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Contrordine: la creative class non è più progressista
Sul “pentimento” di Richard Florida
di Lucia Tozzi
La classe creativa non è più il motore della civiltà democratica, e la concentrazione di hipster, nerd e omosessuali in ameni quartieri urbani non è più il segno di una prosperità in procinto di espandersi a macchia d’olio, ma un epifenomeno della crescente diseguaglianza e della segregazione che ha investito la popolazione globale.
Ma chi poteva ancora sostenere delle idiozie del genere, viene da chiedersi?
La risposta è Richard Florida, il più grande divulgatore di questi e altri (pochi) concetti simili, e insieme a lui migliaia di politici, amministratori urbani dei cinque continenti, l’intero arco della stampa mainstream globale, e un numero più grande di quanto non si voglia ammettere di accademici e studiosi nel campo dell’urbanistica e dell’economia urbana. Perciò, se all’indomani dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca appare un libro intitolato The New Urban Crisis, sottotitolato How Our Cities Are Increasing Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class – and What We Can Do About It, e firmato Richard Florida, author of The Rise of The Creative Class, non bisogna prendere la cosa sotto gamba.
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Brexit per andare dove?
di Salvatore Perri
In un’intervista il capo economista della Bank of England[1] ha fatto pubblica ammenda per le previsioni “errate” rispetto ai possibili effetti della Brexit, attribuendo questi errori al diverso comportamento degli operatori rispetto alle ipotesi del modello. Cosa accadrà realmente con la Brexit nessuno può dirlo, dipenderà dall’esito degli accordi che necessariamente dovranno essere presi. Se gli accordi dovessero modificare le libertà fondamentali, la libera circolazione di persone, merci e capitali, le conseguenze non possono che essere negative, perché non ci sono ragioni economicamente sostenibili a supporto del contrario. Nel caso della “hard Brexit” ci sarà una perdita di benessere per tutti, ma i rischi maggiori li correrà proprio la Gran Bretagna.
Aspettative e Brexit
In primo luogo la Brexit vera e propria non c’è stata, questa constatazione ovvia non è stata sufficientemente considerata nel dibattito attuale, allora cosa avrebbero stimato gli esperti della Banca d’Inghilterra? Essi hanno considerato i possibili effetti reali che “l’annuncio” della Brexit avrebbe determinato.
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Intolleranza e disattivazione politica. Le democrazie “off shore”
di Vincenzo Ruggiero*
L’intolleranza verso il dissenso costituisce una delle principali manifestazioni della crisi della politica di oggi, che ostacola la possibilità di azione collettiva, nega lo spazio per la mediazione tra le istituzioni e il popolo e impedisce poi ai settori sociali di rappresentarsi come agenti della propria storia (Balibar, 2016 ). In questo senso, la stessa nozione di cittadinanza è “sotto attacco e ridotta all’impotenza”, mentre i sistemi democratici assumono una forma “pura”, cioè diventano capaci di affrontare esclusivamente la propria logica e i meccanismi della propria riproduzione (ibid : 12). individui e gruppi, di conseguenza, vengono espulsi dal loro posto nel mondo (Sassen, 2014).
Mentre riducono le opportunità di forme di azione partecipativa, le democrazie contemporanee espandono allo stesso tempo la sfera della delegazione. Così, il processo elettorale diventa sempre più influenzato da interessi privati espressi attraverso l’iniziativa di donatori e di lobbisti. Sollecitare delle tangenti si dice ora “raccolta fondi” e la corruzione stessa è “il lobbismo”, mentre i lobbisti delle banche determinano o addirittura scrivono la legislazione che dovrebbe andare a regolamentare loro stesse banche”(Graeber, 2013: 114).
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Materialismo dialettico e “vernalizzazione”
La scoperta fondamentale di Lysenko
di Eros Barone
Solo la dialettica ci salverà.
J. Gabel, La falsa coscienza.
1. Darwinismo vs lamarckismo
Trofim Denisoviĉ Lysenko (1898-1976) è stato ed è tuttora un classico bersaglio della polemica anticomunista che, prendendo spunto dall’assunzione imperativa delle sue teorie biologiche da parte del potere sovietico nel periodo che va dal 1948 al 1964, ne ha fatto il prototipo, a caso invertito, del processo intentato dal potere ecclesiastico contro le teorie astronomiche di Galileo. Come è noto, Lysenko, ispirandosi al progetto di una nuova genetica elaborato dall’agronomo Ivan Mičurin (1855-1935) con l’intento di superare le posizioni dei «nipotini» di Mendel, respingeva la genetica classica basata sul principio secondo cui tutte le caratteristiche degli organismi sono il risultato di geni ereditari, sostenendo l’idea secondo cui è invece l’ambiente che conduce allo sviluppo di caratteristiche adattative (come, ad esempio, la cecità nelle talpe che vivono costantemente al buio), caratteristiche le quali possono essere trasmesse alle generazioni successive. Questa teoria dell’evoluzione, originariamente propugnata dal celebre naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck agli inizi del XIX secolo, collimava perfettamente con la concezione filosofica del materialismo dialettico incentrata sulla priorità dell’influenza esercitata dall’ambiente sulla costituzione e sul comportamento dell’individuo.
La disputa tra gli assertori delle conquiste della teoria genetica e i seguaci dell’ipotesi di Lamarck aveva, del resto, in Unione Sovietica origini lontane.
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Illusioni partecipative
Il populismo della/nella rete nell’era della post-verità
di Gioacchino Toni
«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (A. Dal Lago, Populismo digitale, pp. 73-74).
«La ‘post-truth politics’ appare come un processo di deterioramento degli spazi di discussione della sfera pubblica in cui, soprattutto quelli online, sembrano luogo valido solo per il rafforzamento delle proprie credenze pregresse. [Si tratta di una] degenerazione che va tutto a vantaggio delle forze populiste [che] hanno saputo trasformare il web in un luogo utile per il consolidamento del loro macroframe, che ha bisogno di massicce dosi di sfiducia e di una dinamica fortemente conflittuale per poter crescere e affermarsi» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 11).
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Catalogna: comunque vada, Madrid ha già perso
di Marco Santopadre
Pochi giorni fa era stato lo stesso primo ministro spagnolo ad annunciare l’incrudimento della repressione con una frase alla quale pochi media internazionali hanno dato risalto: “Non costringeteci a fare ciò che non vogliamo fare”.
Il governo di Madrid avrebbe potuto tentare di bloccare la road map indipendentista proponendo una via d’uscita di tipo politico. Rajoy avrebbe trovato una sponda entusiasta nei socialisti e nella stessa Podemos se avesse proposto a Barcellona una riforma del grado di autonomia della Comunità Autonoma Catalana (quella stessa negata solo pochi anni fa). Così facendo i nazionalisti spagnoli avrebbero aperto delle consistenti crepe nello schieramento indipendentista catalano, agganciando quella parte del PDeCAT che farebbe volentieri a meno del muro contro muro e preferirebbe continuare a galleggiare in una situazione – l’autonomia all’interno dello Stato Spagnolo – che ha fatto a lungo le fortune dei liberalconservatori di Barcellona.
Una parte consistente, anche se forse non maggioritaria, dello schieramento nazionalista catalano è stato infatti condotto ad abbracciare la rivendicazione del distacco da Madrid da anni di mobilitazione popolare e dalla pressione di una sinistra indipendentista e radicale che ha vissuto una forte crescita negli ultimi anni.
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Federico Caffè e la crisi del welfare state
Michele Cangiani
A dieci anni dall’esplosione della Grande Crisi quali sono gli spazi possibili per un intervento pubblico. Un volume collettivo appena uscito per Asterios analizza i vari scenari
Federico Caffè, trent’anni fa, individuò le tendenze della trasformazione neoliberale, ma non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata. Solo in seguito si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico” (Ramonet 1995) aveva tolto l’ossigeno all’auspicabile controtendenza basata sulla “public cognizance”.
Le vicende finanziarie – della finanza privata, ma anche di quella pubblica (dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà) – hanno continuato a provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria. Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, piuttosto come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali che come metodo efficiente di finanziamento delle imprese (Caffè 1971, p. 671). Questo atteggiamento ha reso, in seguito, più acuta e radicale la sua critica del dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Egli sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito.
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33780 battute contro la teoria della classe disagiata
di Valerio Mattioli
Sei in volo verso Berlino o per la precisione verso Neukolln, che come tutti sanno è il quartiere dove le cose succedono. O forse stai andando a Peckham? Magari Ménilmontant? Poble Sec? Miera Iela? Mariahilf, Exarchia, Bairro Alto? Comunque: è uno squallido volo Ryanair con partenza da Ciampino, ma tuo nonno si poteva permettere al massimo un biglietto del tram per la gita fuori porta della domenica, quindi lo sai bene che quel tuo low cost da pezzenti vale tanto quanto un posto in prima classe. Ti aspetta un mondo di cocktail esotici miscelati da estrosi bartender tatuati, dotte disquisizioni sul rapporto tra Captain America: Civil War e guerra al Terrore, concerti indie per elettronichetta innocua e chitarrine intimiste, apericenacoli con focus su affinità & divergenze tra Lena Dunham e l’adattamento tv del Racconto dell’ancella, e pettegolezzi di quarta mano su Semiotext(e) che chi se ne frega che pubblica Paolo Virno (anche perché chi cazzo è costui?), l’importante è sapere chi scopa con chi perché hai visto I Love Dick? ecc ecc. Ti aspettano giorni di arte, di stile, di IPA, di spunti per sei o sette longform e di tanta, tanta Cultura.
Solo che a un certo punto ti viene in mente che altro che business class: il volo da Ciampino partiva alle 5 del mattino, per poco non sei dovuto restare in piedi per quanto era affollato, e quando è arrivato a destinazione ti ha lasciato a un aeroporto a dodici ore dal centro.
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Splendore e miseria dell’antiautoritarismo
di Robert Kurz
Introduzione
Ciò che Mao-Tse-Tung affermò con un certo gusto del paradosso a proposito della Rivoluzione francese può valere, e a maggior ragione, per le vicende del ’68: a quasi mezzo secolo da quel periodo la distanza storica non è ancora sufficiente per formulare un giudizio definitivo. Malgrado tutto però è innegabile che la grande contestazione sociale degli anni Sessanta – un fenomeno pressoché inaspettato, che non lasciò indenne nessun paese industrializzato dell’Occidente (USA, Messico, Giappone, Francia, Germania Occidentale, Italia, Inghilterra, etc. perfino la Spagna franchista) nonostante la diversità dei contesti politici e sociali, il cui riflesso nel blocco socialista fu l’impulso per la liberalizzazione politica in Cecoslovacchia e, più in generale, una nuova stagione della dissidenza intellettuale – rappresentò una cesura epocale. Ma quale ne fu il significato? E, in particolare, che rapporto c’è tra la dimensione soggettiva e la funzione oggettiva di quel movimento? Astraendo dall’interpretazione manichea di chi vede nelle vicende del 1968 il vaso di Pandora che ha scatenato tutti i mali della post-modernità, l’assassinio della civiltà e del decoro borghese e di chi invece, all’opposto, liquida la contestazione di quegli anni come l’ennesima occasione rivoluzionaria mancata, da addebitare a una «coscienza di classe» deficitaria o all’«opportunismo» dei suoi dirigenti, possiamo distinguere essenzialmente due posizioni divergenti:
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Elezioni tedesche: un risultato scontato dalle conseguenze scontate
di Alessandro Somma
Il partito della Cancelliera vince ma viene ridimensionato (33%), i Socialdemocratici crollano (20,5%), mentre la destra xenofoba diventa il terzo partito (12,6%): è questo l’esito delle elezioni tedesche, che probabilmente porteranno al governo una coalizione di Cristianodemocratici, Liberali (10,7%) e Verdi (8,9%). Per i primi commentatori si tratta di un risultato inatteso, addirittura di una cesura storica, preludio di un periodo di incertezze e instabilità. Con il rischio concreto di scenari inediti e potenzialmente drammatici per la Germania e l’Europa, che perde la sua ancora di salvezza, così come per la il Socialismo europeo, a questo punto avviato verso l’estinzione.
Così i principali commenti. Ma a bene vedere quanto è successo era ampiamente prevedibile, e non porterà nessuna particolare novità negli scenari politici né a Berlino, né a Bruxelles.
Non è un risultato imprevedibile
Erano innanzi tutto prevedibili i risultati elettorali delle forze politiche in campo, a partire da quelli di Alternativa per la Germania (AfD): la formazione nata nel 2013 su posizioni euroscettiche, poi cresciuta durante la crisi dei migranti sulla scia di parole d’ordine xenofobe.
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Quale antifascismo nell'epoca dell'euro e della democrazia oligarchica?
di Domenico Moro
Sul fascismo e sulla polemica sui recenti provvedimenti di legge credo sia necessaria qualche precisazione. Ogni provvedimento formale di legge che vada contro simboli e organizzazioni fasciste, più o meno espliciti, va accolto con favore e anzi caldeggiato. È in atto una rinascita di questo tipo di organizzazioni, che rappresentano, comunque e sempre, un grave pericolo. Queste organizzazioni, anche se hanno, almeno per il momento, prospettive limitate, possono prosperare nel clima di crisi e di peggioramento delle condizioni sociali che si sta affermando. Di fatto, esse non rappresentano agli occhi di chi ha il potere vero, quello economico, una opzione credibile di gestione complessiva del sistema, ma sono sempre un pedone della scacchiera che si può usare, e si usa già oggi strumentalmente, per distrarre l’attenzione delle masse verso pericoli fittizi, creare confusione e accentuare le contraddizioni presenti all’interno delle classi subalterne. Premesso questo, il termine fascismo è usato da tempo estensivamente, per definire varie forme di autoritarismo e/o violenza politica. Se questo è più o meno comprensibile sul piano della polemica politica, tuttavia non mi sembra molto utile ai fini della comprensione della realtà, delle sue specificità attuali e quindi della capacità di sviluppare una lotta efficace sulla distanza.
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Gramsci e la rivoluzione d'ottobre*
di Guido Liguori
Il saggio di Guido Liguori che pubblichiamo è tratto dall’ultimo numero della rivista Critica Marxista. Chi desideri acquistare la rivista o abbonarsi, può chiedere informazioni alle Edizioni Ediesse (06.44870283, This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)
La peculiare formazione di Gramsci gli fece scorgere nelle due rivoluzioni russe del 1917 l’inveramento delle sue concezioni soggettivistiche.
La successiva comprensione della differenza tra “Oriente” e “Occidente” lo portò a una rivoluzione del concetto di rivoluzione, senza fargli rinnegare l’importanza storica dell’Ottobre né la solidarietà di fondo con il primo Stato socialista della storia.
A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e a ottant’anni dalla morte di Gramsci non è inutile tornare sulla lettura che nel 1917 l’allora ventiseienne socialista sardo diede dei fatti di Russia e anche su cosa poi rimase di tale interpretazione nel suo bagaglio teorico-politico più maturo. La rivoluzione guidata da Lenin, infatti, costituì per il giovane sardo trapiantato a Torino un punto di svolta politico, teorico ed esistenziale a partire dal quale iniziò la maturazione del suo pensiero e la sua vicenda di comunista. Per comprendere come Gramsci si rapportò alla Rivoluzione d’Ottobre occorre dunque partire in primo luogo dalla consapevolezza che Gramsci fu sempre, dagli anni torinesi alle opere del carcere, non solo un teorico della rivoluzione, ma un rivoluzionario.
È quanto ebbe a sottolineare Palmiro Togliatti, nell’ambito del primo dei convegni decennali dedicati al pensiero di Gramsci, che ebbe luogo a Roma nel gennaio 1958, affermando: «G. fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioè un combattente [...]. Nella politica è da ricercarsi la unità della vita di A.G.: il punto di partenza e il punto di arrivo»1.
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Deglobalizzare o accettare la sfida della complessità?
P. Bartolini intervista Matteo Vegetti
Intervista al prof. Matteo Vegetti sul suo saggio 'L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria' (2017)
1) Prof. Vegetti, nel Suo recente volume “L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria” (Einaudi, 2017) ha scelto di trattare il tema della globalizzazione utilizzando una prospettiva molto interessante. Il passaggio dalla dialettica Terra-Mare (studiata in modo accurato da Carl Schmitt) alla dinamica tripartita Terra-Mare-Aria segna, dal punto di vista geostorico e antropologico, una vera e propria rivoluzione spaziale. In che senso il terzo elemento, quello dell’aria, è diventato decisivo per comprendere l’ipermodernità e i suoi nodi critici?
Vi sono vari modi per rispondere a questa domanda, e in fondo l'intero volume è l'esplorazione di questi modi. In ogni caso, cominciando proprio da Schmitt, l'aria presenta alcune caratteristiche tipiche della spazialità globale: è un spazio liscio e illimitato, che estremizza alcune caratteristiche del mare (velocità, connettività, isotropia, anomia, utopia) e che porta con sé specifiche potenzialità trasgressive dei limiti del moderno Nomos della terra. Alcune di queste caratteristiche hanno effettivamente forgiato lo spazio ipermoderno delle telecomunicazioni e dell'aeronautica, generando una nuova condizione storica nei campi dell'economia, dell'informazione, della politica.
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L’uso politico dei migranti e la spoliazione dell’Africa
di Cristina Quintavalla
La tragedia umanitaria che si sta consumando sotto i nostri occhi, acuita dall‘inarrestabilità dei processi migratori, è resa tanto più drammatica quanto più viene utilizzata a fini politici e sociali, in Italia e in Europa. La questione della fuga di milioni di uomini, donne, bambini dai loro paesi d’origine e l’approdo di molte migliaia di essi sul territorio europeo viene presentata come la conseguenza del sottosviluppo, legato ad economie non industrializzate, rurali, primitive, imputabili ad arretratezza, o a regimi dittatoriali, a guerre intestine e fratricide. Insomma imputabili a storie e responsabilità loro.
Viene messa in scena una sorta di concezione della storia, fondata su una dialettica contrappositiva tra civili/civilizzati/sviluppati/benestanti/capaci/meritevoli e incivili/sottosviluppati/incapaci/poveri/immeritevoli: l’assalto di questi ultimi alla nostra ricchezza, prosperità, sicurezza, civiltà si configurerebbe come una minaccia gravida di insidie e pericoli, causa della disoccupazione, della precarizzazione delle vite, della crisi economica, dell’imbarbarimento sociale.
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Europa, alla ricerca del sesto scenario
Claudio Gnesutta
Il documento di Jean-Claude Juncker propone 5 scenari alternativi per l’Unione Europea. Ma ora più che mai è necessario mettere in campo un altro scenario, radicalmente diverso, in cui l’autoriforma delle istituzioni europee sia volta a sostenere lo sviluppo e la stabilità sociale all’interno e tra i paesi membri
Il primo marzo di quest’anno, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha presentato il “Libro bianco sul futuro dell’Europa: le strade per l’unità nell’UE a 27”. Di fronte a un passaggio incerto dell’istituzione europea dopo la Brexit, ma soprattutto in presenza della crescente ostilità popolare nei confronti delle politiche europee, il documento veniva presentato come la base di discussione delle linee di sviluppo dell’Unione e fissava le possibili alternative cui sarebbero soggetti i paesi nello scegliere il loro percorso verso la futura Europa. È lo sfondo sul quale si regge anche il suo recente discorso sullo Stato dell’Unione 2017.
Il documento prospetta cinque scenari alternativi con i quali i paesi dell’Unione dovranno confrontarsi prossimamente, superate le ormai prossime elezioni tedesche. Appare quindi tempestivo e di grande interesse il contributo di Alessandro Somma – Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione Europea, Imprimatur 2017 – che offre una ampia e ragionata esposizione del significato e delle implicazioni dei cinque scenari che – secondo la Commissione – delineano «quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025 ». Merito di Somma è interpretare una tale proposta istituzionale in connessione con le altre deliberazioni della Commissione in merito alla difesa, alle finanze, all’inclusione sociale e qualificare così il senso delle diverse alternative in maniera più precisa di quanto non indicasse la rapida presentazione di marzo.
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Elettori o consumatori? Il deficit democratico nell’Unione Europea
di Domenico Cortese
Due tematiche parallele sono, ad intervalli regolari, al centro delle polemiche sui media quando si tratta di essere scettici riguardo all’assetto socio-politico dell’Unione Europea. La prima è l’approccio intrinsecamente neo-liberista codificato in maniera definitiva nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea: i pilastri su cui si fonda la costruzione comunitaria sarebbero la libera circolazione di merci e capitali e gli stretti parametri sulla gestione del bilancio pubblico. Ha causato diatribe, poi, il recente tweet della Bce secondo la quale il compito che spetta ad essa, in quanto indipendente dalle finalità politiche, sarebbe semplicemente la stabilità dei prezzi e non la “crescita” o la “creazione di occupazione”. La seconda tematica è il così detto deficit democratico dell’Ue, la nota tesi secondo cui il potere legislativo comunitario sarebbe nelle mani di enti e persone non “direttamente elette dal popolo” e, perciò, mancante di legittimità.
In questo articolo cercheremo di spiegare le ragioni e le sfaccettature della seconda tematica tramite un’interpretazione filosofica delle problematiche di cui il primo tema si occupa.
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Per disegno o per errore? Il neoliberismo e la politica economica
Riflessioni su un recente libro di Alessandro Vercelli
di Massimo Di Matteo
Massimo Di Matteo riflette sulle idee eterodosse di Alessandro Vercelli contenute in un suo recente volume. Dopo aver sottolineato l’importanza della distinzione tra libertà positiva e libertà negativa nella lettura di Vercelli, Di Matteo si sofferma sulla critica che egli muove alle riforme neoliberiste, sul nesso fra di esse e la crisi economica e sui limiti che le regole dell’Unione Europea pongono all’adozione delle misure più adeguate di politica economica per affrontare gli effetti deteriori della globalizzazione e della finanziarizzazione
“Crisis and Sustainability. The Delusion of Free Markets”, pubblicato da Palgrave, è una summa del lavoro di Alessandro Vercelli, studioso originale ed eterodosso. Il libro – che ripropone,collocate in maniera appropriata, alcune delle sue idee elaborate precedentemente in contesti diversi – è ampio (329 pagine) e complesso ma la sua architettura è lineare e la ricchezza delle argomentazioni non fa perdere di vista il filo conduttore dell’analisi. E’ un libro impegnativo che spazia da argomenti filosofici e metodologici a quelli economici e ambientali e propone una visione sulla cui base è possibile costruire una teoria economica alternativa a quella dominante. Tale visione si incentra sulla piena valorizzazione del concetto di libertà positiva in tutti i suoi aspetti. Quest’ultima si può definire come la libertà di un soggetto di agire per conseguire i propri scopi, mentre la libertà negativa è semplicemente la libertà da specifici vincoli che gravano sulle azioni di un individuo. Vercelli solleva altresì in questo lavoro alcuni cruciali nodi interpretativi che aggiungono ricchezza al volume. Lo scopo principale del lavoro è quello di dar conto del grande cambiamento intervenuto nella politica economica a seguito dell’avvento del neoliberalismo e delle sue conseguenze.
Il volume è articolato in tre parti. Nella prima, composta sua volta da tre capitoli, si esaminano criticamente alcune tesi fondanti del paradigma dominante che Vercelli definisce neoliberalismo. Successivamente viene criticata la fiducia che la maggior parte degli economisti ripone negli effetti benefici del libero commercio.
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Siria e Venezuela: trionfalisti morganatici
di Fulvio Grimaldi
Gira da sempre nella sinistra, specie in quella che cerca di restare autentica, rivoluzionaria, la tendenza che Mao esemplificò con la definizione della “tigre di carta”. Quanto fossero di carta capitalismo e imperialismo s’è visto da allora ad oggi, con il capitalismo che, a parte l’URSS, s’è addirittura mangiato il paese di Mao, Cuba, il Vietnam e con il socialismo che, per vederlo ancora sognato e auspicato, tocca aggirarsi per El Alto di La Paz, o in qualche quartiere proletario di Caracas, tipo il “23 De Enero”.
Nell’attualità questa realtà travisata in prodotto del desiderio si manifesta con grande evidenza in Siria e in Venezuela. Una storicamente incrollabile fiducia nella Russia, URSS o Federazione che sia, trascura completamente la realtà sul terreno in Siria e anche davanti alle evidenze di compromessi al ribasso, rispetto alla riconquista della sovranità e integrità territoriale da parte di Damasco, formula ardite e volontaristiche teorie che lascino intendere scaltre manovre di Putin di aggiramento del nemico. Si torna a sentire l’antico mantra: tempo al tempo. Intanto Netaniahu bombarda impunemente siti strategici e trasporti cruciali, senza che entrino in funzione i celebrati S300 o S400 russi o siriani, vaste zone di confine e nel cuore del paese sono affidate (pro tempore, ad perpetuum?) a coloro che hanno eseguito il mandato di sgozzare o espellere il maggior numero di siriani e di frantumarne l’unità,
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«Il popolo è una costruzione»
Intervista a Jacques Rancière
Questa intervista, rilasciata prima delle recenti elezioni presidenziali francesi, è stata pubblicata sul numero 3 della rivista Ballast, che ringraziamo per avere concesso l’autorizzazione a tradurre.
Con la consueta radicalità, Il filosofo francese affronta qui i temi del popolo e della democrazia già discussi in libri come La Haine de la démocratie o il più recente En quel temps vivons-nous. Rancière sostiene qui che “il popolo non è la massa della popolazione”, ma “una costruzione”. Il popolo “non esiste, è costruito da discorsi e atti. Occupy, le Primavere arabe, gli Indignati, piazza Syntagma a Atene, i movimenti dei sans-papiers – continua l’autore de La Mésentente -, tutto ciò fabbrica un certo popolo di anonimi. E questo popolo è quello della democrazia: un popolo che manifesta il potere di non importa chi”. (Traduzione di Alessandro Simoncini).
La nozione di democrazia è onnipresente nel suo lavoro. Blanqui pensava tuttavia che democrazia fosse una parola “di gomma”, estremamente vaga e recuperabile. Perché lei tiene tanto a questo termine?
Perché esista politica, bisogna che ci sia un soggetto specifico della politica. Questa è la mia idea fondamentale. Non bastano persone che governano e altre che obbediscono. È la grande separazione iniziale tra l’arte dell’allevamento e la politica: quest’ultima presuppone che la stessa persona che governa sia governata. È questo che mi è sembrato importante per definire il rapporto tra democrazia e politica. Perché ci sia politica bisogna che ci sia qualcosa che si chiama popolo: il popolo deve essere l’oggetto su cui verte l’attività politica e, al contempo, il soggetto di questa stessa attività. In tutti i modelli ordinari dell’“arte di governare” si presuppone una certa asimmetria: c’è una massa da gestire e coloro i quali hanno la capacità di gestirla – la legittimazione del potere funziona così. All’origine, “Democrazia” non è il nome di un regime politico ma un insulto: è il governo delle nullità, della canaglia.
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Diego Fusaro, Pensare altrimenti
di Giovanni Dursi
Il recente volume “Pensare altrimenti” di Diego Fusaro va letto, discusso collettivamente, soprattutto con i giovani, interpretato e commentato. Perché, in questo contesto storico e sociale turbolento e gravido di serie minacce che possono ulteriormente far regredire verso forme tecnocratiche neo-autoritarie l’ordine capitalistico mondiale, esprimere questa necessità? Prioritariamente, perché è un libro chiaro nell’esposizione; è un testo didascalico. Non è da trascurare lo stile con il quale l’autore argomenta «l’annullamento del dissenso, con annessa uniformazione integrale del sentire e del pensare» (op. cit. pag. 29), mentre «sotto il cielo domina graniticamente il pensiero unico del consenso di massa [ … ]» il quale «predica in maniera compulsiva l’intrasformabilità del mondo [ … ]» (op. cit. pag. 46); la foggia della scrittura è tale da rendere comprensibile a tutti il ragionamento, anche a chi è in fase evolutiva e necessita d’apprendere (in questo caso, il target ideale della comunicazione culturale veicolata da “Pensare altrimenti” è costituito dagli studenti delle scuole secondarie di secondo grado ed universitari – guidati filologicamente nella lettura – che necessitano di imparare a guardare in modo critico e fondato alla condizione umana ed al mondo attuale) ed incrementare l’abilità che consente d’analizzare in modo oggettivo le informazioni disponibili, valutare e interpretare dati e esperienze al fine di giungere a conclusioni chiare e solide.
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La retorica dell'eccellenza
di Alberto Bagnai
Il dibattito cui non avete potuto assistere a Maratea, per il quale ringrazio ancora la MADEurope Summer School e in particolare Riccardo Realfonzo, ha toccato in relativamente poco tempo (nonostante fosse quasi il doppio di quello inizialmente previsto: ma il pubblico non si è annoiato) una serie di temi cruciali. Io ho poca memoria, ma due osservazioni di Roberto Pizzuti mi sono rimaste particolarmente vivide in testa, se non altro perché le aveva già fatte in occasione della presentazione del mio primo libro a Roma.
La prima non merita una discussione molto ampia (anche se ovviamente sono disposto a confrontarmi con Roberto su questo laddove lui lo desideri): è l'idea che siccome "fuori" ci sono i mercatoni cattivi (per definizione), abbiamo bisogno di uno Statone buono che ci protegga, che li contenga, e questo Statone sarebbe l'Europa (in attesa di essere, si presume, il Mondo). In questo blog abbiamo dato spazio alle riflessioni di scienziati politici e ai dati di fatto. Il dato di fatto è che concentrare a Bruxelles poteri politici facilita i compiti delle lobby, e che nulla ci garantisce che lo "Statone" che creiamo operi nel nostro interesse, piuttosto che nell'interesse delle diverse decine di burocrati tedeschi che lo infestano.
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Foto dal finestrino
di Il Lato Cattivo
Introduzione
Nel corso dei quattro incontri dedicati alla presentazione del secondo numero de «Il Lato Cattivo», abbiamo tentato di delineare a larghi tratti i contenuti della rivista, nonché l'orientamento generale da cui questi discendono, nel modo il più possibile sintetico e adeguato all'esposizione orale. La forma stessa dell'incontro pubblico ha imposto un lavoro di scrematura sui materiali di partenza; ne è risultato un digest sicuramente schematico e alquanto impoverito: per dire tutto ciò che avremmo voluto, sarebbe occorso un giorno intero; e per dirlo nella maniera più soddisfacente, avremmo dovuto ricorrere ancora una volta alla parola scritta, che avrà pur tanti difetti, ma permette un margine di riflessione e una ricerca della giusta formulazione, che la parola parlata non concede. L'esercizio si è rivelato comunque stimolante. Sicuramente lo è stato per chi ha preparato ed esposto, e – si spera – anche per chi ha avuto la pazienza di ascoltare. Ad ogni modo, la traccia iniziale è stata ulteriormente rielaborata tenendo conto, da un lato, delle evoluzioni più recenti avvenute a vari livelli e, dall'altro, degli interventi fatti da alcuni compagni nel corso degli incontri – domande e osservazioni per le quali ci è parso di dover apportare ulteriori chiarimenti e precisazioni, o semplicemente ribadire per iscritto le risposte già date in sede di presentazione. Ciò che segue è quindi un piccolo condensato degli incontri di novembre 2016 (Torino e Milano) e marzo 2017 (Roma e Viterbo), di ciò che vi è stato detto e delle reazioni suscitate. In definitiva, ci auguriamo che risulti fruibile tanto per chi c'era, quanto per chi non c'era.
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Industria 4.0, una lettura controcorrente
Roberto Romano
Il processo indotto dalla trasformazione di Industria 4.0 è bidirezionale e non unidirezionale. La robotica è solo un pezzo del paradigma. E la politica economica e industriale giocheranno un ruolo fondamentale
Industria 4.0 e la Storia
Il capitalismo è una particolare organizzazione della società; questa (società) evolve e cambia nel tempo perché con il passare “del tempo” muta la domanda, il salario di sussistenza, la tecnica e, infine, il contenuto del capitale e del lavoro. Sebbene Industria 4.0 possa sembrare qualcosa di inedito e paradigmatico, la storia del capitale e dello sviluppo ci ricordano che “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”(Marx[1]). Più in particolare, “La borghesia non potrebbe sopravvivere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali”.
Sebbene l’elenco delle potenziali innovazioni afferenti a Industria 4.0 sembrino rivoluzionarie, queste lo sono nella misura in cui adottano tecniche che nella classificazione (aggiornata[3]) di Freeman e Soete (1997) precedono il paradigma della Green Economy che, nel silenzio più assordante, sembra scomparsa dal dibattito economico e politico.
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L’illusione di essere élite
di Anna Momigliano
Ritratto della classe aspirazionale, tra meccanismi di compensazione, negazione e lotta di classe anagrafica
Quando mia figlia ha finito la prima elementare, un genitore della classe ha proposto di fare la cena di fine anno in un all you can eat: che bella idea, ho risposto, non avendo io mai messo piedi in un all you can eat. Poi, però, giunta al ristorante, mi sono bastati pochi minuti per sentirmi fuori posto: tutto mi sembrava triste e pacchiano e insensato. Abbiamo mangiato del pessimo sushi e ogni adulto ha sborsato trenta euro, più o meno la stessa cifra che spendo per mangiare decentemente. Prima, quando uscivamo con qualche compagno di classe, andavamo in qualche hamburgheria nobilitata (nella nostra zona ce ne sono tre, di cui due in aree pedonali dove si possono sguinzagliare i bambini) oppure a farci un brunch domenicale, tutte operazioni altrettanto economiche e meno alienanti. Il fatto è che nell’ultimo anno abbiamo cambiato scuola, spostandoci molto più lontano dal centro di Milano, ed è stato un cambiamento antropologico prima ancora che geografico.
Nella materna all’interno della cerchia dei navigli che frequentavamo, le mamme giovani vestivano Muji e Petit Bateau, le tate dispensavano gallette di riso e frutta biologica, e all’uscita si affollavano curatissime nonne in bicicletta. Nella nuova scuola il tasso di babysitter è calato, i bambini fanno merenda con le Camille del Mulino Bianco, le mamme più curate sfoggiano fondotinta opachi e bauletti firmati. È cambiato il contesto socio-economico, ma non è soltanto una questione di reddito: certo, le famiglie del centro tendono a essere più benestanti, però non è sempre così.
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Capitalismo concreto, femonazionalismo, femocrazia
George Souvlis intervista Sara R. Farris*
George Souvlis: Potresti presentarti descrivendo le esperienze formative (accademiche e politiche) che più ti hanno influenzato?
Sara Farris: Sono cresciuta in un piccolo paese di 12.000 persone in Sardegna. Lì mi sono politicizzata ed è sicuramente in quel periodo – tra i 12 e i 18 anni di età – che ho vissuto alcune delle più importanti esperienze politiche ed accademiche della mia vita. Vengo da una famiglia di operai; come molti della loro generazione, i miei genitori hanno investito molto nell’educazione per assicurare mobilità sociale alle loro figlie. Inoltre, sono cresciuta in una famiglia in cui il dibattito politico – o meglio – i monologhi di mio padre su avvenimenti di politica interna ed internazionale erano di routine durante la cena. Mio padre era in qualche modo socialista, credeva fermamente nella giustizia sociale ma era molto scettico circa la possibilità che i lavoratori – per come li conosceva lui – sarebbero stati in grado di apportare qualche tipo di cambiamento sociale.
Ad ogni modo, quel che cerco di dire è che l’ambiente familiare mi ha sicuramente esposto all’importanza dello studio e alle idee di sinistra. Successivamente ho frequentato il liceo classico nel mio paese.
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