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Sulla “follia babilonese” di John Maynard Keynes, ovvero: la verità, vi prego, sulla moneta
Cronache marXZiane n. 14
di Giorgio Gattei
Dicono alcuni che la moneta è merce
e alcuni che invece è pagherò
alcuni che manda avanti il mondo
e alcuni che è una assurdità
e quando ho domandato al mio vicino
che aveva tutta l’aria di sapere,
sua moglie si è seccata e ha detto che
non era il caso, no.
(ad imitazione di Wystan Hugh Auden)
1. Se Federico Nietzsche ha voluto insegnarci che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», la sua affermazione è sia vera che falsa: falsa perché i fatti ci sono, eccome, e ci arrivano addosso alle volte inaspettati, ma pure vera perché noi ci muoviamo dentro i fatti secondo l’interpretazione che ne diamo comportandoci di conseguenza. E valga il caso clamoroso della scomparsa fisica, all’apice del suo potere, di Romolo, il primo re di Roma, che per storici come Tito Livio o Plutarco fu dovuta a un omicidio a opera dei senatori che ne avrebbero smembrato il corpo portandosene ciascuno un pezzo fuori dal Senato «nascondendolo sotto la toga», mentre il popolino credette a una sua ascesa al cielo, ne fece una divinità aggiuntiva col nome di Quirino e gli dedicò uno sette colli cittadini, per l’appunto il Quirinale.
Altrettanto sull’origine della moneta si confrontano due interpretazioni, che oggi è però più snob chiamare “narrazioni (R. Shiller, Economia e narrazioni. Come le storie diventano virali e guidano i grandi eventi economici, 2020) perché, più che spiegare, raccontano, che sono tra loro in radicale contrasto, come aveva ben compreso fin dal 1917 Joseph A. Schumpeter scrivendo che «vi sono soltanto due teorie della moneta degne di questo nome: la teoria della moneta come merce e la teoria della moneta come certificato di credito che non sono compatibili già in base al loro nucleo, benché in moltissimi casi esse conducano agli stessi risultati». Ma vediamole partitamente.
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Guerra reale e “truppe da esposizione”
di Dante Barontini - Simplicius the Thinker
Anche mettendo da parte le sparate propagandistiche tipiche di ogni soggetto in guerra – minimizzare le proprie perdite, esagerare quelle nemiche, alzare peana alle proprie vittorie, ignorare le sconfitte, ecc – è chiaro che la guerra in Ucraina non sta andando come gli Usa e tutti i loro servi speravano.
La logica era in fondo semplice: le “nostre armi” sono tecnologicamente superiori a quelle russe, ergo le truppe ucraine possono infliggere colpi molto più devastanti di quelli che comunque subiscono.
La premessa non detta è che l’armamento russo fosse in realtà quello sovietico (di 30-40 anni fa), così come il grosso della dotazione di Kiev. Ossia lo stesso armamento, forse appena un po’ migliore, di quello posseduto da Saddam ai tempi delle invasioni dell’Iraq (1991 e 2003).
Ergo, si pensava che aggiungendo qualche Himars e qualche altra “super-arma” (soprattutto antiaerea) lo squilibrio tecnologico avrebbe generato di per sé risultati positivi in tempi relativamente brevi.
Non è andata affatto così, la “controffensiva di primavera” si è rivelata un inutile massacro che ha dissanguato l’esercito ucraino al punto da imporre soluzioni “sbrigative” nel reclutamento di nuovi soldati da mandare al macello, con ovvi problemi di consenso sociale e di efficienza militare (se recluti anche i sessantenni non puoi aspettarti molto…).
Numerosi think tank militari Usa si sono così applicati nel cercare di capire cosa non aveva funzionato, provando anche a indicare le possibili contromisure. E i risultati cono sorprendenti.
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Attraversando il PNRR (I)
di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera
I: Piani Ue e classe dirigente italiana
Le difficoltà economiche del capitalismo italiano sono il frutto di scelte sbagliate dell’attuale ceto imprenditoriale, che si sta dimostrando inadeguato e magari poco dinamico o hanno radici più profonde?
Quale la ratio dietro l'implementazione del PNRR e quali gli obiettivi generali che si pone il piano italiano? In che modo potrà incidere sul tessuto produttivo e sul posizionamente dell'economia italiana nella divisione internazionale del lavoro?
Parte da queste domande il preciso studio, articolato in più parti di cui oggi pubblichiamo la prima, che proponiamo su «transuenze» a cura di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera.
* * * *
I. La situazione dell’economia produttiva italiana
Non saremo certo i primi a parlare delle difficoltà nelle quali da tempo si dibatte l’economia italiana. Lo hanno fatto governi e centri studi, fondazioni legate a poteri economici e finanziari e analisti di varia provenienza ogni qual volta dovevano proporre, supportare e approvare controriforme in materia di lavoro, previdenza e spesa pubblica. Del resto sono decenni che, a confronto con i Paesi più sviluppati, l’Italia sta accumulando ritardi nello sviluppo dei propri fondamentali (produttività del lavoro, entità e rendimento degli investimenti, implementazione dei processi produttivi e delle infrastrutture territoriali). È possibile che questi ritardi strutturali stiano determinando un rischio sempre più concreto di espulsione dell’Italia da alcuni dei mercati più importanti e remunerativi nei quali le imprese nazionali sono da tempo collocate e, secondo la nostra lettura, ciò finirebbe per comportare un ulteriore progressivo impoverimento delle fasce popolari.
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Le cause finanziarie e valutarie del conflitto
di Carla Filosa
Dato l’attuale perdurare dello stato di guerra, proprio di questo sistema economico in crisi irresolubile, sembra fondamentale precisare anche sul piano concettuale cosa sia il denaro, per cui occultamente in vario modo si combatte, cosa si intenda per valuta, e conseguentemente per conflitto valutario. Il richiamo e ripristino di contenuti reali di un’apparente autonomia della sola misurazione tra forze militari, deve servire a spostare sul piano conoscitivo e cioè cosciente, l’indignazione e l’orrore per la distruzione e le inesauribili morti altrui. Non è una novità che le cause delle guerre vadano ricercate in ambito economico, sin dall’antichità ne parlò Tucidide (460 a.C. circa). La specificità delle guerre nel sistema di capitale, è però qualcosa che la grandezza dello storico greco non poteva ovviamente immaginare, come purtroppo molti osservatori, nostri contemporanei, per lo più distolti o distratti dalle narrazioni accademiche e mediatiche manipolate dai poteri che le gestiscono.
Sulle cause della guerra in Ucraina molto è stato già detto, e a queste si rinvia. Data però la rilevazione di obiettivi politici legati alla disgregazione territoriale degli assetti attuali, ma anche e soprattutto di egemonia valutaria e in particolare quest’ultima da parte del dollaro statunitense, è bene rammentare il contesto storico che in questo aspetto del confliggere si è sviluppato, per comprendere meglio l’importanza internazionale legata alla portata sociale. Contro la propaganda mainstream, quindi, che semplifica le date di inizio delle ultime guerre al 7 ottobre o al 24 febbraio ‘23, qui si farà cenno del lungo processo temporale in cui sono stati predisposti i vari conflitti da intraprendere, proprio per non perdere la memoria dei vantaggi agognati.
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È il buio prima dell'alba, ma il colonialismo di insediamento israeliano è alla fine
di Ilan Pappe | mronline.org
Il professor Ilan Pappe ha parlato all'annuale Genocide Memorial Day dell'IHRC (Islamic Human Rights Commission), tenutosi a Londra il 21 gennaio 2024, sulla necessità di comprendere che il genocidio dei palestinesi a cui stiamo assistendo, per quanto brutale, è anche la fine del cosiddetto Stato ebraico. Dobbiamo essere pronti a immaginare un nuovo mondo al di là di esso.
L'idea che il sionismo sia un colonialismo di insediamento non è nuova. Gli studiosi palestinesi che negli anni '60 lavoravano a Beirut nel Centro di Ricerca dell'OLP avevano già capito che quello che stavano affrontando in Palestina non era un progetto coloniale classico. Non inquadravano Israele solo come una colonia britannica o americana, ma lo consideravano un fenomeno che esisteva in altre parti del mondo, definito come colonialismo di insediamento. È interessante che per 20-30 anni la nozione di sionismo come colonialismo di insediamento sia scomparsa dal discorso politico e accademico. È tornata quando gli studiosi di altre parti del mondo, in particolare Sudafrica, Australia e Nord America, hanno concordato che il sionismo è un fenomeno simile al movimento degli europei che hanno creato gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda e il Sudafrica. Questa idea ci aiuta a comprendere molto meglio la natura del progetto sionista in Palestina dalla fine del XIX secolo ad oggi, e ci dà un'idea di cosa aspettarci in futuro.
Credo che questa particolare idea degli anni '90, che collegava in modo così chiaro le azioni dei coloni europei, soprattutto in luoghi come il Nord America e l'Australia, con le azioni dei coloni che arrivarono in Palestina alla fine del XIX secolo, abbia chiarito bene le intenzioni dei coloni ebrei che colonizzarono la Palestina e la natura della resistenza locale palestinese a quella colonizzazione. I coloni seguirono la logica più importante adottata dai movimenti coloniali di insediamento, ossia che per creare una comunità coloniale di successo al di fuori dell'Europa è necessario eliminare gli indigeni del Paese in cui ci si è stabiliti. Ciò significa che la resistenza indigena a questa logica è stata una lotta contro l'eliminazione e non solo di liberazione. Questo è importante quando si pensa all'operazione di Hamas e di altre operazioni di resistenza palestinese fin dal 1948.
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Come la Cia ha preso possesso dell'Ucraina golpista
di Adam Entous e Michael Schwirtz - New York Times
Un segreto strettamente custodito per un decennio." Con un lungo reportage di Entous e Schwirtz, che come l'AntiDiplomatico abbiamo tradotto nella sua interezza per l'importanza, il New York Times svela esplicitamente come dopo il golpe di Maidan del 2014 la Cia ha preso possesso dell'Ucraina golpista e preparato tutte le scelte aggressive contro la Russia.
Quello che per il NYT era un "segreto custodito", per chi ha fatto informazione senza le veline di Washington ma cercando di capire le dinamiche era palese dall'inizio. L'AntiDiplomatico ve lo ha raccontato sin dall'inizio. 10 anni dopo ci arriva anche il New York Times. Repubblica e il Corriere quando?
Segue la traduzione completa del testo del Nyt (per le foto e le fonti citate si rimanda al link originale)
* * * *
Immersa in una fitta foresta, la base militare ucraina appare abbandonata e distrutta, il suo centro di comando è una carcassa bruciata, una vittima di un bombardamento missilistico russo all'inizio della guerra.
Ma questo è quello rimasto sopra il suolo.
Non lontano, un passaggio discreto scende verso un bunker sotterraneo dove team di soldati ucraini tracciano i satelliti spia russi e intercettano conversazioni tra comandanti russi. Su uno schermo, una linea rossa seguiva il percorso di un drone esplosivo che si insinuava attraverso le difese aeree russe da un punto nell'Ucraina centrale a un obiettivo nella città russa di Rostov.
Il bunker sotterraneo, costruito per sostituire il centro di comando distrutto nei mesi successivi all'invasione russa, è un centro nervoso segreto delle forze armate ucraine.
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Due anni di conflitto ucraino: la sconfitta dell’Europa
di Roberto Iannuzzi
La prospettiva di un’Europa teatro di una nuova guerra fredda con la Russia, sebbene al prezzo di diventare più insicura e impoverita, è quanto si augurano gli strateghi americani
Mentre si chiude il secondo anno di guerra in Ucraina, l’apparente stallo che caratterizza questo sfibrante conflitto di logoramento nasconde cambiamenti decisivi sul campo di battaglia e nel panorama internazionale.
Mosca ha riorganizzato le proprie forze, mobilitato nuovi uomini e mezzi, e preme su diversi punti del fronte. Dopo un estenuante assedio, la cittadina di Avdeevka, nell’oblast di Donetsk, è caduta in mani russe. Gli ucraini, fiaccati dalla carenza di soldati e munizioni, sono ormai nettamente sulla difensiva.
Nel frattempo, il fardello del sostegno economico e militare all’Ucraina è passato dagli Stati Uniti all’Europa. Tra aiuti finanziari e fornitura di armi, il contributo europeo è ormai il doppio di quello americano.
Complessivamente, però, l’appoggio occidentale mostra evidenti crepe. Chiare divisioni sono emerse nell’establishment statunitense, ma anche fra i diversi stati europei, e nel governo di Kiev.
Dopo mesi, il Congresso USA non ha ancora approvato il promesso pacchetto di 60 miliardi di dollari in aiuti militari. E in ogni caso, l’industria occidentale della difesa non è in grado di tenere il passo con l’intensità dello scontro bellico in Ucraina.
Da Washington giungono chiaramente pressioni, dirette e indirette, verso l’Europa affinché si assuma responsabilità ancora maggiori nella guerra, dando ossigeno finanziario a Kiev e aumentando le spese militari.
La zavorra del conflitto, e della riconfigurazione degli scambi commerciali e delle fonti di approvvigionamento energetico, dovuta alla rottura dei rapporti con Mosca, ha tuttavia inciso pesantemente sulle economie europee, in evidente difficoltà.
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Le controversie di una “storia sociale” del lungo Sessantotto italiano*
di Alessandro Barile - Università "La Sapienza" di Roma
Nel secondo Novecento italiano gli anni Settanta occupano un posto di assoluto rilievo storico, per molteplici e ovvie ragioni. Sono gli anni dell’assalto al cielo1 o del «paese mancato»2, a seconda dei giudizi, delle sensibilità, degli obiettivi della ricerca storica che si intreccia con l’impegno civile. Sono anni, dunque, su cui si è scritto tanto. La lotta armata, che di quegli anni ne è un poco l’epitome, ha vissuto le alterne stagioni di una pubblicistica intrisa di attualità, e quindi di passioni ancora brucianti, di ferite non rimarginate nell’uno e nell’altro campo3. La ricostruzione si è avvalsa spesso della testimonianza del “reduce”, poi della testimonianza della “vittima”. Vi è poi stata la sua “funzionalizzazione” attraverso la categoria del terrorismo, e quindi della criminalità politica4. Un taglio storiografico che, insieme a una sempre più raffinata (talvolta esasperata) precisione documentaria, ha portato con sé lo sfocarsi progressivo dei motivi generali che hanno reso possibile la durata, la profondità e la radicalità del lungo Sessantotto italiano. Non vi è (più) un deficit di informazione, quanto un (nuovo) deficit di interpretazione. Lungo questa parabola ora ascendente ora discendente, si è inserita dapprima la storia sociale5, poi lo sguardo “microstorico”6 a complicare ulteriormente il quadro attraverso spiegazioni antropologiche, se non direttamente psicologiche. Il trascorrere del tempo e l’inevitabile distanziarsi dagli eventi ha comportato il paradossale indebolimento della dimensione compiutamente politica della vicenda. Un fatto che distingue non solo la storia degli anni Settanta, interpretata secondo le categorie della devianza (una devianza ora irrisa, ora intrisa di pietas), ma l’intera storia del movimento operaio organizzato. E quindi – almeno in Italia – anche la storia del Pci, che di fatto prosegue lungo la china funzionalista che la riduce, da tempo, all’interno di una “politologia delle élite” che fa aggio su ogni caratterizzazione ideologica.
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Repressione Democratica
di Francesco Cappello
Con una mano aiutiamo a sparare sui bambini e le loro famiglie con l’altra li curiamo amorevolmente. Questo è legale. Se manifesti contro il genocidio sei fuorilegge
A seguire le parole del Ministro della Difesa Guido Crosetto in una nota stampa a commento dell’arrivo in Italia, dall’Egitto, del volo militare, con a bordo 11 piccoli pazienti destinati alle strutture sanitarie nazionali e 14 accompagnatori [1]:
Benvenuti in Italia! Al termine dell’operazione saranno circa 100 i bambini con le loro famiglie che saranno curati nei nostri migliori ospedali pediatrici. Sono vittime innocenti di questa guerra. Vogliamo fare di tutto per alleviare le loro sofferenze. Siamo stati i primi a portare aiuti alla popolazione civile di Gaza. Abbiamo inviato una nave ospedale, siamo pronti a installare un ospedale da campo e continuiamo con il ponte aereo per portare minori palestinesi in Italia e curarli nei nostri ospedali. Siamo amici di Israele e lavoriamo per l’unica scelta di pace possibile che prevede due popoli e due Stati.
Leggendole, risulta inevitabile pensare al coinvolgimento, ormai strutturale, del nostro Paese nelle operazioni belliche israeliane su Gaza.
Da vent’anni li aiutiamo a compiere i peggiori crimini [2]. La cooperazione tra l’industria militare italiana e quella israeliana è stata, infatti, ratificata dal terzo governo Berlusconi che codificò un precedente accordo generale nella forma di memorandum di intesa, risalente al 2003, sulla cooperazione militare tra Italia e Israele, con la Legge 94 del maggio 2005.
Facile ipotizzare che quegli stessi bambini siano stati feriti da armi ed esplosivi italiani come ad esempio nel caso dei cannoni prodotti in Italia dall’OTO Melara e venduti a Israele.
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L'ultimo appello di Julian Assange
di Rossella Fidanza
Martedì Assange presenterà il suo ultimo appello ai tribunali UK per evitare l'estradizione. Se verrà estradato, sarà la morte delle indagini sui meccanismi interni del potere da parte della stampa
LONDRA. Se a Julian Assange verrà negato il permesso di appellarsi alla sua estradizione negli Stati Uniti davanti a una commissione di due giudici dell'Alta Corte di Londra questa settimana, non gli resterà altro che ricorrere al sistema legale britannico. I suoi avvocati possono chiedere alla Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) una sospensione dell'esecuzione ai sensi dell'articolo 39, che viene concessa in "circostanze eccezionali" e "solo quando esiste un rischio imminente di danno irreparabile". Ma è tutt'altro che certo che il tribunale britannico sarà d'accordo. Potrebbe ordinare l'estradizione immediata di Julian prima di un'istruzione ai sensi dell'articolo 39 o decidere di ignorare la richiesta della Corte europea dei diritti dell'uomo di permettere a Julian di essere ascoltato dal tribunale.
La persecuzione di Julian, che dura da quasi 15 anni e che ha avuto pesanti ripercussioni sulla sua salute fisica e psicologica, avviene in nome dell'estradizione negli Stati Uniti, dove verrebbe processato per la presunta violazione di 17 capi d'accusa della legge sullo spionaggio del 1917, con una potenziale condanna a 170 anni.
Il "crimine" di Julian è quello di aver pubblicato nel 2010 documenti classificati, messaggi interni, rapporti e video del governo e delle forze armate statunitensi, forniti dalla whistleblower dell'esercito americano Chelsea Manning. Questo vasto materiale ha rivelato massacri di civili, torture, assassinii, l'elenco dei detenuti di Guantanamo Bay e le condizioni a cui erano sottoposti, nonché le regole di ingaggio in Iraq. Coloro che hanno perpetrato questi crimini - compresi i piloti di elicotteri statunitensi che hanno abbattuto due giornalisti della Reuters e altri 10 civili e ferito gravemente due bambini, tutti ripresi nel video Collateral Murder - non sono mai stati perseguiti.
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Gli Stati Uniti d'Europa sarebbero o impossibili o reazionari
di Domenico Moro
Recentemente Marco Travaglio ha pubblicato un editoriale sul Fatto quotidiano, giornale di cui è direttore, intitolato “Il regalo di Trump”[i]. Nell’articolo Travaglio tocca il tema della costituzione di un unico esercito europeo, da porre al servizio di una politica estera europea indipendente dagli Usa. In pratica non sarebbe altro che la riduzione ulteriore della sovranità degli stati europei in un campo, quello delle Forze Armate e della politica estera, che rappresenta il nocciolo stesso dell’esistenza di uno Stato. Infatti, secondo i maggiori filosofi e sociologi, tra cui Max Weber[ii] e Frederick Engels[iii], lo Stato si caratterizza in primo luogo per il monopolio della forza su un dato territorio. Di conseguenza, la formazione di Forze Armate europee, unitamente a una politica estera comune, prefigurano la costruzione di un nuovo super-stato europeo, gli Stati Uniti d’Europa.
L’opinione di Travaglio è particolarmente interessante perché il direttore del Fatto quotidiano ha assunto sulla guerra tra Russia e Ucraina una posizione molto più equilibrata della stragrande maggioranza dei direttori dei quotidiani nazionali. Travaglio, inoltre, viene considerato di “sinistra”, malgrado il fatto che sia un liberale, che come giornalista si sia formato con Indro Montanelli e che si sia sempre collocato ideologicamente a destra. Ma questa sorta di confusione è del tutto naturale in un mondo in cui la maggior parte della sedicente sinistra, a partire dal Pds-Ds-Pd, ha attuato politiche di destra sul piano economico, comprendenti privatizzazioni e liberalizzazioni del mercato del lavoro (dal “pacchetto Treu” al jobs act), che hanno prodotto una diffusa precarizzazione. Un analogo spostamento a destra è stato attuato anche riguardo alla politica estera: il Pds-Ds-Pd è stato in Italia il maggiore paladino della Nato e delle regole del Patto di stabilità europeo, incluso il pareggio di bilancio, anche più di Berlusconi.
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La polarizzazione ideologica negli Usa e il ruolo dei «Neocon» nell’America di oggi
di Tommaso Di Caprio
«Il potere genera responsabilità sia negli affari internazionali, che negli affari domestici e persino nei propri affari privati. Rifiutare o abdicare queste responsabilità è una forma di abuso di potere»[1]. È con questa breve frase che nel 1968 Irving Kristol riassumeva il senso della missione dei neoconservatori nel forgiare il futuro grandioso dell’America come guida del mondo libero.
A un primo fugace sguardo, il neoconservatorismo appare, ancora oggi, come un movimento intellettuale e politico dal perimetro estremamente variabile e indefinito, incapace di darsi una qualsivoglia strutturazione o di agire come effettivo gruppo di pressione, oltreché invariabilmente mutevole nelle simpatie politiche dei suoi esponenti più significativi.
E sebbene a coniare il lemma “neoconservatore” non fu Kristol, ma Michael Harrington all’inizio degli anni Settanta in un articolo intitolato “The Welfare State and Its Neoconservative Critics”, è al primo che si deve il successo del termine.
Nel tentativo di provare a identificare in modo netto un gruppo di intellettuali che pur dichiarandosi liberals (liberali) avevano smesso di riconoscersi nel partito democratico, sempre Kristol era solito definire il neoconservatorismo un «termine descrittivo più che normativo», in grado di cogliere il realismo che regna nel mondo.
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A partire da Gershom Scholem, “Il nichilismo come fenomeno religioso”, la questione dell’elitismo e del messianismo politico
di Alessandro Visalli
Gershom Scholem fu, probabilmente, il migliore e più stabile amico di Walter Benjamin ma la sua vita si svolse, dopo un avvio comune, su strade e sentieri molto diversi. Filosofo, teologo e semitista proveniente da una famiglia ebraica tedesca, si trasferì molto presto in Israele e qui rimase fino alla morte, a ottantacinque anni, a Gerusalemme nel 1982. Nel percorso della sua ricerca fu uno studioso della storia delle religioni e, in particolare, della cabala oltre che dei movimenti mistici ebraici. In particolare del movimento sabbatiano (da Shabbĕtay Ṣĕbī). Vicino in gioventù al sionismo laico e socialisteggiante degli anni Dieci ne giudicò in modo severo l’evoluzione. In Walter Benjamin. Storia di un’amicizia[1], il suo libro sull’amico, dichiaro che “il sionismo si è ucciso vincendo”[2], distinguendo tra una versione mistico-religiosa e una ‘pratica’ mirante alla soluzione politica ben nota. Una pratica che evoca da sé le forze della sua distruzione spirituale e precipita nella “disperazione del vincitore [che] è ormai da anni la demonìa peculiare del sionismo”. Il quale con Buber, e tanto più quando si fa materia in Palestina, si vuole come ‘sangue e vita vissuta’ e quindi razza.
Di questo complesso autore leggeremo ora solo una piccola, ma interessante, conferenza, tenuta in Svizzera nel 1974, Il nichilismo come forma religiosa[3], nella quale l’autore riassume la storia di alcune forme del misticismo ereticale e messianico ebraico e cristiano. Per cominciare vediamo intanto cosa definisce come ‘nichilismo’: l’atteggiamento di colui che contesta per principio qualsiasi autorità, che quindi non accetta alcun principio per fede, a prescindere da quanto sia essa seguita. Si tratta di un atteggiamento invero oggi molto familiare. Per questo vale la pena ripercorrere il racconto di Scholem.
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Per un New Deal europeo
di Ernesto Screpanti*
C’è un problema che assilla la sinistra europea fin dagli anni della crisi del debito greco: come deve agire un governo popolare per evitare che l’UE faccia fare a un’altra nazione la fine che ha fatto fare alla Grecia? Le scelte effettuate all’epoca dai governi greci (sia quello di Papandreu, 2009-11, sia quello di Tsipras, 2015) causarono non solo una grande sofferenza economica ai loro cittadini, ma anche un grave danno politico alla sinistra europea. Secondo molti osservatori avrebbero dimostrato che i socialisti e i comunisti non hanno la soluzione ai problemi che le politiche e i trattati dell’Unione hanno causato ai popoli europei.
Io invece credo che la soluzione ce l’abbiano, e per dimostrarlo voglio proporre un esercizio di fantapolitica in cui ipotizzo che un governo di vera sinistra vada al potere in Italia.
Non bisogna essere un profeta per prevedere che, appena si sa nel mondo che c’è un ministro dell’economia di sinistra, i “mercati” cominciano a giocare al ribasso sul debito pubblico italiano. Le agenzie di rating declassano il nostro debito a spazzatura, la speculazione alza la testa e la situazione diventa difficile da gestire.
A quel punto interviene la Commissione Europea proponendo di usare la troika per salvare l’Italia dal default, chiedendo però che il governo somministri politiche che tranquillizzino i mercati, cioè propini al popolo una medicina “lacrime e sangue” fatta di tagli alla spesa pubblica, aumento delle tasse, riforme delle pensioni, abbassamento dei salari, aumento della disoccupazione e della povertà. Un governo di sinistra non può accettare queste condizioni.
Dovrebbe piuttosto approfittare della crisi per lanciare un forte programma di new deal. Ecco cosa dovrebbe fare secondo me.
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Fare debito è di sinistra?
di Marco Bertorello e Danilo Corradi
Anche le forme dell'indebitamento hanno un segno di classe, riflettono i rapporti di forza. Quelle di questi anni hanno accresciuto le disuguaglianze
Dipende. Non intendiamo, con il pretesto di una provocazione, ribaltare il senso delle cose come fecero Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ascrivendo il liberismo al campo della sinistra in un celebre libro, ma provare a fare qualche riflessione sugli ultimi decenni.
Per ragioni anagrafiche chi scrive è cresciuto in uno schema del dibattito politico abbastanza consolidato. Da una parte le politiche europee vocate al «rigore» di bilancio, cementate dal trattato di Maastricht firmato il 7 febbraio del 1992, dall’altro l’opposizione alle politiche di austerity portata avanti dai movimenti sociali, da alcuni settori sindacali radicali, poi dal movimento antiglobalizzazione e dalla sinistra politica antiliberista che lo appoggiava (e di cui chi scrive faceva parte attivamente). Un’opposizione che via via si è allargata a forze politiche e intellettuali crescenti, seppur contraddistinte da tonalità differenti. Le ragioni dell’opposizione erano semplici: le politiche di austerity bloccavano la spesa sociale e gli investimenti pubblici, comprimevano diritti e riducevano il salario indiretto. Molti riproponevano un tradizionale e generico orientamento keynesiano, una politica in deficit spending che avrebbe permesso maggiore redistribuzione, ma anche maggiore crescita, che avrebbe ripagato (almeno in parte) il deficit iniziale.
La cosa interessante di questo schema politico sta nel risultato a trent’anni di distanza. Un risultato che ha il gusto forte del triplo paradosso.
I paradossi dell’austerity
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Palestina–Ucraina: il realismo imperialista e le assurdità di certe compagnerie a sinistra
di Algamica*
Diviene necessario dover affrontare alcune questioni teoriche e politiche con la dovuta chiarezza con risvolti che sembreranno come pugni nello stomaco a chi aspira a una alternativa di sistema ideale attraverso i fantasmi ideologici di quel che rimane della sinistra occidentale incapace di considerare i processi materiali reali e il saldo della storia. Non tenerne conto – a essere buoni – porta lì dove non si pensa di arrivare.
Proprio perché la storia è il vero giudice inappellabile siamo obbligati a cercare di separare il grano dal loglio, o la farina dalla crusca, in modo particolare in una fase come quella attuale, cioè di crisi generale del modo di produzione capitalistico, mostrando la pericolosità di certe posizioni teorico-politiche nella prospettiva di una decomposizione generale del modo di produzione capitalistico.
È buona abitudine chiamare a testimoniare sempre i fatti per essere credibili e ci riferiamo, perciò, a chi usa lo stesso metodo nel campo avverso, cioè non di parlare a vuoto o di mestare in ideologia, per capire in che direzione si sta andando. Ci riferiamo a quanto sta accadendo in Palestina e in Ucraina ultimamente.
Chiediamo perciò pazienza al lettore se citiamo anche lunghi strali di quello che scriveva il 19 febbraio 2024 Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera in modo schietto e chiaro come lui sa fare.
«[…] una merce sempre assai rara è il realismo: cioè la conoscenza dei fatti e della loro storia, l’analisi obiettiva degli interessi in gioco» prendano bene nota le varie compagnerie «la valutazione delle soluzioni concretamente possibili fondata sui due fattori ora detti.
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L’Energia, i suoi equilibri e le forme sociali /1/
di Paolo Di Marco
1- L’auspicabile sparizione di Energia Oscura e Materia Oscura
L’Energia è uno dei concetti più semplici e insieme più abusati della Fisica.
Ovunque vi sia una forza se questa sposta un oggetto compie lavoro. (L≈FxS)
L’energia è la capacità di compiere lavoro, e a ogni campo di forza quindi è associata un’energia, che si può misurare, combinare, trasformare (ad esempio da energia potenziale a energia cinetica).
È un po' più complicato con l’uso in ambiti meno definiti, dato che è difficile stabilire una metrica e delle operazioni (controllabili e condivisibili) per l’energia morale o affettiva o mistica, per quanto uno senta di poterle descrivere e anche valutare.
Uno degli ultimi arrivati, stavolta in cosmologia, è l’Energia Oscura.
Malgrado il nome minaccioso il termine rappresenta semplicemente il fatto che l’Universo si sta espandendo, e viene quindi ipotizzata l’esistenza di un’energia (e quindi Forza) che causi questa espansione.
Ma dato che l’unico effetto visibile è proprio l’espansione (l’allontanamento delle galassie avviene come se qualcuno gonfiasse un pallone sulla cui superficie le galassie si appoggiano) e non si vedono responsabili diretti è stata chiamata oscura; e molti ricercatori basano la loro carriera su questa indagine.
Peccato che, come Rovelli si sgola a spiegare da molti anni (anche sul tubo), questa energia è così oscura che proprio non c’è: infatti l’espansione è già contenuta nell’equazione fondamentale della Relatività Generale, e specificamente in una piccola costante chiamata appunto costante cosmologica.
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Guerra al lavoro, uberizzazione
di Vincenzo Comito
L’innovazione, la globalizzazione, l’intelligenza artificiale favoriscono una minoranza di privilegiati e una degradazione della condizione dei lavoratori. Che non possono contare che su sé stessi in caso di infortunio, malattia, gravidanza; niente sanità, niente pensione, ma solo una feroce concorrenza
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a delle grandi trasformazioni nel mondo del lavoro. Viste dall’Europa, tali trasformazioni appaiono complessivamente negative, ma se guardiamo dal punto di vista globale il quadro tende a farsi almeno un poco più sfumato. Dall’avvento della Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti (simboli eloquenti della loro azione sono la lotta feroce della prima contro i minatori e del secondo contro i controllori di volo), l’attacco frontale al mondo del lavoro ha assunto nuovo vigore, trascinando in un ruolo attivo contro il lavoro anche importanti forze politiche un tempo di sinistra e lasciandosi progressivamente dietro molte delle conquiste del dopoguerra. In Occidente tale attacco, del resto ancora in atto, è stato reso possibile oltre che dalle pessime decisioni assunte dalla politica, anche dallo sviluppo dei processi di globalizzazione e da quelli di innovazione tecnologica.
Gli effetti della globalizzazione e dell’outsourcing
Un grande fattore di trasformazione del mondo del lavoro negli ultimi decenni sono stati indubbiamente i processi di globalizzazione, che hanno portato alla fine a risultati in parte diversi da quelli che sperava di ottenere chi li aveva innescati.
La coppia globalizzazione-outsourcing è stata avviata in diverse ondate dagli Stati Uniti, da governo e imprese mano nella mano, e più in generale dai paesi ricchi, con diversi obiettivi: intanto quello di espandere e di approfondire la presa economica, ma anche politica e ideologica, sul mondo, poi quella di ridurre i costi di produzione, approfittando in particolare del bassissimo livello dei salari nei paesi del Terzo Mondo, a fronte di una forza lavoro che in quei paesi andava tra l’altro scolarizzandosi, insieme, soprattutto in alcuni di essi, a una certa dotazione di infrastrutture funzionali a rendere efficiente il processo di delocalizzazione.
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Eurocentrismo di Samir Amin
Recensione di Monica Quirico
Samir Amin: Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di G. Riolo, La Città del Sole, Napoli/Potenza, 2022, pp. 274, Isbn 9788882925529
Nel 1988 usciva Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018), che, sfidando la rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali (introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare radicalmente le categorie interpretative del capitalismo. In un’epoca contrassegnata (in Occidente come altrove) dalla politica identitaria, la traduzione italiana della seconda edizione dell’opera, uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale, invita a riflettere sulla genealogia dei fenomeni odierni, il cui punto d’arrivo Amin così sintetizza: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p. 32).
Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore, che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non-allineati. Diventa così urgente un confronto sulle cause dell’”arretratezza” (nella terminologia occidentale) del Sud del mondo. Amin figura, insieme con Giovanni Arrighi, Andre Gunter Frank e Immanuel Wallerstein, tra i fondatori della scuola che guarda al capitalismo come sistema globale, il cui centro (l’Occidente) prospera impedendo lo sviluppo dei paesi periferici, per poter estrarre valore dalla loro forza-lavoro e depredarne le risorse naturali.
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La sfida di Sanders non spaventa il capitalismo
di Carlo Formenti
Leggendo il titolo del nuovo libro di Bernie Sanders, Sfidare il capitalismo (Fazi Editore), mi sono detto: vuoi vedere che l’anziano senatore populista-socialista (così si autodefinisce), emulo della tradizione di un movimento operaio otto/novecentesco che, pur non avendo mai assunto posizioni “bolsceviche”, ha espresso leader radicali come Eugene Debs, ha finalmente rotto gli indugi. Magari, dopo due campagne presidenziali in cui, dopo avere inutilmente tentato di ottenere la nomination dando l’assalto all’establishment democratico, ha finito per fungere da galoppino delle candidature “eccellenti” di Hillary Clinton e Joe Biden, si è deciso a lavorare per un’alternativa antisistemica alla diarchia repubblicano-democratica, fedele esecutrice degli interessi dell’impero a stelle e strisce.
Purtroppo ho invece dovuto constatare che, rispetto a qualche anno fa, la sua attuale posizione può essere definita, citando un noto titolo di Lenin, come un passo avanti e due (se non tre!) passi indietro. Ma procediamo con ordine. Se invece di leggere il libro seguendone l’indice, qualcuno fosse tentato di “saltare” alcuni capitoli, lasciandosi attrarre dai passaggi che affondano impietosamente il dito nelle piaghe più purulente che affliggono il corpaccione dello zio Sam, l’illusione di svolta radicale evocata dal titolo sembra giustificata. Vediamo alcuni esempi.
Dopo avere descritto l’intollerabile tasso di disuguaglianza (pari a quello record degli anni Venti) raggiunto negli ultimi decenni, Sanders denuncia la situazione agghiacciante di un sistema sanitario da incubo: il 44% degli adulti fatica a pagarsi le cure mediche (c’è gente che evita di sorridere per non mostrare i buchi di una dentatura falcidiata dall’assenza di cure dentistiche, mentre più di 60 000 persone all’anno muoiono perché non possono acquistare farmaci salvavita né farsi ricoverare);
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Imperiarcato e sociopatia
di Piero Pagliani
Dopo aver preparato la trappola ucraina per anni e anni, per lo meno da quando lo stratega statunitense della Guerra Fredda, George Kennan, scongiurava di non farlo, di non allargare la Nato a Est, ed era il 1997, e dopo averne accelerato la messa a punto a partire dal golpe nazista della Maidan nel 2014, gli Usa, la Nato e tutto l’Occidente ci sono cascati dentro. Da soli. Ripeto: sono cascati dentro la trappola che avevano accuratamente preparato.
E ora non sanno come uscirne.
Si agitano senza un piano e continuano a chiedere agli ucraini di immolarsi per non fargli perdere del tutto la faccia, alimentare ancora un po’ il business della loro industria militare e dargli tempo per capire come scappare fuori dal pantano.
Nel frattempo per consolarsi si raccontano le favole da soli, come ha recentemente fatto su Foreign Affairs il capo della CIA, William Burns:
«L’obiettivo originale [di Putin] di conquistare Kiev e soggiogare l’Ucraina si è dimostrato folle e illusorio. Il suo esercito ha sofferto immensi danni. Almeno 315.000 soldati russi sono stati uccisi o feriti» [1].
Ex analisti militari americani e persino della CIA, preoccupati che ormai da tempo i servizi di intelligence raccontino solo quello che i politici neo-liberal-con voglio sentirsi raccontare, dicono tutt’altro, in base ai dati: la Russia non ha mai cercato di prendere Kiev (aveva dislocato lì meno di un ventesimo delle truppe necessarie a farlo).
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Playfication. A partire da “La regola del gioco” di Raffaele Alberto Ventura
di Alessandro De Cesaris
Nel 2018 Alessandro Baricco pubblica The Game, un libro basato su una tesi semplice ma efficace: il videogioco è diventato la forma dominante di ogni esperienza degna di nota all’interno delle nostre società. Si tratta di un’idea leggera, apparentemente innocua, che suggerisce un’immagine giocosa e divertente della vita. D’altra parte, a chi non piace giocare ai videogiochi? Cinque anni dopo, Raffaele Alberto Ventura riprende questa idea con toni completamente differenti e ne radicalizza le implicazioni più preoccupanti.
La regola del gioco si presenta come un manuale di comunicazione per l’era dei social, ma l’aspetto più interessante del libro è la visione del mondo che sottende. Ventura resta il teorico della classe disagiata e della guerra di tutti, e nella sua lettura la metafora ludica sprigiona tutta la sua potenza più sinistra: in un mondo dominato dalla scarsità di risorse e dalla corsa alla conquista di beni posizionali, la regola del gioco è la più semplice ma anche la più dura, ovvero che se qualcuno vince, qualcun altro deve perdere. Ma siamo sicuri che questa idea di gioco sia l’unica possibile? E soprattutto, è davvero questa la visione della vita che ci trasmettono i videogiochi?
Dal play al game. L’eredità di Don Chisciotte
Per comprendere le premesse della diagnosi di Ventura è utile partire dal suo saggio contenuto in The Game Unplugged, una raccolta di testi pensati a partire dal libro di Baricco e uscita nel 2019. In quelle pagine Don Chisciotte viene indicato come la figura più rappresentativa della metafora del Game, quasi un mito fondatore, se non fosse che la contaminazione tra realtà e gioco è molto più antica del cavaliere dalla triste figura.
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La porta delle lacrime, le risa del capitale e l'inflazione. Riflessioni amare sulla crisi del Mar Rosso
di Andrea Pannone
Nel testo odierno, Andrea Pannone riflette sulle conseguenze economiche del conflitto in Medio Oriente e delle azioni del gruppo yemenita Houthi.
È un testo molto utile perché spiega i maggiori beneficiari delle tensioni belliche, gli interessi materiali sul campo e dunque le contraddizioni tra gli attori della guerra
La guerra nello stretto e le conseguenze sul commercio mondiale
Come ci ricorda il National Geographic Magazine, Bab el-Mandeb, in arabo la Porta delle lacrime, è una piccola strozzatura geografica nel Mar Rosso che ha un'influenza enorme sull’economia mondiale: è un punto chiave per il controllo di quasi tutte le spedizioni tra l'Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez[1]. Da lì, come ormai noto, passa quasi il 15% del commercio marittimo globale, compreso l’8% del commercio mondiale di cereali, il 12% del petrolio commercializzato via mare e l’8% del commercio totale di gas naturale liquefatto.
Da circa due mesi alcune navi che transitano in quel tratto sono prese di mira dai droni e dai missili del movimento yemenita Houthi, da anni sostenuto dall’Iran. Alcune navi, non tutte però. Solo le navi mercantili che navigano al largo delle coste dello Yemen e che hanno collegamenti con Israele. Gli stessi Houthi presentano gli attacchi come una risposta alla mancata condanna da parte dell’occidente al massacro che il governo di Netanyahu sta compiendo a Gaza. In realtà, si potrebbe a buon diritto sostenere (come fa ad esempio Emiliano Brancaccio nell’articolo Lo stretto necessario, il Manifesto, 23 gennaio 2024) che le azioni degli Houthi, sicuramente ben note a Teheran, vadano a vantaggio di un progetto antitetico a quello dell’Occidente che mira a contrastare, anche con l’imposizione di barriere commerciali e finanziarie, la crescente sfida dei competitor cinesi e russi al dominio economico degli Stati Uniti e al loro storico ruolo guida delle relazioni geopolitiche.
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Da Neoliberismo a Caosliberismo: Una malattia sociale di lunga durata
di Glauco Benigni
Il Neoliberismo è al tempo stesso un’ideologia politica e una teoria economica. La sua comparsa risale alla fine degli anni ’70. Il suo effetto apparve sin da subito subdolo e persuasivo e cominciò a influire non solo sui mercati finanziari e del lavoro, ma anche sull’organizzazione degli stili di vita e di pensiero. Il suo ideologo Friedrich von Hayek, che ricevette il Nobel per l’economia nel 1974, era assolutamente convinto che la Società si regge solo e unicamente grazie alle azioni di singoli individui. Una certezza che “risuona” con alcune affermazioni del Calvinismo: “la vocazione di ognuno si lega in positivo con la predestinazione e da vita a una nuova etica della Società e del lavoro“. Una “chiave morale” che vede la crescita del capitale individuale quale “opera buona e giusta”, da cui molti studiosi vollero interpretare il messaggio calvinista quale modello ideale della borghesia occidentale contemporanea. Alcuni opinion makers di regime arrivano a sostenere che il Neoliberismo è “la fonte dei nostri valori“, alludendo con “nostri” ai valori di quelli che hanno un reddito annuo piuttosto importante e conti bancari nei paradisi fiscali.
L’ordine che tiene la società, secondo von Hayek, si genera spontaneamente dalla confluenza delle imprese e delle finalità dei singoli, e non ha niente a che vedere con qualsiasi forma di progettazione collettiva e/o di economia pianificata Ogni forma di controllo dall’alto, tipica delle visioni stataliste, è superflua, anzi dannosa. Talvolta si potrebbe confondere il Neoliberismo con l’anarchia del Potere – e infatti spesso le due pratiche si intersecano – ma von Hayek e i suoi seguaci puntualizzano che: invece no! la società – dicono – è regolata dalla proprietà privata: un fondamento naturale, un argine al caos.
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Concretezza e storicità della contraddizione
di Salvatore Bravo
La contraddizione è la legge oggettiva della storia, è sinolo di universale e particolare; la legge della contraddizione è concreta e storica, perché si esplica nelle contingenze particolari. Capire la contraddizione significa coglierla nei suoi movimenti storici. La tensione tra particolare e universale necessita della valutazione attiva e consapevole degli uomini e delle donne in lotta. Non tutte le contraddizioni hanno lo stesso valore, ci sono priorità che devono essere oggetto di azione e pensiero, in modo da discernere le contraddizioni antagoniste dalle secondarie e calibrare le risposte alle circostanze che si presentano.
La duttilità del pensiero di Mao Tse-tung ha la sua genesi nella lotta per liberare la Cina dalla “grande mortificazione”, a cui l’aveva sottoposta l’Occidente con le guerre dell’oppio fino all’invasione giapponese nel 1937. L’aggressione giapponese è stata parte del disegno egemonico liberalista di spartizione del pianeta in aree di influenza e di saccheggio delle risorse. Dinanzi alla Cina devastata dall’invasione giapponese Mao Tse-tung dichiara la guerra di liberazione della Cina “contraddizione principale”, per cui l’alleanza con il Kuomintang diviene il mezzo con cui liberare la Cina dal nemico giapponese. Le contraddizioni interne alla Cina con relative visioni politiche sono valutate secondarie rispetto alla lotta di indipendenza della Cina:
“Dato che la contraddizione fra la Cina e il Giappone è divenuta la contraddizione principale e che le contraddizioni interne sono passate in secondo piano e vengono subordinate alla prima, si sono verificati cambiamenti nelle relazioni internazionali e nei rapporti tra le classi all’interno del paese; questi cambiamenti hanno segnato l’inizio di una nuova fase nello sviluppo dell’attuale situazione.
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