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A proposito di internazionalismo
di Sandro Moiso
Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro
Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)
Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve da stimolo per una riflessione che, ancor troppo spesso, appare scontata nelle sue conclusioni.
Infatti, andando a indagare un periodo in cui il socialismo era rappresentato dalle posizioni della Seconda Internazionale, la ricerca di Anderson rivela un’inaspettata e scarsamente studiata vicinanza tra le posizioni espresse dall’anarchismo e quelle proprie dei primi movimenti nazionalisti nati al di fuori del contesto europeo.
Un contesto in cui la Prima Internazionale o Associazione Internazionale dei lavoratori era nata e si era sviluppata a partire non soltanto dalla solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi europei, ma anche da quella nei confronti degli insorti polacchi che proprio in quel periodo si battevano contro la repressione e il dominio zarista sulla loro nazione.
Non a caso un personaggio fortemente simbolico di quella stagione fu Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, guerrigliero e abile condottiero, ma scarsamente dotato dal punto di vista della visione e della capacità critica politica, così come lo ritenevano sia Marx che Engels. I quali, pur potendo essere considerati, insieme a Bakunin e altri esponenti dei movimenti politici dell’epoca come Giuseppe Mazzini, tra i “padri fondatori” di quella esperienza, sorta nel 1864 e destinata a concludersi nel 1876, ma già avviata alla sua fine a partire dall’espulsione di Michail Bakunin e di James Guillaume messa in atto al Congresso dell’Aja sulla base delle decisioni prese alla Conferenza di Londra nel 1871, ne furono contemporaneamente tra i maggiori promotori e affossatori.
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Pensiero critico. Perché progressismo e sinistra perdono le elezioni?
di Álvaro García Linera*
Le sinistre e i progressismi al governo non perdono le elezioni a causa dei troll dei social network. Né perché le destre sono più violente, e tanto meno perché la gente che ha beneficiato delle politiche sociali è ingrata.
Le battaglie politiche sui social non creano dal nulla ambienti politico-culturali espansivi nelle classi popolari maggioritarie. Le radicalizzano e le conducono lungo percorsi isterici. Ma la loro influenza presuppone, in precedenza, l’esistenza sociale di un malessere generalizzato, di una disponibilità collettiva al distacco e al rifiuto delle posizioni progressiste.
Allo stesso modo, le destre estreme, autoritarie, fascistoidi e razziste sono sempre esistite. Vegetano in spazi marginali di militanza rabbiosa e chiusa in sé stessa. Ma la loro predicazione si espande a causa del deterioramento delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice, della frustrazione collettiva lasciata da progressismi timorosi, o della perdita di status di settori medi.
E quanto a quelli che sostengono che la sconfitta sia dovuta all'”ingratitudine” di quei settori precedentemente beneficiati, dimenticano che i diritti sociali non sono mai stati un’opera di beneficenza governativa. Sono state conquiste sociali ottenute nelle strade e attraverso il voto.
Per tutto questo, senza alcuna scusa, un governo progressista o di sinistra perde le elezioni per i suoi errori politici.
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Sul filo del rasoio: "pace", capitolazione, guerra. O Thawra!
Le trattative Usa/Iran
di Lo Sparviero
Proseguono le trattative “sul nucleare” iraniano fra i delegati della Repubblica islamica e i negoziatori statunitensi guidati da Steve Witkoff il quale Witkoff, miliardario immobiliarista ebreo americano “prestato alla politica” e presentato dai media come un “feroce negoziatore” nel senso della feroce e concreta attitudine di costui nel concludere proficuamente gli affari, è l’incaricato di Trump anche per le trattative “di pace” sul fronte russo-ucraino/NATO. Anche questo fatto di dettaglio indica come siano intrecciate le vicende degli attuali fronti di guerra aperti e della possibile “pace” che si sta contrattando. In questa nota ci preme dire unicamente di un paio di punti che riguardano lo scenario di guerra in Asia occidentale. Un paio di punti (a nostro avviso) fermi di carattere generale, attorno ai quali ruotano le molteplici e imprevedibili variabili della lotta per la vita o per la morte cioè della lotta suprema in corso.
Scriviamo sopra di possibile “pace” fra virgolette perché essa per l’imperialismo è concepibile a una non contrattabile condizione: la capitolazione politica e operativa delle forze combattenti dell’Asse della Resistenza. La capitolazione di Hamas, quella di Hezbollah, delle milizie popolari irakene, degli Houthi yemeniti. Tutte forze che sono sotto continua e feroce pressione strangolatoria nel mentre che fra Usa e Iran “si tratta”.
“Si tratta” in perfetto stile imperialista, cioè con la pistola puntata alla tempia del governo di Teheran e dell’intero popolo iraniano. Un imponente dispositivo militare imperialista è infatti e intanto schierato, pronto a colpire qualora i negoziati fallissero secondo il criterio che lo sceriffo americano riterrà valido. Da parte del regime di Teheran che è fatto da uomini dalla tempra fortissima a cominciare dalla Guida Suprema Alì Khamenei, niente affatto disposti alla sottomissione, si accetta il terreno della trattativa pur sotto evidente scacco per cercare di evitare o procrastinare il più possibile uno scontro militare diretto con il tandem Usa/Israel, forse cercando di spezzarlo. Un tandem criminale che non ha nessunissimo scrupolo a usare il suo armamento nucleare se decide per la guerra, che in ogni caso sarebbe guerra devastante per l’Iran.
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Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia
di Alessandro Scassellati
Dopo decenni in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla famosa frase di Margaret Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul concetto e sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, Roma-Bari 2024) che fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia politica, una disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società, indagando in modo particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia capitalistica.
Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.
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L’irrealtà europea tra Kiev e Mosca
di Barbara Spinelli
In attesa del vertice trilaterale fra Trump, Putin e Zelensky, o di precedenti incontri bilaterali Mosca-Kiev come preferirebbe Putin, occorrerà distinguere con precisione quel che separa l’apparenza dalla realtà.
L’accordo di cui Trump ha discusso lunedì a Washington – con Zelensky, i capi di Stato o di governo di cinque paesi europei, la Nato, la presidente della Commissione Ue – sembrerebbe chiaro: cessione alla Russia di gran parte dei territori perduti da Kiev (Donbass soprattutto), compresa la Crimea annessa nel 2014 quando Washington organizzò lo spodestamento del presidente Yanukovich, giudicato troppo filo-russo; solide garanzie di sicurezza, con una presenza di soldati francesi e inglesi in quel che resta dell’Ucraina, con eventuale copertura aerea e satellitare Usa; “riarmo forte” dell’Ucraina; fine degli aiuti militari Usa ma acquisto di armi statunitensi destinate a Kiev da parte degli Stati europei, per un totale di ben 100 miliardi di dollari (le spese sociali saranno ancora più tagliate); impegno a difendere l’Ucraina in caso di attacchi, “sul modello articolo 5” della Nato (l’attacco a un Paese è un attacco contro tutti) ma senza adesione alla Nato.
Tema preminente è stato la garanzia di sicurezza per l’Ucraina, com’è naturale. Ma neanche un cenno è stato fatto alle garanzie di sicurezza chieste da Mosca: garanzie non solo militari, ma concernenti i cittadini russi e russofoni, la cui lingua deve tornare a essere lingua ufficiale accanto a quella ucraina, secondo Putin. Mosca chiede anche la riabilitazione della Chiesa ortodossa canonica, illegalmente messa al bando da Zelensky nel 2024.
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La lotta di classe con l’arma dei dazi
di Alfonso Gianni
C’è del metodo nella follia di Trump, che con i dazi punta a riconquistare il baricentro dell’economia e della politica mondiale. La consonanza ideologica con la nostra Presidente del Consiglio non ci aiuterà. L’Europa deve rendersi indipendente dal disegno USA spezzando il sistema di guerra che gli è proprio e aprendosi al Sud Globale
Che il viaggio a Washington della presidente Giorgia Meloni potesse portare a risultati concreti sul fronte della guerra commerciale era davvero difficile pensarlo, specialmente dopo che la proposta di “zero dazi” tra USA e Europa era stata respinta nettamente dall’Amministrazione statunitense e ribadita al Commissario europeo per il commercio, Maros Sefcovic. Allo stesso tempo supporre che Donald Trump potesse assumere posizioni sostanzialmente diverse da quelle brutalmente aggressive, appena temperate dalla tregua dei 90 giorni, per di più alla vigilia di importanti riunioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale era altrettanto impensabile. Oltre tutto la natura della visita della Meloni era stata messa in dubbio da più parti, se si trattava di una missione per conto della UE – non bastavano le telefonate con Ursula von der Leyen per accreditarla – o di un bilaterale Italia-USA, come i suoi fedelissimi nel Governo italiano avevano prudentemente detto alla vigilia della su partenza. Cosicché l’incontro si è svolto in un’aura di indeterminatezza che in fondo faceva comodo alla Meloni, potendo in questo modo vendere nel modo più favorevole qualunque tipo di esito, evitando le strette di una valutazione sui risultati concreti, avendo avvolto nel fumo gli obiettivi di partenza. La risposta di Trump all’invito a venire a Roma è rimasta indeterminata nei tempi e negli scopi e, secondo la stessa Meloni, non si sa se in quel caso intenderà farne sede di trattativa con la UE. Non a caso l’incontro con la stampa italiana, previsto prima della partenza da Washington, è stato sconvocato e la Meloni ha risolto con un whatsapp che definiva, in termini del tutto rituali e burocratici, l’incontro con il Presidente USA come un “confronto ideale e costruttivo”.
Il timore di una brusca accoglienza da parte di Trump è stato volutamente ingigantito per potere poi presentare come una vittoria i sorrisi e le parole di encomio che Trump non ha lesinato alla ospite italiana. Anche qui non c’è da stupirsi, dal momento che la Meloni poteva vantare un feeling di vecchia data con The Donald, avendolo sostenuto nelle sue accuse di brogli elettorali nel 2020.
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La tensione tra Israele e Iran non giova alla causa palestinese
di Il Pungolo Rosso
Abbiamo voluto attendere che si concludesse lo scambio di colpi tra Israele e Iran per dire la nostra, che – però – a vicenda per il momento conclusa, resta identica: nonostante le possibili (e realmente esistenti) illusioni a riguardo, l’innalzamento della tensione tra i due stati non giova alla causa palestinese.
Un indizio di fondamentale importanza dovrebbe essere nel fatto che è stato il regime sionista a prendere l’iniziativa di colpire duro a Damasco abbattendo mezza ambasciata iraniana e alcuni alti ufficiali del regime di Teheran. Un avvertimento dato in due direzioni: verso gli Stati Uniti e l’Europa; verso l’Iran. Ai suoi protettori la banda di Netanyahu (e la sua finta opposizione) hanno mandato a dire: noi siamo in grado, e siamo determinati, se necessario, a far deflagrare la guerra in tutto il Medio Oriente, ben sapendo voi Stati Uniti, voi Unione Europea, non siete pronti a questo. Ricatto pesante. Ai prudentissimi ayatollah (che, ricordatelo, avevano sconsigliato Hamas dall’agire in modo offensivo, e che fino alla fine di marzo hanno tenuto un profilo d’azione molto basso) lo stato sionista ha mandato a dire: continuate a restare prudenti, perché noi siamo in grado di colpirvi duro (il sottinteso riguarda le centrali di arricchimento dell’uranio e quant’altro di strategico possa essere colpito). Altro ricatto pesante.
Dopo l’attacco del 1° aprile, era impossibile, per Teheran, restare con le mani in mano, salvo perdere la faccia. La risposta è stata accorta, spettacolare, di sicuro dannosa per il mito di invincibilità di Israele – già fatto a pezzi dall’offensiva della resistenza palestinese del 7 ottobre -, ma nello stesso tempo prudente. Un piccolo capolavoro tattico, nell’esclusivo interesse dell’Iran come potenza regionale, senza nessuna ricaduta positiva per il popolo palestinese. Anzi.
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Iran-Usa, a che punto è la guerra mondiale non dichiarata?
di nlp
La prima pagina della Handelsblatt di pochi giorni fa titolava sulla esistenza di guerra mondiale non dichiarata poche ore prima dell’attacco degli Usa all’Iran. Per il quotidiano tedesco si tratta della guerra tra democrazie e autocrazie, esprimendo una visione del conflitto globale ferma al conflitto tra stati e piegata alla contingenza politica. Allo stesso tempo, proprio se guardiamo alla contingenza, l’attacco Usa all’Iran lascia diversi dubbi su quanto siano reali gli effetti fine-di-mondo dichiarati da Washington come conseguenza dei bombardamenti di questi giorni. Ma capire cosa sta accadendo bisogna uscire dalla contingenza, quella degli schieramenti degli stati e quella degli effetti dei bombardamenti visto che da metà degli anni ’10, specie in Medio Oriente, di attacchi fatti più di messaggio politico che di distruzione materiale, ce ne sono stati e la guerra del mondo non dichiarata si è comunque estesa su scala planetaria come se il contenuto diplomatico di alcuni bombardamenti (dalla Siria del 2017 allo scambio di missili Israele-Iran di questa primavera) praticamente non esistesse.
Quindi la guerra mondiale non dichiarata esiste, si tratta di capire cosa è, a che punto siamo in questo genere di guerra e quali sono le prospettive che ha davanti a sé. Dall’inizio degli anni ’90 la guerra, come da sua costante antropologica, ha alimentato le rivoluzioni tecnologiche (dalla microelettronica alla rete fino alla AI) si è estesa fino ai confini temporali (guerra permanente), ha raggiunto ogni attività umana (guerra senza limiti), ha moltiplicato i piani di realtà sui quali si esercita necessitando di una strategia che li sincronizzasse (guerra ibrida). La guerra mondiale non dichiarata emerge da questo contesto di moltiplicazione delle mutazioni dei conflitti basati su una violenza sia esplicita, tradizionale fino a sembrare ancestrale, che mimetica o innovativa tanto da sembrare magica a causa della performatività tecnologica che la pervade. È quindi analiticamente necessario parlare oggi di “guerra mondiale non dichiarata”.
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Dall’Iran droni e missili contro il “cane pazzo”
di Geraldina Colotti
Il regime sionista, si sa, approfitta del ruolo di vittima perenne per imporre, con la politica dei fatti compiuti e forte del suo ruolo di gendarme degli Usa in Medioriente qualunque violazione dei diritti umani e della legalità internazionale: a cominciare da un’occupazione criminale che, dal 1948, ha espropriato ed espulso il popolo palestinese in una successione di massacri, oggi culminati col genocidio che ha ucciso più di 30.000 persone, un terzo dei quali bambini.
Questa volta, però, Netanyahu ha stabilito un altro primato, compiendo un atto di aggressione inedito: l’attacco aereo al consolato iraniano a Damasco, in Siria che, il 1° di aprile, ha ucciso 16 persone, fra cui due generali dei Guardiani della rivoluzione. Un’ulteriore escalation nella provocazione a Teheran, per allargare il conflitto in Medioriente, tirando per la giacca gli Usa e i loro alleati europei - Francia, Gran Bretagna e Germania. Il governo iraniano ha dichiarato che avrebbe esercitato il proprio diritto all’autodifesa e, il 13 sera, ha fatto partire decine di missili e droni “su dei bersagli specifici all’interno dei territori occupati”: in risposta “ai numerosi crimini commessi dal regime sionista”, nello specifico l’attacco contro la sezione consolare a Damasco. Il mattino di quello stesso giorno, le forze speciali marittime dei guardiani della rivoluzione iraniana si erano impadronite del porta-container Msc Aries, circa un centinaio di chilometri a nord della città emiratina di Foujeyra. Una nave battente bandiera portoghese, ma riconducibile alla società Zodiac che – ha fatto sapere l’agenzia stampa iraniana Irna – “appartiene al capitalista sionista Eyal Ofer”.
Dopo lo schiaffo del 7 ottobre, inflitto dalla resistenza palestinese al regime occupante, il quale ha dato inizio al genocidio programmato da Netanyahu, ci sono stati numerosi attacchi contro navi dirette a Tel Aviv che transitavano nel mar Rosso e nel golfo di Aden o che commerciavano con Israele.
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Da Ben Gurion a Netaniahu: il passo più lungo della gamba
Grande Israele, genocidio o suicidio?
di Fulvio Grimaldi
Dall’occupazione all’annessione
Ce n’est que un debut. Permettetemi la blasfemia di adattare una parola d’ordine che aprì un tempo di liberazione e giustizia a qualcosa che ne è l’opposto: schiavitù e crimine. Cioè Gaza. E non solo.
Ci vuole tutta l’insolenza accompagnata ad abissale ignoranza - i due binari sui quali viaggia l’intera nostra compagine governativa - del trovatello berlusconiano che un prodigio neofascista ha fatto diventare ministro egli Esteri, per esigere (!) che, prima di venire a esistenza, lo Stato palestinese (che non c’è) debba riconoscere lo Stato israeliano che c’è da ottant’anni. Con la consapevolezza di chi è convinto che non ce n’è per nessuno, Tajani sorvola sul dato granitico del riconoscimento solennemente dichiarato, nel 1993, dalla massima autorità palestinese, l’OLP di Arafat. Un leader, già ridimensionato dalla cacciata da Beirut, rannicchiato in esilio a Tunisi, che si rassegna a coronare l’ennesima turlupinatura sionista, della quale non verranno mai rispettate neanche le forme.
Questa manifestazione di competenza e arguzia diplomatica Tavjani l’ha espressa, con il tempismo che rivela la sua oculatezza diplomatica- Erano le ore in cui si materializzava la presunta elucubrazione onirica di Trump dell’oscena “Riviera di Gaza”, apparecchiata, a forza di cocktail e aragoste, per Bibi, Donald, loro consorti e altri della Fratellanza Epsteiniana, Quelli da Bibì tenuti ferreamente per i santissimi in virtù dei ricattini sexy allestiti dal pedofilo ebreo (ovviamente suicidato) su mandato del Mossad.
“Gaza riviera, dalla visione alla realtà” è la solenne dichiarazione, a fine luglio, di una determinante quota di parlamentari e ministri Knesset, riferendosi, appunto, al futuro distopico di una Gaza dove fame, bombe, veleni, cecchini anti-bambini, avranno fatto togliere il disturbo a un residuato di pezzenti umanoidi sgraditi a Jahvé. Ben Gvir: “Nessun negoziato (altro che Hamas indisponibile), occupazione e incoraggiare l’emigrazione”.
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Gli Stati Uniti non riescono a gestire Israele
di Alastair Crooke - Strategic Culture
Alon Pinkas, ex diplomatico israeliano di alto livello, ben collegato a Washington, ci dice che una Casa Bianca frustrata ne ha finalmente "abbastanza". La rottura con Netanyahu è completa: Il Primo Ministro non si comporta come dovrebbe fare "un alleato degli Stati Uniti"; critica aspramente le politiche mediorientali di Biden, e ora gli Stati Uniti hanno capito questo fatto.
Biden non può permettersi che un ulteriore effetto-Israele metta a rischio la sua campagna elettorale e quindi - come chiarisce il suo discorso sullo Stato dell'Unione - raddoppierà i quadri politici mal interpretati sia per Israele che per l'Ucraina.
Cosa intende fare Biden in merito all'atto di sfida di Netanyahu contro il "Santo Graal" delle raccomandazioni politiche statunitensi? Beh, ha invitato a Washington Benny Gantz, un membro del gabinetto di guerra israeliano, e lo ha avvolto in un'agenda "riservata a un primo ministro, o a qualcuno che si pensa possa o debba diventare premier". A quanto pare, i funzionari hanno pensato che, avviando una visita al di fuori dei consueti protocolli diplomatici, avrebbero potuto "scatenare una dinamica che potrebbe portare a un'elezione in Israele", osserva Pinkas, con il risultato di una leadership più favorevole alle idee statunitensi.
È stato chiaramente inteso come un primo passo verso un cambio di regime "soft power".
E il motivo principale della dichiarazione di guerra a Netanyahu? Gaza. A quanto pare, Biden non ha apprezzato l'affronto ricevuto alle primarie del Michigan, quando il voto di protesta per Gaza ha superato i 100.000 "voti non impegnati". I sondaggi - soprattutto tra i giovani - stanno lanciando segnali di allarme per novembre (in gran parte a causa di Gaza). I leader nazionali democratici cominciano a preoccuparsi.
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Cessate il fuoco – La resa dei conti è rinviata
di Konrad Nobile
I sorprendenti sviluppi che hanno portato al cessate il fuoco tra Israele e Iran mi spingono a fare il punto della situazione e fare un bilancio di questa guerra dei 12 giorni e delle sue possibili conseguenze.
Ovviamente premetto che si tratta di considerazioni fatte a caldo e ancora sotto l’effetto di un forte coinvolgimento emotivo. Inoltre, mi rendo conto che dalla posizione di spettatore lontano, sicuro e privilegiato non si possa comprendere appieno la situazione reale.
Sicuramente per capire veramente quel che è successo e le sue ripercussioni ci vuole del tempo, calma e una lucidità e una profondità che mi mancano.
Qualche giorno or sono ho scritto un articolo per ComeDonChisciotte dal titolo “GUERRA ALL’IRAN: I NODI VENGONO AL PETTINE”, nel quale ho sostenuto che lo scontro apertosi in Asia occidentale sia da interpretare come uno scontro esistenziale (per tutte le parti coinvolte).
Nonostante lo sviluppo del cessate il fuoco, riconfermo questa lettura, per quanto lo scontro venga ora “congelato” e rinviato nuovamente.
Ad ogni modo, la soluzione trovata da Trump con la mediazione del Qatar è stata sorprendente: è stata smentita la tesi, espressa nel mio precedente articolo, che sosteneva che “Lo scontro apertosi il 13 giugno con l’aggressione israeliana alla Repubblica Islamica è ormai molto difficile possa rientrare per lasciare spazio a nuovi compromessi e negoziati.”.
Alla fine, invece, almeno per ora, è stata trovata proprio quella “improbabile de-escalation” che non ritenevo di facile realizzazione.
Ho l’impressione che la mossa di Trump, aiutata dalla Russia e dalla Cina, sia stata abilissima per tutelare i suoi interessi e salvaguardare il sistema economico-commerciale globale.
Il presidente americano è riuscito a venirne fuori alla grande, anche se i risultati finali si potranno trarre nel medio-lungo periodo.
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“Zeitenwende” il cambiamento epocale tedesco
di Francesco Cappello
La Germania lancia sassi alla Russia nascondendosi dietro l’articolo 5 della NATO. Perché il “pacifista” Trump permette pericolosissimi dislocamenti di truppe tedesche in Lituania?
Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la Germania manda truppe, in permanenza, nel territorio di un altro paese. L’ultima volta, come si ricorderà, fu nel caso della tentata invasione della Russia, la cosiddetta operazione Barbarossa che costò da 26 a 27 milioni di vittime tra civili e militari all’URSS.
Si tratta di cinquemila uomini di una divisione pesante (vedi scheda).
Come è noto, da sempre la Nato è sotto comando statunitense. Se Trump fosse realmente interessato alla distensione con la Russia, oltre che a smantellare le armi nucleari USA sul territorio europeo, piuttosto che aggiungerne di nuove (si pensi alle nuove bombe nucleari B61 13), bisognerebbe che si opponesse alla pericolosa dislocazione di truppe tedesche in Lituania.
Immaginiamo uno scontro tra lituani e russi, al confine tra Lituania e Russia. La Lituania confina con Kaliningrade, l’exclave russa, a due passi dal territorio continentale russo. Nel caso di una risposta militare ad una qualsiasi provocazione che coinvolgesse truppe lituane/tedesche scatterebbe la possibilità di far ricorso all’articolo 5 [1] del trattato Nord Atlantico che comporterebbe l’attivazione di 31 paesi membri in soccorso della Lituania contro la Russia. Si ricordi che sin dall’inizio i russi hanno avvertito che il giorno in cui il conflitto dovesse malauguratamente uscire dal territorio ucraino, e la Federazione Russa si trovasse a dove far fronte a tutta la NATO, diventerebbe inevitabile per la sua difesa il ricorso all’enorme arsenale nucleare di cui dispone, quale extrema ratio per difendersi a fronte di una minaccia ormai esistenziale.
L’arrivo di truppe tedesche permanenti in Lituania sarebbe un atto di difesa preventiva: non più se serve interveniamo, ma siamo già qui, pronti a reagire subito
Parlano, infatti, di “rafforzamento” dell’articolo 5 con riferimento al posizionamento militare reale, non solo simbolico. La NATO ha sempre avuto piani per la difesa dell’Europa orientale, ora però sta pensando e realizzando basi permanenti.
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L'ultimo appello di Julian Assange
di Rossella Fidanza
Martedì Assange presenterà il suo ultimo appello ai tribunali UK per evitare l'estradizione. Se verrà estradato, sarà la morte delle indagini sui meccanismi interni del potere da parte della stampa
LONDRA. Se a Julian Assange verrà negato il permesso di appellarsi alla sua estradizione negli Stati Uniti davanti a una commissione di due giudici dell'Alta Corte di Londra questa settimana, non gli resterà altro che ricorrere al sistema legale britannico. I suoi avvocati possono chiedere alla Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) una sospensione dell'esecuzione ai sensi dell'articolo 39, che viene concessa in "circostanze eccezionali" e "solo quando esiste un rischio imminente di danno irreparabile". Ma è tutt'altro che certo che il tribunale britannico sarà d'accordo. Potrebbe ordinare l'estradizione immediata di Julian prima di un'istruzione ai sensi dell'articolo 39 o decidere di ignorare la richiesta della Corte europea dei diritti dell'uomo di permettere a Julian di essere ascoltato dal tribunale.
La persecuzione di Julian, che dura da quasi 15 anni e che ha avuto pesanti ripercussioni sulla sua salute fisica e psicologica, avviene in nome dell'estradizione negli Stati Uniti, dove verrebbe processato per la presunta violazione di 17 capi d'accusa della legge sullo spionaggio del 1917, con una potenziale condanna a 170 anni.
Il "crimine" di Julian è quello di aver pubblicato nel 2010 documenti classificati, messaggi interni, rapporti e video del governo e delle forze armate statunitensi, forniti dalla whistleblower dell'esercito americano Chelsea Manning. Questo vasto materiale ha rivelato massacri di civili, torture, assassinii, l'elenco dei detenuti di Guantanamo Bay e le condizioni a cui erano sottoposti, nonché le regole di ingaggio in Iraq. Coloro che hanno perpetrato questi crimini - compresi i piloti di elicotteri statunitensi che hanno abbattuto due giornalisti della Reuters e altri 10 civili e ferito gravemente due bambini, tutti ripresi nel video Collateral Murder - non sono mai stati perseguiti.
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Marx incostituzionale
di Nicolò Monti*
Sembrava una vittoria storica quella del “Forum serale Marxista per la politica e la cultura”, abbreviato Masch, nei confronti dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione, ma le motivazioni della sentenza del Tribunale di Amburgo hanno spazzato via il già molto cauto ottimismo. L’8 Marzo scorso l’associazione, che aveva citato in giudizio lo Stato per essere stata classificata come associazione di “estrema sinistra”, togliendole lo status di organizzazione no profit, ha ottenuto la riabilitazione e il proprio status. In un clima così fortemente anticomunista, questa sembrava davvero una bella notizia per le associazioni e le organizzazioni marxiste tedesche.
Come sappiamo però, ogni tribunale che emette una sentenza ne pubblica dopo un certo lasso di tempo le motivazioni per la quali è stata emessa. Il 6 Agosto sono arrivate e non suonano affatto come una vittoria politica, anzi. Per il Tribunale infatti l’unico motivo che ha portato a dar ragione a Marsch è stato che i membri non avevano un "atteggiamento attivo e combattivo" tale da essere pericoloso per la Costituzione. Insomma, per i giudici i militanti di Masch sono “poco attivi” per poter essere considerati una minaccia, per il momento. Oltre ciò, che già di suo farebbe sorridere se non fossero così maledettamente seri, le motivazioni arrivano al nocciolo della questione.
Prima di fare la disamina delle stesse però è necessario spiegare cosa sia Masch. L’organizzazione nasce nel 1981 ad Amburgo affiliata al DKP, Partito Comunista Tedesco, che nell’allora Germania Ovest era messo al bando e vittima di persecuzioni. Lo scopo di Masch è la formazione marxista tramite conferenze, corsi e lezioni e riprende le caratteristiche delle scuole operaie nate nel 1925 in Germania. La loro importanza negli anni 20 e 30 era tale che tra insegnanti e partecipanti ai corsi vi si poteva leggere nomi del calibro di Bertolt Brecht. Oggi continua la sua opera di formazione politica e culturale marxista, ma con una ampia autonomia dal DKP.
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In Ucraina Trump somiglia sempre più a Biden
di Roberto Iannuzzi
Chiuso lo spiraglio negoziale, torna la logica delle armi e il rischio di escalation
E’ probabile che chi ancora nutriva speranze nella possibilità che il presidente americano Donald Trump risolvesse il conflitto ucraino per via negoziale le abbia perse in questi giorni.
Una reale trattativa fra Russia e Ucraina non è mai decollata, e la bizzarra mediazione dell’amministrazione Trump (gli Stati Uniti sono parte cobelligerante piuttosto che arbitro) è stata inefficace fin dall’inizio . Ma gli eventi di questi giorni segnano uno spartiacque probabilmente definitivo.
Dopo una breve pausa nell’invio di armi a Kiev apparentemente motivata dall’assottigliarsi delle riserve americane, lo scorso 7 luglio Trump ha annunciato la ripresa delle forniture giustificandola con gli intensificati attacchi russi e l’urgente bisogno di sistemi di difesa aerea da parte dell’Ucraina.
L’amministrazione ha pertanto deciso di prelevare dalle riserve del Pentagono armi per un valore di 300 milioni di dollari in base alla Presidential Drawdown Authority (PDA), per mandarle a Kiev.
E’ la prima volta nel suo secondo mandato che Trump fa ricorso alla PDA, uno strumento abitualmente utilizzato dal suo predecessore Joe Biden.
La decisione è coincisa con un cambio di toni da parte del presidente USA, che per la prima volta ha impiegato un linguaggio molto aspro nei confronti del presidente russo Vladimir Putin, accusato di “uccidere un sacco di gente” e di non far seguire alle parole azioni concrete.
Trump e i sostenitori della “linea dura”
Sebbene il presidente americano ci abbia abituato da tempo a repentini cambi di rotta e improvvisi sbalzi d’umore, il differente approccio nei confronti di Mosca è parso nei giorni successivi come qualcosa di meno estemporaneo.
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La forma di merce della forza-lavoro
di Gianfranco Pala
Tratto da Gianfranco Pala, Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Laboratorio Politico, Napoli, 1995
“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce”.
Così – è ben noto – Marx comincia e articola lo studio del capitale nel Capitale. Considerata oggi la radicata e datata ignoranza tradizionale del marxismo, le categorie elementari semplici, che Marx espresse intorno alla forma di merce, sono generalmente sconosciute e unilateralmente rimosse. Tuttavia partendo da lì, si spera di chiarire una volta per tutte la questione sociale del salario procedendo attraverso la rilettura dei testi marxiani.
Una simile lettura conduce a spiegare come Marx denoti quale sia il carattere dominante della merce nella “forma di società che noi dobbiamo considerare”: poiché sapere per prima cosa con quale oggetto reale si ha a che fare è il solo modo scientificamente corretto di procedere nell’analisi e nella comprensione di ciò che si vuole spiegare, ed eventualmente trasformare. Altrimenti ci si rifugia nel peggiore sentimentalismo romantico. Che tutte le componenti basilari della ricchezza sociale non nascano come merce – nulla nasce come merce, neppure il pane – è fin troppo ovvio. Ma che esse – e tendenzialmente tutte le cose fruibili, pure coscienza e onore – in epoca moderna, nelle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, non lo siano diventate o non lo diventino crescentemente è molto meno ovvio.
Il massimo di confusione sul carattere di merce della produzione sociale, e sulla sua contraddizione, è raggiunto dall’errata convinzione, che tutte le riassume e le supera, secondo la quale “il lavoro non è una merce”.
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Mega-elezioni per il “laboratorio bolivariano”
di Geraldina Colotti
Il presidente del CNE, l’intellettuale Pedro Calzadilla, ha annunciato il calendario di massima che porterà alle elezioni del 21 novembre in Venezuela: le “mega-elezioni”, come sono state definite, giacché si voterà lo stesso giorno per eleggere i 23 governatori o governatrici, i 335 sindaci o sindache e centinaia di membri dei consigli regionali e comunali. Le loro candidature verranno presentate tra il 9 e il 29 agosto, mentre il 26 settembre si svolgerà una simulazione di voto per verificare il funzionamento di tutte le fasi del processo elettorale. La campagna elettorale, ha detto Calzadilla, comincerà il 28 ottobre e terminerà il 18 novembre, mentre si procederà a organizzare, come di consueto, molteplici audit del sistema di voto, altamente automatizzato, per assicurarne il perfetto funzionamento e la trasparenza.
Guardando ai quasi 23 anni di esistenza del processo bolivariano, ognuna delle 25 elezioni che si sono svolte appare un piccolo condensato di storia per comprendere la complessa cartografia del presente, punti di resistenza contro l’imperialismo, disegnati dal “laboratorio bolivariano”. A differenza di quanto avviene nelle democrazie borghesi, il voto in Venezuela non è infatti un feticcio da ostentare a ogni tornata elettorale, ma una leva per far crescere ulteriormente la coscienza delle masse, il potere popolare, per compattare e ampliare il blocco storico che sostiene la rivoluzione, e per decidere quando, come e con quali alleati si deve avanzare tra guerra di movimento e guerra di posizione, manovrando in equilibrio tra conflitto e consenso.
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Parlare o tacere su Gaza. Scrittori e artisti alla prova del genocidio
di Andrea Inglese
Quando quello che sta succedendo sarà abbastanza lontano nel tempo, tutti si chiederanno sbigottiti come mai si è permesso che accadesse.
Omar El Akkad
Gaza è crollata sulle norme di un diritto internazionale costruito pazientemente per scongiurare la ripetizione delle barbarie della Seconda Guerra mondiale.
Jean-Pierre Filiu
Le corporazioni di artisti, scrittori, docenti universitari: un caso di studio
Il comportamento intellettuale che le corporazioni di artisti, letterati e professori universitari, in occidente, hanno avuto in seguito al 7 ottobre di fronte allo sterminio della popolazione palestinese di Gaza costituisce e costituirà un caso di studio sociologico per le generazioni future. Nella gerarchia dell’infamante accusa di complicità al genocidio[1] dei palestinesi queste corporazioni si situano al terzo posto per grado di responsabilità. Il primo posto lo occupano solidamente la maggior parte dei governi occidentali e le istituzioni internazionali come l’Unione Europea. Qui c’è poco da studiare: la loro consapevole e volontaria inerzia è sotto gli occhi di tutti, così come le loro responsabilità morali e politiche. Al secondo posto vi è la categoria dei giornalisti e degli opinionisti (occidentali)[2]. Molti di loro collaborano attivamente o hanno collaborato almeno fino a date recenti, a rendere plausibile la propaganda del governo israeliano. Altri, una minoranza, hanno deciso abbastanza presto di farsi canale di diffusione dei giornalisti palestinesi, gli unici a cui era consentito essere testimoni, a rischio della loro vita, dei massacri e delle distruzioni di Gaza. Infine, al terzo posto, i portavoce di una sedicente “coscienza critica” o dei sedicenti valori dell’”umanità”: artisti, scrittori, studiosi. Più questi portavoce si trovavano prossimi o interni a una zona di “ufficialità”, meno, nella maggior parte dei casi, si sono espressi chiaramente e tempestivamente in pubblico.
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Via della Seta e nuovo multilateralismo: una prospettiva globale
di Gianmarco Pisa*
La dimensione multilaterale è una chiave di volta della risoluzione dei conflitti, a partire dall’eguaglianza tra le nazioni, la non-ingerenza e l’autodeterminazione, sulla base di un approccio politico e diplomatico. Nuovi sistemi di relazione, alternativi all’imperialismo e alle sue guerre, possono aprire nuovi spazi per la cooperazione internazionale, e fornire un contributo rilevante per lo sviluppo e per la pace.
Le rotte energetiche internazionali (la rete internazionale dei gasdotti e degli oleodotti) e in generale l’insieme delle rotte mercantili rappresentano, da sempre, uno strumento di lettura della dinamica internazionale, una misura dell’andamento delle relazioni strategiche e, per quanto riguarda l’aspetto specificamente geopolitico, un punto di vista, interessante per quanto non esaustivo, circa gli sviluppi sui diversi scacchieri geopolitici, sui rapporti di alleanze, sull’emergenza di nuovi attori e di nuovi interessi nei diversi quadranti. Per quello che riguarda la stagione storica e politica a noi più vicina, sotto questo aspetto, due date meritano di essere segnalate per la loro importanza: perché indicano dei passaggi di fase significativi e perché addensano al proprio interno una serie di eventi particolarmente rilevanti per la loro portata e per le loro conseguenze.
La prima di queste è senza dubbio il 1999.
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Elezioni europee, cosa cambia?
di Domenico Moro e Fabio Nobile
Per fare una valutazione del risultato della competizione elettorale per il Parlamento europeo, è necessario precisare quali sono le attribuzioni di questo organismo. Il Parlamento europeo ha tre funzioni principali: a) condivide con il Consiglio dell’Unione la funzione legislativa; b) approva o respinge i candidati a componenti della Commissione europea (il governo della Ue); c) Condivide con il Consiglio dell’Unione il potere di bilancio della Ue e può pertanto modificare le spese dell’Ue.
Il problema, quindi, è che il potere è condiviso con altri organismi, che contano di più, come Il Consiglio europeo, il consiglio dell’Unione europea, e soprattutto la Banca centrale europea, che ha una notevole influenza sui governi nazionali, come prova la lettera inviata da Trichet e da Draghi nel 2011 a Berlusconi, che fu costretto a dare le dimissioni da capo dell’esecutivo. Il Consiglio europeo, composto dai capi di governo e di stato della Ue a 27, ha pure molto potere, potendo nominare il Presidente della Commissione, che deve essere approvato dal Parlamento europeo, e definisce gli orientamenti generali dell’Ue. Il Consiglio dell’Unione europea, composto dai ministri dei 27 Paesi Ue competenti per ciascun settore, detiene parecchie competenze, tra cui quelle sulla legislazione, sul bilancio Ue, sulle politiche economiche generali degli Stati membri, sugli accordi internazionali tra la Ue e altri Stati, ecc. Di fatto il potere del Parlamento europeo è inferiore a quello dei normali parlamenti nazionali anche se non può definirsi totalmente ininfluente.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è il quadro generale della fase storica che vede la Ue in grave difficoltà economica. La crisi è tutt’altro che passata e da molti anni l’economia continentale perde posizioni a livello internazionale, in termini di quota detenuta sul Pil mondiale, e si trova in difficoltà a competere con le altre due più importanti aree economiche mondiali, la Cina e gli Usa.
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La guerra mondiale e l’Europa
di Ascanio Bernardeschi e Alessandra Ciattini
Le varie parti della “guerra mondiale a pezzi” hanno una logica comune e l’Europa, contro i propri stessi interessi, tollera questa logica. I comunisti devono invece appoggiare lo sforzo dei popoli che vogliono liberarsi dalla violenta supremazia occidentale.
Se alcuni mesi fa papa Bergoglio aveva parlato, con riferimento ai troppi conflitti in corso, di “guerra mondiale a pezzi”, ci pare che questi pezzi si stiano pericolosamente fondendo nell’ambito di un orientamento sistemico alla guerra da parte delle maggiori potenze occidentali e della Nato.
Il motivo fondamentale è che stanno crollando i vecchi equilibri di fronte all’emergere impetuoso di nuovi protagonisti, fino a poco tempo fa dominati dalla violenza, più che dall’egemonia, del cartello di nazioni “evolute” dominato dagli Usa.
È proprio la potenza americana che, nel disperato tentativo di salvaguardare il suo predominio – e il predominio della propria valuta che le consente di vivere ben al di sopra delle proprie capacità produttive –, ha scelto il terreno militare dello scontro, consapevole che su quello economico la sua supremazia sta vacillando. La logica della maggior parte delle guerre in atto si può spiegare solo tenendo presente questa premessa.
Ucraina
Sta fallendo il tentativo della Nato di sconfiggere la Russia in Ucraina.
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Oltre il Muro
di Gigi Roggero
Kairos di Jenny Erpenbeck (Sellerio, 2024) è un romanzo complesso, in cui la storia di amore e ossessione tra Katharina e Hans si intreccia in modo inestricabile con il clima e lo zeitgeist di Berlino Est nella seconda metà degli anni Ottanta e subito dopo il crollo del Muro. Gigi Roggero non si limita a una recensione, ma propone un’analisi su nodi storici e politici che interrogano il nostro presente.
Kairos, il dio dell’attimo fortunato, ha – dicono – un ricciolo che gli ricade sulla fronte, e da quello soltanto lo si può trattenere. Ma non appena il dio passa oltre con i suoi piedi alati, ci offre solo la parte posteriore del capo, che è calva e liscia, senza alcun appiglio da cui poterla afferrare.
Kairos di Jenny Erpenbeck è una straordinaria fotografia in movimento di Berlino Est nello snodo cruciale tra gli anni Ottanta e Novanta. È straordinaria da tanti punti di vista, come sanno spesso fare i libri, e soprattutto i romanzi. E noi, tra questi punti di vista, scegliamo il nostro. Della fotografia lasciamo ciò che è in primo piano all’analisi di chi è più competente. Sintetizzando brutalmente, è la storia di una giovane studentessa, Katharina, e di uno scrittore sposato di mezza età, Hans: una storia d’amore e di ossessione, una storia sulla sofferenza del restare e sul trauma dell’abbandono, una storia sul desiderio di lasciarsi trasportare dalla corrente e sulla sicurezza del raggiungere la riva. Ecco allora che, dalle microstorie individuali, emerge con forza la metafora della macrostoria collettiva. E questa macrostoria collettiva si chiama Berlino Est, ovvero un pezzo di quel grande esperimento, il più grande della storia moderna, di rompere con il capitalismo e costruire una nuova società. È questo lo sfondo del romanzo su cui ci vogliamo concentrare. Uno sfondo che, nelle pagine di Erpenbeck, parrebbe lontano, soffuso, quasi impercettibile. Eppure, a ben guardare, è immancabilmente presente, pesante, talora soffocante. Uno sfondo senza cui le piccole storie come questa perderebbero la loro tragica intensità.
I consumatori della merce culturale sono oggi terrorizzati dagli spoiler. Come se contasse solo come va a finire. Ebbene, se come è andata a finire la grande storia sullo sfondo è risaputo, come va a finire la piccola storia in primo piano lo si può forse intuire. Ma non è questo il punto. L’autrice ci costringe ad andare oltre le facili conclusioni, a scavare nelle contraddizioni, ad addentrarci nei labirintici laboratori di produzione della storia, grande e piccola. E qui ciò che era sullo sfondo balza improvvisamente in primo piano. E ci rendiamo conto che, anche se non lo vedevamo, era in realtà sempre stato lì.
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I “Concilianti”
di Carla Filosa
A chi sarà stato in Piazza dei Partigiani la mattina del 25 aprile sarà stato offerto un volantino con su scritto “Riconciliazione”. E’ diventato di moda, nel dibattito televisivo, ma anche altrove, porre la necessità di una riconciliazione nazionale, come avvenuto in Germania. Dal dopoguerra a oggi, in Italia ciò non è avvenuto come esito della guerra civile, o come si preferisca chiamare l’intervento della Resistenza nella sconfitta del nazi-fascismo. I giovani volantinanti in questione hanno suscitato tenerezza, sebbene con un po’ di disappunto per la loro fresca ingenuità, mentre sul contenuto del volantino c’è di che argomentare.
Se la riconciliazione venisse proposta con le persone che furono protagoniste 79 anni fa dello scontro bellico, ben pochi anziani troveremmo ancora in grado di condividere la proposta di una stretta di mano, che nell’arco di tutta la loro vita è mancata, o non è mai stata una priorità, un desiderio, un bisogno reale vissuto da una società civile, condotta a scelte politiche per lo più insabbiate o comunque obbligate a negare verità scomode. Gli amministratori e i funzionari del periodo fascista furono in molti casi reintegrati nei loro posti, o amnistiati.
Con i morti, sopraggiungerebbe poi una valutazione storica, necessariamente priva di interlocuzione, guidata da criteri quanto più possibile oggettivi, legata a circostanze, eventi e condizioni umane irripetibili, che non darebbero adito a “conciliazioni” rese ineseguibili dal mutamento incommensurabile e irreversibile del tempo trascorso.
La conciliazione ipotizzabile è dunque solo nel presente, con i coevi, ma qui si pone il problema centrale. Rispetto a cosa dovrebbe avvenire una conciliazione e in funzione di che, a favore di chi?
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Nona parte. I profsojuz durante la NEP: il settore socializzato (parte I)
Torniamo ai nostri profsojuz e alla loro duplice funzione in questa fase. Oltre a far venire i sorci verdi al nepman NEL SETTORE PRIVATO, erano presenti anche NEL SETTORE PUBBLICO per con un ruolo decisamente più attivo.
Aziende, quelle socializzate negli anni precedenti, che volenti o nolenti erano coinvolte in un altro tipico frutto della NEP: il cosiddetto “calcolo economico” (chozjajsvtennyj razčët da cui la contrazione chozrazčët хозразчёт), che non è solo “bilancio” e basta, ma tutto ciò che a esso concerneva, in un’ottica di crescente “autonomia finanziaria”: ciascuna unità produttiva, piccola o grande che fosse, doveva essere in grado di stare in piedi da sola, dovendo progressivamente fare a meno di sovvenzioni, aiuti economici esterni e, per farlo, doveva avere anzi tutto un bilancio non in perdita e, prima ancora... un bilancio fatto come si deve.
A tutto questo, però, si arrivò PER GRADI e NON SENZA CONFLITTO FRA LE PARTI. Il passaggio delle aziende allo chozrazčët, all’autonomia di bilancio, mise tutti di fronte a un guado, al classico “Hic Rhodus, hic salta!”, profsojuz compresi. Uno dei primi passaggi critici fu proprio LO STESSO ENTRARE in questa nuova visione, ovvero di-visione dei compiti.
SI PROVENIVA DA UN COMUNISMO DI GUERRA, QUINDI EMERGENZIALE dove l’importante era
- restare in piedi, non importa come
- regolare conti in qualsiasi maniera, in natura, in soldi, sulla parola, bastava raggiungere l’obbiettivo primario di cui sopra;
- che quei pochi rimasti in fabbrica (ovvero non deceduti, ovvero non impegnati al fronte, ovvero non tornati nelle campagne... dove un po’ di boršč lo si rimediava sempre e si faceva meno fame che nelle città), fossero in grado di “fare tutto” (e lo facessero poi per davvero! ARRANGIANDOSI, nel bene o nel male… ma lo facessero!).
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L'India nello scacchiere geopolitico attuale
di Paolo Arigotti
La collocazione dell’India nello scacchiere geopolitico internazionale è estremamente interessante per la posizione che il subcontinente occupa rispetto ai diversi attori: oggi ci concentreremo, in particolare, sui rapporti con la Cina.
Al pari della Repubblica Popolare, l’India è uno dei paesi fondatori dei BRICS, dopo essere stata a lungo, nel periodo della guerra fredda, uno dei leader del fronte dei cosiddetti non allineati, fatto che non le impedì di intessere rapporti molto stretti con l’allora Unione Sovietica; inoltre, assieme a Cina, Russia e altri sei stati è membro dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (SCO).
Allo stesso tempo, l’India ha siglato, anche recentemente, importanti accordi politici e militari con gli Stati Uniti, dopo che nel 2017 le due nazioni – assieme a Giappone e Australia – avevano dato vita al Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue, QUAD), un patto strategico informale per contenere l'espansionismo cinese nell'Indo-Pacifico; Delhi, inoltre, fa parte dell’ulteriore iniziativa multilaterale dell’IPEF, Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity e della I2U2, con USA, Israele ed Emirati.
Il comune denominatore che caratterizza molte di queste iniziative, a cominciare dal QUAD, nessuna delle quali mai elevata al rango di alleanza militare vera e propria, affonda le radici nella comune consapevolezza che nessuna nazione, da sola, sarebbe mai stata in grado di fronteggiare la crescente potenza militare cinese, consentendo agli americani di riunire attorno a sé diversi paesi amici che l’aiutino a presidiare una regione sempre più strategica, oltre a fungere da strumento di deterrenza per quegli stati che si fossero mostrati disponibili ad accogliere le offerte d collaborazione di Pechino, vuoi perché timorosi della sua forza o semplicemente perché attratti dagli investimenti promessi dal Dragone.
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La rinascita (atlantista) del militarismo tedesco
Da BlackRock alla Bundeswehr: il riarmo della Germania secondo Merz
di Thomas Fazi
Il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, già rappresentante del colosso finanziario BlackRock, avvia un massiccio riarmo militare, rompendo con la tradizione pacifista postbellica. Con investimenti senza precedenti e un deciso allineamento all’atlantismo, Berlino abbandona l’Ostpolitik e adotta una postura aggressiva nei confronti di Mosca. Eppure, dietro la retorica della sovranità, si cela una crescente subordinazione strategica. Ma Merz deve fare i conti con un profondo dissenso interno, soprattutto tra i giovani
«Vogliamo rendere la Bundeswehr la forza armata convenzionale più forte dell’Ue». Al vertice Nato all’Aja, lo scorso 25 giugno, il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz ha presentato il suo piano per il riarmo tedesco. Con un investimento da 400 miliardi di euro e l’obiettivo di portare la spesa militare al 5% del Pil, non si tratta di una semplice modifica di budget, ma della cancellazione dell’identità strategica tedesca post-1945. Una rivoluzione che affonda le radici nella completa interiorizzazione dell’ideologia atlantista da parte della classe dirigente.
Il piano di riarmo della Germania e l’aggressiva postura anti-Russia non è un ritorno del nazionalismo tedesco, ma il suo opposto. Le politiche messe oggi in atto non derivano da una fredda ricerca degli interessi nazionali tedeschi, ma nella loro negazione. Sono l’espressione di una classe politica che ha interiorizzato così profondamente l’ideologia atlantista da non riuscire più a distinguere tra strategia nazionale e lealtà transatlantica.
Questa è la conseguenza a lungo termine di come la questione tedesca è stata «risolta» dopo la Seconda guerra mondiale: attraverso l’assorbimento della Germania nell’«Occidente collettivo» sotto la tutela strategica americana. Per gran parte del periodo postbellico la leadership tedesca ha cercato di bilanciare questo assetto con la difesa dell’interesse nazionale, ma negli anni successivi al colpo di Stato in Ucraina, l’ala «americana» dell’establishment tedesco ha cominciato a prendere il sopravvento. Con Merz, che in passato è stato un rappresentante BlackRock, è saldamente al comando.
Oggi la leadership pensa solo in termini di allineamento a un progetto occidentale le cui priorità sono spesso definite altrove. In un editoriale pubblicato il 23 giugno sul Financial Times, per esempio, Merz ed Emmanuel Macron hanno nuovamente ribadito il loro impegno nella relazione transatlantica e nella Nato (che ha sempre comportato la subordinazione strategica dell’Europa a Washington), nonostante i recenti gesti retorici verso una politica europea più autonoma.
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E’ uno sporco lavoro / 3: Hiroshima Nagasaki Russian Roulette
di Sandro Moiso
Sganciarono la bomba nel 45 per far terminare la guerra mondiale
Nessuno aveva mai visto niente di così terribile, prima
il mondo guardava con gli occhi spalancati per vedere come sarebbe andata a finire
Gli uomini del potere eludevano l’argomento
era un momento da ricordare, non dimenticheremo mai
Stavano giocando alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki
(Jim Page – Hiroshima Nagasaki Russian Roulette, 1974-77)
Sono ancora una volta delle parole, in parte esplicite e in parte giustificatorie, quelle da cui partire per una riflessione sul presente e sul passato di un modo di produzione e della sua espressione politico-militare. Ciò di cui qui si parla prende infatti avvio dalla affermazione fatta da Donald Trump, dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani, secondo il quale: «I raid sull’Iran, come Hiroshima e Nagasaki, hanno chiuso la guerra». Secondo tale narrazione, infatti, i bombardamenti delle due città giapponesi avvenuti rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945 avrebbero costituito l’ultima ratio per risparmiare la vita di un numero di soldati americani che andato crescendo nel tempo da 500 000 a un milione. Ma nel corso di questo articolo si vedrà se è stato davvero così. Per adesso, quel che si può dire è che il riferimento ha suscitato l’indignazione degli “hibakusha”, i sopravvissuti giapponesi alle bombe, poiché:
Guardati con le lenti del diritto contemporaneo, gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki si configurano come crimini di guerra plateali, e verosimilmente come due immensi attacchi terroristici. Usarli come esempio di una soluzione rapida e pulita, come Trump ha fatto, non è solo una falsificazione storica ma un ritorno inquietante alla lettura di quegli eventi che una parte di occidente si era fabbricata subito per giustificarli, e che nel tempo abbiamo superato. [Ma] il paragone ignominioso di Trump ha tuttavia almeno un merito: ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che a ottant’anni da Hiroshima siamo ancora immersi nell’era atomica, che non ne intravediamo la fine, perché forse fine non ci sarà. Di tutte le aberrazioni che l’umanità ha prodotto, la bomba atomica resta ancora la peggiore. E non è affatto, come ci siamo a lungo convinti e come si auguravano i fisici pentiti di Los Alamos, la miglior garanzia di pace possibile»1.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Decima parte. I profsojuz durante la NEP: il settore socializzato (parte II)
Ci eravamo lasciati con Vladimir Il’ič, ripartiamo da lui. Guarda caso subito dopo aver rimesso i paletti tolti in tempo di guerra civile e comunismo di guerra, parla del diritto di sciopero nelle aziende nazionalizzate. Il suo è un capolavoro di EQUILIBRIO tra dovere di rappresentanza sindacale e senso di responsabilità nei confronti della nuova collettività di cui si fa parte, lo Stato degli operai e dei contadini:
Finché ci saranno le CLASSI, la LOTTA DI CLASSE sarà inevitabile. L’esistenza stessa delle classi sarà inevitabile, nel periodo di TRANSIZIONE dal capitalismo al socialismo, e il programma del PCR afferma in modo inequivocabile che noi siamo solo AI PRIMI PASSI DI QUESTA TRANSIZIONE.
Per questo sia il partito comunista, sia i soviet, così come i sindacati, devono riconoscere apertamente l’esistenza della lotta di classe e la sua inevitabilità, almeno fino a quando, fosse anche solo nelle sue linee fondamentali, non sarà completata l’elettrificazione dell’industria e dell’agricoltura e, con essa, saranno completamente sradicati (подрезаны все корни) gli interi comparti della piccola imprenditoria e del commercio. Da ciò discende che, allo stato attuale, NON POSSIAMO IN ALCUN MODO ESIMERCI DAL LOTTARE SCIOPERANDO, e NEPPURE CONSENTIRE LA PROMULGAZIONE DI UNA LEGGE che LO SOSTITUISCA OBBLIGATORIAMENTE con un TAVOLO DI MEDIAZIONE STATALE.
D’altro canto, è evidente che l’obbiettivo finale della lotta tramite sciopero nel capitalismo è la distruzione dell’apparato statale e il rovesciamento di quel potere statale in mano alla borghesia. IN UNO STATO PROLETARIO DI TRANSIZIONE come il nostro, invece, L’OBBIETTIVO FINALE DELLA LOTTA TRAMITE SCIOPERO non può che essere il RAFFORZAMENTO DELLO STATO PROLETARIO ovvero DEL POTERE STATALE IN MANO AL PROLETARIATO, per mezzo di una LOTTA SERRATA CONTRO LE DISTORSIONI BUROCRATICHE DI TALE STATO, CONTRO I SUOI ERRORI, LE SUE DEBOLEZZE, GLI APPETITI DI CLASSE DEI CAPITALISTI CHE SFUGGONO AL SUO CONTROLLO, ECCETERA1.
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I canoni superiori della giustizia morale: Aaron Bushnell nella storia
di Alberto Bradanini
1. Con intelligenza ed empatia, l’australiana Caitlin Johnstone ci invita a meditare sugli orrori del nostro tempo, restando lontani dal megafono della propaganda e meditando sulla circostanza, da quest’ultima sistematicamente omessa, che la violenza israeliana contro i palestinesi non è certo iniziata oggi.
Negli anni 1947/48, un tempo che i palestinesi chiamano non a caso Nakba, la catastrofe, quando su una popolazione di 1,9 milioni, oltre 750.000 palestinesi furono cacciati con la violenza, mentre bande armate sioniste s’impadronivano del 78% della Palestina storica, dopo aver distrutto centinaia di villaggi e città e massacrato oltre 15.000 poveri palestinesi disarmati, che avevano provato a difendere i loro beni, le loro famiglie e la loro vita.
La Nakba è il frutto malsano dell’ideologia sionista, sviluppatasi in Europa Orientale alla fine del XIX secolo, nel cui nucleo ideologico troviamo il radicalismo politico-religioso e la pretesa che gli ebrei (nazione, razza e/o religione) avessero diritto a un proprio stato, un diritto invero estraneo a qualsiasi norma nazionale o internazionale, ma derivato esclusivamente dalle cosiddette sacre scritture, vale a dire quanto di più farfaleico si possa immaginare.
Nel 1880, la popolazione degli ebrei palestinesi non supera il 3% dei residenti. A differenza degli ebrei sionisti che sarebbero arrivati in Palestina successivamente, l'Yishuv originale non aspirava a costruire un moderno stato ebraico. A partire dal 1882, però, migliaia di ebrei iniziano a stabilirsi in Palestina, fuggendo dalle persistenti persecuzioni ai loro danni (pogrom e altro), ma anche attratti dal fascino sionista della costruzione di uno stato religioso.
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