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Profughi sgomberati a Roma: partita la campagna elettorale del governo
di Fabrizio Marchi
Lo sgombero dei profughi (che siano rifugiati politici o immigrati per ragioni di mera sopravvivenza è, per quanto mi riguarda, del tutto irrilevante) che occupavano dal 2013 l’edificio di Via Curtatone, di proprietà di una immobiliare, la Idea Fimit, è una chiara operazione elettorale.
Era scontato infatti che la suddetta operazione, avvenuta in pieno centro di Roma, condotta peraltro anche con una certa dose di “teatralità”, diciamo così, da parte della polizia, sollevasse un grande polverone mediatico. E molto probabilmente era proprio quello che si voleva. Si potevano concordare delle soluzioni prima dello sgombero e non è stato fatto. Il balletto e il rimpallo delle responsabilità fra i vari enti, Comune, Regione, Governo, e fra le varie forze politiche dopo lo sgombero e le polemiche che ne sono seguite, è ridicolo.
Il governo Gentiloni – quindi il Partito Democratico – ha deciso di dare un segnale alla “pubblica opinione”, cioè alla “pancia” del paese e di fare concorrenza alla Lega di Salvini, al centrodestra nel suo complesso e anche al M5S che ormai da alcuni mesi a questa parte, specie dopo la debacle della ultime elezioni amministrative, ha dato anch’esso una sterzata a destra, specie in tema di immigrazione.
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“Lavoro mentale e classe operaia”, di G. Carchedi
Quali insegnamenti trarne
di Andrea Martocchia
È stato possibile quest’anno annoverare il saggio di Carchedi tra le migliori letture ferragostane. La prima virtù, formale, del testo sono la sintesi precisa ed il linguaggio asciutto utilizzati, tipici della trattazione scientifica. E usando questo attributo un po’ misterioso veniamo subito ai contenuti dello scritto, che ha l’ambizione ed il merito di affrontare da un punto di vista marxista il tema del carattere di classe della conoscenza, e (cioè) della scienza, e l’impegnativo argomento del lavoro “di trasformazione mentale”. Su questo l’Autore va subito al sodo ed anzi, sgomberato presto il campo da alcune concezioni sbagliate e precisati i concetti fondamentali, si inoltra su terreni ulteriori, ancor più avanzati e inesplorati tentando “un’analisi marxista di internet” ed analizzando le caratteristiche del lavoro di chi presta la propria opera in ambito informatico. (1)
I conti con l’operaismo
Gettando nuova luce su tematiche finora affrontate male, quantunque sempre troppo poco rispetto al necessario, il saggio di Carchedi bonifica il terreno dagli equivoci e dalle concezioni sbagliate derivanti dalle correnti di pensiero dell’operaismo
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Uscire dal lavoro?
Intervista con Anselm Jappe
Innanzitutto sgomberiamo il campo da un’ambiguità: i pensatori legati alla Critica del valore (Wertkritik) vengono spesso tacciati di “teoricismo”, forse per il testo seminale del gruppo Krisis, il Manifesto contro il lavoro (2002). Una facile obiezione consiste nel dire che, in teoria, si può certo congedare il lavoro, ma la realtà sociale ben presto ci rimette al lavoro. Che cosa rispondi a questo genere di critiche?
Non si può dire che il Manifesto contro il lavoro sia stato “seminale”. In Germania è stato pubblicato nel 1999, una dozzina di anni dopo il primo numero della rivista Krisis. Piuttosto, è stato il primo testo del gruppo a raggiungere un vasto pubblico – e il primo a circolare in Francia. Secondo me, tuttavia, presenta qualche lacuna che riflette certe indecisioni di allora, soprattutto la propensione di una parte del gruppo a considerare la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie come la base possibile dell’emancipazione sociale.
Fin dall’inizio, quello che mi ha interessato nella Critica del valore è la volontà di assumere una posizione teorica che cerca di rifondare la critica sociale dalle sue stesse basi, mentre la tendenza più diffusa a sinistra consisteva nel sostenere che la teoria dovesse mantenersi in una posizione ancillare rispetto ai movimenti sociali (che si trattasse del movimento anti-nucleare, del femminismo, del terzo-mondismo, ecc.).
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Potere, moneta e crisi. Le vere incognite dell’economia 4.0
di Andrea Pannone1
Come giustamente evidenziato da Pierfranco Pellizzetti su questo sito, l’attuale dibattito sullo sviluppo dell’industria 4.0 è pervaso (non certo solo in Italia) da una insopportabile retorica, che finisce per bollare “come reazionaria ogni pur timida obiezione alla funzione economicamente apprezzabile e socialmente meritoria della robotizzazione”2. Tale retorica è solo mitigata dalle preoccupazioni sui rischi di perdita definitiva delle opportunità di lavoro, specie per coloro che non sapranno adeguare velocemente i propri skill al processo di introduzione delle nuove macchine3. Preoccupazioni che si traducono in una comprensibile richiesta allo Stato di misure capaci di alleviare le difficoltà di soggetti e famiglie particolarmente colpite dal fenomeno (ad esempio reddito di base, reddito di cittadinanza, ecc.). Ad ogni buon conto, la discussione sul tema, prescinde quasi del tutto da come potranno essere distribuiti gli eventuali benefici dell’innovazione all’interno delle società moderne; distribuzione che dipende essenzialmente da come sono declinati i rapporti di potere tra capitale e lavoro all’interno del processo produttivo. Questo saggio prova a colmare questa lacuna, cercando di sviluppare l’analisi alla luce dell’attuale fase di debolezza delle economie capitalistiche.
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Servitù e padronato
Contratto sociale e repressione salariale in Italia
Domenico Cortese
Qualche giorno fa è stato reso pubblico uno di quei dati che per chi è nato negli anni ’80 o ’90 è tutto fuorché sorprendente: secondo l’Istat, a Giugno
i dipendenti a termine (leggi precari) hanno toccato quota 2,69 milioni, il valore più alto da quando sono disponibili le serie storiche. Ma la vera impresa è viverci, con quel lavoro. Perché i figli dei baby boomer guadagnano, in media, il 36% in meno dei padri.[1]
Nell’epoca della massima libertà data alla circolazione delle merci, dei capitali e delle persone (per il volgo, “globalizzazione”), in cui il potere di negoziazione di chi può delocalizzare e assumere un impiegato sottopagato del Sud-Est Asiatico è ai massimi storici, questi dati non sono in effetti sorprendenti. Ciò che è sorprendente, piuttosto, è che nell’epoca della rivoluzione digitale e dello sviluppo esponenziale delle tecnologie ciò che stiamo vivendo è soprattutto un crollo della qualità dei lavori disponibili. Le indagini Ocse attraverso «l’analisi dei dati sull’inchiesta internazionale delle competenze della forza lavoro adulta (PIAAC) ci confermano come lo “skill premium” ovvero la remunerazione delle competenze, è molto basso in Italia».[2]
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Note sui significati di "libertà" nei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel
di Vladimiro Giacché
1. Premesse generali
Negli ultimi anni, dopo decenni di preminente attenzione alle implicazioni della filosofia hegeliana del diritto sul terreno delle dottrine politiche e delle teorie della società, il panorama delle interpretazioni è venuto gradatamente mutando. Volendo dare conto delle principali novità interpretative, se ne possono indicare in particolare due: da un lato l’accresciuto interesse per il rapporto tra i Lineamenti di filosofia del diritto e la Scienza della logica e nei confronti di quelle che potremmo definire come le “costanti logiche” che operano all’interno della filosofia hegeliana del diritto i; dall’altro, il tentativo di leggere i Lineamenti hegeliani sul metro di una filosofia dell’azione, cercando non di rado di porre il pensiero di Hegel a confronto con i più recenti indirizzi teorici, manifestatisi soprattutto in ambito anglo-americanoii. Per motivi in parte differenti, entrambe queste nuove e feconde direzioni di lettura hanno portato con sé la necessità di fare i conti, più seriamente che in passato, con i paragrafi introduttivi dei Lineamenti (§§ 1-32), nei quali Hegel ci offre, come recita l’indice dell’opera, il “concetto della filosofia del diritto, del volere, della libertà e del diritto”. Per chi voglia, più in particolare, trattare la concezione hegeliana della libertà del volere, l’esigenza di affrontare direttamente i nodi teorici e le distinzioni di significato proposte nei primi paragrafi dei Lineamenti è sicuramente ineludibile.
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La parola “sinistra"
di Edoardo Salzano e Enzo Scandurra
Una tesi sulla Sinistra, di Edoardo Salzano, e un dialogo tra Salzano ed Enzo Scandurra. La discussione è aperta, anche nei commenti in calce al testo
Premessa
La parola “Sinistra” viene adoperata in modo ricco di molteplici ambiguità. Abbiamo avviato una riflessione per comprendere quale significato possa assumere in una situazione – quella di oggi – radicalmente diversa di quella del secolo in cui quell’espressione ebbe maggior fortuna. Una parola che comunque continua a costituire un riferimento per gli immaginari e le strategie di oggi.
Abbiamo iniziato a ragionarne con un articolo di Edoardo Salzano, dal titolo “La parola sinistra”, scritto nel luglio 2017 in replica a uno scritto di Enzo Scandurra, e abbiamo proseguito con un dialogo tra Salzano e Scandurra. Pubblichiamo oggi l’articolo originario di Salzano, con il titolo “una Tesi”, e il successivo dialogo tra Salzano e Scandurra, con il titolo “un Dialogo”. La pubblicazione di questi due testi vuole essere lo stimolo ad aprire un dialogo più ampio.
* * * *
Una tesi
di Edoardo Salzano
Quando si parla di “sinistra ci si riferisce generalmente, in Italia, quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo.
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Dovete morire prima. L’accelerazione di Maroni
di Redazione di Contropiano
Scorrendo i dati sul calo demografico della popolazione residente in Italia ci è capitato di ritrovare, nel nostro confuso archivio di appunti, un articolo apparso tre mesi fa su Il Fatto Quotidiano. L’autore, Vittorio Agnoletto, non è in cima ai nostri sogni come leader politico – ci è sembrata più che sufficiente la stagione di Genova 2001, in tandem con Bertinotti – ma è certamente un medico esperto. Quindi, quando analizza il sistema sanitario e i vari progetti di riforma, va preso molto sul serio.
In questo articolo coglie le infamie principali della “riforma sanitaria” in via di applicazione, ormai, nella Regione Lombardia e voluta da Roberto Maroni, la Lega e Forza Italia, ben supportati da tutta l’estrema destra che tanto dice di voler difendere “gli italiani”.
I punti principali sono più che evidenti:
a) Non sarà più un medico a decidere come dovrà essere curato un “malato cronico” rientrante delle 65 tipologie individuate dal legislatore regionale. Questo ruolo passa a un “gestore” – un ente o una società, che potrà gestirne fino a 200.000 – cui la stessa Regione affiderà un budget pro capite cui attingere per analisi,diagnosi, cure, ricoveri, ecc.
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Senza confini
di Lanfranco Binni
A presente memoria, è utile rileggere oggi l’ultimo articolo pubblicato da Luigi Pintor su «il manifesto» del 24 aprile 2003, sul «quotidiano comunista» che proprio in questi giorni ha espulso dalle sue colonne (in silenzio, senza un minimo accenno di dibattito) la voce della sua migliore esperta di America latina, Geraldina Colotti, colpevole di sottrarsi, da «comunista non pentita», alla criminalizzazione della rivoluzione chavista (con tutte le sue complesse criticità) e ai tentativi di applicazione del modello Siria alla società venezuelana. L’articolo di Pintor aveva come titolo Senza confini: un pressante appello, dall’interno della sinistra eretica del comunismo italiano, a cambiare radicalmente visioni e pratiche di lotta politica. Lo riproduco integralmente dal volume postumo di scritti di Luigi Pintor, Punto e a capo (Roma, il manifesto-manifesto libri, 2004).
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena.
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L’UE clona se stessa in Africa Occidentale e si dedica a saccheggiare la regione
di Bill Mitchell
Quello che si può dire con certezza dell’EPA – l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Africa Occidentale – è che è straordinariamente poco conosciuto. I mass media non si preoccupano di spiegare che un gruppo di stati tra i più poveri del mondo sono stati – volenti o nolenti – inclusi in un accordo commerciale con l’Unione europea che li costringe a condizioni svantaggiose, riproducendo – in un contesto di povertà ben più drammatico – regole fiscali assurde sul tipo di quelle imposte agli Stati membri dell’Eurozona. L’economista Bill Mitchell espone sul suo blog i risultati dell’analisi dell’EPA realizzata dall’organizzazione indipendente svedese CONCORD: questo trattato non è coerente con gli obiettivi di sviluppo dell’Africa Occidentale, e ha conseguenze addirittura opposte, intrappolando un gruppo di nazioni per la maggior parte già poverissime in una crescita bassa e discontinua e perpetuando le condizioni misere delle popolazioni
In un post recente – Se l’Africa è ricca – perché è così povera? – ho preso in esame la questione del perché le risorse che rendono ricca l’Africa non siano state impiegate per il benessere della popolazione indigena che vive sul posto. Abbiamo visto che la povertà in Africa dilaga, benché sia evidente a chiunque che il continente è abbondantemente ricco di risorse. La risposta a questo paradosso è che la rete di aiuti per lo sviluppo nonché la supervisione messe in atto dalle nazioni più ricche e mediate da enti come FMI e Banca Mondiale possono essere viste più come un gigantesco aspiratore, ideato per risucchiare risorse e ricchezza finanziaria dalle nazioni più povere, con sistemi legali o illegali, a seconda di quali generino i flussi maggiori. Così benché l’Africa sia ricca, la sua interazione con il sistema monetario e di commercio mondiale lascia milioni dei suoi abitanti in condizioni di povertà estrema – non in grado di procurarsi neppure il cibo per vivere. L’accordo di libero scambio (EPA) tra l’UE e gli stati dell’Africa Occidentale è una di queste istituzioni-aspiratore.
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Fiscal Compact, un appuntamento da non mancare
Roberto Romano
In autunno l’UE dovrà aprire una discussione sul Fiscal Compact per valutarne l’efficacia e farlo diventare diritto comunitario. Potrebbe essere l’occasione per rivedere le politiche adottate e portare tutta l’Europa oltre Maastricht
L’Unione Europea ha mostrato nel corso della sua storia una serie di vincoli politici, istituzionali ed economici che ne hanno limitato il suo sviluppo; questi limiti sono diventati manifesti soprattutto con la crisi economica del 2007. L’Europa nel tempo, purtroppo, è diventata una istituzione burocratica che al limite coordinava o indirizzava le politiche economiche e sociali, con degli obiettivi che diventavano sempre meno credibili in assenza di una politica pubblica nel senso stretto del termine, in particolare se consideriamo i “principi”, le “norme” e le “regole” che sottendono l’economia pubblica e i suoi tre campi d’azione tracciati da Musgrave[1], così come i così detti fallimenti del mercato sottesi all’economia del benessere (V. Pareto[2]) ripresi in molti testi di economia pubblica[3]. Il trattato di Maastricht (1992), con tutte le sue imposizioni su deficit, debito e inflazione, determina dei vincoli esogeni, ma in nessun modo prelude ad una politica economica almeno federale. Sebbene il clima culturale degli anni ottanta abbia cambiato l’orizzonte e il target dell’intervento pubblico con “nuove” parole d’ordine – semplicità e neutralità – come nuovi principi fondamentali da privilegiare rispetto all’equità[4], è comunque altrettanto vero che la politica pubblica indirizza il sistema economico verso la realizzazione di determinati obiettivi (maggiore o minore concorrenza), così come la politica fiscale (finanziaria) e l’insieme delle tasse e dei tributi, e la gestione e l’impiego delle risorse finanziarie[5].
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"O inventamos o erramos"
Sulla situazione in Venezuela
di Geraldina Colotti
Dall'Italia alla Francia, dalla Spagna all'America latina si moltiplicano le analisi dei “critici-critici” sulla situazione in Venezuela. Si avverte, soprattutto in Italia, l'affannosa ricerca dell'aurea mediocritas da parte di una certa sinistra piccolo-borghese: l'assunzione di quell'aurea via di mezzo che consente, da una posizione intermedia, di cogliere la pagliuzza negli occhi degli altri per non vedere la trave nei propri. Contro il socialismo bolivariano, ognuno agita i propri fantasmi rimettendo in circolo, spesso senza nominarli, dubbi e nodi irrisolti delle grandi rivoluzioni. Ma intanto, anche se “Maduro non è Chavez”, come ripetono come un mantra i cantori dell'”aureo mezzo”, i nemici che deve affrontare sono gli stessi che ha dovuto combattere Chavez. Maduro, se è per questo, non è neanche Allende ma – come ha fatto notare l'analista argentino Carlos Aznarez – le forze che vogliono abbatterlo sono le stesse, mutatis mutandis, che hanno stroncato la “primavera allendista” nel Cile del 1973.
Anche al “socialismo del XXI secolo”, dunque, che si definisce umanista, cristiano, libertario e gramsciano, tocca misurarsi con gli scogli di quello novecentesco, disseminati su una rotta che appare per molti versi simile.
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Meditazioni sul giornalismo italiano dopo l’evento del Brancaccio
di Salvatore Cingari
Abbiamo passato anni a denunciare l’uso tossico dei mezzi di informazione da parte di Berlusconi: ma la malattia era ed è ben più generalizzata. Il tg1 della sera di domenica 18 giugno ha parlato del Venezuela come di un paese sull’orlo della dittatura per colpa dei chavisti, persecutori di eroici oppositori innamorati della democrazia. Nello stesso programma l’evento del Brancaccio promosso da Tomaso Montanari e Anna Falcone è stato rappresentato molto sinteticamente come il raduno della sinistra che non vuole stare nel Pd, identificata quindi, sostanzialmente, dalla sua divisività incarnata dai fischi a Gotor. Subito dopo un’intervista a Romano Prodi, che al Brancaccio non c’era neppure. Niente (dicasi niente) riguardo alla linea politica dichiarata da Montanari e dagli altri intervenuti. Nulla sul programma (aliquote fiscali, patrimoniale, Stato sociale, articolo 18, etc..), sulla chiara e netta disamina della lotta politica in Italia. Ma, lo si sa, la televisione è bene non guardarla.
Si sarebbe potuto capire di più leggendo il trafiletto che “Repubblica” (il giornale che ha educato generazioni di soggetti della sinistra liberal all’insegna dell’indignazione per la manipolazione berlusconiana) dedicava lunedì all’assemblea sulla Democrazia e l’eguaglianza? No. Niente di più del servizio del TG1.
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Ascesa e caduta del nuovo secolo “americano”
Potremo approfittarne? Sapremo approfittarne?
di Giancarlo Paciello
Premessa
Come si dice? Molta acqua è passata sotto i ponti (e a Roma è riuscita a farlo nonostante la scarsa attenzione riservata al biondo Tevere dai suoi amministratori, di destra e di sinistra!), e, dopo la caduta dell’U.R.S.S. anche la situazione internazionale è cambiata radicalmente, se si pensa che dal 1991 ad oggi ci sono state: due guerre del Golfo, seguite da un embargo micidiale per la popolazione irachena, la guerra (e la relativa distruzione) della Jugoslavia, il crollo delle torri gemelle, la guerra in Afganistan, la guerra in Iraq e, last but not least, l’attuale crisi economica mondiale. L’intento di questo articolo e quello di provare a fornire un quadro sintetico della situazione attuale (e scusate se è póco! direbbe un comico pugliese), con specifico riferimento alla crisi degli U,S.A. cui sembrava toccasse un secolo, il ventunesimo, tutto intero e che forse dovranno accontentarsi di “spartirlo” , fin da subito, con altre potenze in lotta per l’egemonia mondiale. Per non parlare dell’opinione di quell’esperto cinese di relazioni internazionali all’università Fudan che ha dichiarato di recente: “il nostro problema, nell’immediato, è come impedire che il declino dell’America avvenga troppo presto”.
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La forma politica del vuoto
Il «populismo 2.0» secondo Marco Revelli
di Damiano Palano
Un paio d’anni fa, in Dentro e contro. Quando il populismo è di governo (Laterza, Roma – Bari, 2015), Marco Revelli forniva una lettura delle dinamiche che avevano condotto Matteo Renzi a Palazzo Chigi e dunque alla nascita di una sorta di inedito «populismo istituzionale». Nell’introduzione a quel volume, guardando ai primi due anni di governo dell’ex sindaco di Firenze, Revelli formulava anche una previsione, che intravedeva già nell’immediato futuro il profilarsi di difficoltà che avrebbero potuto rendere effimeri i successi renziani: «la marcia si è fatta, col tempo, meno trionfale. Le fragilità culturali e i difetti di carattere hanno scavato in quel piedistallo di consenso che le elezioni europee gli avevano regalato. Lo stesso partito che aveva scalato per scalare il paese si va facendo ogni giorno più volatile ed evanescente, man mano che la leadership carismatica si attenua e stenta a funzionare come polarità aggregante dall’alto, mentre i potentati locali vanno assomigliando a premoderne marche di confine. È comunque ipotizzabile, visti i cattivi venti che spirano dall’alto d’Europa, che il suo cammino – sia pure più tortuoso e impervio – continui, sostenuto da un’oligarchia sovrana ancora potente e, a livello continentale, ancora scarsamente contrastata. Oppure è possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo Renzi non riesca a portare in fondo il proprio progetto per sedersi infine sul trono che si è costruito.
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Su Emiliano Brancaccio e la malattia della sinistra
di Alessandro Visalli
L’economista marxista Emiliano Brancaccio è da molti anni uno dei più coerenti e determinati critici dell’assetto delle cose, con il tempo ha guadagnato, dalla sua cattedra periferica a Benevento, una certa capacità di intervento nella sfera pubblica, anche su testate rilevanti come L’Espresso (o il Sole 24 Ore). È il caso di questo intervento agostano, nel quale costruisce un sillogismo piuttosto schematico:
1. se la sinistra di governo si è in passato schiacciata sul liberismo (inseguendo la svalutazione del lavoro, la liberazione dei capitali e la riduzione del ruolo dello stato in economia),
2. e se lo ha fatto in cerca di una identità (suppongo dopo il crollo dell’identificazione con il socialismo, più o meno “reale”), “scimmiottando l’avversario”,
3. allora anche oggi la tendenza a introdurre elementi di critica alla piena liberazione dei flussi di emigrazione dai paesi poveri del mondo è solo un’altra manifestazione di questa “tentazione”. Quella di andare dietro questa volta alla “destra xenofoba” (l’altra volta a quella tecnocratica neoliberale), emulandola.
Insomma, la sinistra sarebbe in crisi perché attua politiche di destra e si dimentica di essere se stessa.
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In difesa del marxismo
di Dino Greco
Dino Greco sottopone ad esame critico il breve saggio Sinistra transgenica pubblicato giorni or sono su SOLLEVAZIONE. Fedeli alla massima che per cambiare occorre agire, ma prima di agire occorre pensare, siamo ben lieti di consegnare la critica di Dino ai nostri lettori
Cari compagni,
scusandomi per l’eccessivo schematismo provo a mettere in fila alcune considerazioni sul breve ma importante saggio di Moreno Pasquinelli, “Sinistra transgenica”, che mi pare contenga il nocciolo duro, il fondamento teorico e il presupposto politico della Confederazione per la Liberazione Nazionale (CLN).
Rovesciando l’ordine del discorso di Moreno, comincio dal tema “cruciale” che per me come per voi è il progetto su cui far nascere una soggettività sociale e politica capace di mettere sul serio (e non per finta) in discussione l’ordine delle cose presente.
Quella che nella vulgata corrente, per uno di quei paradossi che la storia talvolta ci riserva, continua a chiamarsi (e ad essere chiamata) sinistra, credo abbia da tempo superato lo stadio della manipolazione transgenica.
Qui si è perfettamente compiuta una totale mutazione.
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L’incognita populista
di Damiano Palano
Nel suo libro «La variante populista» Carlo Formenti compie una duplice svolta. Da un lato intende infatti chiudere definitivamente i conti con l’operaismo. Dall’altro sostiene invece la necessità di adottare (seppur criticamente) lo schema populista delineato da Ernesto Laclau, perché ai suoi occhi solo la «forma populista» risulta adeguata a sostenere una battaglia capace di riconquistare la «sovranità popolare» e la «sovranità nazionale». Se percorrendo un simile sentiero la proposta di Formenti giunge certamente a cogliere alcuni nodi cruciali, rischia però anche di legittimare una deriva teorica e politica incontrollabile. E proprio per questo la «variante populista» somiglia molto a un’incognita di cui è davvero difficile prevedere le direzioni di sviluppo
«Lotta di popolo»
«Siamo operai, compagni, braccianti / e gente dei quartieri /siamo studenti, pastori sardi, / divisi fino a ieri! / Lotta! Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata: lotta continua sarà!». Con l’efficacia che a volte hanno le canzoni, l’inno che Pino Masi scrisse per Lotta continua all’inizio degli anni Settanta riusciva a restituire in pochi versi il sincretismo teorico che distingueva quell’organizzazione rispetto al panorama della sinistra extra-parlamentare italiana. Un sincretismo che combinava le suggestioni della «rivoluzione culturale» e della «guerra di popolo» maoista con alcuni elementi della tradizione operaista e con i lasciti della contestazione ‘anti-autoritaria’, ma in cui non erano certo assenti gli echi della Lettera a una professoressa di don Milani e una sensibilità verso gli ‘esclusi’ e i ‘marginali’ ereditata principalmente dal dissenso cattolico della fine degli anni Sessanta. Ma a quasi mezzo secolo di distanza forse è anche possibile leggere l’inno di Masi – e l’intera operazione condotta da Lotta continua, quantomeno nei suoi primi anni di vita – come un tentativo di sviluppare ciò che, sulla scorta della proposta teorica di Ernesto Laclau, oggi si definirebbe un «populismo di sinistra».
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11 tesi sul Venezuela e una conclusione maturata
di Juan Carlos Monedero*
“E seguitava a ripetere la stessa cosa: “Questo
non è come in una guerra… In una battaglia
hai il nemico davanti… Qui il pericolo non ha
volto né orario”. Si rifiutava di prendere
sonniferi o calmanti: “Non voglio che mi
acchiappino addormentato o assopito. Se
vengono a prendermi, mi difenderò, griderò,
getterò i mobili dalla finestra… Scatenerò
uno scandalo…”.
Alejo Carpentier, La consacrazione della primavera
1. E’ indubbio che Nicolás Maduro non è Allende. E nemmeno è Chávez. Ma quelli che hanno fatto il golpe contro Allende e contro Chávez sono, e anche questo è indubbio, gli stessi che ora stanno cercando di attuare un golpe contro il Venezuela.
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Le pulsioni antirisorgimentali dei nostalgici del regime borbonico e di quello austriaco
di Eros Barone
«…nel momento in cui il passato
diveniva l’avvenire e l’avvenire il passato…»
Victor Hugo, “L’uomo che ride”,
Parte seconda, Libro primo.
«L’Unità d’Italia è avvenuta con una feroce guerra di occupazione da parte dell’esercito sabaudo con un milione di morti e milioni di emigranti.» Così scriveva nel 2011, senza alcun timore di apparire ridicolo o delirante, un nostalgico del regime borbonico e delle ‘piccole patrie’ pre-unitarie in una lettera pubblicata dal quotidiano online “VareseNews”1 . Capisco, naturalmente, che l’uso politico-propagandistico della storia a fini di mistificazione e di falsificazione escluda l’obbligo della ricerca e della consultazione di fonti documentali affidabili e di testi storiografici seri; è sufficiente, infatti, per questo tipo di rigattieri della cultura prelevare dati da siti web privi di qualsiasi attendibilità e orientati in senso antirisorgimentale: puro folclore, che però rivela il carattere bifido di Internet (torbida fogna dell’ignoranza e, insieme, strumento prezioso di indagine), oltre che la deriva intellettuale di alcune fasce dell’opinione pubblica di questo Paese.
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Riflessioni su un’intervista a Olin Wright
Capitalismo, classi, lotta di classe
di Mauro Poggi
Su Micromega e qui un’intervista al sociologo Erik Olin Wright. Nella prima parte analizza i concetti di classe e lotta di classe, che oggi è di moda ritenere superati per prossima estinzione di uno dei contendenti, il ceto operaio; nella seconda spiega la sua visione strategica per “la democratizzazione e il controllo del capitalismo”.
Condivisibile la prima parte dell’intervista, meno la seconda.
Fino al secolo scorso l’identificazione del ceto operaio con la classe subordinata era giustificata dal fatto che esso ne costituiva la parte prevalente e trainante. Omogeneità (socio-economica) e aggregazione (nei luoghi di lavoro) erano i fattori che agevolavano il discorso identitario.
Oggi è vero che il ceto operaio è in fase di forte regressione, sia numericamente che dal punto di vista politico; ma ciò non significa che altrettanto stia succedendo alla classe subordinata, la quale è anzi in aumento a causa del progressivo smottamento dei ceti intermedi. Il problema, semmai, è che a questo aumento quantitativo (la classe “in sé” marxiana) non ne corrisponde ancora uno qualitativo (la classe “per sé”): manca cioè della consapevolezza necessaria a trasformarla in classe dal punto di vista politico, a causa della sua disomogeneità e grazie alla manipolazione culturale della narrazione di sistema (1).
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Vaccini. Scienza. Macchina mediatica
di Sandro Arcais
E alla fine hanno ottenuto il loro decreto urgente in assenza di urgenza. La vicenda è emblematica, cristallinamente rappresentativa del saldo intreccio di interessi internazionali, piccoli e grandi, che presiede al governo mondiale, della macchina mediatica che lo copre e ne è strumento e che gli permette di governare “democraticamente” (almeno nei paesi occidentali), della trasformazione della scienza e dei suoi metodi in dogmatismo.
La scienza trasformata in dogma
Pochi giorni fa, esattamente il 29 luglio, il Consiglio direttivo nazionale della Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia (SIPNEI) ha reso pubblico un comunicato ufficiale in cui prende posizione sul decreto legge sull’obbligo vaccinale e sul dibattito da esso suscitato. Subito dopo il riconoscimento che è
un dato oggettivo che i vaccini siano una risorsa di prevenzione sanitaria assolutamente preziosa
il documento afferma chiaramente che
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Sul marxismo occidentale e sulla crisi del comunismo in Italia
di Fosco Giannini*
Dal compagno Fosco Giannini riceviamo la sua recensione dell’ultimo libro di Domenico Losurdo, “ Il marxismo occidentale, come nacque, come morì, come può rinascere”
Inizio questa mia recensione all’ultimo - importantissimo, al fine di un rilancio d’un pensiero e di una prassi comunista, antimperialista, rivoluzionaria in Italia e in Occidente - libro di Domenico Losurdo ( “ Il marxismo occidentale - Come nacque, come morì, come può rinascere”, edizioni Laterza, prima edizione aprile 2017 e già alla seconda edizione) mettendo in campo alcuni ricordi personali.
1. Ricordi di un recensore non accademico
Il metodo non è, accademicamente, dei più ortodossi, ma l’eterodossia mi sarà forse perdonata se riuscirò a renderla funzionale a un obiettivo: dimostrare come la degenerazione del “marxismo occidentale”, che ha segnato e segna, purtroppo, di sè una parte considerevole anche del marxismo italiano, sino a divenire egemonica, abbia trovato nel “marxismo orientale” un proprio, primario, nemico; come Domenico Losurdo si sia da decenni collocato e tuttora si collochi - con grande coraggio intellettuale e rischiando la solitudine filosofica e politica - sul fronte del marxismo orientale (tanto per non seminare equivoci : sul fronte materialista, marxista e leninista) e come questa collocazione lo abbia - consapevolmente - posto perennemente sotto il fuoco di tutta l’ala dominante - quanto liquidatoria della prassi comunista - del “marxismo occidentale” italiano.
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Migrazioni. Punti di vista in contrasto
di Ennio Abate
Pubblico da POLISCRITTURE FB questo scambio di opinioni tra me e Roberto Buffagni che su è svolto nell’ultima settimana sullo spunto della mia segnalazione di un articolo di Marco Rovelli, Gli specialisti del disumano” e ha fatto emergere anche i nostri diversi e contrapposti retroterra politici e culturali. Lo faccio perché il problema è davvero complesso, rischia di diventare ancora più tragico di come oggi si presenta e richiede l’attenzione e l’intelligenza di tutti per approfondirlo. E anche uno sforzo – almeno qui su POLISCRITTURE – per uscire dai veleni delle propagande contrapposte dei “buonisti e dei “cattivisti”. [E. A.]
SEGNALAZIONE (dalla bacheca di Marco Revelli):
Gli specialisti del disumano di Marco Revelli
“Noi veniamo dopo” scriveva George Steiner nel 1966, “Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz”.
Anche noi “veniamo dopo”. Dopo quel dopo. Sappiamo che un uomo può aver letto Marx e Primo Levi, orecchiato Marcuse e i Francofortesi, militato nel partito che faceva dell’emancipazione dell’Umanità la propria bandiera, esserne diventato un alto dirigente, e tuttavia, in un ufficio climatizzato del proprio ministero firmare la condanna a morte per migliaia e migliaia di poveri del mondo, senza fare una piega.
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Impresa democratica e socialismo
di Bruno Jossa
Introduzione
Il fallimento di tutti i tentativi di riformare la pianificazione centralizzata per dare vita a un socialismo democratico e il crollo del muro di Berlino, con il ritorno della Russia al capitalismo, sta dando luogo a un grande cambiamento di opinioni su che cosa sia veramente il socialismo. E l’idea che a noi sembra corretta a riguardo è che il socialismo è la gestione democratica delle imprese, la gestione delle imprese da parte di tutti coloro che partecipano a ciò che essa produce[1]. Questa è l’idea anche di Richard Wolff, che è considerato oggi il maggior studioso marxista degli Stati Uniti.
Wolff ha individuato l’impresa socialista nella Wsde, che è una workers’ self-directed enterprise. In contrasto con l’impresa capitalistica, ove a comandare sono, di regola, pochi individui dotati di ricchezza, i capitalisti, in una Wsde – secondo quanto egli scrive – nessun gruppo separato di persone, nessun individuo che non partecipi al lavoro produttivo dell’impresa, può essere un membro del corpo dei dirigenti. Anche se vi fossero degli azionisti di una Wsde, essi non avrebbero il potere di eleggere i direttori. Invece, tutti i lavoratori che producono il surplus generato nell’impresa se ne appropriano collettivamente e lo distribuiscono. Essi soli compongono il corpo dei dirigenti.
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