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Che cosa fare con i gialloverdi?
di Mimmo Porcaro
Piaccia o non piaccia, il governo che sta per nascere rappresenta senz’altro un avanzamento nella dialettica politica del paese. Sconfitto rovinosamente il PD, messo all’angolo Berlusconi, il centro interpartitico che per anni (complice la benevolenza della Bce) ha ammorbato l’aria impedendo l’emergere dei veri problemi e dei conflitti decisivi è stato finalmente archiviato. Per la prima volta in tanti anni un governo si presenta come espressione diretta della rabbia sociale accumulata durante la lunga crisi, e si presenta con l’obiettivo esplicito di “dare”, ed in modi immediatamente tangibili, invece che con quello di “togliere”. Per la prima volta le tensioni maturate nel fondo della società italiana si danno una forma politica che potrebbe essere almeno parzialmente efficace: la forma può e deve preoccuparci, ma non possiamo ignorare il contenuto.
Si apre così una fase estremamente dinamica e interessante. Durante il percorso del governo qualcuno perderà definitivamente la faccia: o l’Unione europea, o la Lega, o il M5S, o chi li avrà contrastati in nome dell’europeismo. Oppure tutti quanti. Molti preconizzano un più o meno rapido fallimento della coalizione, un crollo a seguito di qualche mossa avventata, una repentina crisi dell’alleanza, un abbandono progressivo degli obiettivi più altisonanti. Può darsi. Ma la valutazione deve essere fatta tenendo presente quello che è, contemporaneamente, l’elemento di forza ed il vincolo del governo: ossia il fatto che la convergenza dei due vincitori del 4 marzo realizza per la prima volta quel fronte sociale tra tutti, o quasi, gli umiliati ed offesi dalla globalizzazione e dall’Unione europea (piccola e media impresa, finte partite iva, disoccupati, precari e fasce crescenti dello stesso lavoro “regolare”: è esclusa, naturalmente, la gran parte degli immigrati) che è la base di ogni possibile avanzamento politico.
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Pareggio di bilancio, articolo 81, dissesti,
piani di riequilibrio finanziario e debito
Apriamo il dibattito metropolitano
Il contributo dei compagni della Piattaforma Sociale Eurostop per l’Assemblea Metropolitana di Potere al Popolo
Introduzione
Il contributo che presentiamo è il classico “work in progress”. Si tratta, quindi, di un contributo aperto non soltanto nelle intenzioni ma anche nel merito.
Infatti si prende spunto anche da proposte che formano oggetto di riflessione di altri settori di Movimento e della sinistra d’alternativa, prodotti in questi mesi in città, con cui giungere ad ulteriori e più avanzati momenti di confronto e sintesi.
Più nello specifico, nel nostro caso, si collega al contributo sul debito che, come attivisti della Piattaforma Sociale EUROSTOP, preparammo lo scorso mese e diffuso, tra l’altro, nell’Assemblea popolare svoltasi il 7 aprile a Piazza San Domenico Maggiore.
Per noi è importante che su queste problematiche ci sia una discussione ed iniziativa continua, ossia non basata essenzialmente su delle fiammate cui seguono periodi di silenzio ed attesa.
Quelle qui affrontate sono tematiche che non possono essere completamente delegate a chi ha ruoli istituzionali perché indipendentemente dalle persone che li svolgono se ne subisce oggettivamente il condizionamento, invece è bene che si abbiano proposte autonome su cui sviluppare mobilitazione, momenti di convergenza ma anche di critica ragionata ed articolata ogniqualvolta sia necessario per non restare in un ambito di sole proposte emergenziali su cui limitarsi a fare da “truppa di complemento” aldilà della nostra volontà soggettiva.
Con questa attitudine socializziamo ai compagni dell’Assemblea Metropolitana di POTERE AL POPOLO questo contributo finalizzato alla definizione di più avanzati momenti di sintesi politico/programmatica e di iniziativa sociale.
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Critica marxista delle religioni e religiosità delle masse popolari
di Eros Barone
1. Religione e lotta di classe
Tra l’ultimo ventennio del secolo scorso e il primo quindicennio di questo secolo diversi fenomeni e avvenimenti (la progressiva secolarizzazione della società nei paesi capitalistici avanzati, la rivoluzione khomeinista in Iran, l’insorgere del movimento controrivoluzionario di Solidarnosc in Polonia, la teologia della liberazione in America Latina, il “risveglio dell’Islàm” in chiave fondamentalista nel mondo arabo e più in generale musulmano, la diffusione di movimenti e sètte ispirati dal fondamentalismo religioso nel mondo cattolico, ebraico, induista e protestante, le guerre di aggressione scatenate dall’imperialismo in Iraq, l’attentato delle Due Torri, l’invasione dell’Afghanistan, per giungere sino ai recenti attentati in Francia) hanno posto in primo piano il problema dell’analisi della funzione sociale, politica e ideologica delle religioni nella lotta di classe e nella ridefinizione degli equilibri geopolitici mondiali.
Per i militanti comunisti e per la conseguente pratica sociale e politica in cui essi sono impegnati porre e risolvere correttamente tale problema ha assunto i caratteri di un’esigenza primaria per conoscere la realtà in cui si agisce, dirigere l’azione del partito di classe e orientare le masse. Occorre pertanto interrogare congiuntamente, alla luce del materialismo dialettico, la storia e la teoria, partendo dalla lezione dei classici del socialismo scientifico (Marx, Engels, Lenin) e integrandola con la riflessione sulle esperienze concrete della lotta di classe per ricavare da questa ottica bifocale i giusti insegnamenti e fissare gli opportuni indirizzi pratici.
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Demos e capitalismo, logiche divergenti
di Claudio Gnesutta
Scontro o compromesso sulle politiche pubbliche, contrapposizione tra società civile ed esperti, istanze di riforma e processi di partecipazione, le tematiche del libro di Codagnone C., Bogliacino F., Veltri G.A., Scienza in vendita. Incertezza, interessi e valori nelle politiche pubbliche, Milano: Egea, 2018, p. 234, € 30,00
C’è una tensione ineliminabile tra capitalismo e democrazia, tensione che può essere governata ma non eliminata, dovuta alla contrapposizione tra due logiche, quella della competizione tra soggetti diseguali per fortuna, talenti e potere e quella della garanzia a tutti i propri cittadini non solo dei diritti economici ma anche di quelli politici e sociali. La contraddizione di perseguire l’ideale di eguaglianza politica in un contesto economico che produce disuguaglianza richiede la presenza di un ente collettivo sovraordinato, lo Stato, che ricerchi e gestisca un compromesso socialmente accettabile tra le due dimensioni della vita sociale.
Le politiche pubbliche sono pertanto inevitabilmente connesse con un processo di conservazione/trasformazione dell’esistente la cui complessità ha sollecitato, e sollecita, le scienze sociali a formulare spiegazioni della struttura della società e delle sue dinamiche, incluse quelle indotte dalle politiche auspicate e adottate.
A questo sfondo problematico si richiamano le riflessioni che svolgono Cristiano Codagnone, Francesco Bogliacino, Giuseppe A. Veltri in un interessante e denso volume, Scienza in vendita. Incertezza, interessi e valori nelle politiche pubbliche (Milano: Egea, 2018, p. 234, € 30,00), con l’obiettivo dichiarato di «esplora[re] in modo critico il rapporto tra politiche pubbliche ed evidenza scientifica, evitando semplificazioni e scorciatoie scientiste o anti-scientiste e mettendo in risalto sia i limiti della scienza sia l’uso improprio che dei risultati scientifici fanno sia coloro che prendono le decisioni politiche sia coloro che cercano di influenzarle a loro vantaggio, siano essi gruppi di interesse forti e concentrati o movimenti di opinione opportunamente mobilitati».
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La Politica al tempo dei Robot
Si dà ancora un “Principio speranza”?
di Bruno Montanari
Perché ho ricordato il titolo di un famoso testo di Ernst Bloch? Per una questione seria che balza immediatamente agli occhi: quella dell’ampliarsi della forbice sociale dipendente dal modo in cui l’operare dell’attuale capitalismo, che definirei sinteticamente tecnologico-finanziario, va configurando il mondo del lavoro. Il che significa avere di fronte agli occhi la “condizione umana”, divenuta strutturalmente precaria, di una marea di umanità che è sottopagata, marginalizzata o del tutto emarginata, che non è più in grado di vivere dignitosamente il suo “oggi” e di concepire un futuro come una possibilità della vita.
Comincio con il ripetere ciò che viene tritato ogni giorno da tutti i media: che la Sinistra è in crisi ovunque in Europa, che “destra” e “populismi” sono in crescita e che ricevono il consenso da quelle aree della società che un tempo votavano “a sinistra”. Ciò che tuttavia occorrerebbe chiedersi è se termini che hanno una loro storia culturale ed una loro forte incisività storico-politica conservino ancora oggi un significato che attragga l’interesse pratico della gente comune. Direi di no; mi sembra, invece, che costituiscano uno stereotipo della comunicazione mediatica, incapace di fatto di colpire la sensibilità politica dell’ambiente cui si dirigono. Prova ne sia l’alto astensionismo elettorale (non solo italiano) che altera l’effettività rappresentativa di qualsiasi percentuale partitica. A tal proposito, c’è da chiedersi se, in un siffatto contesto di astensione dai processi elettorali, non sia il caso e proprio al fine di confermarne l’indispensabilità, di introdurre un quorum per la loro validità.
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Rivoluzione vs putsch
di Renato Caputo
Perché una Rivoluzione, a partire da quella di Ottobre, non può essere confusa con un putsch
Il revisionismo o meglio il rovescismo storico – che generalmente tende a confondere la complessità del processo rivoluzionario con un putsch ben riuscito – mira a ridurre la stessa Rivoluzione d’ottobre alla conquista del Palazzo d’Inverno, in modo da rendere tale esperienza del tutto anacronistica dinanzi ai complessi apparati statuali odierni.
Al contrario Lenin era pienamente consapevole che la rivoluzione non avrebbe potuto esaurirsi in un riuscito colpo di Stato, ma si sarebbe dovuta sviluppare in un complesso processo, un lungo periodo “di tempestose scosse economiche e politiche, di lotta di classe molto acuta, di guerra civile, di rivoluzioni e controrivoluzioni” [1]. Tale processo potrà essere inaugurato e condotto a buon fine solo in seguito a una realistica e sobria analisi politica del rapporto fra le forze sociali in campo, che sia in grado di valutare ogni “momento concreto” del suo svolgimento “non solo dal punto di vista della sua originalità contingente, ma anche da quello dei moventi più profondi, dei più profondi rapporti tra gli interessi del proletariato e della borghesia” [2] sia nel proprio paese che sul piano internazionale. Perciò nella lunga e complessa fase di preparazione della “grande guerra di liberazione del proletariato per il socialismo” sarà indispensabile approfittare “di ogni movimento popolare contro le singole calamità, generate dall’imperialismo, allo scopo di inasprire e di estendere la crisi” [3].
Inoltre, fra i presupposti imprescindibili per dare l’avvio all’“assalto al cielo” occorre comprendere non tanto la possibilità reale di prendere il potere, quanto l’esigenza di mantenerlo e consolidarlo di fronte alla reazione nazionale ed internazionale.
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Conseguenze fiscali del programma di acquisto bond della BCE
di Paul De Grauwe
Data l’attualità dell’argomento in seguito all’ipotesi, ventilata in una prima formulazione del contratto di governo Lega-M5S, di una cancellazione o quanto meno una non contabilizzazione della parte del debito pubblico italiano detenuta dalla BCE, riproponiamo un articolo dell’economista Paul De Grauwe, una autorità riconosciuta a livello internazionale nel campo della politica monetaria, in cui il docente della London School of Economics illustra nei dettagli tecnici le conseguenze dell’acquisto titoli pubblici da parte di una banca centrale, soffermandosi poi in particolare sul caso specifico della banca centrale di un’unione monetaria tra paesi privi di unione fiscale, come è l’eurozona. Come spega De Grauwe, una ipotesi di questo genere non avrebbe nulla di tecnicamente od economicamente infattibile, in quanto non comporta oneri o perdite a carico di nessuno, se non la rinuncia al lucro sugli interessi dei titoli della BCE che vengono redistribuiti tra i paesi dell’unione in percentuale della quota di capitale di ciascuno. Evidentemente lo scandalo di queste ore attiene a considerazioni più che altro legate ad una resistenza politica a gestire in maniera coordinata e condivisa quel pasticciaccio brutto che si è rivelata l’unione monetaria.
* * * *
La connessione tra politica fiscale e monetaria è attualmente sotto l’esame della Corte Costituzionale Tedesca, nel contesto del programma OMT di acquisto titoli da parte della BCE. Questo articolo sostiene che molte analisi in merito sono profondamente compromesse dall’errata applicazione alla BCE dei principi di fallimento dei privati. Quando la BCE compra bond, trasforma debito pubblico in base monetaria, e trasforma il rischio di fallimento sovrano in rischio di inflazione. La vera domanda è: qual è il limite all’espansione della base monetaria oltre il quale si causa inflazione? Ciò dipende dal contesto economico e il limite è molto più alto nell’attuale situazione di trappola della liquidità.
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Le insidie della felicità. Note su “Storia economica della felicità”
di Nicolò Bellanca
In Storia economica della felicità (il Mulino, 2017), Emanuele Felice ha ricostruito la storia attraverso cui si è venuta creando una frattura fra sviluppo economico e felicità, progresso economico e dimensione etica. Ma che cosa è la felicità e come la si può conseguire attraverso la politica?
Molti di noi, fin dai banchi di scuola, sono stati affascinati dalle letture di storia per gli interrogativi di fondo che esse evocano, raccontano e talvolta provano a spiegare: cosa distingue l’Homo sapiens dagli altri animali? Perché l’Occidente ha dominato il mondo nel corso degli ultimi secoli? Quali sono le determinanti profonde di grandi cambiamenti come la Rivoluzione agricola o quella industriale? Perché una collettività ha successo o declina? Le disuguaglianze erano maggiori una volta, oppure lo sono adesso? La storia ha una direzione? Le persone sono diventate più collaborative, più etiche, più felici con il trascorrere del tempo?
Negli anni recenti, simili questioni sono state affrontate da importanti scienziati sociali. Mi limito a ricordare tre libri che hanno suscitato estesi dibattiti; volutamente, menziono gli slogan riassuntivi mediante cui queste opere complesse vengono, di solito, ricordate. I destini delle società umane è il sottotitolo originale del libro nel quale Jared Diamond sostiene che la geografia fisica, in definitiva, spiega l’evoluzione culturale e la crescita economica di alcuni popoli rispetto agli altri.[1] Breve storia dell’umanità è il titolo originario del libro di Yuval Harari, nel quale si enfatizza l’abilità, specificamente umana, d’immaginare simboli, come la moneta o lo Stato, che esistono soltanto intersoggettivamente, ma che consentono la cooperazione tra estranei: tu ed io non ci conosciamo, ma accettiamo di scambiare con la stessa moneta o di obbedire alle stesse leggi.[2] Infine, Daron Acemoglu e James Robinson affermano, in un libro sottotitolato Le origini del potere, della prosperità e della povertà, che il successo delle collettività umane dipende dal carattere inclusivo delle loro istituzioni politiche ed economiche, dove per “inclusività” intendono la capacità di rispettare la libertà e i diritti delle persone.[3]
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Lontano dal podio. Quando il ’68 investì lo sport
di Giovanni Iozzoli
Nel fiume torbido di celebrazioni relative al cinquantennale del movimento del ’68 – una narrazione edulcorata portata avanti da pentiti, dissociati e millantatori di ogni sorta – si distinguono qua e là, alcuni lavori di rigore storiografico e autentico interesse: è il caso di Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978 (Mimesis pp. 284), dei ricercatori modenesi Gioacchino Toni e Alberto Molinari, i quali indagano l’impatto travolgente che il movimento esercitò su tutti gli aspetti della pratica e della cultura sportiva, dalle ribalte olimpioniche alle dinamiche dello sport di base. Fino al 1968, la pseudo ideologia pedagogico-sportiva decoubertiana, aristocratico-borghese e perbenista, aveva collocato lo sport in una dimensione di neutralità rispetto alle contraddizioni della società – il mito eterno di Olimpia che seda i conflitti. A partire dal ’68 la pretesa di intendere lo sport come luogo incontaminato viene messa in discussione, in sintonia con la rapida crescita delle culture critiche in ogni ambito sociale. Quello sportivo comincia a diventare uno spazio “conteso”, in cui visioni e pratiche confliggenti maturano e si scontrano.
Il rapporto politica-sport è affrontato dagli autori ricostruendo in forma antologica le rappresentazioni date dalla stampa italiana degli eventi epocali di quella stagione. Sono spesso reazioni di scandalizzata chiusura verso ogni contaminazione del sacro perimetro sportivo, ma anche prime inedite forme di attenzione per i risvolti sociali di quel mondo, fino ad allora mai considerati. Nella bella prefazione di Gian Paolo Ormezzano, l’anziano maestro del giornalismo sportivo (e non solo) rivendica di essere stato il primo a inserire, nel suo Tuttosport, una breve rubrica sull’attualità quotidiana – e di come questa cosa, oggi scontata, corresse il rischio, all’epoca, di sembrare un’eresia.
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Nazionalizzazione del debito pubblico e buoni fiscali per rilanciare l'economia senza austerità
di Enrico Grazzini
L'enorme debito dello stato italiano pesa come un macigno sulla ripresa economica ed è il primo fondamentale problema che il nuovo governo nazional-popolare di 5 Stelle-Lega in via di formazione – certamente assai sgradito alla grande finanza e all'Unione Europea – dovrà affrontare. A causa del debito pubblico, e soprattutto della speculazione finanziaria che funziona come benzina sul fuoco, l'Italia resta il paese più vulnerabile dell'eurozona ed è sempre prossima alla crisi. L'Italia rischia di uscire dall'eurozona non tanto per il “sovranismo” del possibile governo giallo-verde e il suo presunto “anti-europeismo”, e neppure perché è troppo spendacciona – infatti lo stato da venti anni spende meno di quanto incassa con le tasse, al netto degli interessi sul debito -, ma semplicemente a causa della speculazione e dello spread.
Al di là delle valutazioni sui singoli provvedimenti di politica economica – come il reddito di cittadinanza e la flat tax -, la grande finanza e le istituzioni della UE non sopportano il programma anti-austerità e di difesa dell'economia nazionale che il nuovo governo annuncia di volere realizzare (almeno sulla carta). E quindi il nuovo possibile esecutivo è sotto attacco in Europa, mentre in Italia, sul fronte interno, è attaccato frontalmente anche da PD e Forza Italia che quando erano al governo hanno promosso le politiche di austerità. Paradossalmente le forze cosiddette populiste appaiono schierate a favore dell'intervento pubblico simil-Keynesiano e della difesa dell'interesse nazionale – e probabilmente per questo hanno ottenuto milioni di voti -, mentre il PD di centrosinistra con il suo europeismo, appare allineato (insieme a Forza Italia) dalla parte delle liberalizzazioni e dell'austerità imposta dai mercati finanziari, dai grandi investitori internazionali e dalla UE.
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Per i duecento anni di Marx
di Carlo Galli
Questa riflessione su Marx deriva dal libro di Carlo Galli, Marx eretico, di prossima pubblicazione per la casa editrice il Mulino, Bologna
Marx è un autore di metà Ottocento, che del proprio tempo condivide alcune idee di fondo: una concezione eroica della politica, in cui agiscono soggetti collettivi come la nazione e la classe; una proiezione al futuro, come fiducia nella possibile apertura di nuovi orizzonti dell’umanità; una robusta ammirazione per la potenza della scienza e della tecnica, per lo sviluppo economico che ne scaturisce, e per la forza espansiva sprigionata dalla civiltà industriale; una propensione a pensare in termini di sistema, per fronteggiare adeguatamente l’emergere della dimensione totale delle relazioni sociali e per individuarne «leggi» organiche di sviluppo. Quello di Marx è il pensiero forte di una personalità dotata, com’egli diceva di sé, di «aspirazioni universali». Che Marx veda con acutezza la contraddittorietà, l’ideologicità, la conflittualità e la parzialità dell’intera società moderna, non toglie che egli sia estraneo a nostalgie pre-moderne, a sensibilità post-moderne, a prospettive catastrofiche.
***
La sua adesione alla modernità è, certo, un’adesione «critica». E non della «critica critica», impotente e subalterna, della sinistra hegeliana, contro cui si accanisce il sarcasmo distruttivo del giovane Marx, ma della «critica spietata di tutto ciò che esiste», la critica dialettica, la dialettica utilizzata come arma («le armi della critica» e perfino «la critica delle armi») e non come conciliazione.
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Il Venezuela fra fiction e realtà
di Ascanio Bernardeschi
Le radici dello scontro, non solo elettorale, fra il governo bolivariano di Maduro e le oligarchie locali sostenute dall’imperialismo americano. Di fronte a questo scontro dobbiamo stare dalla parte della rivoluzione
Il quadro Latinoamericano
Fin dalla scoperta del Nuovo Continente, l'America Latina è stata oggetto di predazione da parte delle maggiori potenze economiche. I nativi, in gran parte annientati, si videro prelevare decine di milioni di chilogrammi d'argento e centinaia di migliaia di chilogrammi d'oro nel secolo successivo alla scoperta. Ne seguì la colonizzazione da parte delle popolazioni europee, Spagna e Portogallo in particolare, con la collaborazione della Chiesa cattolica, intenzionata ad evangelizzare i popoli nativi. Le terre, che spesso erano in regime di proprietà comune, vennero recintate. Furono deportati schiavi dall’Africa.
Verso la fine del '700, grazie anche alla diffusione dell'illuminismo, iniziarono a formarsi movimenti antischiavistici e per l'indipendenza di tutta l'America del Sud. Agli inizi del secolo successivo, Simon Bolivar si pose l'obiettivo di riunificare e liberare tutta l'America Latina. La Grande Colombia, da lui fondata e successivamente disgregata, comprendeva anche l’attuale Venezuela. Successivamente alcune nazioni, a partire dal Brasile, ottennero l'indipendenza, senza però modificare il modello economico dei colonizzatori.
Intanto gli Stati Uniti cominciarono a proporsi di estendere la loro egemonia al Subcontinente e nel 1823 introdussero la “dottrina Monroe” - “l'America agli americani” - per sostituirsi alle potenze europee. ll caso più emblematico della trasformazione dell'America meridionale nel “cortile di casa” degli Usa fu, verso la fine dell’‘800, la loro ingerenza nella guerra di indipendenza di Cuba contro la Spagna che permise agli Stati Uniti di estendere il loro dominio economico, militare e politico.
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L’ombrello dell’Europa
di Ascanio Bernardeschi
Nel libro di Cesaratto si denuncia la politica di dumping sociale e di mercantilismo della Germania, ma manca la critica del capitalismo
Mark Twain molti anni fa disse che le banche sono come colui che ti presta l’ombrello quando non piove e lo rivuole indietro quando piove. Non poteva prevedere che invece le banche americane, anni dopo, preparando la crisi dei mutui subprime, avrebbero prestato fin troppo, scommettendo su un andamento continuamente favorevole del mercato immobiliare e andando a gambe all’aria con lo scoppio di questa bolla speculativa.
Questa gustosa battuta ci è venuta in mente quando ho letto un passo dell’ultima fatica di Sergio Cesaratto [1]. Alle pagg. 85-6, infatti, esaminando la proposta di riforma dell’euro del Presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, tendente a demandare al mercato, e all’incubo di una aumento dei tassi del debito pubblico, il controllo del rigore fiscale dei vari paesi dell’eurozona, Cesaratto definisce questa prospettiva “equilibrio del terrore” che “destabilizzerà (più che stabilizzare) il mercato dei titoli italiani”, mentre i paesi virtuosi – in realtà ugualmente inadempienti delle regole dell’Euro in quanto registrano un surplus eccedente il 6% del Pil – quale la Germania, potranno avvalersi in maniera incondizionata del meccanismo europeo di stabilità (Esm) e ricorrere ai tassi vantaggiosi dell’apposito fondo salva stati. “L’Europa c’è, quindi, quando ve n’è meno bisogno”, rileva amaramente l’Autore.
Ma andiamo per ordine. L’agile libro si propone di dimostrare, riuscendoci ampiamente, che la Germania, per motivi opposti a quello dell’Italia e dei paesi mediterranei dell’Europa, non ha rispettato le regole di Maastricht, in quanto ha adottato una politica di dumping sociale che le ha permesso costanti ed eccessivi avanzi delle partite correnti con l’estero.
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Il mini-bot grillin-leghista, ennesimo sintomo della necessità di “rompere la gabbia Ue”
di Claudio Conti
Verrebbe voglia di dedicare queste righe a quei “sinistri” che usano argomenti dell’establishment (Repubblica, Pd, Cottarelli, Giavazzi e via elencando) per criticare l’immonda unione grillin-leghista. Non perché quest’ultima possa essere in qualche modo “difesa”, ma per il buon motivo che ogni tipo di argomento presuppone o allude a una soluzione. Insomma: se usi pensieri di un nemico per criticarne un altro diventi servo del primo, non certo “alternativo” ad entrambi.
Cosa che invece è indispensabile, se si vuol mantenere aperta almeno una finestra di possibilità al cambiamento rivoluzionario e popolare dell’esistente.
Negli scorsi giorni, le bozze del famoso “contratto” tra Di Maio e Salvini hanno visto apparire e scomparire alcune indicazioni “sovversive” (individuazione di procedure tecniche per l’uscita dall’euro, cancellazione del debito rappresentato dai titoli di stato italiani in mano alla Bce: 250 miliardi, ecc). Oscillazioni dei mercati e balzo dello spread hanno rapidamente convinto i promessi sposi a ripensarci, come ampiamente previsto persino da noi.
Ma le questioni sottostanti quei “punti programmatici” andati smarriti non scompaiono altrettanto facilmente. Un qualsiasi governo che voglia provare a fare qualcosa di quel che ha in testa (piddino, leghista, grillino, berlusconiano o comunista rivoluzionario che sia) deve affrontare il problema dell’enorme debito pubblico senza disporre della leva monetaria (l’euro è stampato dalla Banca d’Italia su indicazioni quantitative della Bce). Dunque, secondo le ricette neoliberiste, può soltanto innalzare la tassazione, ridurre la spesa pubblica, svalutare i salari o un mix non troppo a scelta di queste tre cose.
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Critica del Fusaro politico
di Moreno Pasquinelli
Ricordando il duecentesimo anniversario della nascita di Karl Marx, ci eravamo ripromessi di tornare "sull'attualità e le antinomie del suo pensiero". E' in questa prospettiva che vogliamo occuparci dell'amico Diego Fusaro, visto che egli accetta di farsi accreditare come "filosofo marxista".
L'occasione ci è offerta dalla ristampa, per i tipi della Bompiani, di Bentornato Marx!, un libro del 2009.
Rileggere il libro a distanza di dieci anni conferma, a meno che non si voglia ridurre il marxismo ad un generico "anticapitalismo" — di anticapitalismi, infatti, ce ne sono molti —, che del lascito di Marx, in Fusaro, c'è oramai solo una sbiadita ombra. Di più. Denudato dalla erudizione filosofica, quello del Fusaro ci si presenta come un anticapitalismo molto distante — in decisivi luoghi addirittura in stridente contrasto — da quello del Moro. Il suo anticapitalismo pare solo una postura letteraria, un vezzo radical chic, un épouvanter lei bourgeois.
Scelta, tra le diverse possibili, la chiave ermeneutica ed epistemologica post-strutturalista e decostruzionista di certi filosofi francesi (che il compianto Preve etichettava come "pallocrati"), il giudizio di Fusaro è presto detto: Marx cattivo economista, fu anzitutto un filosofo, ma la sua filosofia, date le sue numerose aporie e antinomie, farebbe acqua da tutte le parti. Questo il succo delle sue quattrocento pagine. Vi chiederete a questo punto che senso abbia definirsi "marxista", per quanto "indipendente". Appunto.
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Chi difende l’austerità
Una storia di pagliacci e cani da guardia
di coniarerivolta
Dopo giorni di andirivieni, contatti, riunioni, dichiarazioni e mezze dichiarazioni, sembra che le possibilità di un governo 5 Stelle – Lega siano concrete. Nulla ancora è certo e c’è ancora una possibilità che il tentativo fallisca. Tuttavia i due partiti hanno raggiunto un accordo, trascritto in un “contratto” dove sono stati riportati i punti salienti di un programma di governo comune.
Immediatamente si sono scatenate le voci scomposte e preoccupate dei guardiani più ligi all’austerità, ben rappresentate dai principali quotidiani (Repubblica e Corriere in primis). Ciò che si sottolinea è l’irrealizzabilità del programma Di Maio – Salvini e l’irresponsabilità di alcune proposte, che metterebbero a repentaglio la stabilità ed i conti del Paese e allontanerebbero gli investitori stranieri.
Il tenore di queste critiche è in realtà antitetico ai veri motivi per cui il duo Di Maio – Salvini merita di essere stigmatizzato e smascherato. 5 Stelle e Lega sono infatti partiti di sistema, essenzialmente liberisti e inclini ad eseguire, al netto di poche e incoerenti turbolenze, le direttive fondamentali del programma di austerità europea. Questo è il motivo principale per cui vanno radicalmente criticati. I centri di potere dominanti, invece, li attaccano ogni giorno per non aver dimostrato fino in fondo di voler eseguire perfettamente e senza sbavature la linea dell’austerità fanatica.
Del resto, basta aver chiare alcune coordinate fondamentali di analisi per capire che, se 5 Stelle e Lega sono false e pericolose alternative, chi ne rimprovera il presunto e inesistente populismo irresponsabile è forse peggio di loro e rappresenta e rappresenterà nei prossimi anni il cuore del problema e la sponda più efficace e devastante di applicazione del paradigma dell’austerità che sta annichilendo le nostre economie e le nostre società, scatenando povertà e disoccupazione di massa.
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Su che basi valutare un governo M5S-Lega?*
di Alessandro Pascale**
Riceviamo dal compagno Alessandro Pascale una sua riflessione sui più recenti sviluppi politici in Italia, e lo pubblichiamo come contributo al dibattito avviato nella rubrica “i comunisti e la questione nazionale”
La nascita di un Governo Lega-M5S è un evento augurabile di cui tutti i genuini progressisti dovrebbero essere lieti. Per quale ragione? Forse perché si ritenga che una tale alleanza possa contribuire a risolvere i problemi dell'Italia? Obiezione! La questione è quanto meno male impostata: dire “l'Italia” non vuol dire nulla nel momento in cui non si chiarisca se gli interessi del “Paese” coincidano con quelli della “Nazione” nella sua totalità o con una particolare e ristretta classe sociale. È vero che si può ragionare anche in termini di territorialità, infatti diversi opinionisti fanno così, identificando la Lega come difensore del “Nord” e il M5S come rappresentativo del “Sud”. Questa distinzione, fondata in parte su ragioni storico-politiche (ma soprattutto sui consensi elettorali ricevuti) non ha più in effetti molto senso, anzi rischia di essere fuorviante per comprendere i reali blocchi sociali, i programmi e le ideologie di riferimento dei due Partiti in questione.
Sgombriamo subito il terreno da un altro equivoco: la salvezza dell'Italia, intesa come struttura socio-economica capitalistica, può interessare oggi solo al Presidente della Repubblica Mattarella e ai rappresentanti del Grande Capitale internazionale ed italiano; si parla in particolar modo di quei settori della borghesia finanziaria ormai indistinguibili dalla ristretta élite della borghesia industriale più ricca, dedita non solo al settore produttivo ma anche a quello speculativo. Per spiegare questa affermazione basterà ricordare come l'Italia, grazie alle politiche messe in atto negli ultimi anni dal Partito Democratico e da una serie di Governi “tecnici”, sia riuscita a far ripartire l'obiettivo della crescita del PIL. Il problema è che di questa crescita non beneficia praticamente nessuno, come potrà spiegare meglio di qualsiasi parola il grafico che segue.
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La crisi europea e le riforme strutturali
di Federico Bassi
L’attuale situazione economica di molti paesi dell’Europa del Sud, Italia inclusa, è disastrosa. Ora tutti i nodi precipitano sulla Ue. Che secondo gli autori di “Crisis of the European Monetary Union..” potrebbe disfarsene
In una brillante parodia di Giampiero Galeazzi, Nicola Savino sponsorizzava il nuovo prodotto di una compagnia di tabacco – le sigarette alla citronella – concludendo che potevano far morire di cancro ma senza più punture di zanzara. Le politiche di austerità fiscale adottate in Europa per contrastare la crescita del debito pubblico, incluse le cosiddette “riforme strutturali” – ultime delle quali il Jobs Act di Matteo Renzi e la Loi Travail francese – assomigliano molto alle sigarette alla citronella di Galeazzi/Savino: possono far morire di precarietà e disoccupazione, ma con moderati tassi di inflazione e di indebitamento pubblico.
Queste riforme strutturali sono infatti non soltanto inutili ma anche dannose, specie nel contesto di rapida deindustrializzazione di molti paesi europei. L’Italia, nonostante sia ancora una delle principali potenze industriali, sta vivendo uno straordinario declino industriale i cui effetti emergono progressivamente. Luciano Gallino ne parlava nel suo testo “La scomparsa dell’Italia industriale”, in cui raccontava i vari progetti industriali dai quali l’Italia era colpevolmente uscita (o nei quali non era mai entrata nonostante inviti formali e porte spalancate): chimica, informatica, aeronautica, elettronica di consumo, hi-tech e automobili.
Il libro “Crisis of the European Monetary Union. A Core-Periphery perspective” ha il merito di contestualizzare questo processo di deindustrializzazione, che coinvolge l’intera periferia sud dell’Europa e la Francia, all’interno della lunga crisi europea. In particolare, si evidenzia come il processo di integrazione europea sia stato funzionale all’abbandono delle politiche industriali pubbliche, che avevano contribuito a creare e ad alimentare una capacità produttiva innovativa in settori strategici per i paesi in via di industrializzazione.
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La sottovalutazione dell’euro da parte della sinistra e l’abbandono dell’exit alla destra
Note a margine del dibattito su La gabbia dell’euro
di Domenico Moro
Un libro è utile nella misura in cui suscita un dibattito su un dato tema, contribuendo a chiarirne i vari aspetti, e aiutando definire con maggiore precisione le proprie posizioni. Da questo punto di vista, possono essere di interesse le questioni emerse durante le numerose presentazioni e nelle recensioni dedicate al mio libro, “La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra”.
Un limite frequente, quando si approccia la questione dell’euro e dell’uscita dall’euro, consiste nel fatto che l’aspetto economico non viene visto in relazione ai rapporti di produzione e al modo di produzione, ma viene inteso in termini tecnici. Questo porta a scindere la politica dall’economia, i cui meccanismi vengono così interpretati come fatti neutrali o naturali. Tra le varie domande rivoltemi nel corso delle presentazioni del mio libro, una mi ha particolarmente colpito: perché avessi voluto sottolineare fin dal titolo che l’uscita dall’euro fosse una cosa di sinistra, per di più in un frangente storico in cui la sinistra sembra essersi elettoralmente quasi dissolta e il concetto stesso pare abbia perso persino un significato preciso. Le ragioni sono due. La prima è che l’uscita dall’euro non è un processo socialmente neutrale, e, per questo, deve essere fatto da sinistra, il che, secondo la concezione originaria del termine, vuol dire dalla parte del lavoro salariato e delle classi subalterne. La seconda risiede nel fatto che è stata proprio l’integrazione europea non solo a eliminare o a ridimensionare i tradizionali partiti socialisti in tutta Europa, ma soprattutto a snaturare il significato stesso della parola sinistra.
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Buon bi-centenario, Karl Marx!
di Domenico Mario Nuti
Probabilmente sono in pochi, fra i Marxisti come fra i nemici del Marxismo, a rendersi conto che – paradossalmente – il più alto elogio del capitalismo può essere trovato in Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito Comunista (1848), che riconosce senza mezzi termini che il sistema capitalista ha promosso l’urbanizzazione, l’industrializzazione, il progresso tecnico, la crescita economica e una prosperità senza precedenti:
“La borghesia, durante il suo dominio di cento anni scarsi, ha creato forze produttive più massicce e colossali di tutte le generazioni precedenti messe insieme. L’assoggettamento all’uomo delle forze della natura, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, le opere necessarie alla coltivazione di interi continenti, le canalizzazioni dei fiumi, la comparsa di intere popolazioni – chi mai nei secoli precedenti aveva avuto anche il solo presentimento di tali forze produttive... La borghesia, con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con l’immensa agevolazione dei mezzi di comunicazione, ha portato alla civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare.”
Al tempo stesso, Marx vedeva il capitalismo come una forma sistematica di sfruttamento del lavoro. Le società primitive a suo parere non generavano sfruttamento poiché i soggetti economici scambiavano prodotti che incorporavano all’incirca quantità equivalenti di lavoro. Nella schiavitù lo sfruttamento era in realtà minore di quanto non sembrasse perché, anche se il lavoro non era pagato, l’autoconsumo degli schiavi permetteva loro di recuperare una parte del proprio lavoro.
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Destra. Tristi tropi
di Claudio Vercelli
Come definire, senza correre il rischio di risultare anacronistici, una destra che, oramai, pare essere così pervasiva da occupare spazi e linguaggi, pratiche e narrazioni che un tempo sarebbero appartenute a ben altri soggetti? Aggiungiamo: quanto della matrice fascista e, in immediato riflesso, di quella neofascista, rimane in essa? Ribaltando l’approccio, piuttosto che domandarsi quanto del passato non sia del tutto trascorso non è forse meglio chiedersi cosa il presente richiami ancora di un certo passato, e in quale misura ciò può risultare di nuovo funzionale alla costruzione di una parte delle identità politiche correnti? Il rischio, peraltro, è sempre il medesimo, ovvero quello di girare a vuoto, sfoderando stancamente i toni della polemica nel momento stesso in cui il suo oggetto sembra, ai molti, essere definitivamente evaporato, comunque archiviato, perché ridotto a puro strumento di etichettatura. Utile, per la sua natura di sintesi, è il volume a cura di Corrado Fumagalli e Spartaco Puttini, Destra, editato nella collana Ricerche della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (pp. 120, Milano 2018). La ricognizione nei sette brevi saggi contenutivi è tanto asciutta quanto diretta. Non è incentrata sul fenomeno neofascista in quanto tale ma sulla persistenza di tracce e frammenti d’esso, oltreché delle sue rimodulazioni, in alcune formazioni politiche odierne. Così facendo, se ne identifica l’aspetto sub-culturale, strettamente consustanziale alla stessa democrazia (Piero Ignazi). Il calco fascistoide, infatti, è una sorta di reciproco inverso di quest’ultima.
La quale, infatti, spesso si definisce in opposizione ad esso, ovvero per ciò che non intende essere o divenire. Se diciamo fascismo, e tutte le parole che da esso derivano o sono associabili, a partire dai termini che presentano un prefisso accostatovi (pre, neo, post), ci riferiamo ad un tropo, ossia ad un uso traslato, spesso ampliato, di un termine che assume accezioni, significati, valenze, se non anche a volte valori, tanto ampi quanto eterogenei.
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Populismo e pseudopopulismo in Italia
di Michele Nobile
INDICE: Premessa - 1. La generalizzazione dello pseudopopulismo nella postdemocrazia italiana - 2. Trasformismo di gruppo, cooptazione e postdemocrazia, a iniziare dalla mutazione del Pci - 3. Le innovazioni di Silvio Berlusconi, i rapporti di forza tra le classi e la questione del bonapartismo - 4. La trasformazione delle subculture del Pci e della Dc e il nazionalismo della Lega Nord - 5. Regime berlusconiano o postdemocrazia bipolare? - 6. Lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano e la postdemocrazia nazionale - 7. Sintesi parziale: senza «un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose», quel che rimane è uno pseudopopulismo impotente
Premessa
Fra 2011 e 2013 il sistema italiano dei partiti è entrato in una nuova fase. Non si tratta di una Terza Repubblica perché i guasti prodotti da centro-sinistra e centro-destra rimangono intatti, ma la fulminea ascesa del Movimento 5 Stelle ha cambiato la scena politica istituzionale.
Allo stesso tempo, la base elettorale di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi si è quasi estinta: Potere al Popolo! ha raccolto soltanto lo 0,8% dei voti dell’intero corpo elettorale - vale a dire circa 200 mila voti in meno di quanti ne ebbe Democrazia proletaria nel 1976, oppure circa mezzo milione in meno di quelli per il Manifesto e il Psiup nel 1972. Dal punto di vista elettorale si è dunque verificato un arretramento di oltre quarant’anni. Sottolineo questo fatto perché si tratta della tomba definitiva per le prospettive elettorali e di stabile partecipazione al gioco politico nazionale dei partiti della sinistra post-Pci; non ci si può neanche consolare con il risultato di quella costola del Partito democratico che è Liberi e Uguali.
Ci troviamo di fronte a una catastrofe che deve indurre a un ripensamento profondo. Essa non può essere scaricata sulle circostanze esterne o sui rapporti di forza tra le classi sociali. La sinistra italiana non è stata sconfitta nella lotta e non è stata travolta insieme a un movimento di massa. Non si tratta di una sconfitta che, nonostante tutto, si possa onorare nella memoria. Tutto il contrario. Il crollo del consenso elettorale non è altro che la manifestazione di un fallimento complessivo, politico e ancor più ideale. È il risultato di un processo iniziato già prima che il M5S si presentasse nelle elezioni politiche e che si deve innanzitutto al «ministerialismo», il cui culmine - certo non l’inizio - fu la partecipazione al governo Prodi II (2006-2008). Retrospettivamente, quel che nel 2006 poteva apparire come un trionfo - 110 parlamentari eletti tra le fila del centro-sinistra - può ormai considerarsi un punto di non ritorno.
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Da Gaza al Quirinale
Popoli fai da noi, cacicchi fai da me. E i Rothschild
di Fulvio Grimaldi
Ogni volta che siamo testimoni di un’ingiustizia e non reagiamo, addestriamo il nostro carattere ad essere passivi di fronte all’ingiustizia , così, a perdere ogni capacità di difendere noi stessi e coloro che amiamo”. (Julian Assange)
“Si parva licet componere magnis”, premettevano i latini a un azzardato paragone che conducevano tra cose piccole grandi. Procedimento che adotto per passare dalle nostre squallide, ma non del tutto irrilevanti, piccinerie, alle immensità, per una parte orrendamente efferate e, per l’altra, eroiche, di quanto va succedendo in queste settimane e ore tra i palestinesi di Gaza e gli emuli israeliani dei macellai del ghetto di Varsavia.
Cosa ci accomuna, cosa li accomuna
Altra premessa al discorso di oggi è la constatazione di cosa abbiano in comune coloro che hanno portato alla novità di due fenomeni di massa che, fino all’altro ieri, parevano patrimonio di altri, migliori, tempi. E, per converso, a cosa ci porta l’esame epistemologico circa la natura logica dei comportamenti di contrasto a questi fenomeni. Parlo della rivolta di masse popolari a Gaza impegnate in un movimento, la Grande Marcia del Ritorno, che, dopo anni di delega a rappresentanti inetti, inefficaci, rinnegati, divisi e divisivi, si appropria del tema che fu loro fin dal rifiuto della colonizzazione degli anni ’40 e poi nelle due Intifade degli anni ’80 e ’90. E parlo della cacciata, in Italia, dal proprio orizzonte politico di coloro, la coalizione di destra variamente denominata Ulivo, governo tecnico, larghe intese, renzusconismo. Usurpatori che dalla fine del secolo scorso, eletti rappresentanti dei bisogni collettivi, queste masse le hanno conculcate, deprivate, escluse.
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È plausibile una rivoluzione pacifica?
di Renato Caputo
In quali casi è possibile una rivoluzione pacifica? La si deve considerare l’eccezione o la regola?
Lenin, come del resto Marx ed Engels, ritiene che in una situazione particolare – in cui, ad esempio, gli apparati repressivi dello Stato sfuggono al controllo della classe dominante – non si debba ricorrere ai mezzi non pacifici generalmente indispensabili per realizzare una rivoluzione [1]. Tanto più che la forza e la stessa legittimità della violenza rivoluzionaria eventualmente necessaria risiede nel suo essere una “violenza seconda”, ossia una reazione indispensabile al conseguimento di un elevato obiettivo etico-politico – ovvero una società in cui sarà bandito lo sfruttamento – imposta dalle forme di lotta violente che generalmente impiegano gli apparati repressivi volti alla salvaguardia dei privilegi consolidati di una esigua minoranza, fondati sullo sfruttamento della grande maggioranza [2]. La possibilità del confronto con le idee dell’avversario su un piano realmente democratico, proprio in quanto rara e provvisoria – poiché la classe dominante non si lascerà, quasi certamente, scalzare sulla base della sola potenza delle idee, ma finirà per imporre metodi violenti di lotta – va sfruttata, dal momento che la portata universalistica del proprio progetto di società non può che avere la meglio sulla difesa di interessi particolaristici, sempre più in contraddizione con l’ulteriore sviluppo sociale.
Dunque, se si desse la possibilità d’uno sviluppo “pacifico della rivoluzione – possibilità estremamente ed eccezionalmente rara nella storia ed estremamente preziosa”[3], sottolinea Lenin, anche un partito che generalmente considera necessaria la via insurrezionale non dovrebbe lasciarsi sfuggire tale opportunità.
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L’irruzione della Rivoluzione russa nella storia
Il bolscevico come nuovo tipo di rivoluzionario
di Paolo Cassetta
[E’ in edicola, in verità da qualche settimana, la pubblicazione degli atti del convegno che abbiamo organizzato lo scorso autunno al Csoa Intifada. Nel centenario della Rivoluzione tentare la strada del ricordo originale non era certo cosa semplice. Crediamo, nonostante ciò, che i contributi ospitati in questo breve volume colgano l’essenza della Rivoluzione russa, che è un fenomeno storico ben preciso e inaggirabile anche guardando al futuro dei movimenti di classe, e non solo al loro passato. Ancora oggi, è da lì che siamo costretti a ripartire. Proprio per questo, pubblichiamo per interno il contributo di Paolo Cassetta sul bolscevico come “nuovo tipo di rivoluzionario”. Dedicato soprattutto a tutto coloro che considerano, sulla scorta dell’imbalsamazione del leninismo operata dal Pci, Lenin e il bolscevismo come qualcosa inerente all’ortodossia del socialismo. Al contrario, la Rivoluzione è il frutto della capacità sinergica del bolscevismo di far vivere il marxismo dentro le particolari condizioni sociali, culturali e rivoluzionarie russe, in modo tutto fuorché ortodosso. Buona lettura]
Non bisogna fermare il bisturi
N.G. Černyševskij, Che fare?
Il tema che devo svolgere è quello del militante bolscevico, inteso come nuovo tipo di rivoluzionario.
Si tratta di un argomento complicato, perché il bolscevico produce senz’altro la rivoluzione, ma ne è in pari tempo e in larga misura il prodotto. Inoltre, non possiamo parlare del bolscevico al singolare, in quanto egli si propone alla storia e a se stesso come figura plurale per eccellenza: come un soggetto che riesce a imporre e consolidare l’Ottobre solo per mezzo del partito al quale appartiene.
Nel 1917 questo partito si chiamava ancora “socialdemocratico”. Ma nella II Internazionale i bolscevichi erano considerati con preoccupazione e diffidenza. Appartenevano alla sinistra del movimento operaio, e, per esempio, avevano contribuito a scrivere la famosa risoluzione contro la guerra imperialista votata nel congresso di Stoccarda del 1907. Però avevano modi e abitudini che, spesso, scandalizzavano anche i più fieri avversari del revisionismo. Si preferiva trattare con i menscevichi, altrettanto ortodossi rispetto a Bernstein, e tuttavia più affini ai metodi organizzativi e alle forme di pensiero prevalenti nel marxismo dell’epoca.
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