto rilevante per la riflessione sulle varietà del capitalismo: la sua instabilità nel momento in cui prende le distanze dall’ortodossia neoliberale, ovvero l’assenza di alternativa tra il superamento del capitalismo e il ritorno alla normalità capitalistica.
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Il Complesso Militare Industriale di Trump
di Eva Golinger
Guerra nucleare con la Corea del Nord. Guerra fredda II con la Russia. Guerra sporca in Yemen. Guerra indefinita in Afghanistan. Guerra economica contro il Venezuela. Guerra retorica con l'Iran. Guerra dei muri con il Messico. Guerra razziale negli Stati Uniti.
Per essere il presidente che ha promesso "nessun intervento" e "l'America prima di tutto", in soli otto mesi Donald Trump è diventato il re delle guerre. E ditro c'è l'intero settore militare statunitense e le sue imprese miliardarie che sbavano alla prospettiva di espandere e ampliare il potere militare USA.
Per la prima volta nella storia contemporanea del paese, Trump ha militarizzato la Casa Bianca, piazzando i generali nelle più importanti posizioni del gabinetto presidenziale per le politiche di sicurezza e di difesa e demandando al Pentagono le decisioni dirette sulle operazioni di combattimento. Il suo capo di Stato maggiore, John Kelly, è un generale dei marines che per un breve periodo ha anche ricoperto la carica di Segretario alla Sicurezza nazionale di Trump - inasprendo le politiche antimigratorie – ed è stato anche a capo del Comando Sud dal 2012 al 2016, quando Washington ha intensificato la sua politica aggressiva contro il Venezuela.
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Nazionalizzare Google, Facebook ed Amazon. Ecco perché
di Nick Srnicek
Nella storia l’ economia ha cambiato pelle e così il Capitalismo. Nel ‘500 l’economia feudale lasciò spazio a quella mercantile; si formarono i primi Stati nazionali (Francia Spagna ed Inghilterra) in mano alle monarchie; le scoperte geografiche portarono questi Stati alla conoscenza di nuove merci, fondamentali le spezie e le pietre preziose, per l’accaparramento delle quali si iniziarono una serie di conflitti che portarono alla fondazione di innumerevoli colonie. Gli Stati appena fondati rivelarono il proprio imperialismo, tramite il quale un modello proto-capitalista faceva incetta di merci.
La prima Rivoluzione Industriale trasformò ancora il modello economico, fino ad arrivare alla odierna Rivoluzione digitale, che ha finito per colonizzare le nostre vite, le nostre menti.
Il testo che segue, è un’ analisi lucida dei meccanismi che il capitale odierno, quello delle Corporations digitali, utilizza per continuare a fare man bassa di profitti e di come si sia trasformata la merce stessa. Altrettanto lucidamente l’autore del libro, da cui è stato estratto il brano, ci mette al corrente del controllo e dello sfruttamento inconsapevole di cui siamo oggetto ogni giorno, ogni minuto che utilizziamo con i nostri onnipresenti dispositivi (smartphone, pc, tablet) social network o Rete. E dei pericoli a cui la società va incontro.
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Controllo sociale e governance della povertà
Note sull’introduzione del Reddito di inclusione in Italia
di Andrea Fumagalli
Il 29 agosto 2017 è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il Reddito di inclusione (REI). Si tratta di una misura nazionale di contrasto alla povertà, selettiva e condizionata. Si compone di due parti:
- un beneficio economico, erogato attraverso una Carta di pagamento elettronica (Carta REI);
- un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa “volto al superamento della condizione di povertà”, come dichiarato dal ministro Poletti.
In questa scheda presentiamo i requisiti richiesti, così come descritti dallo stesso ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale
Requisiti di residenza e soggiorno
Possono accedere al REI le seguenti categorie di cittadini:
- cittadini italiani
- cittadini comunitari
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Immigrazione: crisi ed ipocrisia della sinistra clintoniana italiana
di Ugo Boghetta
Con il cambio netto e repentino di linea politica sulla questione dei migranti da parte di Minniti, Gentiloni, Mattarella – poi santificato nell’incontro di Parigi – la sinistra clintoniana italiana si è trovata in una crisi imprevista. L’ideologia dell’accoglianza sempre e comunque non c’è più.
Un cambiamento di politica non nato, a mio parere, solo per un mero calcolo elettorale del PD, ma dalla spinta di apparati dello Stato che hanno ritenuto l’immigrazione di massa illegale non più gestibile.
In rapidissima sequela, sono scesi in campo Saviano, il manifesto, Ezio Mauro, Calabresi, Giannini, Ignazi, Maltese ed altri ancora. Non è mancato ovviamente l’intervento dell’ineffabile Boldrini.
Il tono è quello dell’indignazione moralisticheggiante: reato umanitario, inversione morale, emergenza morale, resa della civiltà, il dovere di rimane umani e cosi via.
Per costoro la regolamentazione delle ONG appare un reato morale. Per colpire gli scafisti, si sentenzia, si colpiscono anche coloro che salvano le vite. L’azione dei volontari, in quanto dettata dalla sfera della coscienza, sarebbe intoccabile.
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Note su “Lo Stato Innovatore” di Mariana Mazzucato
di Lorenzo Cattani
Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Roma – Bari 2016, pp. 378, 18 euro (scheda libro)
A 10 anni dall’inizio della crisi, appare ormai chiaro come l’economia del settore pubblico rappresenti sempre di più la chiave di volta per quei problemi, rimasti sopiti o ignorati fino alla recessione iniziata nel 2007, che stanno affliggendo i paesi occidentali. Negli ultimi l’opinione comune circa l’intervento statale era che questo avrebbe dovuto mantenersi ai margini dell’azione di governo, limitandosi alla garanzia della legalità ed alla “stabilizzazione” del mercato in momenti difficili.
Come sostiene brillantemente Mariana Mazzucato nel suo libro “Lo Stato Innovatore”, il pubblico non è un’entità inerziale, un carrozzone di poco valore che soffoca le forze del mercato, i cui eventuali “fallimenti” sono l’unica cosa di cui debba occuparsi. Lo Stato è invece il principale promotore dell’innovazione, un processo fondamentale per la crescita economica, caratterizzato però da una fortissima incertezza, la cosiddetta “incertezza di Knight”[1]. L’innovazione è quindi un processo su cui il capitale privato sarà disposto ad investire solo in una fase finale, quando saranno chiaramente visibili i ritorni finanziari. Il problema quindi è che, senza gli iniziali investimenti dello Stato, unico attore a sapersi realmente accollare grossi rischi e fornire “capitali pazienti”, non si potrebbe nemmeno dare il via a quel processo cumulativo e rischioso che è l’innovazione.
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Rivoluzione d’Ottobre e democrazia
di Domenico Losurdo
Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici.
Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)
L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia;
divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo averlo sconfitto.
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Nuove scritture working class: nel nome del pane e delle rose
di Alberto Prunetti
Primo antefatto. Respira e intona il mantra: «Class is not cool»
Un libro racconta la storia di un educatore precario, figlio di un operaio di una fonderia. Padre e figlio si incontrano a parlare il sabato pomeriggio allo stadio. Come viene descritto quel romanzo inglese in Italia? Come un libro sul calcio. Ma in realtà quel romanzo è un racconto sulla classe operaia. Sulla working class inglese, che notoriamente attorno alla birra, al pub e al football aveva costruito elementi di convivialità e socialità. Dopo la fabbrica, ovviamente, ma quella era già stata smantellata. Così in Italia si adotta come un libro sul calcio quello che invece è un romanzo che racconta una classe sociale. La working class inglese.
Guai infatti a parlare di classe operaia. Ripetere tre volte il mantra ad alta voce: la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste. Poi comprare su una piattaforma on line una penna usb assemblata in una fabbrica cinese e chiedersi quante decine di mani operaie toccano quel singolo oggetto da Shanghai a Piacenza.
Secondo antefatto. La servitù sta al piano basso, reparto «Sociologia»
Un’amica mi racconta un episodio curioso: entrata in una grande libreria di catena di Firenze, chiede una copia del mio libro Amianto, una storia operaia.
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Una discussione sull’immigrazione
Su cosa vale la pena insistere
di Alessandro Visalli
Ai piedi del post “Circa Emiliano Brancaccio “La sinistra è malata quando imita la destra”, ripreso da Sinistra in Rete con un titolo lievemente diverso, precisamente sotto quest’ultimo Fabrizio Marchi, direttore de L’interferenza, ha postato il seguente gradito commento:
“Partendo dall'ultima affermazione contenuta nel'articolo, se è vero che non si possono aiutare gli ultimi ad esclusivo danno dei penultimi, è altrettanto vero che non si può fare la guerra agli ultimi per "difendere" i penultimi …
Ergo, è necessario un lavoro molto paziente, lungo e difficile per spiegare sia agli ultimi che ai penultimi che le cause della loro condizione non sono determinate da loro stessi ma da altri, cioè dai veri padroni del vapore che hanno interesse a che ultimi e penultimi siano in competizione e si facciano la guerra. Mi rendo conto che è un lavoro lunghissimo e che non porta risultati immediati, però non c'è alternativa. Resto convinto che l'immigrazione sia solo un effetto, o uno degli effetti, del processo di espansione planetaria del capitalismo (quella che viene chiamata globalizzazione, processo in realtà in corso da secoli e oggi giunto alla sua fase apicale) e che quindi la riduzione dei salari e il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori autoctoni sia solo in modesta parte determinato dalla presenza di lavoratori immigrati. Le cause principali sono altre. La sconfitta storica del Movimento Operaio e della Sinistra nel suo complesso e il crollo del socialismo reale, hanno tolto di mezzo ogni ostacolo al capitalismo che è da trent'anni all'offensiva (dicasi guerra di classe, ma dall'alto) senza più nessun ostacolo.
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La filosofia politica che ci manca
di Pierluigi Fagan
In una lettera del 1951 a K. Jaspers, H. Arendt si interroga sul concetto di “male radicale” che aveva proposto all’interno della celebre indagine sulle Origini del totalitarismo. Confessa di non saper bene definirlo ma di avere la sensazione o intuizione che abbia a che fare con una riduzione dell’uomo a concetto, forse gli uomini hanno solo declinazione plurale e ogni loro singolarizzazione è una riduzione pericolosa, pericolosa perché taglia parti essenziali della loro stessa essenza irriducibilmente molteplice. Aggiunge di avere il sospetto che la filosofia non sia esente da colpe in questa riduzione ad unum e del resto il sospetto viene facile visto che la filosofia pensa appunto per concetti. A questo punto, specifica che questo non porta in conseguenza -come poi invece sosterrà Popper-, una discendenza diretta di Hitler da Platone ma induce a pensare che la filosofia politica occidentale sembra avere un punto cieco nel quale invece di avere un concetto puro della politica come attività che porta i plurali alla decisione singolare, ha sviluppato molti tentativi di singolarizzare la natura umana di modo che la decisione una, possa esserne dedotta in via logico-naturale dall’unità della presunta natura umana.
La filosofia politica occidentale, ha avuto due linee di sviluppo principali. La prima risale a Platone ed è la teorizzazione ideale di un modello di funzionamento della comunità, la seconda risale compiutamente a Machiavelli ed è una teorizzazione pratica dello stesso modello.
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I signori dei disastri
di Naomi Klein
Anche le crisi, guerre e disastri fanno bene al PIL. Le collusioni tra la politica e gli interessi economici derivanti dalle emergenze esplorate dalla Klein nel suo ultimo libro "No non è abbastanza! Come resistere nell’era di Trump".
«Dall’uragano Katrina alle crisi finanziarie,
alcune multinazionali statunitensi sfruttano
da anni le emergenze per imporre riforme
liberiste e fare enormi profitti, a spese dei
cittadini più poveri. Oggi i dirigenti di queste
aziende sono ai vertici dell’amministrazione Trump».
Nei viaggi che ho fatto per scrivere reportage dalle zone di crisi ci sono stati momenti in cui ho avuto l’inquietante sensazione non solo di assistere al succedere di un evento, ma di scorgere un barlume di futuro, un’anteprima di dove ci porterà la strada che abbiamo preso se non afferriamo il volante e non diamo una bella sterzata.
Quando sento parlare il presidente degli Stati uniti Donald Trump, che evidentemente si diverte a creare un clima di caos e destabilizzazione, penso spesso di avere già visto quella scena. Sì, l’ho vista negli strani istanti in cui ho avuto l’impressione che mi si spalancasse davanti il nostro futuro collettivo.
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Il diritto di avere diritti
di Alba Vastano
“Soffriamo di una cittadinanza oppositiva, nazionale, puramente identitaria, mentre dovremmo essere preparati a vivere in una nuova common, ove la persona è cittadina in qualunque luogo si trovi”
Nell’era della globalizzazione in cui siamo immersi è necessario rielaborare il concetto di diritto, svilito dalle trasgressioni sull’impianto costituzionale e dalla dilagante corruzione. Retaggi di un passato che si è fatto un insopportabile presente, in cui giustizia, vivere civile e diritti sociali umanitari sono spariti. Stefano Rodotà (già recensito in Solidarietà, utopia necessaria) da eccellente giurista e grazie alla sua passione civile, ci lascia in eredità, tramite i suoi scritti, gli strumenti per analizzare le questioni più importanti, legate al “diritto di avere diritti”, che è anche il titolo di un suo importante saggio.
Lo spazio e il tempo dei diritti
È un nuovo mondo. Viviamo in uno spazio sconfinato. L’era dei sans frontieres e della globalizzazione, l’era di internet. Può dare effetti collaterali, come lo spaesamento o l’agorafobia. Se ne può verificare il rigetto e il voler tornare alle frontiere, a confini ben delimitati o anche allo Stato nazionale, all’identità territoriale, allo spazio privato ove l’altro che viene da lontano, se lo oltrepassa, è considerato un invasore e va tenuto a distanza, ne dobbiamo diffidare.
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Non c’è emancipazione senza populismo
Tatiana Llaguno intervista Nancy Fraser
A seguito delle manifestazioni convocate dal movimento femminista contro l’investitura di Donald Trump, Nancy Fraser, attualmente professoressa di Filosofia e Politica presso la New School for Social Research di New York, firmò – assieme a molte altre, come Angela Davis e Rasmea Odeh – un appello per un “femminismo del 99%”, transazionale e anticapitalista. La sua scommessa cerca di costruire un femminismo maggioritario, inclusivo, che rifiuti la cooptazione neoliberale.
Con vari decenni di lavoro accademico alle spalle, durante i quali ha indagato questioni come la giustizia, il capitalismo ed il femminismo, Fraser è al giorno d’oggi una delle più riconosciute intellettuali del pensiero critico. Ferma nella difesa della strategia attuata da Bernie Sanders, critica su Hillary Clinton e in strenua opposizione a Trump, in questa intervista analizza nel dettaglio la situazione politica attuale, posizionandosi a favore di un “populismo di sinistra” che si opponga al “neoliberalismo progressista” e al “populismo reazionario”.
* * * *
Qual è la sua valutazione dei primi cento giorni del mandato del Presidente Trump? Cosa ci raccontano questi mesi sul suo progetto, i suoi limiti e le possibili resistenze?
Direi che ci segnalano due aspetti: da un lato, la facilità con la quale le correnti più convenzionali del Partito Repubblicano siano riuscite a frenarlo e a disarmare la dimensione populista della sua campagna.
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Fortini, la Cina di Mao e Solženicyn
di Ennio Abate
Replico ad un commento di Roberto Buffagni apparso sotto l’articolo “Migrazioni: punti di vista in contrasto” (qui). Lo riporto per comodità all’inizio del post. [E. A.]
Roberto Buffagni 17 agosto 2017 alle 13:57
Caro Ennio,
in breve:
1) Cina, Cambogia, Manifesto, Fortini. Non ho voglia di fare ricerche in biblioteca per documentare gli abbagli della “sinistra critica” sul compagno Mao e il compagno Pol Pot, ci sono e chi ha la nostra età se li ricorda. Fortini, che era una persona intelligente, di Pol Pot non si innamorò mai, della Cina di Mao sì, come attesta “Asia maggiore”, 1956, un diario di viaggio in Cina in cui Fortini, oltre a scrivere delle belle pagine impressionistiche su paesaggio della Cina e contadini cinesi, fa l’Alice nel Paese delle Meraviglie credendo a tutto quel che gli ammanniscono i suoi tour manager (il Céline non ancora fascista ma già scettico e scafato, in viaggio in URSS vent’anni prima, NON ci è cascato, probabilmente uno dei motivi per cui è diventato fascista è proprio quel viaggio). In quegli anni Cinquanta, uscivano sulla stampa capitalistica anglo accessibilissima a Fortini notizie di un paio di milioncini e mezzo di “nemici di classe” non meglio specificati appena sterminati a freddo dal compagno Mao dopo la guerra. Fortini non è il solo a sorvolare, c’è un interessante scambio di lettere tra Piero Calamandrei e suo figlio, allora giornalista dell’Unità che si occupava dell’Oriente, in cui Piero chiede notizia degli sterminati, se sia vero o no, o aggiunge che se fosse confermata la notizia sarebbe grave PER LE RIPERCUSSIONI PROPAGANDISTICHE favorevoli al campo avverso (Calamandrei non era neanche comunista, ma azionista).
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1973-2017, il collasso ideologico della “sinistra” francese (ed europea)
di Bruno Guigue*
Nel 1973, il colpo di stato del generale Pinochet contro il Governo di Unità Popolare in Cile provocò un’ondata di indignazione senza precedenti nei settori progressisti del mondo intero. La sinistra europea ne fece il simbolo del cinismo delle classi dominanti che avevano appoggiato questo “pronunciamiento”. Accusò Washington, complice del futuro dittatore, di aver ucciso la democrazia armando le braccia assassine dei militari golpisti. Nel 2017, al contrario, i tentativi di destabilizzazione del potere legittimo in Venezuela hanno raccolto nel migliore dei casi un silenzio infastidito, un sermone moralizzatore, quando non una diatriba antichavista da parte degli ambienti di sinistra, che si trattasse di responsabili politici, di intellettuali che godono di appoggi o di organi di stampa a grande tiratura.
Dal Ps all’estrema sinistra (ad eccezione del “Pôle de renaissance communiste en France”, che ha le idee chiare), si rimesta, si mette insieme capra e cavoli, si rimprovera al Presidente Maduro il suo “autoritarismo” il tutto mentre si accusa l’opposizione di mostrarsi intransigente. Nel caso migliore, si chiede al potere legale di fare dei compromessi, nel peggiore si esige che si dimetta. Manuel Valls, ex primo ministro “socialista”, denuncia la “dittatura di Maduro”.
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Un nazionalismo vestito di rosso
di Grant Evans e Kelvin Rowley
Grant Evans e Kelvin Rowley analizzano lo sviluppo dei movimenti comunisti in Vietnam, Laos e Cambogia e replicano alle affermazioni degli analisti occidentali, i quali hanno visto i conflitti fra questi tre paesi, successivi al 1975, come espressione di antagonismi “tradizionali”
Pubblicato per la prima volta nel 1984 e rivisto nel 1990, il libro di Grant Evans e Kelvin Rowley, Red Brotherhood at War: Vietnam, Cambodia and laos since 1975, esplora le cause dietro la guerra inter-comunista in Asia seguita alle riuscite rivoluzioni in Vietnam, Laos e Cambogia.
A detta di alcuni, tali eventi esprimevano la fine delle idee basate sull’internazionalismo socialista. Il New York Times pubblicava un editoriale intitolato “La fratellanza rossa in guerra”, nel quale annunciava con esultanza: “Questa settimana cantavano ‘L’internazionale’ in ogni angolo dei campi di battaglia asiatici, mentre seppellivano le speranze dei padri comunisti insieme ai corpi dei loro figli”. Le “speranze dei padri comunisti” potevano essere sintetizzate, dato che la guerra era causata dall’imperialismo capitalista, nel’auspicio che il socialismo internazionale avrebbe portato la pace. Questi ideali si ritrovano ora sconvolti dai nuovi conflitti che attraversano l’Indocina. Non c’è da sorprendersi se molti nella sinistra occidentale sono stati colti da confusione e disorientamento di fronte a simili sviluppi.
I tardi anni Settanta son stati l’epoca di quella che Fred Halliday ha definito Seconda guerra fredda. Ovunque in Europa, era la destra ad essere in ascesa, sia politicamente che intellettualmente.
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I vincitori scrivono la storia, non la verità
di Giovanni Dall'Orto
Dopo l’attentato nazista che a Charlotteville ha causato morti e feriti, sono stato inghiottito mio malgrado dalle polemiche per una questione marginale se non irrilevante, ossia l’oltraggio che ho espresso, in quanto storico, di fronte all’idea che sia “progressista” o comunque scusabile vandalizzare opere d’arte solo perché rappresentano personaggi “odiosi”, come un soldato del Sud nella Guerra di Secessione americana.
In quanto storico io vado in panico al solo sentire parlare di “distruggere” un documento, sia esso un testo o una statua. Mi viene subito in mente che anche i cristiani provavano un giusto oltraggio di fronte alle statue religiose dei pagani (che li avevano perseguitati per secoli) scolpite da Prassitele o Fidia, e le sfasciavano. Come questo volto di Afrodite, copia da Prassitele, sfigurato da un cristiano che incise la croce sul volto e il naso per cancellare un passato “ignobile”, a beneficio dei posteri.
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La complessità del fenomeno migratorio e le sue determinanti
di Alessandra Ciattini
Migrare è una tendenza umana spontanea o è frutto di specifiche determinazioni?
Il sito Italianieuropei, rivista della fondazione di area politica riformista, voluta da una serie di personaggi, tra cui spicca Massimo D’Alema, contiene un articolo sul fenomeno delle migrazioni, volto a rassicurare i lettori spaventati dalle migliaia di arrivi di profughi provenienti dal cosiddetto sud del mondo. Molto significativo è il titolo dell’articolo (Immigrazione: fenomeno inevitabile, sfida da vincere), i cui contenuti cercheremo di smontare con una serie di argomentazioni storiche, economiche e antropologiche.
Innanzi tutto, del tutto ingenui sono i punti di partenza dello scritto: “Spostarsi sul territorio è un fatto naturale della vita. I movimenti migratori sono stati uno dei principali motori del popolamento del pianeta e del suo sviluppo economico e sociale”.
La prima constatazione tende a mettere sullo stesso piano i vari tipi di migrazione, che hanno alla loro base motivazioni assai diverse, come per esempio il passaggio dello stretto di Bering di uomini provenienti dall’Asia e diretti in America, avvenuto durante l’ultima era glaciale (situata in epoche diverse dagli studiosi), e la tratta degli schiavi (non solo africani), che analogamente produce spostamenti, in questo caso indesiderati, di popolazioni.
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Sinistra senza popolo
L’onda populista (e il fallimento delle élite) secondo Luca Ricolfi
di Damiano Palano
Nel suo recente Non è una questione politica (Italosvevo, pp. 67, euro 10.00) Alfonso Berardinelli si pone un interrogativo sulla scelta di adottare il termine «populismo» per indicare quegli attori che negli ultimi due decenni hanno sfidato i partiti tradizionali. «Mi chiedo da anni chi è che ha deciso di chiamare ‘populismo’ ogni fenomeno politico che incontra il favore crescente dei cittadini», scrive infatti il critico (affrontando un nodo che, a dispetto del titolo del volumetto, è ovviamente ‘politico’). E la risposta che suggerisce è molto semplice: «Ho detto ‘mi chiedo’. Invece c’è poco da chiedersi, perché si sa già. Da quasi un quarto di secolo una sinistra che ha perso il ‘senso della storia’ (per dirla con una sua vecchia formula), che ha perso la sintonia con quanto avviene nelle nostre società e coccola invece le minoranze snob prendendo per diritti i loro desideri, se la prende con la volgarità del ‘popolo’» (p. 16). E, in termini ancora più espliciti, ciò significa per Berardinelli che la sinistra non rappresenta più quelle classi sociali di cui era stata (o aveva preteso di essere) il principale referente. «Se la sinistra non rappresenta né le classi lavoratrici né i ceti medi proletarizzati, allora vuol dire che rappresenta i mendicanti e l’alta borghesia. Solo che i mendicanti non ce li vedo a sentirsi rappresentati dal ceto politico di sinistra.
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Dagli Appennini all'Atlante: propaganda, cambio e autorazzismo
di Alberto Bagnai
Come sapete, uno dei temi portanti della mia ricerca, forse il più rilevante in chiave di riflessione politica, è l'indagine sulle cause dell'autorazzismo: quella porca rogna italiana di autodenigrarsi, autentico cancro che corrode la nostra capacità di elaborare strategie coerenti sia sul piano interno, che su quello internazionale. Ci ho scritto un libro (L'Italia può farcela), ne ho discusso qui con voi, a lungo, senza giungere a conclusioni definite. D'altra parte, un fenomeno così devastante non ci si può aspettare che abbia un'unica causa: più facile che abbia molte concause. Col passare del tempo, visto anche la particolare pervicacia dello schieramento progressista nell'aggredire indiscriminatamente gli italiani tout court (inclusa quindi quella maggioranza di lavoratori che i progressisti pretendono di tutelare), mi ero fatto un'idea su quale potesse essere la causa prevalente. L'Italia, va detto, è uno strano paese: il paese in cui una parte degli abitanti si gloria di aver vinto una guerra che in effetti il paese ha perso (sì, parlo della Seconda Guerra Mondiale). Ora, è chiaro che questa mitologia (oggi si dice "narraFFione") non può sostenersi che sulla asserita superiorità etnica dei vincitori rispetto al resto della popolazione, gli sconfitti. D'altra parte, i pretesi vincitori erano partiti bene, dando dei "mandolinisti" alla compagine nazionale. Come volete che finisse?
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L’alternanza scuola lavoro: un’analisi critica
a cura dell'USB P.I. Scuola
Pubblichiamo di seguito un documento di analisi e prospettive sull’Alternanza Scuola Lavoro
Il documento, frutto del lavoro collettivo svolto nel corso dell’ultimo anno scolastico, inquadra l’Alternanza Scuola Lavoro all’interno del più generale processo di asservimento della scuola alla logica di mercato, così come si sta realizzando in tutti i Paesi europei e prova a ipotizzare delle strategie di resistenza e risposta a questo nuovo dispositivo obbligatorio, che riteniamo estremamente pericoloso.
L’ASL infatti, oltre a creare manodopera gratuita minorenne, punta a modificare il modo stesso di pensare e pensarsi degli studenti e del corpo docente, con l’evidente scopo di formare manodopera più meno specializzata che sposi una idea di mobilità professionale e geografica estrema e che si abitui fin da subito alla logica della precarietà e della mancanza di diritti.
Siamo convinti che la ASL non sia riformabile, ma che debba essere combattuta nelle scuole e nei luoghi di lavoro, dove ha la potenzialità di trasformarsi in una sottrazione di posti di lavoro per il personale retribuito e che debba essere rigettata dagli studenti stessi, oggi costretti a svolgerla perché inserita in modo obbligatorio nell’Esame di Stato.
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