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L’economia della guerra
di Ascanio Bernardeschi
Il presente è una rielaborazione per Marx 21 di due articoli distinti usciti rispettivamente il 21 e il 28 aprile
Fine della Storia?
Sul Fatto Quotidiano di domenica 22 Aprile, Furio Colombo, che immagino permanentemente tormentato da due aste di bandiera conficcate nel cervello, quella americana e quella israeliana, si domanda come sia possibile “fare a meno dell’America” e, preoccupatissimo per le acrobazie politiche senza rete di Trump, teme che “il Paese [con la maiuscola] che fino a un momento fa era stato capofila dell’avanguardia” di praticamente tutto lo scibile e tutti i diritti si chiuda in sé stesso e non regali più a noi poveri sudditi il bene prezioso della sua democrazia, la cui esportazione nel mercato mondiale è sostenuta da un elevata capacità competitiva non proprio esattamente sul terreno economico.
Poi conclude: “forse Trump, con tutti coloro che lo stanno imitando, sta rappresentando la profezia di Fukuyama: la Storia [ancora con la maiuscola] si è fermata”. Sì, quella fine della storia di Fukuyama che andava bene e veniva acriticamente richiamata quando serviva a diagnosticare il venir meno dell’antagonismo di classe e dei movimenti antimperialisti dopo l’ ‘89, è ora temuta non perché il modo stia fermo, piuttosto perché, a differenza di quello che pare al Nostro, si sta muovendo troppo, anche se non nella direzione da lui auspicata. E difatti sta ponendo fine all’egemonia americana e affermando un nuovo multipolarismo.
Stiamo attraversando – e, contrariamente a quello che ci raccontano i giornalisti embedded, ci siamo ancora dentro – una delle crisi più catastrofiche del capitalismo. Dopo ogni crisi niente rimane come prima, e le formazioni economico-sociali subiscono dei cambiamenti, talvolta in positivo e talvolta in negativo.
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Siria-Palestina: Curdi in soccorso a Jack lo Squartatore
di Fulvio Grimaldi
Sincronismi e sintonie
L’angolazione a cui dovrebbe interessare particolarmente guardare non è solo la natura delle azioni condotte dalle potenze uccidentali, dai loro protagonisti e dai gruppi di potere che li sostengono. Non è neanche in prima istanza il giudizio da dare sulla classe politica italiana, sulle forze economiche che ne determinano il comportamento e sui media che ne sostengono la linea. E’ la sostanziale omologazione che unisce e confonde tutti questi soggetti. Basta un minimo di maieutica per estrarre dal sincronismo con cui operano, da Renzi o Orlando a Di Maio attraverso Bersani, Fratoianni, sociali avvizziti in basso a sinistra, da Repubblica e l’Espresso a il manifesto o il Fatto Quotidiano, da Mattarella a Bergoglio, da Confindustria ai sindacati, la constatazione di una sintonia strategica. Quella della visione del mondo atlantico-israeliana: i buoni in questa metà dell’emisfero Nord, tutti i cattivi concentrati nell’altra metà e, disseminata in tutto l’emisfero Sud, una mescolanza di brutti, sporchi, cattivi da abbattere, e poveracci disperati da soccorrere a proprio merito e profitto.
Chi tra i nostri gazzettieri fa caso a quanti venerdì di morte all’orlo del Lager Gaza sono trascorsi dal primo, con i relativi eccidi di innocenti inermi, a dispetto delle cifre agghiaccianti (andiamo verso la cinquantina di morti e ai 5000 feriti? Vedi qui e qui).
Gaza o Homs come Derry? Altri tempi
Il 30 gennaio del 1972 ero a Derry e vidi 14 giovani e vecchi falciati dai parà della Regina senza che ci fosse stata, tra 20mila famiglie manifestanti per elementari diritti civili, sociali, nazionali, un’ombra delle provocazioni poi attribuite da Londra e media a fantasmatici “terroristi dell’IRA”.
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Da Marx al “gramscismo”
di Tommaso Baris
Angelo D'Orsi, già autore di alcuni importanti studi su Antonio Gramsci, ci offre in questo nuovo volume una biografia esaustiva sull'importante pensatore politico sardo. Il suo obiettivo, dichiarato nella prefazione, era quello di “rivolgersi non soltanto ai “gramsciologi” ma a un pubblico più largo, sia pure dialogando sempre, fra le righe, con gli specialisti” (p. 10). Si tratta perciò di raccontare Gramsci non solo e non tanto agli studiosi quanto ad una platea più vasta di lettori comuni, senza però perdere una dimensione scientifica della ricostruzione storica.
La sensazione è che tale scelta nasca per D'Orsi, direttamente o indirettamente, dalla necessità di affrontare la diffusa ed incerta filologicamente “gramsciologia” oggi esistente. Le vicende gramsciane, politiche e personali, sono diventate infatti una sorta di tema ricorrente nell'attuale mercato editoriale e culturale italiano, con continue “scoperte” e “rivelazioni” basate su supposizioni e congetture spesso prive di riscontri documentari.
In questo quadro D'Orsi si inserisce con un lavoro che vuole essere al contempo rigoroso ma anche capace di offrire in maniera sintetica e godibile le più recenti acuisizioni, sia biografiche che interpretative. Il riferimento esplicito è da questo punto di vista la vecchia biografia di Giuseppe Fiori, quella del 1966, al fine però di produrre un lavoro che sappia coniugare, come quella, la dimensione personale con quella politica, costruendo però una narrazione biografica rinnovata “alla luce di nuove acquisizioni documentali, nuovi studi, nuove visioni dei problemi e ovviamente”, come scrive l'autore, con un punto di vista “non riducibile a nessuna “ortodossia” (p. 10).
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La nuova guerra civile europea
di Sandro Moiso
Oggi, 3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto dei vuoti rituali della politica guardano a ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di Notre Dame des Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello Stato francese.
2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla faccia della Francia, dell’Europa e della Terra ogni traccia di una delle nuove forme di civiltà e comunità umana che si è andata delineando negli ultimi decenni sui territori che la società Da Vinci e gli interessi del capitale avrebbero voluto trasformare in un secondo ed inutile aeroporto della città di Nantes.
Un’azione fino ad ora respinta valorosamente dagli occupanti e dalle migliaia di uomini e donne di ogni età e provenienza sociale che si sono recati là al solo fine di manifestare la loro solidarietà con quell’esperimento comunitario e di respingere ancora una volta, come nel 2012 con l’operazione César voluta all’epoca da Hollande allora fallita, le mire del capitale finanziario sul bocage e della repressione poliziesca nei confronti di un esperimento di società senza Stato, senza denaro, senza polizia, senza rappresentanza politica se non diretta dei suoi abitanti.
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La critica dell’economia politica è l’essenza del marxismo
di Alfonso Gianni
Duecento anni fa, il 5 maggio del 1818, nasceva Karl Marx. In questi due secoli la sua opera è stata studiata, amata, odiata, interpretata, travisata. Dopo Marx sono nati i marxisti e i marxismi. Non sempre coerenti con il pensatore di Treviri che diceva di sé di non essere marxista, non tanto per il piacere della battuta, quanto per sottolineare il suo approccio profondamente antidogmatico allo studio della realtà. Alla sua opera si sono ispirate molte delle rivoluzioni del ventesimo secolo. Con esiti non sempre, anzi quasi mai, soddisfacenti. A dimostrazione che pensare di applicare ciò che Marx ha detto e scritto è già un travisamento che può portare anche a conseguenze disastrose.
Eppure la diffusione su scala planetaria del suo pensiero, attraverso le opere scritte, molte delle quali assieme a Friedrich Engels, ha raggiunto livelli da record. La sua opera maggiore, cioè il Capitale ha avuto una diffusione straordinaria, anche se è stato meno letto di quanto sia stato distribuito o venduto, probabilmente per la lunghezza e la indubbia complessità che lo contraddistingue. Non è un caso che un libro di questi anni, anch’esso assai complesso e che ha avuto un sorprendente successo mondiale, richiami nel titolo e nel testo il tema dell’analisi del capitale contemporaneo. Mi riferisco ovviamente a Il capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty. Se il primato dell’opera comunista più diffusa della storia appartiene indubbiamente al famoso “libretto rosso” delle citazioni di Mao Tse-tung (che contende il primato della diffusione al Corano e alla Bibbia ) il Manifesto del partito comunista, redatto da Karl Marx e Friedrich Engels esattamente 170 anni fa può vantare anch’esso record da best seller, niente affatto sminuiti dal passare del tempo.
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Teleologie senza Spirito?
Sui deficit politici della filosofia della storia di Honneth
di Marco Solinas*
Riagganciare direttamente la dimensione morale alle dinamiche delle lotte sociali, e viceversa, superando così l’economicismo imperante in larga parte della tradizione filosofico-politica di orientamento socialista, per poi spingersi verso l’adozione di una prospettiva immanentista sempre più radicale nella quale la normatività viene interamente ricostruita dalla dinamica del progresso storico: sono questi alcuni dei tratti di fondo che caratterizzano lo sviluppo del progetto teorico complessivo di Axel Honneth, dalla sua nascita a oggi. Un progetto il cui cuore pulsante è rappresentato dalla attualizzazione della concezione etica della lotta per il riconoscimento di Hegel, interpretata quale motore morale delle lotte sociali, e quindi del progresso storico.
Il baricentro della nuova teoria critica è stato così rispostato su un asse neo-hegeliano. Se infatti già Habermas aveva ripreso la teoria del riconoscimento del giovane Hegel per conferire un fondamento intersoggettivista alla sua reinterpretazione dell’imperativo categorico in chiave di agire comunicativo, l’immanentismo di Honneth punta a bypassare completamente quel costruttivismo kantiano volto a fondare la moralità su procedure formali. Riprendendo la concezione hegeliana della Sittlichkeit quale dimensione che ingloba, superandola, la Moralität, Honneth ritiene infatti di poter dedurre, o meglio ricostruire in modo immanente i criteri per valutare la correttezza e legittimità della dimensione normativa dallo sviluppo storico. La normatività viene così ri-ancorata o meglio calata direttamente e interamente nel flusso del divenire storico. Non si tratta, quindi, di limitarsi all’invero già ambizioso obiettivo di ricostruire la dimensione morale che anima dall’interno la nascita e lo sviluppo delle lotte sociali riconducibili al framework del riconoscimento, superando il quadro economicista fondato sulla categoria di interesse, come Honneth si sforzava di mostrare in Lotta per il riconoscimento, con un andamento per diversi aspetti affine a quello gramsciano[1].
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Ma il suo lavoro è vivo
Intervista su Marx a Riccardo Bellofiore
Il prossimo 5 maggio ricorrono i duecento anni dalla nascita di Karl Marx. PalermoGrad li celebra pubblicando questo testo, sotto forma di intervista, di Riccardo Bellofiore, che ringraziamo vivamente
Questa intervista che ora pubblica PalermoGrad ha una breve storia che va raccontata per comprenderne la genesi. Alla fine degli anni Novanta la RAI intendeva preparare un ciclo di trasmissioni sulle grandi figure del pensiero economico. Cristina Marcuzzo sfruttava le occasioni convegnistiche per poter intervistare vari economisti, italiani e stranieri. Le interviste duravano poco meno di un’ora, se ricordo bene. Venni così intervistato a Firenze su Marx. Non avevano ancora deciso come costruire effettivamente il programma. La scelta finale, a mio parere felice, fu di mettere da parte le interviste. La trasmissione che andò in onda si chiamò infine La fabbrica degli spilli: un titolo evidentemente smithiano. Ad essere interrogato era il solo Alessandro Roncaglia che stava allora ultimando il suo La ricchezza delle idee per Laterza: lo interrogavano due giornalisti che si alternavano. Uno dei due, ricordo, era Roberto Tesi: più noto come Galapagos, del manifesto. In ogni trasmissione si aprivano due medaglioni con un breve estratto dalle interviste. Nella trasmissione su Marx i medaglioni erano costituiti da Ernesto Screpanti e dal sottoscritto: infelicemente, il lavaggio di capelli la mattina in albergo mi fece apparire con una capigliatura da fare invidia ad Angelo Branduardi o alla primissima Nicole Kidman. Ovviamente, mi preparai. Avevo delle scalette, ma dietro le scalette stavano delle domande (in numero di 10) che avevo buttato giù, corredate di risposte. C’era un ordine imposto dalla produzione, che però col loro consenso sovvertii. La prima domanda doveva essere sulla biografia, e così fu. La seconda sul metodo, e così non fu: sono fermamente convinto che il metodo dipenda dal contenuto dell’oggetto che si indaga, quindi collocai quella domanda verso la fine.
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Il Grande Studio
di Pierluigi Fagan
Abbiamo una missione, siamo chiamati a plasmare la Terra.
Novalis
Nella Prefazione del mio recente libro[1], scrivevo “Tale grande studio era orientato ad un punto di fuga, il concetto di complessità”. Per un errore nel processo di revisione delle bozze, quel “grande studio” è venuto fuori minuscolo, invece doveva essere maiuscolo. Messo così, in effetti, è abbastanza ridicolo, uno studioso non può certo dire che il suo studio è “grande”. Doveva esser maiuscolo perché si riferiva al Dà Xué (大学, Grande studio), titolo di uno dei quattro libri attribuiti a Confucio[2] . Come recita la breve bio dell’autore di questo spazio di riflessione, quindici anni fa mi sono ritirato a “confuciana vita di studio” ed il Dà Xué è considerato appunto il dao (la Via) della conoscenza dell’antico Maestro cinese, coevo di Solone e Talete, del Buddha storico e delle Upanishad, della probabile compiuta redazione dei canoni dell’Antico Testamento in quel di Babilonia, quella irripetibile stagione che il tedesco Karl Jaspers chiamò “Età assiale”[3].
Quindici anni fa infatti smisi di lavorare e mi immersi nello studio. In effetti all’inizio mi misi semplicemente a leggere con agio ma, capitando proprio su i Dialoghi di Confucio (Kong zi), presi a studiarli leggendo altro di lui, molto su di lui, sul suo periodo storico, la cultura della Cina antica, il seguito del suo pensiero detto “confucianesimo”[4] un canone tutt’altro che unitario il cui corso arriva sino alla Cina contemporanea e che ha una riconducibilità relativa al Maestro storico.
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Al di là del lavoro, la vera vita
di WIlly Gianinazzi
Pubblichiamo qui la bella introduzione di Willy Gianinazzi al libro da lui curato “Il filo rosso dell’Ecologia”, uscito per i tipi di Mimesis nel settembre 2017, con traduzione del nostro Riccardo Frola, e dedicato al pensiero di André Gorz. L’edizione italiana riprende, integrandola, quella francese, “Le fil rouge de l’écologie. Entretiens inédits en français”, uscita sempre a cura di Willy Gianinazzi per le Editions de l’Ehess, Paris 2015. Ci sono alcuni inediti di Gorz e un’importante intervista con lo studioso austriaco Erich Hörl. I temi dibattuti nel libro sono tuttora al centro del dibattito più interessante che ha di mira il superamento del capitalismo e della forma merce. Soluzioni come “reddito di cittadinanza” o di “esistenza”, oppure che si ispirino al modello “software libero” o della decrescita, meritano, crediamo, tutta la nostra attenzione. Crediamo però anche che la “critica del valore”, in particolar modo grazie alla riflessione di Robert Kurz ma non solo, abbia saputo già chiarire molti aspetti di queste proposte e messo in condizioni di non doverci incamminare, provando a percorrerle o soltanto verificandone la consistenza, verso false vie d’uscita [Redazione].
* * * *
La prima opera di André Gorz, Il traditore (1958),1 è un romanzo autobiografico, incensato da Jean-Paul Sartre. L’ultima opera pubblicata da vivo, quella che ha fatto conoscere Gorz al grande pubblico, Lettera a D. (2006),2 è un commovente e autocritico racconto della sua vita amorosa; è l’opera che ha preceduto di poco il suicidio del suo autore, avvenuto nella notte del 22 settembre del 2007, all’età di ottantaquattro anni, insieme alla compagna.
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Le uniche consultazioni che contano: la Banca Mondiale detta la linea
di coniarerivolta
È proprio vero quello che si dice: in questo mondo non si possono mai dormire sonni tranquilli. Sono trascorsi due mesi dalle elezioni, ancora nessun Governo è all’orizzonte, i principali partiti italiani traccheggiano in trattative (presunte o tali) inutili e, cosa che non ci sorprende, sembrano non avere troppo tempo per partorire nuove ed originali misure antipopolari, riforme lacrime e sangue e simili. Potrebbe, tuttavia, trattarsi semplicemente di un periodo di relativa calma prima della tempesta.
All’orizzonte, infatti, nubi oscure si addensano, rappresentate dai “suggerimenti” che le istituzioni internazionali si prodigano a dispensare. Raccomandazioni di questo genere sono state di recente proposte dal Fondo Monetario Internazionale: un condensato di tagli alla spesa pubblica e riduzioni delle pensioni, compressioni dei salari e misure fiscali a favore dei ricchi. È adesso il turno della Banca Mondiale. In questo post cercheremo di spiegare quali misure abbiano in mente gli economisti che lavorano in questa organizzazione internazionale e quale distorta visione del mondo sia sottintesa a tali misure.
La Banca Mondiale è un’istituzione che ha come principale scopo (in teoria) quello di fornire assistenza ai paesi in via di sviluppo, aiutarli a modernizzare e rendere più competitive le loro economie. Non disdegna, tuttavia, di suggerire riforme strutturali ed interventi di politica economica anche alle economie capitaliste mature.
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Il partito comunista: di massa o di quadri?
di Alexander Hobel*
Intervento al dibattito sui tre fronti della lotta di classe di Roma, del 21 aprile 2018
In primo luogo vorrei ringraziare i compagni e le compagne della Rete dei comunisti per questa occasione di dibattito. È sempre utile confrontarsi su questioni di carattere strategico, liberi da urgenze, scadenze immediate, impegni contingenti.
Il mio intervento seguirà un po’ schematicamente la griglia delle questioni poste dai compagni della Rdc al centro di questa discussione.
1. Partiamo dunque dall’attualità o meno dell’idea di partito comunista di massa. Preliminarmente penso che occorra precisare che cosa intendiamo con questa formula, distinguendo tra la forma storicamente determinata di partito comunista di massa che abbiamo conosciuto nel nostro paese (il P.c.i.) e una impostazione più generale: quella di un partito radicato tra le masse, nei territori e nei luoghi di lavoro, in grado di partire dai loro bisogni e interessi materiali, di andare cioè al di là della semplice propaganda per fare leva su questioni concrete, partendo da queste ultime per portare le masse stesse dal terreno economico-rivendicativo su un terreno più generale, quello della politica. È la lezione del Che fare? di Lenin, della frazione e poi del partito bolscevico, che poi informò le linee di sviluppo suggerite ai partiti comunisti già nei primi congressi della Terza Internazionale, e poi nella fase dei fronti popolari: l’esortazione costante a non ridursi a piccole sette in grado di fare solo della propaganda, l’ambizione di fare politica (e la politica, per Lenin, iniziava dove agivano “milioni di uomini”) e a diventare, attraverso un lungo lavoro egemonico tra le masse lavoratrici, maggioritari al loro interno; maggioritari, ossia bolscevichi. In questo senso, mi pare che tale impostazione sia ancora valida e che dobbiamo essere consapevoli della nostra attuale condizione minoritaria senza rassegnarci ad essa, ma lavorando per superarla.
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Come David Harvey nega l’imperialismo
di John Smith
In calce una replica di David Harvey
David Harvey, autore di La guerra perpetua: analisi del nuovo imperialismo e di altri acclamati volumi sul capitalismo e l’economia politica marxista, non solo crede che l’epoca dell’imperialismo sia conclusa, ma è anche convinto si sia ribaltata. Nel suo commento su A Theory of Imperialism di Prabhat e Utsa Patnaik, egli afferma:
Coloro fra di noi convinti che le vecchie categorie di imperialismo, al giorno d’oggi, non funzionino adeguatamente, non negano in alcun modo i complessi flussi di valore che espandono l’accumulazione di ricchezza e potere in una parte del mondo a scapito di un’altra. Semplicemente, riteniamo che tali flussi siano molto più complicati e cambino continuamente direzione. Lo storico drenaggio di ricchezza dall’Oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli, ad esempio, è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni (enfasi mia, qui e nel prosieguo – JS, p. 169).
Invece di “dall’Oriente verso l’Occidente” si legga “dal Sud al Nord globali”, ovvero, paesi a basso salario e quelli che alcuni, incluso l’autore in questione, definiscono paesi imperialisti. Per riprendere la sorprendente affermazione di Harvey: durante l’epoca neoliberista, vale a dire, gli ultimi trent’anni, Nord America, Europa e Giappone non solo hanno cessato il loro secolare saccheggio di ricchezza da Africa , Asia e America Latina, ma il flusso è stato addirittura invertito: “i paesi in via di sviluppo” stanno ora drenando ricchezza dai centri imperialisti. Questa asserzione, fatta senza portare alcuna evidenza a suo sostegno o una qualsivoglia stima di grandezza, riprende affermazioni analoghe contenute nelle precedenti opere di Harvey. In Diciassette contraddizione e la fine del capitalismo, ad esempio, agli sostiene:
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L’ideale europeo di mobilità del lavoro: una guerra tra poveri su scala europea
di coniarerivolta
L’ultimo studio dell’Eurostat sulla mobilità del lavoro in Europa lancia l’allarme: nonostante la fame generata dalla crisi e le umiliazioni inflitte da disoccupazione e precarietà, i senza lavoro italiani sono restii ad abbandonare il loro Paese per trovare un’occupazione all’estero. Solo 7 disoccupati su 100 si dicono disponibili a lasciare l’Italia per cercare lavoro in un altro paese europeo. Il dato preoccupa le istituzioni comunitarie per un motivo preciso: l’Europa che hanno in mente è un enorme mercato, ed il lavoro deve comportarsi come tutte le altre merci, spostandosi lì dove ne emerge il bisogno. Se il disoccupato resta nel suo Paese quel meccanismo si inceppa: i suoi affetti, la sua cultura, il suo radicamento sociale, le sue scelte di vita sono ostacoli al libero dispiegarsi delle forze di mercato, un sintomo – gravissimo – di inefficienza del sistema. Le merci, è noto, seguono una sola regola: vanno dove il prezzo è più alto, e secondo le istituzioni europee quella stessa regola dovrebbe governare anche la vita della popolazione europea, forza lavoro destinata a spostarsi da un Paese all’altro a seconda delle oscillazioni del mercato. Un disoccupato non sarebbe altro che una merce abbandonata in magazzino, destinata a spostarsi ovunque possa trovare un mercato di sbocco. Pertanto, questo il messaggio implicito nei dati pubblicati dall’Eurostat, i disoccupati italiani devono imparare a rispettare la ferrea legge del mercato, sradicandosi dal proprio Paese alla ricerca di un’occupazione in giro per il continente. In questo modo, essi contribuirebbero a realizzare quella “trinità perfetta” di diverse libertà di movimento che sono alla base del progetto europeo: quella delle merci, quella dei capitali e quella delle persone.
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Effetti economici del fascismo
di Lorenzo Battisti
I duri anni di crisi che stiamo attraversando stanno portando una rinascita dei movimenti di estrema destra in tutti i paesi europei. Questo aumento è dovuto anche ai consensi che questi partiti riescono ad ottenere nei quartieri popolari. Il successo di questi partiti non è solo elettorale o legato esclusivamente al voto di protesta, ma è testimoniato dal diffondersi del sostegno a questa ideologia in vasti strati sociali dei paesi europei: sulle reti sociali si osserva periodicamente il riproporsi diffuso di testi che rivendicano e ricordano i successi del ventennio fascista in Italia, fatto di grandi investimenti e di istituti sociali a favore della popolazione. In sostanza il fascismo viene descritto come un regime bonapartista che, sotto la guida carismatica di Mussolini, ha soggiogato la borghesia italiana, ha contribuito al rilancio e al successo economico del paese e ne ha diffuso i benefici tra tutta la popolazione. Questi risultati vengono ulteriormente esaltati facendo il confronto con gli insuccessi politici ed economici della democrazia repubblicana. Tutto questo è vero? È vero che il fascismo ha migliorato la condizione di tutta la popolazione? I suoi risultati sono stati migliori della democrazia repubblicana?
II fascismo
Cerchiamo prima di descrivere quello che fu il fascismo storicamente. Un’approfondita analisi del fascismo fu fatta da Togliatti nel celebre “Corso sugli avversari”, tenuto a Mosca nel 1935: questa analisi copre tutta l’evoluzione del movimento fascista, dalle origini fino alla soglia della Seconda Guerra Mondiale.
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Una società civilissima e balcanizzata
Sul politicamente corretto a partire da un libro recente
di Daniele Lo Vetere
Il nome ormai automaticamente associato al genere della “critica al politicamente corretto” è quello di Robert Hughes.[i] È lecito chiedersi se Jonathan Friedman, autore di un Politicamente corretto che esce contemporaneamente in edizione inglese e italiana (Meltemi, 2018) ne diventerà il nuovo eroe eponimo.
Hughes ambiva a fornire una descrizione, più che un’interpretazione, del fenomeno; inoltre gliene stavano a cuore soprattutto i riflessi sulla cultura e sull’insegnamento e giudicava tutta la faccenda secondo un’attitudine ironica, fondata su di un common sense ostile all’astrazione teorica (scriveva cose terribili su Foucault), che poteva apparire, a seconda del lettore, sarcasmo da conservatore o garbato buon senso da grande umanista. Al contrario Friedman, che è un importante antropologo, affronta la materia da scienziato sociale: il suo obiettivo è fornire un’interpretazione generale del p. c. Nonostante il libro prenda le mosse da esperienze autobiografiche, i casi personali hanno funzionato da molla che ha fatto scattare nello studioso il desiderio di una sistematizzazione teorica.
La natura «formale, o strutturale» del p. c.
Che cosa, innazitutto, non è il p. c.? Non è principalmente una questione di censura o ipocrisia linguistica, ma un più profondo fenomeno sociale, antropologico e politico. Friedman ne analizza le manifestazioni nella società svedese e in sottordine negli Stati Uniti e in Francia (l’antropologo è uno statunitense che ha vissuto per quarant’anni in Svezia).
Il p. c. è «una forma di comunicazione e di categorizzazione»:[ii] è un regime linguistico e sociale relativamente indipendente dall’orientamento politico, che è solitamente di sinistra in Europa e liberal negli Usa; possono infatti adottare uno stile comunicativo p. c. anche i conservatori.
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E ora vediamo chi inciucia...
di Leonardo Mazzei
Elezioni o governo destra-Pd: le responsabilità di Di Maio e quelle di Salvini
Non abbiamo risparmiato critiche a Di Maio, né prima né dopo le elezioni. La svolta, europeista e sistemica, di M5S l'andiamo denunciando da un anno ormai. Il tentativo di un accordo con il Pd si commenta da solo. E, tuttavia, giocate tutte le carte a disposizione, il leader pentastellato ha almeno detto di no al cosiddetto "governo del presidente", chiedendo nuove elezioni a giugno. Sul punto, invece, Salvini per ora nicchia. Domandiamoci il perché.
Che da questi due mezzi populismi - mezzi perché per l'altra metà abbondante compromessi con le forze sistemiche e la loro ideologia liberista - non ce ne venga fuori neppure uno minimamente decente, è un dubbio più che legittimo. Nondimeno, più del 50% degli elettori è lì che si è rivolto per colpire l'oligarchia, per uscire dall'austerità, per mandare a quel paese l'Europa. Un dato imprescindibile, che ci ha portato a pronunciarci per un governo M5S-Lega.
Le stucchevoli sceneggiate degli ultimi quaranta giorni sono comunque agli sgoccioli. Siamo ad un passo dal momento della verità. Quel momento riguarda soprattutto Matteo Salvini. Perché ormai i casi sono due e solo due: o elezioni subito (al massimo nella prima metà di luglio) o nascerà un governo tra la destra ed il Pd.
Vediamo il perché chiarendo tre punti sui quali la confusione regna sovrana. E regna perché mentre i media del regime fanno il loro sporco lavoro, sul web scarseggia la capacità di sfuggire ai luoghi comuni ed ai trucchi semantici diffusi dagli strilloni di lorsignori.
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Bloco de esquerda, Podemos, France Insoumise
Critica al programma di Lisbona
di Renato Caputo
Limiti e contraddizioni di un appello che si fatica a definire alternativo rispetto a DiEM25 e a chi punta a riformare le istituzioni europee
Anche se nelle elezioni per il parlamento europeo non è possibile presentare liste transnazionali, in questa direzione si muove esplicitamente dal 2016 DiEM25, ovvero Il Movimento per la democrazia in Europa 2025, lanciato dall’ex ministro delle finanze greco Varoufakis, cui hanno aderito De Magistris e il movimento Generation S, lanciato dall’ex leader del partito socialista francese Hamon. A tale iniziativa hanno tentato di rispondere il 12 aprile il Bloco de Esquerda portoghese, France Insoumise di Mélenchon e gli spagnoli di Podemos lanciando a loro volta, anche in funzione delle elezioni europee previste per il prossimo anno un “movimento comune”. Come base programmatica le tre organizzazioni hanno steso una dichiarazione firmata a Lisbona.
Tale intento unitario è importante in particolare per France Insoumise e Podemos che non fanno parte del Partito della sinistra europea. D’altra parte il coordinamento a livello europeo di queste due forze risulta piuttosto complicato, dal momento che mentre Podemos mira a rappresentare una “alternativa democratica, popolare e in favore dei diritti umani e della sovranità popolare”, ma tutta interna al processo di unificazione europea, France Insoumise mira ad una “uscita concertata dai trattati europei” con il fine di rinegoziare nuove “regole”, ma al contempo, in caso di mancato successo di questo piano A, ha previsto un “piano B”, ossia la “uscita della Francia dai trattati europei”.
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Delle elezioni o del trionfo dell’ideologia dominante
di Giorgio Paolucci
Il vero capolavoro della classe dominante è l’essere riuscita a imporre la falsa idea secondo la quale il modo di produzione capitalistico è l’unico possibile
Renzi, l’uomo immediato e d’azione che al suo esordio sulla scena politica nazionale era stato salutato dai commentatori e dagli analisti di regime come il nuovo che avanza, l’uomo della provvidenza che avrebbe finalmente impresso alla vita politica nazionale, e perfino europea, la svolta decisiva per portare il Bel Paese certamente fuori dalla crisi, contrariamente a tutte le aspettative dell’esordio, il quattro marzo scorso è finito nella polvere. E’ affondato lui e con lui anche Il Pd che chissà per quale arcana ragione è stato considerato, e per molti continua ancora a essere, un partito di sinistra nonostante, sin dalla sua nascita, sia stato fra gli interpreti più coerenti dei desiderata di sua maestà il capitale. Riformista sì, ma non nel senso della socialdemocrazia storica – quella, per intendersi, dei Bernstein, dei Kautskj o di Turati - ma del liberismo più ortodosso secondo cui il capitalismo è l’unico modo di produzione possibile della ricchezza e il libero mercato il miglior regolatore della vita economica e sociale.
L’uomo immediato d’azione non è spuntato dal nulla e intanto ha potuto conquistare il Pd in quanto a sua volta imbevuto della stessa ideologia della classe dominante che ha ispirato la politica di questo partito sin dalla sua fondazione. Nel condurlo alla disfatta vi ha messo certamente del suo obbedendo ciecamente al gruppo di potere che ne ha sostenuto l’ascesa; ma fare di lui l’unico artefice della miserabile fine della sinistra, come capita di leggere in questi giorni, è confondere una comparsa con l’interprete principale.
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L’estenuazione democratica della Scuola di Francoforte
Note critiche su Axel Honneth e Rahel Jaeggi
di Roberto Finelli*
1. Concetto e funzione di “critica immanente”
Il lavoro di Rahel Jaeggi nell’ambito della filosofia e della psicologia sociale contemporanea si colloca, senza ombra di dubbio, in una linea di profonda continuità e nello stesso tempo di radicalizzazione di quella istanza di critica immanente che, di contro ad ogni moralità ed etica del dover-essere, ha ispirato i suoi maestri della Scuola di Francoforte, come Jürgen Habermas e Axel Honneth.
Il concetto di “critica immanente” – o più ampiamente di filosofia come critica – va fatto risalire nel campo sociale e politico al movimento dello Junghegelianismus, quale capacità degli intellettuali critici di sollecitare la modernità al superamento di ogni arretratezza premoderna e al compimento della sua più intrinseca e strutturale razionalità secondo la lezione più propria di Hegel, che aveva assegnato alle istituzioni del tempo moderno l’architettura di una razionalità compiuta, contrassegnata, a suo avviso, dall’intreccio vicendevole e maturo di individuale e universale.
La tessitura e l’articolazione della società che Hegel aveva esposto e concettualizzato nei Lineamenti di filosofia del diritto rimandava al valore fondante e prioritario della libertà, e non dell’autorità, quale contenuto del diritto: propriamente quale realizzazione e riconoscimento dei diversi lati dell’esistenza umana attraverso sfere concentriche e sempre più ampie di socializzazione. Per cui, dopo il compimento del sistema hegeliano come identificazione e teorizzazione della ratio intrinseca alla modernità, il compito della filosofia per i Giovani Hegeliani non poteva che essere quello della denunzia e della critica delle inadempienze e delle arretratezze delle istituzioni e delle idee del presente riguardo appunto al potenziale di razionalità in esso esplicitato e definito dal maestro di Berlino.
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Ricominciare dalla fine
L’«Abecedario» di Mario Tronti
di Damiano Palano
«Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico». Le parole di Franz Trotta, il protagonista della Cripta dei Cappuccini, potrebbero ben figurare come epigrafe all’Abecedario di Mario Tronti curato da Carlo Formenti (DeriveApprodi, 2016). Nelle sette ore di intervista, che si snodano attraverso venti lemmi, da Amico/Nemico a Zeit, Tronti definisce infatti la propria condizione come quella di un esiliato in patria e respinge persino la qualifica di «intellettuale». E forse proprio come Trotta, qualche volta preferisce anche dire di non capire, o persino di essere sordo, piuttosto «che ammettere di aver sentito rumori volgari». Ma è comunque proprio la condizione di chi segue ciò che avviene attorno a sé come un estraneo, e con «serena disperazione», a illustrare la logica che guida la riflessione più recente di Tronti. E soprattutto a chiarire il senso della traiettoria che lo ha condotto dalla critica di società dei suoi anni giovanili alla critica di civiltà sviluppata – in termini sempre più decisi – nell’ultimo ventennio.
Tronti si è probabilmente deciso ad accantonare per una volta la forma scritta, che predilige da sempre, anche per il disagio di essere considerato da molti suoi lettori soltanto, o soprattutto, come il fondatore dell’operaismo. La speranza è cioè che l’esposizione del suo pensiero «senza orpelli» possa diradare qualche equivoco interpretativo e contribuire a chiarire finalmente la logica di un itinerario, che è risultata negli ultimi anni anche per molti dei suoi estimatori quasi indecifrabile. Ma, per affrontare adeguatamente l’Abecedario, è necessario tenere presente che i venti lemmi non sono le voci di un bilancio retrospettivo.
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«Weder Empirist noch Dogmatiker». Lukács interprete di Lenin
di Matteo Gargani
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Introduzione
Lo spazio di un contributo non potrà esaurire un oggetto ampio, complesso e ramificato come l’interpretazione lukacsiana di Lenin1. Dal momento in cui aderisce al KMP2 nel dicembre 1918, infatti, sono molteplici gli aspetti del pensiero leniniano di cui Lukàcs si appropria e fa operare — adattandoli di volta in volta alle proprie esigenze — in contesti teorici e storici molto differenti. Il problema dell’eredità culturale, l’atteggiamento verso le avanguardie artistiche, la democratizzazione, le forme dell’organizzazione politica, la transizione al socialismo, sono solamente i principali ambiti su cui Lukàcs si trova nel corso dei decenni ad attingere proficuamente dal laboratorio leniniano.
Nonostante i molti anni di esilio in Occidente e il costante confronto con le posizioni della socialdemocrazia in particolare di area tedesca, il pensiero leniniano è commisto alla tradizione teorico-politica del populismo russo3. Il «punto di vista di classe»4, che molto deve proprio alla polemica anti-populista di Lenin, ottiene in Storia e coscienza di classe un complesso riadattamento teorico nel «Klassenstandpunkt des Proletariats»5. L’intreccio populismo russo-Lenin-Lukàcs dovrebbe quindi costituire un ulteriore elemento da vagliare criticamente per restituire un’immagine veramente esaustiva dell’interpretazione lukacsiana di Lenin.
Oltre alla difficoltà scaturente dai terreni diversi su cui Lukàcs chiama in causa la riflessione leniniana, si pone per l’interprete il problema del profondo mutamento di contesti entro cui, nell’arco di oltre un cinquantennio, le considerazioni lukacsiane hanno luogo. Le prese di posizione su Lenin vanno dal clima del «settarismo messianico»6 dei primi anni Venti, attraversano gli anni dei fascismi prima e della guerra fredda poi, per riemergere infine nell’importante scritto Demokratisierung heute und morgen, estremo tentativo di risposta al problema della «democratizzazione» ad Est e ad Ovest7. Democratizzazione che gli eventi cèchi del 1968 hanno reso tema sì più urgente, ma anche più facilmente manipolabile e potenzialmente aperto a strumentalizzazioni.
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Conversazione (im)possibile con Pier Paolo Pasolini
I nuovi fascismi, l’autoimprenditorialità e gli intellettuali
di Andrea Muni
Le parti di Ppp sono “montate” attraverso un collage che ho fatto attingendo liberamente da “Saggi sulla politica e sulla società”, ultimo volume delle Opere complete edite da Mondadori
AM: Ciao Pier Paolo, scusami per averti così indelicatamente riesumato. Immagino che vorresti parlare prima di tutto del tuo brutale omcidio, ma io non sono davvero un nergomante, sono solo un piccolo rompiscatole che vorrebbe discutere con te del rapporto tra la società dei consumi (che noi oggi chiamiamo neo-liberale), il nuovo montante fascismo degli italiani e l’intellettuale (cosiddetto) di sinistra. Ne avverto il desiderio perché mi sembra veramente che in questa triangolazione, in questo nuovo “sistema”, che vede l’85% degli italiani votare – a vario titolo – “a destra”, o non votare proprio, ci sia qualcosa del nostro presente che ci sfugge. Personalmente credo – con amarezza – che il vero propulsore del nuovo dilagante “fascismo” sia proprio un nuovo (forse giustificato) odio nei confronti degli intellettuali.
PPP: È sempre attraverso il sistema – la democrazia ateniese, la società capitalista o socialista – che noi conosciamo la vita o la realtà. Il sistema mi fornisce – e in questo non ha concorrenti se non altri sistemi – una partita completa di strumenti di conoscenza della realtà. Rifiutare l’uso di questi strumenti significa non voler conoscere la realtà, cioè voler morire. Per questo io penso che la disperazione è oggi l’unica reazione possibile all’ingiustizia e alla volgarità del mondo, ma solo se individuale e non codificata. La codificazione della disperazione in forme di contestazione puramente negativa è una delle grandi minacce dell’immediato futuro. Essa non può che far nascere degli estremismi, che rischiano di diventare nuove forme di fascismo, magari fascismo di sinistra. Tutto quello che possiamo fare è modificare il sistema, appunto rivoluzionandolo, in modo che il rapporto con la realtà, il suo conoscerla, sia, almeno nelle nostre speranze, più puro e autentico.
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Karl Marx, «Anatomopatologo» del sistema capitalistico e levatore di due secoli di rivoluzioni
di Eros Barone
«Parlammo del mondo e dell’uomo, dei tempi e delle idee, con il rumore del mare che faceva da sottofondo al tintinnio dei nostri bicchieri. […] Levandosi al di sopra del confuso brusio degli anni e delle epoche, oltre i discorsi del giorno e le immagini della serata, affiorò alla mia mente una domanda sulla legge ultima dell’esistenza per la quale avrei voluto una risposta da parte di quel saggio. Durante una pausa di silenzio, mi rivolsi al rivoluzionario e filosofo con queste fatidiche parole, emerse dalle profondità del linguaggio e scandite al culmine dell’enfasi: “Che cos’è?”.
Sembrò che la sua mente si distraesse mentre guardava il mare che tumultuava davanti a noi e la moltitudine che si agitava sulla spiaggia. “Che cos’è?”, avevo chiesto, e in tono profondo e solenne egli rispose: “La lotta!”. Per un attimo mi parve di aver udito l’eco della disperazione, ma forse era la legge della vita».
Dall’intervista del giornalista americano John Swinton a Karl Marx (agosto 1880).
1. Socialismo scientifico e critica dell’economia politica
Karl Heinrich Marx nasce a Treviri da una famiglia della borghesia liberale tedesca di origine israelitica il 5 maggio 1818. Egli ha 13 anni quando muore Hegel, 14 quando muore Goethe. La giovinezza di Marx si svolge nel periodo compreso tra la rivoluzione francese di luglio (1830) e la rivoluzione francese di febbraio (1848).
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Nuove armi, terra e mare
Alla luce di Carl Schmitt
di Armando Ermini
Impossibile per un non esperto valutare se veramente quelle nuove armi di cui ha parlato Putin1, non solo cambiano la guerra navale ma addirittura, come scrive il Sa-ker, annullano l’opzione militare contro la Russia. Fosse davvero cosi, le implicazioni di questo fatto avrebbero conseguenze molto piu grandi della pura strategia militare. Conseguenze geopolitiche, immediate e di lungo periodo, e quindi anche storico-filosofiche, nella misura in cui ogni paese ispira la sua politica, i suoi fini e mezzi su alcuni fondamenti e scelte prima di tutto culturali.
Per stare sull’immediato, rilevo intanto che le parole di Michael Griffin, che sembra non sminuire l’importanza di quelle armi, pongono gli USA ma anche il mondo intero, di fronte all’inquietante scenario di una alternativa secca fra ciò che egli definisce una «sconfitta» o l’uso dell’opzione nucleare. Uno scenario, come sostiene Grasset, che significativamente non contempla la terza alternativa; quella di una presa d’atto realistica da parte americana che un mondo unipolare non è piu possibile, e quindi che è necessaria una ricontrattazione complessiva degli equilibri fra le grandi potenze. Equilibri militari, politici (zone d’influenza), economici, in vista di un nuovo «nomos» della terra, ovvero di un ordine multipolare fondato sul diritto internazionale e sui suoi vincoli cosi spesso disattesi.
Che il sottosegretario americano non contempli tale possibilità, che sembra paragonare tal quale ad una sconfitta del proprio paese, la dice lunga su ciò che gli USA intendono per «convivenza pacifica». Molto pericoloso, evidentemente!
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Gli incalcolabili danni dell’economia mainstream
di Lucrezia Fanti, Mauro Gallegati
I modelli economici ed econometrici utilizzati per programmare e valutare le politiche economiche da governi e banche centrali derivano dall’adozione di un paradigma teorico fallace e obsoleto. Ma che continua a produrre enormi danni sulla vita di noi tutti
L’economia è una scienza sociale che consente di quantificare e valutare empiricamente numerose variabili che attengono alla sua analisi – variabili micro, meso e macroeconomiche. La valutazione dei fenomeni economici e delle loro determinanti è legata alla teoria economica sottostante e al modo di intendere il sistema economico in termini socialmente e storicamente determinati.
Criticare e ripensare il paradigma economico dominante e le teorie che ne derivano, pertanto, non è solo uno sterile esercizio tra accademici e addetti ai lavori, ma è un elemento imprescindibile di discussione riguardo alle politiche economiche che condizionano materialmente il contesto economico e sociale in cui noi tutti viviamo.
Le politiche economiche messe in campo da governi e banche centrali sono sì il frutto di valutazioni rispetto all’andamento di variabili economiche chiave – quali ad esempio il PIL, la disoccupazione o il debito pubblico –, ma il segno di tali politiche è diretta conseguenza del paradigma teorico sottostante ai modelli economici (ed econometrici) utilizzati dalle istituzioni in questione.
Non fanno eccezione le politiche economiche adottate dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni in Italia – a loro volta influenzate e orientate da indicazioni e vincoli imposti a livello comunitario – e che sono oggetto delle critiche e delle analisi proposte all’interno di questo e-book.
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