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A che punto è la colonizzazione dell’Europa. Un aggiornamento
di Andrea Balloni
Mancanza assoluta di una prospettiva futura, totale assenza di una visione collettiva, accettazione acritica di un contesto di perenne disomogeneità sociale e di eterno precariato.
Questa è la condizione psicologica zombie dei popoli europei, dopo cinquant’anni di applicazione del programma didattico neocoloniale e neoliberista angloamericano, dove ogni ascensore sociale è fuori uso e i cittadini sono ormai incapaci di immaginare un piano sociale migliore di quello che gli è stato assegnato nel condominio; incapaci dell’ottimismo volitivo necessario alla propria emancipazione.¹
Correva l’anno 1987, quando Margaret Thatcher pronunciò le seguenti parole: “La società non esiste, esistono solo gli individui”, riassumendo con rara capacità di sintesi e con altrettanto rara potenza profetica la direzione che l’Occidente aveva preso e il cammino che i ceti dominanti volevano imporre anche al resto del mondo. Un punto di vista che prevedeva di pensare a se stessi prima che alla comunità, che dissolveva e negava la percezione della società come unione, oltre che di individui, di cultura, sentimenti, rispetto e solidarietà; un punto di vista, infine, che mortificava inevitabilmente e definitivamente l’immagine positiva, costruttiva e progressiva che per necessità informa il pensiero socialista: l’immagine dell’uomo, in altre parole, come animale sociale, come essere che si realizza nelle relazioni interpersonali e nella costruzione della propria società.²
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Antisemita a chi? Putiniano perchè?
di Fulvio Grimaldi
Herzog: Mattarella, un vero amico.
“ Spunti di riflessione” Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
Antisemita a chi? Con Fulvio Grimaldi @MondocaneVideo
https://www.youtube.com/watch?v=Q_N881lWI-k
Intanto di semiti tra gli ebrei ce ne sono pochini, come ci spiega lo storico ebreo Shlomo Sand nel suo fondamentale “L’invenzione del popolo ebraico”, dove ci si racconta come quanto di ebraico è giunto in Palestina, goccia a goccia, dagli inizi del secolo scorso e poi, con più impeto, dopo la seconda guerra mondiale, di semita ne ha poco. Vengono dal Caucaso, dove all’ebraismo si sono convertiti in massa per fare un dispetto allo zar, ortodosso e oppressore, e si sono diffusi per tutto l’Occidente. Dal quale, vista l’occasione, dopo che all’Occidente era scappato un mondo di colonie, hanno avuto la delega di ricominciare la conquista a partire dalla Palestina. Poi, hai visto mai, Eretz Israel, Grande Israele e il Medioriente, quanto meno, torna nostro. E a chi cià da dì quarcosa, “antisemita!”
Che è poi tutto un equivoco. Per chi ci crede, Noè aveva tre figli: Sem, Cam e Jafet. Ne ha fatto i capistipiti di tutti i popoli della Terra: Sem, di quelli di Nord Africa e Medioriente, dove allora c’erano i mesopotami, gli Abbasidi, gli Omayyadi, i mammalucchi, tutti arabi e poi musulmani; Cam, di quelli a Sud, in Africa e Jafed di tutti gli altri, interpretati come indoeuropei (perché i cinesi a Noè non si erano ancora palesati).
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Milano: al nocciolo della questione
di Sergio Fontegher Bologna
Sono nato a Trieste ma vivo a Milano da una vita (da 65 anni, per la precisione). Mi riesce difficile far finta di nulla davanti alle inchieste della magistratura, che stanno scuotendo la città. E soprattutto tacere di fronte all’urlìo assordante di coloro che esaltano “il modello Milano” e tacciano i magistrati come sabotatori di un futuro radioso e denigratori di un passato strabiliante. Con “Il Foglio” di Giuliano Ferrara a guidare il baccanale dell’osceno.
Non mi sono mai occupato di urbanistica ma mi chiedo se non sia sufficiente la condizione di “abitante” per avere il diritto a parlarne.
Negli anni Settanta era il gruppo di Alberto Magnaghi alla Facoltà di Architettura del Politecnico a darmi i parametri interpretativi della questione dell’abitare e della trasformazione urbana. Come autore/ricercatore, e con mia figlia Sabina alla macchina da presa, nel 2006/2007 abbiamo realizzato un documentario intitolato “Oltre il ponte” sulla trasformazione del quartiere dove abito, Porta Genova, passato da zona di altissima concentrazione operaia (circa 14 fabbriche medio-grandi) a zona della moda e del design. E tutto sommato avevamo dato un giudizio positivo. Oggi quegli stessi luoghi che abbiamo filmato sono completamente cambiati. In peggio. Al posto di fondazioni d’arte o laboratori artigiani i soliti squallidi show room del prêt-à-porter, con interminabili file di attaccapanni pieni di stracci. Ci sono rimasti gli Armani, però, coi loro “silos”, le aiuole ben curate, quelli che fanno cucire le borse a sub-sub-appalti di poveri cinesi pagati 3-4 euro l’ora.
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Cyberdisastro per la Difesa francese (ed europea)
di Giuseppe Masala
Come abbiamo visto in questi anni, il sistema della Difesa francese, inteso sia come apparato militar-industriale che come Forze Armate in senso stretto sta attraversando un momento di gravissima crisi, a nostro avviso paragonabile all'aggiramento tedesco della Linea Maginot, iniziato il 10 Maggio del 1940, che costò alla Francia la sconfitta e l'occupazione nazista.
In questi anni abbiamo infatti visto come la Francia abbia sostanzialmente perso la presa sulla cosiddetta Françafrique che si è sostanziata sia con il ritiro militare da paesi quali il Niger, il Burkina Faso, il Mali e il Senegal, sia con la sostanziale fine del Franco CFA. Da notare peraltro che questo ritiro non si è verificato per autonoma scelta politica di Parigi ma per l'effetto di eventi avversi sullo scacchiere geopolitico, basta notare che la Francia in questi paesi è stata sostanzialmente sostituita, sia dal punto di vista commerciale che militare, da aziende e reparti militari provenienti dalla Federazione Russa.
Ma a questo enorme smacco diplomatico, militare, commerciale e monetario subito in Africa vanno anche aggiunte cocenti sconfitte in senso industrial-militare che hanno posto in dubbio la qualità dei prodoti dell'industria militare francese. Ci riferiamo innanzitutto al fiasco subito dal sistema antiaereo franco-italiano SAMP-T che nelle intenzioni doveva essere la risposta europea al sistema Patriot americano ma che, nella battaglia aerea in Ucraina contro le forze russe, non è stato all'altezza delle attese subendo molte avarie (anche di natura informatica) e non riuscendo a far fronte neanche parzialmente ai furibondi attacchi delle forze missilistiche russe.
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Le crepe nella NATO: un’analisi
di Biljana Vankovska*
La mia analisi sulle prime crepe nella NATO è stata pubblicata con un leggero ritardo, sufficiente per diventare obsoleta. Avevo segnalato i due referendum proposti in Slovenia – uno sulla spesa militare e l’altro sull’adesione all’Alleanza – quando la situazione è improvvisamente cambiata.
Con sorpresa di chi non conosce bene la politica di questo piccolo paese, il parlamento sloveno ha annullato la decisione sul primo referendum, proposto dal partner di coalizione Levica, per motivi procedurali: la domanda referendaria non era stata formulata correttamente!
Questo ha dato al Primo Ministro Robert Golob il pretesto perfetto per ritirare la sua stessa proposta frettolosa ed emotiva di un secondo referendum (che chiedeva ai cittadini se fossero favorevoli a rimanere o uscire dalla NATO).
Sembra che le speranze di un vero dibattito in qualsiasi paese sulla richiesta insensata, o meglio suicida, della NATO di destinare il 5% del PIL a scopi militari si siano dissolte. Come dice il vecchio adagio latino: Parturient montes, nascetur ridiculus mus (Le montagne partoriscono e nasce un ridicolo topolino).
I colleghi sloveni che ho consultato sostengono che la saga del referendum non è finita, poiché i proponenti potrebbero ancora “correggere” la domanda e chiederne uno nuovo. Tuttavia, alcuni osservatori realistici fanno notare che si tratterebbe di un referendum consultivo, cioè non vincolante, il che significa che, anche se generasse un dibattito pubblico, rimarrebbe solo una tempesta in un bicchiere d’acqua – senza alcun effetto legale o politico concreto.
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Riceveranno gli europei una visita del “signor Oreshnik"?
di Alessandra Ciattini
Le guerre odierne non sono conflitti isolati, ma manifestazioni di uno scontro globale per la futura spartizione del potere mondiale. Mentre Trump prepara un nuovo fronte in Estremo Oriente, gli analisti mettono in guardia l’Occidente e suoi alleati
Le guerre, cui assistiamo, non sono più il frutto di una guerra a pezzi, ma le manifestazioni di un conflitto globale, il cui risultato sarà una diversa spartizione del mondo. Il pacificatore Trump ha cambiato idea e sembra voler continuare ad appoggiare l’Ucraina, per poi aprire un fronte nell’Estremo Oriente. Due noti analisti statunitensi si chiedono se gli Usa e gli europei sono in grado di continuare su questa strada e se non hanno sottovalutato le capacità militari e politiche dei loro avversari. Se l’Occidente collettivo non riconoscerà la sua sconfitta, se non negozierà veramente con la Russia, se la Germania metterà in pratica i suoi piani deliranti, è probabile che prima o poi riceveremo una visita non gradita dell’unico missile di medio raggio supersonico non intercettabile: Oreshnik.
Purtroppo, sembra sia chiaro ormai che non siamo di fronte a una guerra a pezzi, come sosteneva il papa recentemente scomparso, ma a una guerra globale, giacché i diversi conflitti oggi attivi nel mondo (e ogni giorno ce n’è uno nuovo) sono tra loro in stretta connessione e riguardano la lotta del blocco dominante per mantenere il suo dominio, mentre altri blocchi si stanno costituendo e indipendizzando, portando avanti i loro progetti.
Dinanzi a questo scenario di minacce, di ricatti, di ultimatum lanciati soprattutto dagli Usa e da alcuni Paesi dell’Europa (come, per esempio, il trasferimento di alcune B61-12 nel Regno Unito da parte degli Usa), mi sembra opportuno ragionare per cercare di capire quanto ci sia di realistico dietro tutto ciò. E lo farò riportando i testi sintetici di due interviste assai interessanti, la prima a Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence dei marines statunitensi ed ex ispettore delle Nazioni Unite per le armi, la seconda a Larry Johnson, ex analista di intelligence della Cia. Insomma, due veri amerikani.
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Marx e la società comunitaria
di John Bellamy Foster
In questo studio, John Bellamy Foster entra nel vivo degli scritti di Marx sulle società comunitarie, un aspetto spesso trascurato dell'opera marxiana, nonostante la sua importanza per il progetto socialista. Collegando gli studi di Marx all'antropologia, alla storia e all'etnologia, J.B. Foster fa luce sulla centralità del comunitarismo nella critica generale di Marx alle società di classe
«In definitiva, il comunismo è l'unica cosa importante del pensiero di [Karl] Marx», osservava nel 1983 il teorico politico ungherese R. N. Berki.[1] Anche se si trattava di un'esagerazione, è innegabile che l'ampia concezione di Marx della società comunitaria/comunismo costituisse la base della sua intera critica della società divisa in classi e della sua visione di un futuro sostenibile per l'umanità. Tuttavia, ci sono stati pochi tentativi di affrontare sistematicamente lo sviluppo di questo aspetto del pensiero di Marx, così come è emerso nel corso della sua vita, a causa della complessità del suo approccio alla questione della produzione comunitaria nella storia, e delle sfide filosofiche, antropologiche e politico-economiche che questo ha presentato fino ai nostri giorni. Tuttavia, l'approccio di Marx alla società comunitaria è di reale importanza non solo per comprendere complessivamente il suo pensiero, ma anche per aiutare l'umanità a superare la gabbia d'acciaio della società capitalista. Oltre a presentare un'antropologia filosofica del comunismo, Marx ha approfondito la storia e l'etnologia delle attuali formazioni sociali comunitarie. Ciò ha portato a indagini concrete sulla produzione e sullo scambio comunitari. Tutto ciò ha contribuito alla sua concezione del comunismo del futuro come società di produttori associati.[2]
Nel nostro tempo, la produzione e lo scambio comunitari e gli elementi di uno Stato comunitario sono stati sviluppati, con diversi gradi di successo, in un certo numero di società socialiste successive alle rivoluzioni, in particolare in Unione Sovietica, Cina, Cuba, Venezuela e altrove nel mondo. La comprensione di Marx della storia, della filosofia, dell'antropologia e dell'economia politica della società comunitaria/collettiva è quindi un'importante fonte di intuizione e di visione, non solo per quanto riguarda il passato, ma anche per il presente e il futuro.
L'ontologia sociale della produzione comunitaria
Marx fu, fin dalla prima età, un prodotto dell'Illuminismo radicale, influenzato in questo senso sia dal padre, Heinrich Marx, sia dal suo mentore e futuro suocero, Ludwig von Westphalen.
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Pubblicità dell'indicibile*
di Nicola Licciardello
Per mesi non sono intervenuto su “Sinistra in Rete”, pur continuandola a leggere, per le troppe cose in sospeso: la morte di papa Francesco e l’elezione del nuovo, Trump in Usa e Ursula II in Europa. Il loro avvento costituisce un salto d’epoca: Carlos Xavier Blanco non smentisce l’estremo trans-umanesimo di Franco Berardi Bifo, il quale pensa i comandi dell’intera società delegati alla AI bellica, la quale mira all’annientamento umano - logica soluzione al caos politico.
Scrive Xavier Blanco: “Il popolo viene privato di tutto ciò che aveva guadagnato in due secoli di barricate, rivoluzioni, sofferenze e abnegazione. Privato di un’assistenza sanitaria e di un’educazione di qualità. Privato della capacità di sposarsi e procreare. Privato della capacità di possedere una casa. Delocalizzazione e terziarizzazione dell’economia europea cancellano il proletariato. Emerge un sottoproletariato di migranti, indifesi e disuniti (...) in via d’annientamento la classe media: con il capitalismo della sorveglianza, non essendo più necessaria all’elite, scende alla base della piramide. Nel 99% della popolazione, cioè fra i poveri, le differenze saranno marcate a livello animale: poter mangiare o no, essere una cosa o meno, esser sacrificabile. Il modello Auschwitz-Hiroshima si sta rinnovando a Gaza”1.
Il punto zero però non arriva, si trascina: perché ciò che è iniziato non si compie ora, subito? La sociologia, e la fisica classica direbbero per la resilienza di controspinte, resistenze, forze e interessi di segno opposto. Diciamo anche per la non calcolabile resistenza umana.
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Perché non ha (mai) senso parlare di un'Italia "con o senza l'Europa"
di Andrea Zhok
Due considerazioni di passaggio sul tema dei rapporti tra Italia e UE.
1) Spesso si tende a opporre due immagini astratte, da un lato l'Europa vista come coincidente con l'UE, dall'altra l'immagine dell'Italia, fragile fuscello affidato ai marosi della politica internazionale e dell'economia dei Big Players.
Una volta che il discorso prende questa piega è facile chiedersi retoricamente: dove potrà mai andare l'Italia da sola, come se giocassimo la partita Italia-Resto del Mondo.
Questo visualizzazione è completamente fuorviante.
Non ha mai senso parlare di un'Italia "con o senza l'Europa".
Forme di trattati di cooperazione europea ci sono sempre stati, da quando l'Italia esiste come stato unitario.
Il problema non è rappresentato dai trattati europei o internazionali in generale, ma dalle specifiche caratteristiche del trattato di Maastricht (e poi di Lisbona), con l'istituzione di un modello di relazioni assai specifico, votato a politiche neoliberali, mercantiliste, rivolte a massimizzare l'export a scapito del mercato interno, inteso a indebolire le capacità autoorganizzative delle istituzioni nazionali nel fornire servizi di interesse pubblico, punitivo nei confronti delle industrie di stato e premiale verso le operazioni di privatizzazione.
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L’appello che non basta
di Elena Basile
Ritengo doveroso spiegare come mai non abbia aggiunto la mia firma all’appello sulle iniziative da intraprendere verso Israele, promosso dall’ex Ambasciatore in Algeria e Direttore Generale degli Affari Politici, diplomatico stimabile e attento, al quale si deve peraltro l’unico tentativo di mediazione tra Ucraina e Russia da parte di un Paese occidentale, sponsorizzato dall’allora Ministro degli Esteri Di Maio e precocemente abortito all’ONU.
Avrei unito la mia firma, turandomi il naso – come diceva qualcuno – se l’appello avesse avuto qualche probabilità di essere efficace, e di spingere il Governo Meloni a rivedere la propria linea di politica estera nei confronti del Governo Netanyahu. L’appello, per quanto condivisibile nei contenuti, non avrà conseguenze concrete. Rimane dunque un’operazione di pura propaganda, nella misura in cui offre l’illusione che il genocidio a Gaza sia responsabilità esclusiva di Netanyahu e del suo Governo, nonché di Trump e delle destre europee che sostengono brutalmente e senza infingimenti la politica imperialistica statunitense in Medio Oriente, fino alle sue estreme conseguenze.
Le cause profonde di quanto sta accadendo in Medio Oriente sono invece rimosse dalla maggioranza dei firmatari dell’appello. Non credo che le classi dirigenti europee che si raccolgono intorno alla Presidente della Commissione Europea abbiano visioni realmente differenti in politica estera, se non per dettagli secondari.
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Dalla sottomissione immaginaria a quella reale
di Leonardo Mazzei
Esattamente dieci anni fa, usciva il romanzo “Soumission” (Sottomissione) di Michel Houllebecq, nel quale lo scrittore immaginava un futuro di sottomissione della Francia all’Islam. Un assoggettamento “soft”, favorito anche dalla complicità e dall’opportunismo di una parte dell’establishment. Il successo internazionale dell’opera fu immediato, andando così ad alimentare il vento islamofobo che appesta l’occidente da decenni.
Dieci anni dopo, il primo ministro francese François Bayrou ha così commentato la capitolazione europea davanti ai dazi e alle arroganti pretese di Trump: «E’ un giorno buio quello in cui un’alleanza di uomini liberi, riuniti per affermare i propri valori e difendere i propri interessi, si rassegna alla sottomissione».
Sottomissione, basta la parola! Al netto della retorica europeista, alla quale pure lui evidentemente non crede più, l’ammissione di Bayrou è davvero interessante. Sottomessi sì, ma stavolta sul serio. E non all’islam come nelle fantasie di un romanziere allucinato, bensì alla concreta prepotenza degli Stati Uniti d’America, come ben si è visto nell’inginocchiamento davanti all’imperatore della signora Ursula Pfizer von der Leyen.
La cosa curiosa – il diavoletto della storia è sempre all’opera! – è che nel racconto di Houllebecq (che mescola personaggi reali ad altri immaginari) sarebbe stato proprio un governo presieduto da François Bayrou, propiziato dalla vittoria alle elezioni presidenziali del 2022 di un fantasioso Mohammed Ben Abbes, a introdurre una sorta di “Sharia moderata”.
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L'accordo commerciale dell'UE è una capitolazione all'America
di Thomas Fazi
Le condizioni punitive (per l’Europa) dell’accordo commerciale UE-USA sono l’esempio lampante del fatto che l’Unione Europea ha imposto una subordinazione strutturale agli Stati Uniti mai vista nel dopoguerra
Domenica, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno finalizzato un accordo commerciale che impone una tariffa del 15% sulla maggior parte delle esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti, un accordo che il presidente americano Donald Trump ha trionfalmente definito “il più grande di tutti”. Sebbene l’accordo abbia scongiurato una tariffa ancora più severa del 30% minacciata da Washington, molti in Europa lo considerano una sonora sconfitta, o addirittura una resa incondizionata, per l’UE.
È facile capirne il motivo. Il dazio del 15% sulle merci UE che entrano negli Stati Uniti è significativamente più alto del 10% che Bruxelles sperava di negoziare. Nel frattempo, come si è vantato lo stesso Trump, l’UE ha “aperto i propri paesi a dazi zero” alle esportazioni americane. Fondamentalmente, l’acciaio e l’alluminio UE continueranno a essere soggetti a un dazio schiacciante del 50% quando venduti sul mercato statunitense.
Questa asimmetria pone i produttori europei in una posizione di grave svantaggio, aumentando i costi per settori strategici come l’automotive, il farmaceutico e il manifatturiero avanzato, settori che sostengono le relazioni commerciali transatlantiche dell’UE, pari a 1.970 miliardi di dollari.
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La proiezione del trauma e la colpa rovesciata
L'autorità morale di Liliana Segre contro la verità di Gaza
di Lavinia Marchetti
So bene che non si avvertiva la necessità di un mio punto di vista sull'intervista a Liliana Segre, ne avrete letto ovunque e tutto e il contrario di tutto. Non volevo scriverne perché ho già letto interventi perfetti, fondati storicamente, però dopo averla letta stamattina ho avvertito un fastidio, un'irritazione che mi è rimasta addosso tutto il giorno. Le sue parole mi hanno fatto sentire inadeguata. Come se il solo fatto di nominarle mi sporcasse, mi collocasse in un angolo sbagliato della Storia. Quel negazionismo sottile, garbato, mi spingeva in una posizione di vergogna. Mi sono chiesta: perché?
Uno dei meccanismi psicologici più radicati nelle relazioni di potere è quello della proiezione, che agisce in tandem con un senso di colpa instillato, mai dichiarato ma onnipresente. Lo riconosco perché funziona così: qualcuno parla da un luogo di dolore indiscutibile e trasforma quel dolore in fondamento per delegittimare il tuo sguardo. In questo caso, chi siamo noi per dire che ha torto? Lei è stata ad Auschwitz, ha attraversato l'inferno. Il genocidio lo ha conosciuto sulla pelle.
Ma proprio qui sta la torsione manipolativa: quando una vittima storica parla, ogni sua parola viene accolta come sacra. E se quella parola nega il genocidio altrui, ti fa sentire un bestemmiatore. L'autorità morale dell'esperienza viene usata per zittire, non per illuminare. Questo è il primo punto dove il meccanismo agisce: quando dice che la parola genocidio è usata per vendetta, che c'è sotto un risentimento verso la memoria della Shoah. Qui, implicitamente, chi nomina il genocidio a Gaza viene accusato di rivalsa.
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Crisi Boliviana, riscatto colombiano, tenuta venezuelana, catastrofe argentina…
Una latinoamerica a fisarmonica
di Fulvio Grimaldi
Per semplificare e non perdersi tra aggettivi più o meno rispondenti, socialisti, progressisti, rivoluzionari, li chiameremo tutti “paesi anti-yankee”. Sarebbe il minimo, ma preziosissimo, sindacale. Usiamo questa qualifica per chi difende la sovranità e respinge la manomorta nordamericana, nel tempo dell’andirivieni tra liberazione dal colonialismo ed ennesima Operazione Condor (ricordate? Pinochet-Cile, Videla-Argentina, Medici-Brasile, Banzer-Bolivia, Fujimori Perù…).
La rassegna è rapida e all’osso, chè poi dovremmo approfondire la questione più rilevante e più grave della fase. Il cambio d’era in Bolivia, una delle avanguardie, ai primi del millennio, del riscatto latinoamericano con il primo indigeno presidente, Evo Morales. Da presidente rivoluzionario a caudillo. Il 17 agosto in Bolivia ci sono le elezioni presidenziali ed Evo ne è stato escluso per incontestabile violazione della legge costituzionale sul tema.
Buoni, cattivi e così così
Le due opposte forze interessate all’America Latina si possono dire in quasi equilibrio. Ogni tanto, emblematicamente, segna un punto a suo favore la vecchia OSA (Organizzazione degli Stati Americani), fondata nel 1948 con sede a Washington, logora, ma cucita in tempi di avanzata colonialista e tenuta insieme dalla sudditanza delle rispettive classi dirigenti agli USA. Poi batte un colpo la CELAC (Comunità degli Stati Americani e del Caribe), nata in Messico nel 2010, una creatura originata da istanze sovraniste e progressiste, di cui però la disomogeneità dei 33 Stati del Continente, esclusi solo USA e Canada, ha rallentato lo slancio iniziale. Il recente vertice del CELAC a Tegucigalpa, nell’Honduras riscattato, ha dato segni di vitalità.
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L’allucinante documento pro-Israele dell’UCEI
di Alessio Mannino
Questo articolo tratta di un documento semplicemente allucinante, ancorché prevedibile, pubblicato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI). Ma per una volta non è diretto solo al lettore generico, bensì innanzitutto agli appartenenti alla suddetta associazione che non si lascino accecare da una obbligata difesa d’ufficio di Israele. La domanda è: cari concittadini che fate parte dell’UCEI, siete tutti, indistintamente, concordi con quanto potete leggere nel “compendio”, come viene definito nella presentazione, denominato “Parole in conflitto” e consultabile online a questo link, di cui qui di seguito trovate un sunto certo polemico, e tuttavia legittimamente polemico, come legittimamente polemiche sono le prese di posizione dell’associazione presieduta da Noemi Di Segni? Legittime, beninteso, ma riduttive, omissive, fuorvianti e, in definitiva, offensive per l’intelligenza. E per la dignità di un popolo, quello palestinese, martoriato in misura mostruosamente sproporzionata rispetto ai 1500 israeliani morti o rapiti nell’attacco-boomerang di Hamas del 7 ottobre 2023, atto la cui doverosa condanna morale e politica non può in alcun modo giustificare una logica di pura vendetta, che rappresenta lo stadio anteriore alla civiltà del diritto non solo moderna, ma perfino antica, se pensiamo al limite posto alla ritorsione reciproca fin dai tempi della primigenia Europa, fondata su quello spirito greco che fa porre a Sofocle, a sigillo dell’Orestea, l’istituzione della giustizia da parte di Atena nel tribunale dell’Aeropago. Era il V secolo a.C. Siamo tornati indietro di 2500 anni.
Il testo dell’UCEI è uscito ai primi di luglio, e la Di Segni lo introduce come un contributo per contrastare le fake news su Israele, definite come disinformazione che mischia “realtà deformata e omissioni”, alimentando “odio anti-ebraico, anti-israeliano, la demonizzazione di Israele, la negazione della convivenza, l’elusione di quanto avviene nel quadro complesso del Medio Oriente e la legittimazione delle organizzazioni terroristiche”, cioè di Hamas.
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Il laboratorio della guerra
Tracce per un’inchiesta sull’università dentro la «fabbrica della guerra» di Modena
di Kamo
0. Un’ipotesi a premessa
Rita Cucchiara è la nuova rettrice dell’Unimore. Prima donna ad assumere questo ruolo nella storia dell’Università di Modena e Reggio, è stata eletta a giugno 2025 al ballottaggio contro Tommaso Fabbri, con un corpo accademico votante spaccato in due.
Come gruppo di inchiesta universitario, è indicativo per il nostro discorso lo spostamento dei rapporti di forza, di bilanciamento e di potere interni all’istituzione Università dal dipartimento di Economia a quello di Ingegneria. Come vedremo, questo elemento può essere già inteso come indizio della direzione e del ruolo che l’istituzione università sta assumendo, in questa fase accelerata e acuta di crisi, sul nostro territorio inteso nelle sue connotazioni produttive e sociali, nel suo rapporto con lo sviluppo capitalistico a vocazione industriale e dei soggetti da esso messi al lavoro, e in relazione alle trasformazioni del contesto politico e capitalistico non solo locale, ma regionale, nazionale ed europeo, dentro la crisi globale che si fa stato di guerra.
La figura della nuova rettrice sta lì a esprimere questa fase di cruciale trasformazione. Partiamo da qui, cominciando a tracciare qualche punto d’inchiesta sull’università come «laboratorio della guerra», da ampliare, mettere a verifica e agire in senso militante, con punto di vista di parte.
1. La nuova rettrice: Rita Cucchiara
Ordinaria di ingegneria informatica e direttrice di numerosi laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale, Rita Cucchiara viene descritta dai giornali come il volto delle donne nelle STEM italiane, con un curriculum accademico invidiabile.
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La bolla vittimo-sionista
di comidad
Anche il più vessatorio dei contratti deve fondarsi su risorse esistenti o almeno potenzialmente esistenti; quindi ciò che i media hanno spacciato come un accordo tra la von der Leyen e Trump, si rivela assolutamente irrealistico; in effetti è soltanto uno spot pubblicitario che consente allo stesso Trump di tornare a casa da trionfatore e da vindice dei presunti torti subiti dagli USA. Per decenni gli USA hanno vissuto in un mondo ideale, scambiando beni reali con carta che stampavano all’occorrenza; questo paradiso se lo sono distrutto da soli indebitandosi a dismisura per fare guerre. Ora Trump pretenderebbe di vendere agli europei GNL, GPL e armi che non è in grado di produrre, in cambio di soldi che non ci sono e non ci potranno essere nel momento in cui si deindustrializza l’Europa imponendole dazi e disinvestimenti. La narrativa vittimistica consente a Trump di fare spot molto suggestivi ma i dati di fatto non sono suggestionabili; e in questo caso il dato di fatto è un nulla di fatto, perché Trump potrebbe in qualsiasi momento cambiare idea e far saltare tutto, ma soprattutto perché ciò che ha firmato la von der Leyen in Scozia non è vincolante per nessuna delle parti. In altre parole, in Scozia si è messo in scena un evento enfatico ma vuoto, che i vari governanti e oligarchi europei possono eventualmente usare come spot per promuovere altri prodotti tossici.
Anche per il sionismo la grande risorsa autopromozionale è sempre stata il vittimismo, perciò è necessario che la discussione venga continuamente spostata su dicotomie vuote, del tutto mitologiche e sorrette da mera impudenza; insomma, una “capezzonizzazione” del dibattito.
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Ucraina, il gioco degli ultimatum
di Mario Lombardo
L’ennesima giravolta di Trump sulla guerra in Ucraina ha lasciato commentatori e governi di tutto il mondo nuovamente a chiedersi quale possa essere la “strategia” della Casa Bianca per arrivare a una soluzione negoziata di una crisi che dura ormai da più di 40 mesi. Riproponendo la sua abituale vocazione agli ultimatum, il presidente americano ha ridotto lunedì da 50 a “10 o 12 giorni” quello da poco imposto alla Russia per accettare una tregua, pena una raffica di sanzioni “secondarie” che, però, nessuno o quasi, incluso il governo di Mosca, ritiene realmente applicabili.
Non è da escludere che l’uscita più recente di Trump sia stata stimolata dal successo – o presunto tale – incassato il giorno prima sull’Europa in materia di dazi. Trump ha infatti consegnato alla stampa la sua decisione sull’ultimatum alla Russia sempre dalla stessa location dell’incontro avvenuto con Ursula von der Leyen, ovvero il “resort” golfistico scozzese di sua proprietà, e al termine di un faccia a faccia con un altro vassallo di Washington, il primo ministro britannico, Keir Starmer.
Se è improbabile che quest’ultimo, tra i più feroci sostenitori del regime di Zelensky, abbia avuto una qualche influenza sul cambio di atteggiamento verso la Russia di Trump, è più verosimile che l’ostentazione di impazienza nei confronti di Putin sia il risultato delle crescenti pressioni che i “falchi” negli Stati Uniti, inclusi quelli che affollano l’amministrazione repubblicana, stanno facendo sul presidente affinché si allinei totalmente alle politiche ultra-aggressive del suo predecessore.
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Ognun per sé
di Nico Maccentelli
Spiace dirlo, ma davanti a un genocidio in atto, a un intero continente che va verso la guerra e a una crisi economica e sociale dilagante, nel nostro paese non si è capaci di unirsi in una lotta che è di fatto esistenziale. Soprattutto a sinistra abbiamo una pseudo opposizione che in modo surreale pone questioni completamente avulse dal vero terreno di scontro, ma per il semplice fatto che una gran parte di essa, quella istituzionale ma non solo, è politicamente aggregata all’europeismo bellicista, alla deriva autoritaria del neoliberismo sfrenato.
Abbiamo una sinistra “antagonista”, spesso centrosocialiara che si muove per la Palestina ma si fa equidistante sul fronte ucraino, paragonando la Russia a USA e NATO, senza alcuna analisi che fuori esca dal massimalismo parolaio e dottrinario nelle versioni libertaria o vetero-stalino-trotzkista (dal PMLI ai nipotini del quartointenazionalismo, tanto per fare un esempio). Abbiamo micro-forze politiche che si autorereferenziano a tal punto da battersi per misere egemonie in manifestazioni incapaci di aggegare il malcontento sociale e l’indignazione sempre più massiva (ma non rappresentata) verso la macelleria che va dalla Palestina al centro Europa, che producono due manifestazioni sugli stessi contenuti, dove ognuno gioca nel suo cortile e pretende che gli altri vengano nel suo. Un’imbecillità che ormai non è più rettificabile con una sana autocritica. Per non parlare della pletora di prime donne che avevamo già visto dentro il movimento contro il greenpass e che oggi sono all’opera sulla Palestina e su altri temi come la censura, che organizzano iniziative alla cazzo, senza alcuna cognizione politica.
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Tre schiaffi in tre giorni: Cina, Qatar e USA ridicolizzano l’UE di von der Leyen & Co.
di Pino Cabras
Chi semina guerra raccoglie vassallaggio. Tre giorni, tre schiaffi. Un’Unione Europea inginocchiata davanti al mondo, incapace di alzare la testa, buona solo a servire gli interessi americani e a vessare i propri cittadini
Tre giorni, tre schiaffi. Un’Unione Europea inginocchiata davanti al mondo, incapace di alzare la testa, buona solo a servire gli interessi americani e a vessare i propri cittadini.
Cosa resta del “Sogno Europeo”? Nulla. Se non una gigantesca macchina tecnocratica che disfa l’economia, umilia le nazioni e impone una cappa di censura, tasse e ora guerra permanente.
1. Cina: vertice-lampo, umiliazione piena
Von der Leyen, Costa e Kallas volano a Pechino come tre scolarette convinte di dettare legge. Si scomoda Xi Jinping con una maschera sfingea e impenetrabile. Tornano a casa con un pugno di mosche. La Cina li liquida in poche ore: zero accordi, massima irritazione. Pretendevano di impartire lezioni sui diritti umani, con l’economia europea in recessione e le industrie in fuga. Negli ultimi 25 anni, la Cina ha visto crescere la sua quota di PIL mondiale dal 3% a circa il 18%, affermandosi come colosso economico globale. Nello stesso periodo, l’Unione Europea è scesa da oltre il 20% a poco più del 13%, segnando un declino costante, che ora sembra avvitarsi.
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Baizuo, conformisti e rossobruni
di Emanuele Maggio
Di recente ho ripreso alcune letture giovanili. Mi riferisco agli studi ormai classici che preannunciarono la piena americanizzazione della sinistra, e che negli anni 90/2000 furono già in grado di descrivere perfettamente i grotteschi esiti di oggi. Un breve elenco di questi testi si trova alla fine dell’articolo.
Se gli attuali militanti dei vari carnevali transfemministi, immigrazionisti eccetera, scoprissero che la loro egemonia culturale era stata perfettamente prevista venti anni prima, chissà se si farebbero qualche domanda.
Se io venissi a sapere che esistono analisi in grado di prevedere ciò che penserò tra 20 anni, e poi tra 20 anni pensassi esattamente quelle cose, mi sentirei una marionetta senza cervello. Chissà, forse è proprio di marionette senza cervello che stiamo parlando.
Ovviamente quegli analisti non erano stregoni, ma studiavano la congiuntura strutturale della lotta di classe nella sua evoluzione storica, e dunque erano in grado di prevedere con discreta precisione la sovrastruttura ideologica che l’avrebbe in futuro sorretta.
Cioè, appunto: l’attuale corpus di dogmi etico-politici condiviso dalla sinistra liberal e radical, la psicopolizia progressista delle apericene borghesi e delle serate fricchettone.
Il pensiero del conformista è scientificamente prevedibile come un’eclisse, come un qualsiasi accadimento inanimato della natura, perché manchevole di quel grado di misteriosa libertà che definisce l’umano.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Tredicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE III
d. La critica al lavoro sindacale
Riprendiamo la relazione fiume di Tomskj da dove ci siamo lasciati. Già nei primi punti toccati, appare in modo estremamente chiaro come egli attacchi coerentemente, rispetto al proprio punto di vista, ogni approccio di tipo superficiale, approssimativo, stereotipato, alla questione del lavoro sindacale.
Prosegue quindi sulla stessa falsariga, criticando la troppa condiscendenza rispetto agli sprechi e agli scarti, ancora troppo alti e del cui problema il sindacato deve farsi carico, per rendere gli operai sempre più coscienti della loro importanza nel processo produttivo e non solo: infatti, BEN PIÙ A MONTE, occorre renderli anzitutto consapevoli che, in un’azienda socializzata, i mezzi di produzione sono loro e quelli che stanno buttando via son soldi loro. Prosegue quindi specificando quale dovesse essere, compiutamente, il lavoro economico dei sindacati, che ricorda essere “la questione più importante”:
Mi permetto di soffermarmi sulla questione più importante dell’attività sindacale, ovvero il suo lavoro economico, questione su cui qualche sindacalista nutre ancora dei dubbi. Qualcuno ha provato, infatti, di fronte al nostro mettere davanti a tutti gli altri compiti dei sindacati proprio quello di essere l’organismo di difesa degli interessi economici dei lavoratori, anche nelle imprese statali, ed esigere dai sindacati che non si dimenticassero neppure un minuto di questo loro, più importante, compito, a rappresentarci quasi come promotori di una terza linea, tredunionistica… gli stessi che peraltro, allo stesso tempo, dicono ai sindacati: “della vostra partecipazione alla produzione noi ce ne freghiamo”. Il perché rappresentino il lavoro dei profsojuz in questa maniera ci è ignoto, eppure molti parlano così.
Penso che qualsiasi persona che si sia trovata a parlare davanti a operai, in fabbrica o stabilimento, e che conosca la vita di fabbrica e di stabilimento, non potrà negare che, da qualche parte (кое-где), esista la cosiddetta “triplice”, ovvero il blocco direzione-partito-sindacati, laddove i sindacati si muovono all’unisono con la direzione e declamano: “Qui va tutto alla grande, qui c’è il fronte unito”.
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Il trattato Della tirannide di Vittorio Alfieri: un classico da riscoprire
di Eros Barone
Sarebbe dunque mestieri a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.
Vittorio Alfieri, Della tirannide, libro primo, capitolo decimoterzo.
Il 1777 fu un anno particolarmente fecondo nella vita intellettuale dell’Alfieri. Fu l’anno in cui, partito dalla lettura dello storico Tito Livio, giunse a ideare la tragedia Virginia e, partendo dalla lettura di Niccolò Machiavelli, ideò La congiura de’ pazzi. Da quella stagione così fervida nacque anche il trattato Della tirannide, un’opera singolare, un documento umano e politico che, proprio perché non è stato sempre posto nella sua giusta luce, attende ancora, specialmente nella nostra epoca, tanto lontana in apparenza da quella in cui fu scritto quanto in realtà così affine a essa, nuove, attente e perfino appassionate, generazioni di lettori. D’altra parte, non si può dire che l’Alfieri vi abbia esposto, se non frammentariamente e intuitivamente, idee che si possano giudicare nuove nella storia del pensiero politico. Ma nuovo è il pathos profetico che lo pervade e che ha ispirato il poeta in quell’anno, per lui memorabile, allorché sbocciò nel suo cuore una fede quasi religiosa nel valore della libertà.
1. La fenomenologia della tirannide: paura, viltà e libertà
L’Alfieriimposta il problema accomunando nella definizione di “tirannide” qualsiasi regime politico in cui sia possibile, per la persona o per il gruppo che detiene il potere, esercitare «una facoltà illimitata di nuocere». Egli considera perciò “tirannidi” tutte le monarchie del suo tempo, comprese quelle dei sovrani illuminati e riformatori (Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina di Russia ecc.). Così – scrive l’Alfieri nel primo capitolo del libro primo - «il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dée dare se non a coloro (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l’abbiano, una facoltà illimitata di nuocere; e ancorché costoro non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborrevoli abbastanza.
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Palestina. Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio
di Francesca Albanese
Il rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio di Francesca Albanese, relatrice speciale per i territori palestinesi delle Nazioni Unite, presentato il 30 giugno al Consiglio dei diritti umani dell’ONU, è un documento di straordinaria intensità e importanza che, non a caso, ha provocato reazioni durissime e sanzioni nei confronti dell’autrice da parte di Israele e Stati Uniti (a cui ha corrisposto la proposta, proveniente da ampi settori della società, di attribuire a Francesca Albanese il premio Nobel per la pace).
La novità del rapporto sta nella documentata accusa alle principali aziende tecnologiche statunitensi (e non solo) di fornire un supporto decisivo alle operazioni militari di Israele a Gaza e nei territori occupati da epoca risalente e anche dopo le operazioni genocidiarie in atto a Gaza. Il rapporto si fonda, oltre che su documenti aperti e fonti pubbliche, su oltre 200 testimonianze raccolte dalla relatrice che hanno dato vita a un database di circa mille aziende coinvolte. «Ciò – precisa il rapporto – ha aiutato a tracciare una mappa di come imprese di tutto il mondo siano state coinvolte in violazioni dei diritti umani e crimini internazionali nei Territori palestinesi occupati. Oltre 45 entità citate nel rapporto sono state debitamente informate dei fatti che hanno portato la Relatrice speciale a formulare una serie di accuse: 15 hanno risposto. La complessa rete di imprese – e i legami spesso oscuri tra società madri e controllate, franchising, joint venture, licenziatarie ecc. – ne coinvolge molte altre. L’indagine alla base di questo rapporto dimostra fino a che punto le imprese sono disposte a nascondere la loro complicità».
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L’ultima primavera di popolo in Iran
di Pino Arlacchi
Ho imparato molto lavorando con l’Iran durante il mio mandato all’ONU. E la mia testimonianza può forse aiutare a capire cosa succede oggi. Il mio osservatorio era privilegiato non solo per la mia posizione istituzionale, ma anche perché provenivo dal paese occidentale più simile all’ Iran.
Italia e Iran sono accomunate dal fatto di possedere una società civile matura, vibrante, creativa, che riesce ogni tanto ad esprimere un governo che la rispecchia. Ma è anche una società sfortunata, dentro cui alberga un male incurabile che la corrode. Mi riferisco alla classe dirigente di pessima fattura che governa – pur con qualche significativa interruzione – i due Paesi negli ultimi decenni. Una leadership scadente, prodotta da un residuo melmoso sottostante, una “società incivile” minoritaria e retrograda, che viene infiammata da capi spregiudicati e corrotti che stroncano i tentativi di cambiamento.
Ma andiamo con ordine, e iniziamo dal privilegio che ho avuto nell’incrociare il mio mandato con quello di Mohammad Khatami, il Presidente più aperto e progressista della storia dell’Iran. Ha lasciato un segno nella mia memoria quella limpida mattina del gennaio 1998 nella quale l’ambasciatore iraniano a Vienna, Mohammad Amirkhizi, mi invitava nel suo Paese, a nome del Presidente, per un soggiorno di una settimana. Avrei potuto vedere con i miei occhi lo sforzo che la Repubblica islamica stava compiendo al confine con l’Afghanistan per ostacolare l’ingresso degli oppiacei nel suo territorio, e quindi in Europa. “Abbiamo dislocato migliaia di guardie sul confine afghano per sorvegliare un muro lungo duemila chilometri costruito contro trafficanti armati fino ai denti.
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