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Il potere di Israele
di Gaetano Colonna
La domanda, che dovrebbe sorgere spontanea, assistendo a quello che avviene nella Striscia di Gaza da molti mesi, è per quale ragione le autorità politiche dei Paesi europei non intervengano in maniera ferma nei confronti della politica di eliminazione fisica dei Palestinesi adottata con ogni evidenza dallo Stato di Israele: nonostante il fatto che quegli stessi Paesi, nelle loro ben costruite costituzioni, abbiamo scolpito nero su bianco i più alti principi umanitari
Gruppi di pressione di Israele in Europa
La risposta a questa domanda, che il cosiddetto uomo della strada si pone ogni giorno ascoltando i telegiornali, ma che assai pochi politici e giornalisti osano formulare pubblicamente, è in realtà molto semplice. Basta approfondire quanto lo Stato di Israele è riuscito a costruire in decenni di abile strategia politica anche in Europa, sviluppando le fruttuose strategie già da tempo messe in atto in Gran Bretagna prima e poi negli Stati Uniti d’America.
Ci riferiamo alla creazione di quei gruppi di pressione, che nel mondo anglosassone sono chiamati lobby, il cui scopo, apertamente dichiarato e consentito dalla legge, è di esercitare un’influenza sulle istituzioni delle democrazie parlamentari occidentali, attraverso l’indottrinamento dei cosiddetti rappresentanti del popolo.
L’efficacia dell’influenza di queste lobby, da tempo riconosciuta dalla storiografia anglosassone per quanto riguarda il mondo britannico e statunitense, è ora altrettanto ben funzionante in Europa.
Una delle principali lobby che sostengono la politica dello Stato di Israele, particolarmente attiva nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea, è lo AJC Transatlantic Institute, dipendente, anche finanziariamente, dalla più autorevole fra le lobby ebraiche statunitensi, lo storico American Jewish Committee (AJC).
Il lettore non deve pensare a nulla di complottistico, in quanto il TAI è ufficialmente iscritto nel registro delle lobby di Bruxelles, e dispone di discrete disponibilità economiche che si aggirano intorno ai 700mila euro annui. Come accennato, queste risorse dovrebbero provenire dallo AJC, che ha messo a disposizione in un anno 3,5 mln di dollari per attività di questo tipo in Europa, raggiungendo complessivamente, a partire dal 2005, anno di apertura dell’ufficio di Bruxelles, i 47 mln di dollari: cifra realistica questa, tenendo presente che lo AJC dispone, oltre ad un patrimonio di 250 mln di dollari, di entrate annue per 80 mln di dollari annui, provenienti da fondi donati da esponenti del mondo ebraico americano e internazionale.
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Dal Greenwashing al Blackwashing, come distrarre da Gaza - Moni, No! - Quando esibire antifascismo serve a promuoverlo
di Fulvio Grimaldi
Introduzione al tema
Moni Ovadia, che ritengo prezioso per aiutare i propagandati a distinguere tra ebreo e israeliano, ebreo e genocida, ebreo e Netaniahu, l’ho visto ieri sera nella Tv dei correligionari Cairo e Mentana. E lì lo stimato intellettuale ha dato il suo importante, decisivo, contributo a un’operazione che è tutto fuorché limpida e che si presta a valutazioni fortemente negative.
Avrei dovuto incontrarmi con lui un paio di anni fa a Milano per un comizio di Francesco Toscano e Marco Rizzo sulla Palestina… Avevo sollecitato più volte la diarchia al comando di DSP di partecipare alle mille e mille manifestazioni grandi e piccole che andavano incendiando il paese. Mi si rispondeva che “DSP, non fa iniziativa con altri”. Eppoi che si trattava di non far innervosire la Comunità ebraica. Ci sono i testimoni.
A Milano avrei dovuto parlare anch’io. L’iniziativa era per la Palestina, ma la Palestina non c’era. C’era l’ebreo Moni Ovadia, non allineato con il regime di Netaniahu, in giusta evidenza. Non c’era un equivalente rappresentante della Palestina, tanto meno della Resistenza, figurarsi. Poi, resisi conto, all’ultimo momento rimediarono un ragazzo palestiinese di passaggio e lo misero sul palco. In assenza programmata del relatore palestinese rinunciai anch’io.
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Il genocidio annunciato
di Matteo Bortolon
“La deprivazione è morale. L’atrocità è eroismo. Il genocidio è redenzione.” Questa stringata silloge di Chris Hedges, che echeggia gli slogan della distopia di Orwell posti a fondamento di tale società, è posta dall’autore come conclusione di un paragrafo che descrive l’abisso morale della società israeliana.
Compare nel mezzo dell’ottavo capitolo, dal titolo inequivocabile Il sionismo è razzismo, del suo testo Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza nella Palestina occupata (Fazi 2025). Si tratta di un passo che rappresenta il centro contenutistico del testo. Nei vari capitoli si alternano in maniera magistrale racconti e testimonianze con passi più analitici in merito all’oppressione dei palestinesi; ma, al di là di vari spunti, dalle atrocità più disgustose alla ricostruzione concettuale delle loro modalità e motivazioni, il punto focale è la consequenzialità. Tutti questi elementi sono visti come correlati e connessi in una logica unitaria, in un quadro organicamente coerente nei suoi passaggi essenziali: Israele nasce come progetto coloniale e suprematista volto a imporre un insediamento occidentale nel cuore del Medio Oriente, che implica la sottomissione degli arabi con ogni mezzo, dalla tecnosorveglianza alla tortura, dall’incarcerazione di massa fino all’eliminazione fisica. Il genocidio.
Hedges è un giornalista e reporter di guerra per il New York Times (come il suo omologo, scomparso da qualche anno, il grande John Pilger), che ha seguito sul campo diversi conflitti, dalla Bosnia degli anni Novanta all’Iraq dell’occupazione statunitense nel 2003.
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La debacle dell'Ue in Cina e il senso del "progetto europeo" oggi
di Andrea Zhok
Ieri una delegazione UE guidata da Ursula von der Leyen, António Costa e Kaja Kallas era a Pechino a trattare con il Presidente cinese Xi Jinping.
Cosa poteva mai andare storto?
Infatti la delegazione è rientrata anzitempo in Europa, con un nulla di fatto, dopo aver irritato per l'ennesima volta i negoziatori cinesi con la pretesa di impartirgli lezioni sui diritti umani e di strappare condizioni commerciali di favore, pur partendo da una posizione di umiliante debolezza contrattuale.
Ma niente paura, nel frattempo l'UE ha anche accettato l'idea di subire dazi asimmetrici da parte degli USA (sembra con un differenziale del 15%).
Questo mentre non passa giorno che Trump trolli gli europei in diretta mondiale, spiegando come loro (USA) forniscano in Ucraina e altrove armi e servizi bellici, che però pagano gli europei (risatina dei giornalisti presenti).
Questo dopo che l'UE si è evirata dal punto di vista energetico (Libia, Russia, Iran) e acquista gas naturale liquefatto dagli USA, per un prezzo esorbitante, che mette l'industria europea fuori mercato.
Ecco, io ricordo le infinite discussioni sul senso del "progetto europeo".
Alla fine, a sostegno di tale progetto l'unico argomento che aveva qualche tenuta era che avrebbe permesso all'Europa di ottenere, attaverso l'unione economica, un maggiore potere contrattuale nei confronti dei suoi principali competitori (USA e Cina).
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Gli Usa all’assalto diplomatico della Confederazione degli Stati del Sahel
di Mario Colonna
Le batoste prese della Francia (ultima in ordine di tempo, il ritiro delle truppe dal Senegal) e dell’Unione europea devono aver fatto pensare a Washington che un ritorno statunitense nelle grazie dei Paesi del Sahel sia effettivamente possibile.
Sono diversi mesi che si registra infatti un incremento delle visite yankee ad alto livello verso quegli Stati dell’Africa subsahariana che stanno provando a scrivere una storia di riscatto ed emancipazione non solo della regione, ma del continente intero.
La Confederazione degli Stati del Sahel
Parliamo della Confederazione degli Stati del Sahel, organizzazione regionale istituita nel settembre 2023 da Mali, Burkina Faso e Niger per garantire la sicurezza e la stabilità dei suoi membri, contrastando il terrorismo – soprattutto di matrice islamica – e il neocolonialismo.
Tale cooperazione è stata poi estesa a settori come finanza, economia, infrastrutture, sanità e educazione, ponendosi così come un’alleanza strategica a tutto tondo e fornendo un esempio di reazione al colonialismo e all’imperialismo per il mondo intero.
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Voci dalla Palestina: una maratona di letture contro l’oblio del genocidio
di Vincenza Pellegrino, Martina Giuffrè e Jacopo Anderlini*
Dal primo all’11 luglio 2025, le piazze di Parma si sono trasformate in aule aperte dove studenti, docenti e cittadini hanno dato vita a una particolare forma di resistenza culturale: la maratona di letture “Stop al genocidio. Voci dalla Palestina”, promossa dall’Osservatorio Paritetico Studenti Docenti Contro la Normalizzazione della Guerra dell’Università di Parma.
L’iniziativa non aveva l’ambizione di essere una lezione accademica su dinamiche geopolitiche o storiche, né un attraversamento superficiale della questione palestinese. L’obiettivo era più radicale e insieme più intimo: creare un cerchio narrativo capace di evocare la vita quotidiana di chi vive il genocidio in corso, costruendo un ponte tra chi ascolta e chi resiste dall’altra parte del mondo. "Sediamoci e ascoltiamo a lungo la storia di qualcun altro”, questa la filosofia che ha guidato dieci giorni di letture continuative. La scelta metodologica richiama le pratiche della public sociology, problematizzando il punto di vista dominante per privilegiare quello della vita quotidiana, di coloro che sono lasciati fuori e invisibilizzati dalle grandi narrazioni mediatiche, dei soggetti che vivono sulla propria pelle l’orrore del genocidio. È la micro-sociologia applicata al contemporaneo, la scelta deliberata di dare voce alla “storia minima” contro le narrazioni egemoniche.
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Benjamin e Brecht amici diversi
di Roberto Gilodi
Ci sono scritture che si calano nelle vite altrui con l’entusiasmo creativo dell’invenzione e della narrazione, con la certezza, talora con la presunzione, che per capire le azioni umane non bastino le ricostruzioni fattuali della storia ma sia necessario esplorare le ragioni soggettive delle azioni e i sentimenti che le hanno accompagnate. Manzoni, nella celebre Lettera a Monsieur Chauvet, si chiedeva: “alla fin fine cosa ci dà la storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni, o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola hanno rivelato la loro personalità: tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia.”
C’è tuttavia un altro approccio alle vite altrui, mosso anch’esso dal bisogno di guardare al di là delle geometrie complessive dell’accadere, che non si accontenta di osservare dalla distanza le cause e gli effetti delle azioni umane pur avendo in comune con il lavoro dello storico la ricerca documentaria. Anche questo tipo di indagine vuole sondare le ragioni profonde, soggettive, ma le ricerca nei dettagli meno appariscenti, nelle scritture secondarie, spesso accidentali, improvvisate.
È il metodo di lavoro dell’archivista. Di colui che raccoglie e ordina testimonianze della più svariata provenienza: ad esempio le lettere che si scambiano i protagonisti oggetto dell’indagine, oppure ciò che altri hanno scritto su di essi documentandone la vita. Si tratta molto spesso di lacerti, di appunti di lavoro scritti di fretta su un pezzo di carta, annotazioni su questioni che poi saranno sviluppate in seguito, resoconti di dialoghi e incontri, articoli d’occasione, brevi appunti di viaggio, o trascrizioni cifrate di letture indiziarie di città e mondi sociali, di edifici pubblici e privati, di opere d’arte.
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L’Europa abbandona Big Tech?
di Antonio Piemontese
Per conformarsi a un ordine esecutivo del presidente americano Donald Trump, nei mesi scorsi Microsoft ha sospeso l’account email di Karim Khan, procuratore della Corte penale internazionale che stava investigando su Israele per crimini di guerra. Per anni, scrive il New York Times, Microsoft ha fornito servizi email al tribunale con sede a L’Aja, riconosciuto da 125 paesi tra cui l’Italia (ma non da Stati Uniti, Israele, Cina, Russia e altri).
All’improvviso, il colosso di Redmond ha staccato la spina al magistrato per via dell’ordine esecutivo firmato da Trump che impedisce alle aziende americane di fornirgli servizi: secondo il successore di Biden, le azioni della Corte contro Netanyahu “costituiscono una inusuale e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”. Così, di punto in bianco, il procuratore non ha più potuto comunicare con i colleghi.
C’è stata una mediazione, ricostruisce il New York Times: dopo una riunione tra Redmond e i vertici della Corte si è deciso che la Cpi avrebbe potuto continuare a utilizzare i servizi di Microsoft. Anche perché l’azienda, secondo la ricostruzione del quotidiano, sarebbe stata fondamentale per la cybersecurity dell’organizzazione, finita nel mirino degli hacker russi dopo l’inchiesta per i crimini di guerra in Ucraina.
Il discorso, però, non vale per Khan, il cui account resta bloccato: cittadini e aziende statunitensi rischiano conseguenze serie – multe e persino l’arresto – se forniscono “supporto finanziario, materiale e tecnologico” a chi viene identificato come pericoloso per la sicurezza nazionale (spesso sulla base di ragionamenti dal sapore politico). Insomma, in una paradossale inversione di ruoli, il procuratore è diventato un criminale, trattato alla stregua di un nemico pubblico.
Le conseguenze non si sono fatte attendere. Tre dipendenti con contezza della situazione hanno rivelato al quotidiano newyorchese che alcuni membri dello staff della Corte si sarebbero rivolti all’azienda svizzera Protonmail per poter continuare a lavorare in sicurezza.
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"La pelle", di Maurizio Ferraris
Recensione di Giulio Bonali
Maurizio Ferraris: La pelle. Che cosa significa pensare nell'epoca dell'intelligenza artificiale, Il Mulino, 2025
Il libro di Maurizio Ferraris “La pelle” sta avendo molto successo anche perché, forse un po' "furbescamente" per un professore di filosofia, tratta la questione dei rapporti mente-materia (cerebrale) partendo dalla realtà della cosiddetta intelligenza artificiale (ovviamente ben venga la furbizia, se serve a interessare alla filosofia della mente un pubblico più vasto dei soliti frequentatori abituali di nicchie culturali!).
Circa l’ intelligenza artificiale personalmente ritengo interessante soprattutto la questione teorica pura o di principio della mera possibilità “astratta” che macchine elaboratrici di dati e magari semoventi ed "attive" (robot) siano dotate di intelligenza e di pensiero cosciente; questo anche perché ritengo impossibile di fatto la realizzazione di artefatti che possano effettivamente porre il problema in pratica, data l' enorme complessità dei meccanismi che sarebbero a ciò necessari, che ritengo abissalmente, e anzi sideralmente, lontana da quella propria della "intelligenza artificiale" attualmente presente e pure di quella realisticamente futuribile, anche in tempi remotissimi.
Invece Ferraris la affronta in questo volume da un punto di vista innanzitutto pratico, come un problema "di fatto" piuttosto che “di diritto”, probabilmente anche perché è fortemente interessato a confutare gli sproloqui di numerosi informatici, tecnologi, scienziati cognitivi, filosofi della mente (più o meno neo- oppure vetero- positivisti-scientisti), ciarlatani, giornalisti, politicanti, ideologi vari, circa il preteso superamento dell' umanità-animalità naturale da parte delle “macchine intelligenti” reali odierne o almeno prossimamente future, nonché il preteso "transumanesimo", concetto per me vago e irrealistico, campato in aria, non affatto serio ma casomai tragicomico.
La sua liquidazione di queste iperboliche pretese circa l’ attuale IA mi sembra comunque pienamente condivisibile, anche se dissento da gran parte delle argomentazioni di filosofia della mente, biologia, neurologia e scienze cognitive con cui la argomenta.
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Gli ultimi colpi di coda di USAID: nessun furto degli aiuti da parte di Hamas
di Alessandro Avvisato
L’agenzia statunitense USAID, braccio del soft power stelle-e-strisce che l’amministrazione Trump ha deciso di smantellare, in una revisione delle priorità di spesa e propendendo per l’uso diretto dell’hard power, ha smentito le ricostruzioni che accusavano Hamas di aver dirottato gli aiuti umanitari per ottenerne un guadagno.
Il Bureau for Humanitarian Assistance (BHA) dell’agenzia ha analizzato 156 casi segnalati da propri partner che hanno riguardato il furto o lo smarrimento di forniture finanziate dagli USA, tra l’ottobre 2023 e il maggio di quest’anno. Le cause dietro questi eventi sono varie, ma in nessun caso, dietro di essi, è stato riconosciuta la responsabilità di alcun gruppo designato come terroristico.
Anzi, lo studio, presentato con una serie di slides visionate dall’agenzia Reuters, indica che in ben 44 occasioni furti e smarrimenti sono stati dovuti all’azione diretta e indiretta delle forze armate israeliane. Tra le cause, sono segnalati attacchi aerei, ordini di evacuazione e consegne forzate di aiuti lungo rotte segnalate come insicure dalle ONG che operano a Gaza.
I risultati delle verifiche sono stati condivisi con alcuni funzionari del Dipartimento di Stato. Un suo portavoce ha respinto nettamente le conclusioni del rapporto, sostenendo che Hamas ha saccheggiato gli aiuti e accusando le organizzazioni umanitarie di aver insabbiato il tutto per la loro complicità con l’organizzazione. Tutto questo senza portare alcuna prova.
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L'uomo dell'MI6 a Damasco
di Kit Klarenberg* - The Cradle
Un agente dell'intelligence britannica ha mediato l'accesso al palazzo presidenziale siriano per il governo guidato da Julani, mentre agenti dell'era Blair guidano la politica estera del Regno Unito dall'ombra
Il 19 luglio, il Mail on Sunday ha rivelato che Inter-Mediate, una società poco nota fondata da Jonathan Powell(FOTO ndt), ora consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro britannico Keir Starmer, ha mediato il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Damasco e Londra.
Tra questi, un incontro ampiamente pubblicizzato tra il Ministro degli Esteri britannico David Lammy e l'autoproclamato Presidente siriano Ahmad al-Sharaa, avvenuto due settimane prima. Il giornale ha anche rivelato come l'agenzia di stampa britannica Inter-Mediate, finanziata dallo Stato, gestisca un ufficio dedicato nel Palazzo Presidenziale siriano.
Il partito conservatore dell'opposizione britannica ha chiesto un'indagine formale sull'uso di Inter-Mediate da parte di Powell "per fornire canali secondari a gruppi terroristici" e sul conflitto di interessi creato dal suo ruolo non eletto.
In qualità di consigliere per la sicurezza nazionale di Starmer – descritto come colui che esercita "più influenza sulla politica estera di chiunque altro al governo, dopo il primo ministro stesso" – Powell opera completamente al di fuori della responsabilità parlamentare. Una fonte di Whitehall ha dichiarato al Mail on Sunday:
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Gaza. I tanti misteri sul fallimento del negoziato
di Davide Malacaria
Fallisce l’ennesimo negoziato per Gaza, una rottura che allarma più delle precedenti a motivo delle dichiarazioni dell’inviato di Trump Steve Witkoff, che ha addossato tutte le colpe ad Hamas aggiungendo che, a questo punto, “cercheremo soluzioni alternative per riportare a casa gli ostaggi e per creare un ambiente più stabile per la popolazione di Gaza”.
Al di là della tragica ironia della conclusione, che stride con l’allineamento Usa alle operazioni belliche israeliane a Gaza, compresa la nefasta gestione degli aiuti, l’accenno alle opzioni “alternative” inquieta, perché annuncia l’abbandono dei negoziati da parte degli States, così che saranno rimessi nelle mani dei duellanti nonostante sia risaputo che Netanyahu non abbia alcuna intenzione di trovare un accordo.
Peraltro, le accuse di Witkoff vanno a ribaltare quanto ormai assodato su quest’ultimo punto, aiutando Netanyahu a far fronte delle contestazioni esterne e interne sulla sua determinazione a proseguire nel genocidio.
Le dichiarazioni di Witkoff suscitano tante domande, con Hamas che si è detta “sorpresa” della sua reazione, aggettivo con cui ha voluto segnalare come l’accusa di non volere un accordo sia nuova, come peraltro dimostra il pregresso.
Peraltro, quando Hamas ha consegnato la risposta all’offerta di tregua israeliana (limata da Witkoff e i mediatori del Qatar), Bishara Bahbah, che lavora dietro le quinte per conto di Witkoff, ha scritto sui social: “Hamas stamattina ha risposto alla proposta israeliana in merito al ridispiegamento [dell’esercito israeliano] e allo scambio di prigionieri. La risposta è stata concreta e positiva.
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Come smentire la propaganda israeliana in tempi di genocidio
di Paul de Rooij, unz.com
Viviamo in tempi interessanti ma difficili. È evidente che i miti stiano cadendo e che le narrazioni consolidate da tempo si dissolvano quando vengono esposte alla dura e sanguinosa realtà.
In nessun altro ambito ciò è più evidente che nei miti che hanno sostenuto Israele per molti decenni.
Israele è stato dipinto come un piccolo paese fragile ma resiliente che vive in un “quartiere difficile”. Tuttavia, ora, date le incessanti guerre di Israele, gran parte di questa mitologia viene abbandonata; non è più necessaria quando l’arroganza, l’orgoglio e il sadismo guidano l’ethos israeliano. L’immagine del piccolo Davide sta cedendo il posto a quella di una creatura vendicativa e genocida, con un pizzico di Antico Testamento…
Di seguito è riportata una discussione su alcuni dei miti che stanno crollando. I miti sono costruiti su narrazioni che a loro volta sono costruite su parole descrittive. Gran parte della discussione verte sul chiarire la natura ingannevole delle parole, che a sua volta smaschererà le false narrazioni.
Una vera canaglia
L’esercito è venerato in Israele e si fa molto per glorificare i militari; ci sono festival con cantanti, palloncini e pompon blu e bianchi in abbondanza[1]. Le ragazze ebree americane vanno in visibilio quando incontrano i soldati abbronzati e sorridenti. Naturalmente, se si glorifica l’esercito, allora tutte le unità non possono che essere “d’élite”; anche al soldato più umile viene dato il grado di sergente; e naturalmente devono essere “i più morali” del mondo. È anche noto con il suo acronimo incongruo: IDF.
Contrastate l’immagine affascinante dell’esercito israeliano con le sue azioni a Gaza, in Cisgiordania e oltre. I cecchini israeliani prendono di mira i bambini, con punti extra per le donne incinte (è persino possibile acquistare una maglietta con il logo “un colpo, due morti”).
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La crisi della Grande Distribuzione Organizzata e la falsa alternativa
di Eros Barone
1. La crisi della GDO nel quadro del capitale commerciale e della concorrenza intercapitalistica
La cronaca riferisce che Carrefour sta ridefinendo la sua strategia e la sua presenza in Europa e valuta l’ipotesi dell’uscita dall’Italia. Il gruppo francese si è pertanto affidato a Rothschild per sondare il mercato alla ricerca di potenziali compratori. Secondo quanto ha ricostruito il «Corriere della Sera», al momento ci sarebbero già alcune aziende della grande distribuzione interessate a rilevare i negozi del gruppo francese. Stando ai risultati finanziari dell’anno scorso, l’Italia rappresenta per Carrefour il quinto mercato dopo la Francia, il Brasile, la Spagna e il Belgio. La penetrazione del gruppo francese in Italia risale al 1993, quando Carrefour aprì il primo negozio e dette avvio a un’espansione che lo ha portato a gestire attualmente 1.185 negozi, dai minimarket e supermercati agli ipermercati, generando 3,7 miliardi di euro di vendite nette. L’eventuale cessione dei negozi italiani rientrerebbe nell’ambito di una strategia più ampia relativa alla revisione di tutte le risorse produttive. Al momento la direzione dell’azienda ha formulato più ipotesi. La prima, e probabilmente quella favorita dai francesi, sarebbe quella di una cessione a un unico compratore. Ma non viene esclusa anche la possibilità di vendite frazionate oppure l’adozione di un modello in ‘franchising’. Del resto, l’azienda francese negli ultimi anni, a livello globale, ha già condotto operazioni per ridurre i costi, dirigendosi progressivamente sul ‘franchising’, che oggi rappresenta il 75% dell’intera rete. Qualsiasi eventuale operazione di cessione avrebbe comunque bisogno del sostegno degli azionisti di riferimento di Carrefour, tra cui la famiglia Moulin, proprietaria del gruppo francese di grandi magazzini Galeries Lafayette.
Nelle settimane scorse Carrefour Italia ha annunciato un piano di riorganizzazione della sede centrale di Milano con 175 esuberi. L’obiettivo dell’operazione, secondo quanto riportato in una nota del gruppo diffusa in occasione dell’annuncio degli esuberi, sarebbe di “accelerare ulteriormente il percorso di trasformazione del business, incentrato sul modello del franchising, e rilanciare la sostenibilità finanziaria e commerciale dell’azienda”.
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Sul collasso morale dell'occidente
di Andrea Zhok
L'Occidente è un concetto strano, recente e spurio.
Con "Occidente" si intende in effetti una configurazione culturale che emerge con l'unificazione mondiale dell'Europa politica e di quello che dal 1931 prenderà il nome di "Commonwealth" (parte dell'impero britannico).
Questa configurazione raggiunge la sua unità all'insegna del capitalismo finanziario, a partire dal suo emergere egemonico negli ultimi decenni del '900.
L'Occidente non c'entra nulla con l'Europa culturale, le cui radici sono greco-latine e cristiane.
L'Occidente è la realizzazione di una politica di potenza economico-militare, che nasce nell'Età degli Imperi, che sfocia nelle due guerre mondiali e che riprende il governo del mondo verso la metà degli anni '70 del '900.
Purtroppo anche in Europa l'idea che "siamo Occidente" è passata, divenendo parte del senso comune.
L'Europa storica, ad esempio, ha sempre avuto legami strutturali fondamentali con l'Oriente, vicino e remoto (Eurasia), mentre l'Occidente si percepisce come intrinsecamente avverso all'Oriente. Così l'Europa culturale è in ovvia continuità con la Russia, mentre per l'Occidente la Russia è totalmente altro da sé.
Questa premessa serve a illustrare una grave preoccupazione di lungo periodo, che non riesco a trattenere.
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L’origine imperialistica dell’assalto alla Russia. Verso l’allargamento del conflitto ucraino?
di Alex Marsaglia
Mentre la russofobia in Italia si estende ormai non solo alla caccia ai celebri autori, così era partita nel marzo 2022 alla Bicocca con la censura del Dostoevskij di Paolo Nori, ma all’aperta persecuzione di qualsiasi artista di etnia russa come è accaduto nelle ultime ore a Gergiev a Caserta e a Romanovsky a Bologna. Occorre ricostruire le motivazioni profonde di questo preciso indirizzamento d’odio. L’annullamento delle esibizioni sulla base di ragioni etniche rientra nell’etimologia di “razzismo”, fino a diventare vero e proprio progrom da parte degli ucraini che hanno promosso raccolte firme e iniziative per bloccare la libera manifestazione di pensiero garantita dalla Costituzione Italiana e da tutte le Convenzioni per i diritti umani vigenti sul nostro territorio nazionale. Ebbene, le radici di un simile odio provengono da precise motivazioni economico-sociali. La crescente accumulazione di capitale del centro capitalistico occidentale, che negli ultimi anni è sfociata in più crisi sistemiche, ha determinato un vorace bisogno di espropriazione di materie prime al fine di ostacolare con rendite crescenti una tale caduta economica. In sostanza, il capitalismo occidentale sta cercando una via d’uscita sicura, mettendo in gioco la vecchia accumulazione per espropriazione, contribuendo a militarizzare sempre più il pianeta al fine di salvarsi.
Ovviamente la localizzazione di questo scontro non è affatto casuale, poiché Russia, Cina e Iran non rappresentano solo territori ricchissimi di materie prime per le corporation occidentali, ma sono anche, nell’analisi concreta della situazione concreta come direbbe qualcuno, un modello politico-sociale alternativo.
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L’orizzonte strategico non è più a sinistra
di Raul Zibechi
Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza.
Per alcuni analisti e per il quotidiano di sinistra Sin Permiso, la vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha causato un “terremoto politico” così profondo che, secondo l’analista, “le ramificazioni di questa inversione di tendenza si faranno sentire per anni, in tutti gli Stati Uniti e nel mondo sviluppato”. Essendo socialista, musulmano e filo-palestinese, la sinistra si illude che il suo arrivo a sindaco della città simbolo cambierà le cose, nonostante tutte le prove contrarie. Per il settimanale di sinistra El Siglo, il comunista cileno Jara incarna “la reale possibilità che il popolo governi con la propria voce, le proprie richieste e la propria dignità in prima linea”. Per i media progressisti, come Página 12 in Argentina, il semplice fatto che Jara non provenga dall’élite incarna “la speranza di una vita migliore”.
La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci.
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Il nuovo Deep State tecnologico
di Paolo Gerbaudo
Si sta formando un nuovo blocco militar-industriale-informatico, con nuove aziende come Palantir o Anduril che si sono alleate al trumpismo, e approfittano dell’economia di guerra
Negli inebrianti anni Novanta neoliberisti, il tecno-ottimismo raggiunse i suoi estremi più imbarazzanti. Intrisi del fatuo immaginario di quella che Richard Barbrook ha definito «ideologia californiana», lavoratori del settore tecnologico, imprenditori e ideologi tecno-visionari hanno identificato la tecnologia digitale con un’arma per la liberazione e l’autonomia personale. Questo strumento, proclamavano, avrebbe permesso agli individui di sconfiggere l’odiato Golia rappresentato dallo Stato, allora ampiamente individuato nei fallimentari colossi del blocco sovietico in implosione.
Per chiunque abbia una conoscenza superficiale delle origini della tecnologia digitale e della Silicon Valley, questa avrebbe dovuto essere, fin dall’inizio, una convinzione ridicola. I computer furono un prodotto degli sforzi bellici dei primi anni Quaranta, sviluppati come mezzo per decodificare messaggi militari criptati, con Alan Turing notoriamente coinvolto a Bletchley Park.
L’Eniac, o Electronic Numerical Integrator and Computer, considerato il primo computer multiuso utilizzato negli Stati uniti, fu sviluppato per compiere calcoli applicati all’artiglieria e per supportare lo sviluppo della bomba all’idrogeno. Come sosteneva notoriamente G.W. F. Hegel, la guerra è lo Stato nella sua forma più brutale: l’attività in cui la forza dello Stato viene messa alla prova contro quella di altri Stati. Le tecnologie dell’informazione sono diventate sempre più centrali in questa tipica attività statale.
Qualcuno potrebbe ancora credere al mito della Silicon Valley nata spontaneamente dagli hacker che saldavano circuiti nei loro garage. Ma la realtà è che non avrebbe mai preso vita senza il supporto infrastrutturale dell’apparato di difesa statunitense e dei suoi appalti pubblici, che garantiscono la redditività commerciale di molti prodotti e servizi che oggi diamo per scontati.
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Oltre il Muro
di Gigi Roggero
Kairos di Jenny Erpenbeck (Sellerio, 2024) è un romanzo complesso, in cui la storia di amore e ossessione tra Katharina e Hans si intreccia in modo inestricabile con il clima e lo zeitgeist di Berlino Est nella seconda metà degli anni Ottanta e subito dopo il crollo del Muro. Gigi Roggero non si limita a una recensione, ma propone un’analisi su nodi storici e politici che interrogano il nostro presente.
Kairos, il dio dell’attimo fortunato, ha – dicono – un ricciolo che gli ricade sulla fronte, e da quello soltanto lo si può trattenere. Ma non appena il dio passa oltre con i suoi piedi alati, ci offre solo la parte posteriore del capo, che è calva e liscia, senza alcun appiglio da cui poterla afferrare.
Kairos di Jenny Erpenbeck è una straordinaria fotografia in movimento di Berlino Est nello snodo cruciale tra gli anni Ottanta e Novanta. È straordinaria da tanti punti di vista, come sanno spesso fare i libri, e soprattutto i romanzi. E noi, tra questi punti di vista, scegliamo il nostro. Della fotografia lasciamo ciò che è in primo piano all’analisi di chi è più competente. Sintetizzando brutalmente, è la storia di una giovane studentessa, Katharina, e di uno scrittore sposato di mezza età, Hans: una storia d’amore e di ossessione, una storia sulla sofferenza del restare e sul trauma dell’abbandono, una storia sul desiderio di lasciarsi trasportare dalla corrente e sulla sicurezza del raggiungere la riva. Ecco allora che, dalle microstorie individuali, emerge con forza la metafora della macrostoria collettiva. E questa macrostoria collettiva si chiama Berlino Est, ovvero un pezzo di quel grande esperimento, il più grande della storia moderna, di rompere con il capitalismo e costruire una nuova società. È questo lo sfondo del romanzo su cui ci vogliamo concentrare. Uno sfondo che, nelle pagine di Erpenbeck, parrebbe lontano, soffuso, quasi impercettibile. Eppure, a ben guardare, è immancabilmente presente, pesante, talora soffocante. Uno sfondo senza cui le piccole storie come questa perderebbero la loro tragica intensità.
I consumatori della merce culturale sono oggi terrorizzati dagli spoiler. Come se contasse solo come va a finire. Ebbene, se come è andata a finire la grande storia sullo sfondo è risaputo, come va a finire la piccola storia in primo piano lo si può forse intuire. Ma non è questo il punto. L’autrice ci costringe ad andare oltre le facili conclusioni, a scavare nelle contraddizioni, ad addentrarci nei labirintici laboratori di produzione della storia, grande e piccola. E qui ciò che era sullo sfondo balza improvvisamente in primo piano. E ci rendiamo conto che, anche se non lo vedevamo, era in realtà sempre stato lì.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Dodicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) parte II
b. Sul giustificare problemi reali con motivazioni stereotipate
Abbiamo lasciato Tomskij carico come una molla, contro non tanto GLI ERRORI, ma L’ATTEGGIAMENTO, L’APPROCCIO AI PROBLEMI dei propri compagni: in particolar modo, di alcuni che per nascondere le proprie magagne cercavano il “nemico interno”.
Con chi ce l’aveva ora?Occorre entrare un attimo nel vivo delle polemiche sorte durante e attorno quel Congresso, con il ruolo della NEP nelle campagne a fare da piatto forte. Il kulak, il contadino arricchito, era divenuto nelle campagne l’equivalente del nepman cittadino. Sembra strano parlare oggi di questo, anzi, come dicono in gergo, “FA strano”, tirare in ballo ancora una volta la lotta di classe: specialmente, quando a livello mondiale il gruppo di Paesi se-dicenti socialisti è guidato dal turbocapitalismo con caratteristiche cinesi; e lì l’armonia confuciana he 和DEVE regnare, al pari e come nel vicino se-dicente capitalistico Giappone. Va bene tutto, finché non si pestano i piedi a chi non si devono pestare… QUI NO. Immaginiamoci noi fra il Sessantotto e il Settantotto, così forse ci capiamo. Del resto, abbiam già constatato come qui bastasse molto, ma molto meno per sollevare vespai NON INDIFFERENTI, e NON SOLO IDEOLOGICI.
A differenza, INFATTI, del nostro decennio Sessantotto – Settantotto, la situazione socioeconomica era completamente DIVERSA. Non si era in BOOM economico, ma SI LAVORAVA ANCORA FRA LE MACERIE FUMANTI.
E IN QUEL CLIMA SI PARLAVA DI “NEP”! IL KULAK TORNAVA IN GICO, IL PADRONE, IL NEPMAN, SCENDEVA IN CAMPO! CE N’ERA DI BEN DONDE, PER INCAZZARSI.
Tornando alle campagne, un bracciante non aveva combattuto fino a pochi anni prima, patito fame e freddo, visto i propri compagni morti ammazzati, per poi lasciare che un altro contadino particolarmente dritto, “scarpe grosse e cervello fino” prendesse il posto del pomeščik a sfruttare lui e i suoi ex-compagni, prendendo il posto di quel proprietario terriero, a cui – e al carissimo prezzo di cui sopra! – si era riusciti a confiscare le terre e a redistribuirle!
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Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
di Elena Basile
Le costituzioni democratiche del dopoguerra si fondavano su un postulato oggi messo in discussione dall’evoluzione sociopolitica dell’Europa: il potere del demos, del popolo, esercitato secondo la rule of law, il suffragio universale, le elezioni e la tutela delle minoranze. In tale cornice, il popolo eleggeva i propri rappresentanti, i quali, sintetizzando istanze, poteri e interessi plurali, avrebbero dovuto realizzare politiche economiche, sociali ed estere coerenti con i principi costituzionali e con gli interessi del Paese, della società civile e dei corpi intermedi.
Tuttavia, questo meccanismo si è inceppato. Oggi, la politica economica e quella estera non sono più appannaggio delle élite elette, ma sono subordinate a poteri extraparlamentari capaci di condizionare integralmente l’orientamento politico europeo. Occorre guardare questa realtà senza reticenze, se si vuole anche solo tentare di modificarla.
I riti della democrazia, anche grazie alla manipolazione propagandistica delle opinioni pubbliche, restano formalmente intatti: le elezioni si svolgono a scadenze regolari, e schieramenti apparentemente opposti si presentano al giudizio degli elettori. Viene così preservata l’illusione che i cittadini eleggano liberamente le élite cui affidare la gestione della cosa pubblica – in primis, la politica economica, sociale ed estera.
Eppure, tutto è cambiato. La propaganda – fenomeno antico – è divenuta, dopo la fine dell’Unione Sovietica, monopolio di un apparato mediatico occidentale strettamente intrecciato, per proprietà e incarichi, alla cosiddetta società dell’1% e alla sua classe di servizio: burocrazia, accademia, management.
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Il Caucaso secondo Washington
di Mario Lombardo
L’amministrazione Trump sembra avere rotto gli indugi nei giorni scorsi inserendosi apertamente negli intrighi strategici in corso nel Caucaso meridionale con una proposta in apparenza neutrale, ma che rivela finalmente le mire di Washington in quest’area del globo. L’ambasciatore americano in Turchia e plenipotenziario di Trump in Asia occidentale, Tom Barrack, ha infatti ipotizzato una concessione di 100 anni a una società o a un consorzio statunitense per la gestione della rotta, nota col nome di “Corridoio Zangezur”, che dovrebbe attraversare l’Armenia per collegare l’Azerbaigian con la sua exclave occidentale di Nakhchivan. Questo progetto è sul tavolo fin dalla stipula dell’accordo di pace del novembre 2020 che mise fine alla guerra tra Baku e Yerevan, ma da allora entrambi i governi – dietro pressioni esterne – ne hanno cambiato le condizioni di implementazione, al preciso scopo di ridurre drasticamente l’influenza nel Caucaso meridionale di Russia e Iran.
L’ultima guerra per il Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian si era conclusa con un sostanziale disastro per il primo paese, con la successiva perdita definitiva della regione a maggioranza armena ma internazionalmente riconosciuta come territorio azero. La Russia aveva giocato un ruolo determinante nella risoluzione del conflitto ed aveva visto confermare la propria posizione predominante nell’area. In uno dei punti più importanti, il trattato di pace prevedeva appunto lo “sblocco” di tutti i canali di collegamento della regione, incluso appunto quello tra l’Azerbaigian e la sua repubblica autonoma di Nakhchivan.
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Meloni a stelle e strisce
di Fabio Nobile
Le posizioni dell’Italia sulle questioni internazionali palesano la chiara scelta di campo del Governo di adesione acritica agli indirizzi portati avanti dagli Stati Uniti. Non parliamo di aderenza alle decisioni dell’attuale amministrazione americana ma proprio degli Usa. La Meloni è passata con invidiabile scioltezza da Biden a Trump. Probabilmente perché tutte le loro scelte, con diverse declinazioni, trovano nella volontà di ribadire il dominio del dollaro e della potenza americana il vero elemento di convergenza. La disdetta dell’accordo sulla “Via della Seta” del governo italiano del dicembre 2023 è un suggello simbolico di tale posizionamento. Dal dominio del dollaro dipende l’argine all’inarrestabile ascesa della Cina e delle potenze che con essa dialetticamente tendono a connettersi da un punto di vista strategico. Il filo atlantismo, inoltre, per il Governo Meloni ha anche la funzione di utilizzare l’alleato americano per provare a “contare” nella dialettica sempre più divergente tra i paesi europei.
I sovranisti in salsa amatriciana sono ispirati, quindi, nella difesa degli interessi nazionali dalla convinta collocazione dell’Italia in quel campo senza sé e senza ma. Quel campo, però, continua a scricchiolare sotto i colpi di una crisi generale su cui ogni potenza cerca di scaricare anche sugli “amici” i costi. I dazi al 30% e il dollaro
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Guerra tecnologica e manpower
di Enrico Tomaselli
Se guardiamo al conflitto in Ucraina – per molti versi una anticipazione di come saranno combattute le guerre nei prossimi due lustri almeno – il fattore tecnologico sembra essere predominante. Missili balistici e ipersonici, UAV da ricognizione e d’attacco, munizioni vaganti, droni FPV, sistemi di guerra elettronica e anti-missile… Nell’ambito di una guerra simmetrica, le capacità nelle tecnologie offensive e difensive – ricerca e sviluppo, velocità di adattamento, capacità industriale, rapporto costo-efficacia… – diventa sicuramente un elemento di grandissima rilevanza. Ciò nonostante, questo rischia di oscurare un fattore ancora decisivo, ovvero il manpower. Tutta la tecnologia del mondo può essere più o meno utile, che si tratti di infliggere danni al nemico o di ridurne l’efficacia offensiva, ma alla fine il territorio va preso – o difeso – dalla fanteria. E inoltre, in un esercito moderno, il numero di combattenti in prima linea è solo una parte, e nemmeno la più numerosa, del personale necessario. Tutta la filiera logistica, e gli operatori dei sistemi d’arma dislocati nelle retrovie, e il personale necessario per le rotazioni sulla linea di combattimento… Per ogni combattente al fronte, servono almeno altri tre uomini.
Per quanto poco sottolineato, questo è un problema per un esercito moderno che non può essere sottovalutato. Se guardiamo ad esempio al conflitto in Ucraina, ci possiamo rendere conto in maniera più chiara di quanto sia rilevante. La Russia, ad esempio, a parte una parziale mobilitazione successiva all’avvio della Operazione Speciale Militare, conta essenzialmente su un afflusso sinora abbastanza costante di volontari (circa 30.000 al mese), mentre il personale di leva viene utilizzato per il presidio del territorio e/o per la logistica, riservando le operazioni di combattimento ai militari a contratto.
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L’accordo sui dazi? Una schifezza. L’Europa si svende alle multinazionali Usa
di Paolo Ferrero
Il disavanzo economico reale tra Usa e Ue è di 5 miliardi. Avete letto bene: cinque! Per riequilibrare questo disavanzo l’Unione Europea accetta di beccarsi una mazzata colossale
Quello siglato tra Trump e Ursula von der Leyen non è un accordo ma una svendita che sancisce il ruolo per l’Unione Europea di colonia – o se volete di protettorato – degli Stati Uniti.
Innanzitutto vediamo le cifre. Nella retorica trumpiana, riprodotta e supportata dai media e dai governanti europei, i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea vengono descritti come completamente squilibrati e i dazi sono quindi legittimati per riequilibrare questa situazione ingiusta. Si tratta di una bugia colossale, priva di ogni fondamento. Nei rapporti tra Usa e Ue infatti gli Usa hanno un disavanzo di 213 miliardi per quanto riguarda le merci ma hanno un avanzo di 156 miliardi per quanto riguarda i servizi e di 52 miliardi per quanto riguarda i capitali.
In sostanza il disavanzo economico reale tra Usa e Ue è di 5 (cinque) miliardi. Avete letto bene: cinque! Per riequilibrare questi 5 miliardi di disavanzo l’Unione Europea accetta di beccarsi una mazzata colossale a partire dai dazi dal 15 al 50% per tutte le merci che esporta in Usa.
Che cosa succede invece per i servizi (Google, Microsoft, Amazon,etc etc.)? Succede che un mesetto fa, i paesi del G7, su pressione degli Usa, hanno deciso di non applicare la tassa minima globale sulle multinazionali.
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