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La sottovalutazione dell’euro da parte della sinistra e l’abbandono dell’exit alla destra
Note a margine del dibattito su La gabbia dell’euro
di Domenico Moro
Un libro è utile nella misura in cui suscita un dibattito su un dato tema, contribuendo a chiarirne i vari aspetti, e aiutando definire con maggiore precisione le proprie posizioni. Da questo punto di vista, possono essere di interesse le questioni emerse durante le numerose presentazioni e nelle recensioni dedicate al mio libro, “La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra”.
Un limite frequente, quando si approccia la questione dell’euro e dell’uscita dall’euro, consiste nel fatto che l’aspetto economico non viene visto in relazione ai rapporti di produzione e al modo di produzione, ma viene inteso in termini tecnici. Questo porta a scindere la politica dall’economia, i cui meccanismi vengono così interpretati come fatti neutrali o naturali. Tra le varie domande rivoltemi nel corso delle presentazioni del mio libro, una mi ha particolarmente colpito: perché avessi voluto sottolineare fin dal titolo che l’uscita dall’euro fosse una cosa di sinistra, per di più in un frangente storico in cui la sinistra sembra essersi elettoralmente quasi dissolta e il concetto stesso pare abbia perso persino un significato preciso. Le ragioni sono due. La prima è che l’uscita dall’euro non è un processo socialmente neutrale, e, per questo, deve essere fatto da sinistra, il che, secondo la concezione originaria del termine, vuol dire dalla parte del lavoro salariato e delle classi subalterne. La seconda risiede nel fatto che è stata proprio l’integrazione europea non solo a eliminare o a ridimensionare i tradizionali partiti socialisti in tutta Europa, ma soprattutto a snaturare il significato stesso della parola sinistra.
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Buon bi-centenario, Karl Marx!
di Domenico Mario Nuti
Probabilmente sono in pochi, fra i Marxisti come fra i nemici del Marxismo, a rendersi conto che – paradossalmente – il più alto elogio del capitalismo può essere trovato in Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito Comunista (1848), che riconosce senza mezzi termini che il sistema capitalista ha promosso l’urbanizzazione, l’industrializzazione, il progresso tecnico, la crescita economica e una prosperità senza precedenti:
“La borghesia, durante il suo dominio di cento anni scarsi, ha creato forze produttive più massicce e colossali di tutte le generazioni precedenti messe insieme. L’assoggettamento all’uomo delle forze della natura, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, le opere necessarie alla coltivazione di interi continenti, le canalizzazioni dei fiumi, la comparsa di intere popolazioni – chi mai nei secoli precedenti aveva avuto anche il solo presentimento di tali forze produttive... La borghesia, con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con l’immensa agevolazione dei mezzi di comunicazione, ha portato alla civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare.”
Al tempo stesso, Marx vedeva il capitalismo come una forma sistematica di sfruttamento del lavoro. Le società primitive a suo parere non generavano sfruttamento poiché i soggetti economici scambiavano prodotti che incorporavano all’incirca quantità equivalenti di lavoro. Nella schiavitù lo sfruttamento era in realtà minore di quanto non sembrasse perché, anche se il lavoro non era pagato, l’autoconsumo degli schiavi permetteva loro di recuperare una parte del proprio lavoro.
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Destra. Tristi tropi
di Claudio Vercelli
Come definire, senza correre il rischio di risultare anacronistici, una destra che, oramai, pare essere così pervasiva da occupare spazi e linguaggi, pratiche e narrazioni che un tempo sarebbero appartenute a ben altri soggetti? Aggiungiamo: quanto della matrice fascista e, in immediato riflesso, di quella neofascista, rimane in essa? Ribaltando l’approccio, piuttosto che domandarsi quanto del passato non sia del tutto trascorso non è forse meglio chiedersi cosa il presente richiami ancora di un certo passato, e in quale misura ciò può risultare di nuovo funzionale alla costruzione di una parte delle identità politiche correnti? Il rischio, peraltro, è sempre il medesimo, ovvero quello di girare a vuoto, sfoderando stancamente i toni della polemica nel momento stesso in cui il suo oggetto sembra, ai molti, essere definitivamente evaporato, comunque archiviato, perché ridotto a puro strumento di etichettatura. Utile, per la sua natura di sintesi, è il volume a cura di Corrado Fumagalli e Spartaco Puttini, Destra, editato nella collana Ricerche della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (pp. 120, Milano 2018). La ricognizione nei sette brevi saggi contenutivi è tanto asciutta quanto diretta. Non è incentrata sul fenomeno neofascista in quanto tale ma sulla persistenza di tracce e frammenti d’esso, oltreché delle sue rimodulazioni, in alcune formazioni politiche odierne. Così facendo, se ne identifica l’aspetto sub-culturale, strettamente consustanziale alla stessa democrazia (Piero Ignazi). Il calco fascistoide, infatti, è una sorta di reciproco inverso di quest’ultima.
La quale, infatti, spesso si definisce in opposizione ad esso, ovvero per ciò che non intende essere o divenire. Se diciamo fascismo, e tutte le parole che da esso derivano o sono associabili, a partire dai termini che presentano un prefisso accostatovi (pre, neo, post), ci riferiamo ad un tropo, ossia ad un uso traslato, spesso ampliato, di un termine che assume accezioni, significati, valenze, se non anche a volte valori, tanto ampi quanto eterogenei.
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Populismo e pseudopopulismo in Italia
di Michele Nobile
INDICE: Premessa - 1. La generalizzazione dello pseudopopulismo nella postdemocrazia italiana - 2. Trasformismo di gruppo, cooptazione e postdemocrazia, a iniziare dalla mutazione del Pci - 3. Le innovazioni di Silvio Berlusconi, i rapporti di forza tra le classi e la questione del bonapartismo - 4. La trasformazione delle subculture del Pci e della Dc e il nazionalismo della Lega Nord - 5. Regime berlusconiano o postdemocrazia bipolare? - 6. Lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano e la postdemocrazia nazionale - 7. Sintesi parziale: senza «un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose», quel che rimane è uno pseudopopulismo impotente
Premessa
Fra 2011 e 2013 il sistema italiano dei partiti è entrato in una nuova fase. Non si tratta di una Terza Repubblica perché i guasti prodotti da centro-sinistra e centro-destra rimangono intatti, ma la fulminea ascesa del Movimento 5 Stelle ha cambiato la scena politica istituzionale.
Allo stesso tempo, la base elettorale di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi si è quasi estinta: Potere al Popolo! ha raccolto soltanto lo 0,8% dei voti dell’intero corpo elettorale - vale a dire circa 200 mila voti in meno di quanti ne ebbe Democrazia proletaria nel 1976, oppure circa mezzo milione in meno di quelli per il Manifesto e il Psiup nel 1972. Dal punto di vista elettorale si è dunque verificato un arretramento di oltre quarant’anni. Sottolineo questo fatto perché si tratta della tomba definitiva per le prospettive elettorali e di stabile partecipazione al gioco politico nazionale dei partiti della sinistra post-Pci; non ci si può neanche consolare con il risultato di quella costola del Partito democratico che è Liberi e Uguali.
Ci troviamo di fronte a una catastrofe che deve indurre a un ripensamento profondo. Essa non può essere scaricata sulle circostanze esterne o sui rapporti di forza tra le classi sociali. La sinistra italiana non è stata sconfitta nella lotta e non è stata travolta insieme a un movimento di massa. Non si tratta di una sconfitta che, nonostante tutto, si possa onorare nella memoria. Tutto il contrario. Il crollo del consenso elettorale non è altro che la manifestazione di un fallimento complessivo, politico e ancor più ideale. È il risultato di un processo iniziato già prima che il M5S si presentasse nelle elezioni politiche e che si deve innanzitutto al «ministerialismo», il cui culmine - certo non l’inizio - fu la partecipazione al governo Prodi II (2006-2008). Retrospettivamente, quel che nel 2006 poteva apparire come un trionfo - 110 parlamentari eletti tra le fila del centro-sinistra - può ormai considerarsi un punto di non ritorno.
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Da Gaza al Quirinale
Popoli fai da noi, cacicchi fai da me. E i Rothschild
di Fulvio Grimaldi
Ogni volta che siamo testimoni di un’ingiustizia e non reagiamo, addestriamo il nostro carattere ad essere passivi di fronte all’ingiustizia , così, a perdere ogni capacità di difendere noi stessi e coloro che amiamo”. (Julian Assange)
“Si parva licet componere magnis”, premettevano i latini a un azzardato paragone che conducevano tra cose piccole grandi. Procedimento che adotto per passare dalle nostre squallide, ma non del tutto irrilevanti, piccinerie, alle immensità, per una parte orrendamente efferate e, per l’altra, eroiche, di quanto va succedendo in queste settimane e ore tra i palestinesi di Gaza e gli emuli israeliani dei macellai del ghetto di Varsavia.
Cosa ci accomuna, cosa li accomuna
Altra premessa al discorso di oggi è la constatazione di cosa abbiano in comune coloro che hanno portato alla novità di due fenomeni di massa che, fino all’altro ieri, parevano patrimonio di altri, migliori, tempi. E, per converso, a cosa ci porta l’esame epistemologico circa la natura logica dei comportamenti di contrasto a questi fenomeni. Parlo della rivolta di masse popolari a Gaza impegnate in un movimento, la Grande Marcia del Ritorno, che, dopo anni di delega a rappresentanti inetti, inefficaci, rinnegati, divisi e divisivi, si appropria del tema che fu loro fin dal rifiuto della colonizzazione degli anni ’40 e poi nelle due Intifade degli anni ’80 e ’90. E parlo della cacciata, in Italia, dal proprio orizzonte politico di coloro, la coalizione di destra variamente denominata Ulivo, governo tecnico, larghe intese, renzusconismo. Usurpatori che dalla fine del secolo scorso, eletti rappresentanti dei bisogni collettivi, queste masse le hanno conculcate, deprivate, escluse.
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È plausibile una rivoluzione pacifica?
di Renato Caputo
In quali casi è possibile una rivoluzione pacifica? La si deve considerare l’eccezione o la regola?
Lenin, come del resto Marx ed Engels, ritiene che in una situazione particolare – in cui, ad esempio, gli apparati repressivi dello Stato sfuggono al controllo della classe dominante – non si debba ricorrere ai mezzi non pacifici generalmente indispensabili per realizzare una rivoluzione [1]. Tanto più che la forza e la stessa legittimità della violenza rivoluzionaria eventualmente necessaria risiede nel suo essere una “violenza seconda”, ossia una reazione indispensabile al conseguimento di un elevato obiettivo etico-politico – ovvero una società in cui sarà bandito lo sfruttamento – imposta dalle forme di lotta violente che generalmente impiegano gli apparati repressivi volti alla salvaguardia dei privilegi consolidati di una esigua minoranza, fondati sullo sfruttamento della grande maggioranza [2]. La possibilità del confronto con le idee dell’avversario su un piano realmente democratico, proprio in quanto rara e provvisoria – poiché la classe dominante non si lascerà, quasi certamente, scalzare sulla base della sola potenza delle idee, ma finirà per imporre metodi violenti di lotta – va sfruttata, dal momento che la portata universalistica del proprio progetto di società non può che avere la meglio sulla difesa di interessi particolaristici, sempre più in contraddizione con l’ulteriore sviluppo sociale.
Dunque, se si desse la possibilità d’uno sviluppo “pacifico della rivoluzione – possibilità estremamente ed eccezionalmente rara nella storia ed estremamente preziosa”[3], sottolinea Lenin, anche un partito che generalmente considera necessaria la via insurrezionale non dovrebbe lasciarsi sfuggire tale opportunità.
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L’irruzione della Rivoluzione russa nella storia
Il bolscevico come nuovo tipo di rivoluzionario
di Paolo Cassetta
[E’ in edicola, in verità da qualche settimana, la pubblicazione degli atti del convegno che abbiamo organizzato lo scorso autunno al Csoa Intifada. Nel centenario della Rivoluzione tentare la strada del ricordo originale non era certo cosa semplice. Crediamo, nonostante ciò, che i contributi ospitati in questo breve volume colgano l’essenza della Rivoluzione russa, che è un fenomeno storico ben preciso e inaggirabile anche guardando al futuro dei movimenti di classe, e non solo al loro passato. Ancora oggi, è da lì che siamo costretti a ripartire. Proprio per questo, pubblichiamo per interno il contributo di Paolo Cassetta sul bolscevico come “nuovo tipo di rivoluzionario”. Dedicato soprattutto a tutto coloro che considerano, sulla scorta dell’imbalsamazione del leninismo operata dal Pci, Lenin e il bolscevismo come qualcosa inerente all’ortodossia del socialismo. Al contrario, la Rivoluzione è il frutto della capacità sinergica del bolscevismo di far vivere il marxismo dentro le particolari condizioni sociali, culturali e rivoluzionarie russe, in modo tutto fuorché ortodosso. Buona lettura]
Non bisogna fermare il bisturi
N.G. Černyševskij, Che fare?
Il tema che devo svolgere è quello del militante bolscevico, inteso come nuovo tipo di rivoluzionario.
Si tratta di un argomento complicato, perché il bolscevico produce senz’altro la rivoluzione, ma ne è in pari tempo e in larga misura il prodotto. Inoltre, non possiamo parlare del bolscevico al singolare, in quanto egli si propone alla storia e a se stesso come figura plurale per eccellenza: come un soggetto che riesce a imporre e consolidare l’Ottobre solo per mezzo del partito al quale appartiene.
Nel 1917 questo partito si chiamava ancora “socialdemocratico”. Ma nella II Internazionale i bolscevichi erano considerati con preoccupazione e diffidenza. Appartenevano alla sinistra del movimento operaio, e, per esempio, avevano contribuito a scrivere la famosa risoluzione contro la guerra imperialista votata nel congresso di Stoccarda del 1907. Però avevano modi e abitudini che, spesso, scandalizzavano anche i più fieri avversari del revisionismo. Si preferiva trattare con i menscevichi, altrettanto ortodossi rispetto a Bernstein, e tuttavia più affini ai metodi organizzativi e alle forme di pensiero prevalenti nel marxismo dell’epoca.
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Se Lenin incontrasse Casaleggio
Il partito digitale oltre i limiti dei 5 Stelle
di Paolo Gerbaudo
Se si vuole fare i conti con il presente bisogna andare oltre quel rifiuto totale del partito digitale che finora ha dominato il dibattito ed entrare nel merito delle nuove strutture organizzative e delle loro effettive potenzialità. Il partito piattaforma prefigurato dal Movimento 5 Stelle, pur con tutti i suoi evidenti difetti, è il prototipo di una nuova forma di partecipazione e di gestione del consenso, adeguata all’esperienza sociale contemporanea. La sfida è questa.
Il successo registrato dal Movimento 5 Stelle nelle ultime elezioni politiche, in cui è divenuto il primo partito italiano e a seguito delle quali potrebbe infine andare al governo in alleanza con la Lega Nord, ha scatenato un intenso dibattito sul destino della forma-partito nell’era digitale. Secondo gli attivisti dei 5 Stelle – che continuano a insistere che non si tratta di un partito ma di un “movimento” – la loro struttura organizzativa, che si incentra sull’utilizzo della piattaforma partecipativa Rousseau, il cui nome di battesimo fa riferimento al famoso filosofo ginevrino, costituisce un cambiamento di portata rivoluzionaria destinato a imporsi sulla scena politica in Italia e altri paesi. Secondo i critici siamo invece di fronte a uno specchietto per le allodole o a una pseudo-democrazia ben peggiore della democrazia tradizionale. Dove sta la verità?
Come sostengo nell’ebook “Il Partito Piattaforma”, recentemente pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli, se vogliamo veramente capire il significato del Movimento 5 Stelle e il modo in cui manifesta la trasformazione della società e della politica nell’era delle piattaforme digitali come Facebook, Instagram e AirBnB, bisogna sfuggire alla classica tentazione di fare di tutta l’erba un fascio; ovvero di considerare i problemi pratici manifestati nell’applicazione di un certo modello organizzativo come prova definitiva della sua insufficienza.
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“Algoritmi di libertà” di Michele Mezza
di Luca Picotti
Recensione a: Michele Mezza, Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto, Donzelli Editore, Roma 2018, pp. XVIII-278, 18 euro (scheda libro)
Il filosofo Emanuele Severino, nelle sue numerose pubblicazioni, ha sempre portato avanti la tesi secondo cui la Tecnica, intesa come la capacità di organizzare i mezzi per raggiungere una serie indefinita di scopi, diventerà il fine ultimo dell’uomo. In altri termini – meno criptici-, l’uomo sarà destinato ad essere subalterno all’apparato tecnologico da lui stesso costruito, apparato che acquisirà sempre più potere e autonomia.
La rivoluzione digitale e tecnologica degli ultimi anni ha concentrato nelle mani di poche persone la possibilità di controllare una sterminata quantità di informazioni generate dalla rete e ordinate dalla potenza di calcolo degli algoritmi. Questa deriva «panottica», resa possibile dai nuovi strumenti tecnologici, dall’inerzia della politica e dalla poca consapevolezza di coloro che la subiscono, solleva quesiti di estrema importanza: come possiamo conciliare l’onnipotenza dell’algoritmo con la libertà? Quale deve essere l’equilibrio tra pubblico e privato? Come dobbiamo porci davanti alla Tecnica e ad un futuro sempre più incerto?
L’ultimo libro di Michele Mezza, giornalista e docente universitario, affronta con taglio critico i meccanismi attraverso cui la potenza dell’algoritmo sta svuotando le nostre libertà. Il volume è contenutisticamente densissimo: spazia dal rapporto tra social media ed elezioni politiche al movimento del ’68, dalla crisi della rappresentanza ai monopoli digitali. Il comune denominatore è rappresentato dalla posta in gioco: il futuro della nostra democrazia, minacciata dalla potenza dell’algoritmo e della Tecnica.
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Il Popolo “en Marx”
di Alba Vastano
Potere al Popolo riuscirà a ricostituire l’unità dei comunisti, se il progetto riuscirà ad assumere una connotazione prettamente e prevalentemente marxista
Potere al Popolo compie sei mesi, un tempo minimo per la costruzione di un soggetto politico nato in una notte e lanciato con un video dai giovani del collettivo Je so Pazzo. Solo sei mesi, ma vissuti intensamente con centinaia di assemblee in tutto il territorio nazionale. Un tempo frequentatissimo da molti orfani della sinistra radicale che hanno visto in Palp una chance da non perdere per tentare di ricostruire un movimento politico che viva di democrazia partecipata e diretta, che faccia finalmente ripartire un’opposizione di classe e popolare e che abbia le potenzialità per crescere e contrastare specularmente le altre forze politiche che ancora dominano il Paese, smantellando lo stato sociale.
A 200 anni dalla nascita del Moro di Treviri, nasce Potere al Popolo sotto la stella guida del grande filosofo della classe operaia, di colui che segnò lo spartiacque fra il capitalismo (i poteri dominanti) e il popolo sfruttato (il proletariato), a cui indicò la via per liberarsi dal potere che lo sfruttava. Indicò alle masse che si riconoscevano come poveri e sfruttati che il loro non era un destino cinico e baro e che la strada per uscirne c’era. Occorreva unirsi e capire chi era il nemico da combattere: il capitalismo.
“Uno spettro si aggira per l’Europa, è lo spettro del comunismo… Tremino pure le classi dominanti davanti ad una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa, fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi unitevi” (apertura e chiusura del Manifest der Kommunistischen Partei - Karl Marx e Friedrich Engels).
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Le nuove plebi globali dentro la crisi sistemica
di Giovanni Iozzoli
Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00
Il nuovo libro di Carlo Formenti è essenzialmente una raccolta di articoli, dispiegati come anelli di un ragionamento continuo e coerente sulla crisi e suoi suoi attori sociali, maturato lungo il corso degli ultimi sette anni. Al centro della riflessione troviamo i due campi in cui si spaccano le società occidentali dentro questa stagione di trasformazioni accelerate: quello delle nuove oligarchie che stanno usando la crisi per concentrare ulteriormente poteri e ricchezza; e quello delle nuove masse proletarizzate, che stanno manifestando una confusa e sempre più diffusa repulsione verso ideologie e prassi delle élite, senza che questa ripulsa maturi in direzione di un qualche progetto di alternativa di società.
La prima parte del libro raccoglie spunti di analisi – quasi una narrazione in diretta – che partono dal 2011 e si allungano fino al 2017. Le pratiche di un neoliberismo feroce e pervasivo, sono al centro di ogni riflessione: il loro incunearsi “microfisicamente” nel tessuto sociale, nella vita, nel bios, fino ai grandi scenari macro – la guerra, il ciclo economico, il rapporto finanza/produzione. Una cronaca in tempo reale del disastro della modernità capitalistica, che può essere letta e declinata a vari livelli.
Si può partire da un tema attuale – l’essenza delle ideologie workfare – a proposito della scelta inglese del 2012, di affidare ad agenzie private la gestione dei sussidi e la ricollocazione degli iscritti alle liste di collocamento:
Il principio del workfare (il sussidio di disoccupazione bisogna guadagnarselo, altrimenti si è passibili di sospensioni o decurtazioni dell’assegno) non è certo una novità, ma qui siamo in presenza di pratiche ancora più penalizzanti. Soprattutto perché il compito di gestire questo avvio al lavoro coatto non è affidato alla pubblica amministrazione bensì a contractor privati che funzionano di fatto come agenzie interinali e hanno il potere di decidere come e quando i soggetti “renitenti” siano passibili di sanzione.
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‘68 / La protesta degli studenti
di Matteo Moca
Nel numero 33 dei Quaderni piacentini del 1968, apparve un testo di Guido Viale, Contro l'università (lo si trova oggi anche in diverse raccolte di saggi: si segnalano qui Quel che gli studenti non sanno e non fanno, Edizioni dell'asino e Il '68 senza Lenin ovvero la politica ridefinita, Edizioni e/o), destinato a diventare un documento unico degli anni delle contestazioni studentesche. Scritto durante le proteste presso l'Università di Torino, Contro l'università è un testo che sta alla pari con altri importanti documenti di quegli anni, europei ed extra-europei, come l'importante Manifesto di Port Huron (che prevedeva «la nonviolenza, la disobbedienza civile e il diritto per ogni giovane di praticare la democrazia partecipativa»), quello di Jerry Rubin Non fidarti di nessuno che abbia più di trentaquattro anni o il documento, anch'esso da rileggere e meditare, Della miseria nell'ambiente studentesco di alcuni membri dell'Internazionale Situazionista e studenti dell'Università di Strasburgo. Fu lo stesso Piergiorgio Bellocchio, fondatore della rivista assieme a Grazia Cherchi, a definire con enfasi il testo di Viale come quello che aveva «praticamente inventato il movimento studentesco», pensiero che lo spinse ad aumentare addirittura la tiratura di quel numero per diffonderlo in tutte le università italiane. Come nota anche Balestrini in L'orda d'oro, è indubbio che in quel documento si identificarono in molti, avendo questo «lo stesso effetto che aveva ottenuto precedentemente Lettere a una professoressa». Se il testo di Don Milani, a cui giustamente Balestrini affianca quello di Viale, ha continuato e prosegue tuttora ad essere un importante luogo di confronto e di studio, lo stesso non si può dire per Contro l'università, documento che certo sembra respirare troppo l'aria di quegli anni e finisce quindi per apparire debole e sfocato nelle riletture odierne. Rintracciare le motivazioni di un tale differente andamento non potrà certo essere fatto in questo luogo, ma evidenziare l'assoluta contemporaneità di questo testo rientra invece nelle nostre possibilità.
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Il ricatto dell’IVA
di coniarerivolta
Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito, in materia fiscale, ad una tendenza univoca molto chiara: lo spostamento del carico fiscale dai più ricchi ai più poveri e dai redditi di capitale ai redditi da lavoro. Questa tendenza è stata accompagnata da una sempre più sofisticata capacità di evasione ed elusione fiscale da parte dei redditi da capitale, in particolare i grandi capitali che possono essere esportati, legalmente o illegalmente, all’estero. In estrema sintesi: i lavoratori e i soggetti meno abbienti pagano sempre più imposte, i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno. Un dibattito politico ed economico fortemente impoverito, tuttavia, colpevolmente ignora questi aspetti: ad essere oppressi dal carico fiscale sarebbero esclusivamente solerti imprenditori, scoraggiati dal “fare impresa” e generare ricchezza per tutti da uno Stato oppressore e sanguisuga.
Proviamo a fare chiarezza ed un po’ di pulizia. Tra i temi più evocati nel dibattito politico e giornalistico di questi giorni un posto d’onore spetta senza dubbio all’IVA, l’imposta sul valore aggiunto. Se ne paventa un aumento a decorrere dal 2019 e i partiti politici si affannano a capire come poter scongiurare questo evento, previsto dalla clausola di salvaguardia presente nella legge di bilancio dall’ormai lontano luglio 2011. Secondo tale clausola, l’aumento dell’IVA scatta automaticamente nel momento in cui non si sono raggiunti gli obiettivi di contenimento del deficit previsti dalla Commissione europea. Ma procediamo per gradi.
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Il lungo riflusso
di Damiano Palano
A quarant'anni dalla morte di Aldo Moro, "Maelstrom" ripropone la lettura di un libro di Fausto Colombo
I posteri risponderanno forse alla domanda se Nanni Moretti sia davvero un grande regista, o – come voleva Mario Monicelli – soltanto un epigono, neppure troppo originale, della commedia all’italiana. Al di là di ogni rilievo stilistico, anche i suoi più spietati critici non possono però negare al cineasta romano un fiuto formidabile nel saper cogliere le tendenze della società, le trasformazioni culturali, il mutamento nei costumi, proprio come i migliori esponenti della commedia all’italiana degli anni Sessanta. Se il cinema di Monicelli e Risi prendeva di mira in prevalenza i ‘tic’, le ambizioni e i complessi di una piccola borghesia investita dal boom, il bersaglio privilegiato del regista romano è invece costituito, fin dai suoi primi film, dalla media borghesia intellettuale della capitale: un gruppo sociale piuttosto ristretto, autoreferenziale, a suo modo estremamente provinciale, ma ciò nondimeno straordinario punto di osservazione, proprio perché all’interno di questo gruppo possono essere osservate – come in una sorta di incubatrice – tutte quelle deformità che negli anni seguenti si ritroveranno, amplificate fino all’oscenità, nell’intera società italiana. Alcune memorabili sequenze di Io sono un autarchico o di Ecce bombo rimangono da questo di vista quasi inarrivabili, e diventano una sorta di documentario anche perché vi si possono talvolta persino scorgere i reali protagonisti di quello zoo intellettuale. Alcuni momenti di Palombella rossa, Caro Diario e Aprile non perdono nel tempo le loro efficacia, nell’esibire i tormenti – ormai non più giovanili – di quel medesimo teatrino, ma sono probabilmente alcune delle scene di Bianca a mostrare la sensibilità con cui il regista romano riesce ad afferrare lo Zeitgeist, forse prima ancora che si sia compiutamente dispiegato.
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Una teoria che ha funzionato, cioè predittiva
Pensieri del dugentenario
di Stefano Borselli
Parla Marx
Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate — virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. — tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore. (Miseria della filosofia, Cap. I §1, 1847, M. ha 29 anni.)
A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come un’immane raccolta di merci [...]. (Per la Critica dell’Economia Politica, Incipit, 1859, 41 anni.)
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una «immane raccolta di merci» [...]. (Il Capitale, Incipit, 1867, 49 anni.)
Una teoria che ha funzionato, cioè predittiva
• Una definizione e una previsione
Possiamo leggere questi tre brani, nei quali il Marx giovane e quello maturo si tengono perfettamente, come una definizione della società capitalistica: è quella dove la merce dilaga e come una previsione: tutto diventerà merce. Va realisticamente preso atto che la previsione si è avverata e continua a farlo ed è propria di Marx.
• La merce
Cos’è una merce? Nella sua forma compiuta ed esplicita è qualcosa che si può portare liberamente al mercato e liberamente comprare: cose, servizi, animali, uomini ecc. (ilportare al mercato a volte non è fisico, es. gli immobili).
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Sapelli: "La visione economica dell'Europa è a matrice tedesca"
di Quarantotto
1. Inutile ripetere le osservazioni e le analisi di ordine costituzionale che, nel post precedente, e nei relativi commenti, hanno già puntualizzato come ci si trovi di fronte ad una situazione istituzionale "inedita", cioè, nonostante il richiamo a pallidi precedenti storici einaudiani, mai verificatasi prima nella storia della Repubblica.
Il messaggio ampiamente concertato dai media - che registri o meno con esattezza le indicazioni comunque più volte esplicitate dal Quirinale- sarebbe quello che il primato del vincolo esterno, cioè dell'adeguamento ordinamentale italiano all'indirizzo politico derivante dai trattati Ue e dell'adesione alla moneta unica, sarebbe tale da prevalere incondizionatamente sulle indicazioni date dai risultati elettorali; ciò da un lato, renderebbe legittima un'intensa ingerenza del Capo dello Stato sulla scelta dello stesso premier (limitando ulteriormente le già di per se stesse difficili possibilità di accordo tra i partiti interessati) e, addirittura, dei singoli ministri, dall'altro, farebbe emergere un ruolo presidenziale di filtro "a tutto campo" sulla legittimità costituzionale dei futuri provvedimenti legislativi di un governo, evocandosi, come parametro principale, se non sostanzialmente unico, quello del nuovo art.81 Cost.
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Jean-Claude Michéa, “Il nostro comune nemico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Jean-Claude Michéa è del 2017 e come corrisponde alle consuetudini dell’autore si compone di un breve testo in forma di intervista e di alcuni “scoli” che ritornano sui temi affrontati, approfondendoli in percorsi paralleli. Lo scopo del testo è sviluppare una serrata critica della confusione tra la logica del liberalismo, individualizzante e figlia di un universalismo astratto e razionalismo totalitario, e quella del socialismo, resistente alla riduzione dell’uomo a macchina di valorizzazione e desiderio subalterno e della comunità umana alla mera somma delle sue parti. Lo scopo è, in altre parole, aiutarci a “recuperare il tesoro della critica socialista originaria”. Ciò lavorando sia sulla tradizione che ci viene da Marx come da quella che scaturisce dalle altre fonti del pensiero socialista, come Proudhon, per il quale spende alcune belle pagine.
Ancorandosi alla lettura di Lohoff e Trenkle, e la loro “critica del valore”, Michéa sostiene che il problema di questa divergenza è molto profondo, che, cioè, c’è una coerenza radicale tra la società dei consumi, il modello umano che crea, e la spinta interna necessaria di ogni economia che sia liberale di orientarsi alla mera valorizzazione illimitata del capitale. L’estensione all’infinito del processo di valorizzazione del capitale determina necessariamente quello che Michéa chiama “il regno dell’assolutismo individuale” e quindi la perdita continua e progressiva di tutti valori tradizionali. Questi per l’autore sono organizzati da una logica di reciprocità che Mauss ha indentificato con il triplice legame del “dono”; una ‘istituzione totale’ che sta alla radice del legame sociale: un legame in cui l’attesa obbligante di restituire non soggiace ad una metrica astratta, quella del ‘valore’, ma fonda proprio nel legame che crea.
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Avengers: Infinity War
di Vito Plantamura (aka Tom Bombadillo)
Nelle more di nuovi articoli, e in altre faccende scrittorie affaccendato, ricevo e pubblico volentieri il contributo di un amico, lettore e commentatore del blog, Tom Bombadillo. Si tratta della recensione di un film di grande successo proiettato in questi giorni anche in Italia. Nel rilevare un cambio di paradigma nella cinematografia di intrattenimento americana - e quindi globale - l'autore registra l'emersione anche subliminale di temi bioetici e biopolitici che sembrano destinati a occupare sempre più spazio nel mainstream, oltreché nei commenti della cronaca. Nella trama del nuovo cult della Marvel-Disney l'idea di una "igiene del mondo" che lo renda più sostenibile ed equo, di un'umanità di troppo di cui ci siamo già occupati in altro modo sul blog, si insinua nella riflessione degli spettatori giovandosi di una dialettica morale inedita dove il male si contamina con il bene, diventa bene superiore e si veste da ragion di Stato, qui anzi dell'Universo.
Non abbiamo mai scritto in queste pagine di sovrappopolazione, pur sapendolo un tema molto caro ai sovrani del nostro tempo: letteralmente e non. Né saremmo in grado di farlo con competenza, salvo osservare in punto di metodo una curiosa convergenza: tra i messaggi apocalittici di una denatalità che renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni - da cui la prescrizione di imbarcare carne umana dal Terzo Mondo, quella che "ci pagherà le pensioni" - e i messaggi apocalittici di un'esplosione demografica che... renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni. E condividere con i lettori la sensazione, netta, che in un regime di riduzione e selezione eugenetica delle vite umane non saremo noi a dettare i tempi, i modi e i numeri dell'austerità biologica, come già oggi di quella fiscale.
Né chi ce li impone, come già oggi, a subirli [il pedante].
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Squilibri macroeconomici in eurozona: cosa non ha funzionato?
di Nicola Acocella
1. Introduzione
Nell’Unione monetaria europea (UME) le istituzioni e le politiche intraprese hanno tollerato o alimentato asimmetrie in parte preesistenti, che hanno generato a loro volta squilibri macroeconomici. Indichiamo prima le istituzioni e le politiche europee e poi le asimmetrie. Segue qualche riflessione sulle possibili vie di uscita.
2. I difetti delle istituzioni dell’Unione Monetaria Europea.
L’UME, entrata in vigore il 1° gennaio 1999, è caratterizzata da una politica monetaria unica, con la quale la Banca Centrale Europea (BCE) stabilisce un unico tasso di interesse nominale valido in tutti i paesi membri. La BCE è un’istituzione indipendente dal potere politico e conservatrice, avente per obiettivo un tasso di inflazione inferiore – ma vicino – al 2%. Soltanto in via subordinata, quando questo obiettivo predominante sia soddisfatto, la Banca può perseguire altri obiettivi come l’occupazione e la stabilità finanziaria, che invece costituiscono obiettivi di pari dignità dell’inflazione per altre banche centrali, come la Federal Reserve statunitense. La BCE agisce da prestatore di ultima istanza per il sistema creditizio che abbia bisogno di rifinanziarsi, ma non può prestare – almeno direttamente – agli stati membri. Gli interventi che finora sono serviti ad attuare la politica monetaria sono in larga misura basati sull’acquisto (o vendita) di titoli pubblici già in essere. In questo senso, si può dire che la BCE può aver indirettamente facilitato il finanziamento pubblico.
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I moti del '98 fra rivolta del proletariato e colpo di stato della borghesia
di Eros Barone
“A questo mondo si rassegna solo chi non ha bisogno di fare altrimenti. La rassegnazione è la filosofia di chi non è obbligato a lavorare sempre col dubbio di perdere il lavoro, a lottare sempre col dubbio di rimanere sconfitto nella lotta, a dormire sempre col dubbio di svegliarsi e di trovarsi affamati. La rassegnazione è la filosofia dei soddisfatti. La ricchezza fra gli altri vantaggi che procura, procura anche quello della rassegnazione. Io credo che se Lei da bambino avesse sofferta la fame e l’avesse sofferta in compagnia dei Suoi fratelli e della Sua mamma, se Lei dovesse vivere sempre nell’incertezza del domani, se Lei dovesse vedere davanti a sé sempre la minaccia di vedere i Suoi figli soffrire la fame, come Lei la soffrì quando era bambino, io credo che la filosofia della rassegnazione non sarebbe fatta per Lei….”.
Lettera di Gaetano Salvemini all’amico Carlo Placci del 15 giugno 1898.
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Le premesse
“Oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Il ’98 rappresenta, non solo a Milano ma in tutta Italia, il culmine di una crisi sociale e politica che per profondità, durata ed estensione ha indotto gli storici a qualificare tale periodo, riferendosi ai conflitti di classe e alle repressioni statuali degli anni ’90, attuate con il continuo ricorso allo “stato di assedio” e quindi all’intervento militare, come ‘decennio di sangue’. Quei conflitti avevano trovato la loro espressione, durante il biennio 1893-1894, nel movimento popolare dei Fasci siciliani, che alla protesta contro il fiscalismo e il dominio del latifondo univa la rivendicazione di terre da coltivare, e nel tentativo insurrezionale anarchico in Lunigiana.
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Uno Stato che non era un moloch
di Roberto Salerno
Qualche giorno fa, Franco Calamida – che proprio nei giorni del sequestro Moro fu tra i fondatori di Democrazia Proletaria – ha ricordato come il terrorismo sia stato “il nostro peggior nemico”. Dopo il massacro dei cinque uomini della scorta, “l’omicidio del leader democristiano, l’atto irreversibile della sua morte trasformava l’oppressore – l’uomo del potere – in vittima e, al contrario, chi si affermava come vendicatore… diventava a sua volta oppressore”, scrisse all’epoca Ninetta Zandegiacomi (su Unità Proletaria, giugno-luglio 1978). A partire dai ragionamenti “alti” di Leonardo Sciascia e Alberto Arbasino, fino all’ultimo improvvisato “dietrologo” fuori tempo massimo, del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro non si è mai smesso di parlare, lungo questi 40 anni che ci separano dal tragico epilogo di via Caetani. In questo intervento Roberto Salerno fa giustizia dei tanti mediocri complottismi, proponendo invece una riflessione sul ruolo transitorio e il fragile potere di chi temporaneamente ha “in mano le redini” delle strutture statali [PalermoGrad].
* * * *
La mattina del 9 maggio del 1978 a due passi da Via delle Botteghe Oscure e a qualcuno di più da Piazza del Gesù venne ritrovato il corpo di Aldo Moro. Il presidente (dimissionario) della Democrazia Cristiana era stato rapito 55 giorni prima, il 16 marzo, da un gruppo formato da almeno dieci persone.
Per quanto queste due affermazioni possano sembrare – e siano – asettiche, persino su queste alcuni hanno avanzato dei dubbi e ci sono poche certezze. Per esempio sull’orario del ritrovamento ci sono varie incongruenze.
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Ma esiste veramente un futuro a sinistra?
di Riccardo Achilli
Sono reduce dall’Assemblea annuale del Network per il Socialismo Europeo, il cui titolo, significativo, consisteva in un domanda: “C’è futuro per la sinistra in Italia?” Devo dire che, alle volte, le risposte più significative ai grandi quesiti derivano da impressioni e sensazioni, più che da complessi ragionamenti. E’ nel corpo vivo della militanza della politica che si colgono i segnali di consapevolezza della situazione e della capacità di riscossa, dopo le sconfitte storiche. Da questo punto di vista, la sensazione è quella di un mondo piuttosto cristallizzato su schemi tradizionali e speranze fideistiche. Nel suo intervento, Giovanni Paglia rimanda ad un imprecisato lungo periodo la speranza incrollabile di una rinascita della sinistra, poiché le contraddizioni del neo-capitalismo produrrebbero inevitabilmente, prima o poi, una nuova forza di sinistra. Si tratta evidentemente di un cascame di cultura politica otto-novecentesca, che positivisticamente attribuisce alla dinamica storica un avanzamento in senso progressivo, scaturente dalle contraddizioni intrinseche della struttura.
Quello che è evidente, invece, è che a protrarsi nel tempo, ed a rafforzarsi nelle fasi di ristrutturazione in senso regressivo del sistema, sono le istanze sottostanti le ragioni storiche della sinistra: la giustizia sociale, l’eguaglianza formale e sostanziale, la liberazione dallo sfruttamento e dall’alienazione dal modo di produzione. Ma non è affatto detto che tali istanza saranno, in futuro, rappresentate da una sinistra politica autonoma. Non è una disquisizione teorica.
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Che cos’è il lavoro oggi
di Nicole Siri
Works di Vitaliano Trevisan e Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi, rispettivamente 2016 e 2017) sono due mémoires che, apparentemente, condividono intento e impianto architettonico: raccontare una formazione di scrittore attraverso il resoconto cronologico dei lavori svolti. Addentrandosi in queste due costruzioni, però, ci si accorge subito che l’atmosfera che si respira è profondamente diversa: le due opere a confronto testimoniano, anzitutto, della faglia storica che le separa.
Vitaliano Trevisan è nato nel 1960, Giorgio Falco nel 1967. I due autori condividono, grossomodo, la classe sociale di provenienza, le prime esperienze lavorative (un lavoro estivo in fabbrica durante gli studi superiori), l’altezza cronologica dell’ingresso a tempo pieno nel mondo del lavoro — poco dopo l’esame di maturità, dopo una breve parentesi universitaria che si conclude per entrambi con l’abbandono degli studi.
Gli anni che li separano, però, sono anni cruciali. Trevisan inizia a lavorare a tempo pieno nel dicembre del 1979, Giorgio Falco (cercando di ricostruire la cronologia: i riferimenti temporali espliciti sono meno frequenti nel suo romanzo) all’incirca nel 1988: sono gli anni in cui il lavoro inizia a smaterializzarsi, si compie il passaggio dal capitalismo novecentesco al capitalismo flessibile di impronta sempre più marcatamente neoliberista, inizia a prendere forma il precariato cognitivo.
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Nella situazione, più che mai
di Anselm Jappe
Guy Debord ha detto spesso che, più di ogni altra cosa, egli si considerava come uno «stratega». E, in effetti, l'interesse che continua a suscitare, più di cinquant'anni dopo la pubblicazione della sua opera principale, La Società dello Spettacolo, ha molto a che fare con la sua capacità di ottenere con uno sforzo minimo quello che si proponeva. In questo modo, è riuscito a vincere la sua scommessa contro lo «spettacolo» senza apparire sulla scena, ed in modo che lo giudicassero indispensabile tutti gli altri nemici giurati dell'ordine esistente: Debord non si è mai esibito in pubblico, non ha mai concesso alcuna intervista, non ha mai scritto sulla stampa, ha comunicato unicamente attraverso i mezzi che egli stesso aveva scelto (la rivista Internazionale Situazionista, i suoi libri, i suoi film, promossi da produttori ed editori amici). In breve, era inaccessibile.
Tutto questo ha contribuito al mito che era riuscito a creare intorno a sé stesso. Fino al suo suicidio nel 1994, ha saputo difendere la sua «cattiva reputazione» (il titolo del suo ultimo libro, del 1993) di sovversivo infrequentabile. È stato un caso pressoché unico. Tuttavia, subito dopo la sua morte, ha avuto inizio una diffusione del suo pensiero che ha sfiorato perfino la "panteificazione", e che ha fatto di lui un «grande autore francese», in generale a spese del contenuto sovversivo della sua vita e della sua opera.
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Da Schaüble a Schulz a Scholz: cosa si sta preparando in Europa?
di Sergio Cesaratto
Traccia dell'intervento all'incontro C'è un futuro per la sinistra?, VI assemblea nazionale del Network per il Socialismo Europeo, Fiuggi, 5-6 marzo 2, (non tutto letto, e con qualche postilla che susciterà qualche reazione isterica)
La risposta al quesito che mi ponete è incoraggiante: per ora non si sta preparando nulla. Visto ciò che si discuteva, questa è una buona cosa. Ma non è che l’attuale assetto istituzionale-economico europeo non sia già abbastanza penoso, per cui non v’è molto da festeggiare.
Non è neppure facile districare i termini delle posizioni e delle questioni.
Intanto quando si parla di riforme dell’eurozona si parla di poca cosa (ma con potenziali devastanti).
L’eurozona nasce male, non si fa una moneta senza uno Stato, e lo Stato federato europeo non è realistico, spero che ormai ne siamo tutti convinti (ma purtroppo non fuori di qui). L’eurozona non è un’area valutaria ottimale, anche questo è common knowledge. Per farla funzionare bene in maniera che assicuri la piena occupazione, a fronte agli squilibri che produce occorrerebbero politiche fortemente espansive nel paese dominante e, probabilmente, anche trasferimenti fiscali perequativi da quest’ultimo. Pensare che questo accada significa essere folli. Il resto, solidarietà europea ecc. sono chiacchiere.
Quindi, punto uno, quando si parla di riforme, si parla di cose marginali che non affrontano i suoi nodi, per così dire, strutturali. Parlando di Europa vale veramente l’abusata battuta di Flaiano che la situazione è tragica, ma non è seria.
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